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inverno 10/11 | numero 03

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SOMMARIO

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EDITORIALE MUSICA STYLE EXPERIENCE VELA SURF ADVENTURE FREE SKI TRIP MTB FOTOGRAFIA VIAGGIO TRAIL RUNNING TURISMO DI CHARME TURISMO DI CHARME

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Foto di copertina: P.M. Libertini / OP

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Bieffenautica srl Divisione Editoriale Via Sacra di San Michele 134/136 10040 - Rivalta di Torino (TO) T 011 901 9057 / 58 F 011 901 9121

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editoriale

piove, piove, piove! Piove in pianura. Piove sulla città. A dirotto. Da giorni e giorni. Nel cielo nubi fitte, cariche, scure, quasi inquietanti. L’ininterrotto susseguirsi di perturbazioni, la colonnina di mercurio che segna temperature sempre più basse indicano l’arrivo della stagione del freddo. L’inverno bussa alle porte e in montagna cade copiosa la neve. Appena il cielo si aprirà, mostrerà il panorama sontuoso delle Alpi con le vette imbiancate. La montagna, insomma, è pronta a regalare momenti di incomparabile bellezza e soddisfazione personale, a riaccendere il desiderio di salire in alto a stretto contatto con le candide cime. Ma c’è pure chi fugge in cerca del caldo, magari alla ricerca di una spiaggia tropicale. Alcuni studiosi affermano che la felicità è rappresentata da un senso generale di soddisfazione e benessere che può essere vissuto come appagamento, nei più diversi campi. Chi la trova nel lavoro, chi nel tempo libero, chi nella famiglia chi nel viaggiare e così via. La felicità è quindi legata all’energia espressa dalle emozioni positive che ogni persona vive. A volte può essere proprio lì, a portata di mano. Racchiusa nel silenzio di una fitta nevicata, nel bisbiglìo soffice del suono ovattato di fiocchi bianchi che toccano il suolo, nel profumo dell’aria limpida, frizzante, fredda! Sul viso, sulla pelle. Questo numero di Cover racconta di momenti trascorsi in simbiosi con le nostre passioni, nel contatto più totale con la natura. Che siano essi legati allo sport, al viaggio, alla fotografia. L’inverno arriva e arriva la neve, è qui sopra di noi. Le nubi si diradano. Felice inverno

Paolo Meitre Libertini

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musica

NU-JAZZ

Aaron Tesser & The New Jazz Affair (Irma Records – 2010) Il progetto Aaron Tesser & The New Jazz Affair nasce nel gennaio del 2007 dall’idea di Aaron Tesser, sassofonista e compositore di origine veneta insieme al produttore Gianluca Viani. Il sound è un Jazz vocale orecchiabile, inserito nel genere oggi denominato comunemente Nu-Jazz, più vicino quindi al suono del Club-Dancefloor piuttosto che al Jazz tradizionale. Il primo Album, “Lookin’ Ahead”, licenziato dall’etichetta IRMA records di Bologna è uscito ufficialmente a novembre 2008. Il lavoro ha creato subito un vivo interesse entrando nelle playlist di emittenti di tutto il mondo. In particolare brani come “Everlasting Rose” e “Stella” (i due singoli estratti dall’Album) sono anche stati inseriti in altrettante compilations in vari Paesi. Nell’estate 2009 Aaron Tesser & The New Jazz Affair sono stati invitati al Milano Jazzin’ Festival; il successo di quella serata li ha portati a partecipare con un live ed un’intervista al famoso programma Monte Carlo Nights, condotto e diretto da una delle più famose voci della radio italiana: Nick The Nightfly. è da registrare la partecipazione di marzo 2010 allo Zoogami Nu Jazz Festival accanto ad Artisti come: Rosalia De Souza e Fabio Nobile; e quella di luglio 2010 alla autorevole rassegna Veneto Jazz. Per l’autunno 2010 è prevista l’uscita del nuovo Album “Children”, sempre con l’etichetta IRMA records. Il nuovo Album “Children”, sempre prodotto da Aaron Tesser in coppia con Gianluca Viani, si presenta come una grande raccolta di melodie intense e trascinanti venute fuori dalla mano del leader, del chitarrista Lino Brotto e del cantante Fabrizio Rispoli.

Nubraz - Baticumbum (Irma Records – 2010)

Nu Braz è il progetto musicale creato dal cantante, musicista, DJ Emmanuele Cucchi. Figlio d’arte (suo padre Franco Cucchi è il noto trombonista della “Riverside Jazz Band” e sua madre Anna D’Amico cantante protagonista nella scena musicale italiana degli anni ’60) Emmanuele inizia la sua carriera di cantante professionista all’età di cinque anni registrando le musiche per bambini di Don Stefano

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Varnavà. Oggi è anche front-man in diversi ruoli teatrali, direttore artistico di vari locali di Milano (Roïalto, Milano, InnVilllà) e di São Paulo (del noto ristorante “Brasil a Gosto” e del ristorante francese “L’Amitié” di proprietà dell’importante chef Yann Corderon), nonché collaboratore musicale per numerosi stilisti come Armani, Rocco Barocco, Lorenzo Riva, Ferragamo e molti altri. Nel corso degli anni viene affascinato dalla musica brasiliana in tutte le sue forme e con l’aiuto dell’instancabile Maestro Jose Mascolo (già pianista prima del padre Franco nella Riverside e successivamente accompagnando la madre Anna negli svariati concerti) decide di diventare parte di quel mondo verde-oro tanto amato. A seguito dell’ottimo riscontro sia in Italia che all’estero del suo primo album “Sonho Bossa” (nato dalla fusione della musica brasiliana, di quella elettronica e delle melodiche atmosfere dell’Italia della fine degli anni ‘50), Nu Braz decide di puntare ancora più in alto a livello qualitativo affiancandosi a numerosi nuovi collaboratori per la realizzazione del nuovo album “BATICUMBUM”. Dall’incontro con Duda Mello, nominato a ben due Grammy Awards, che curerà i mixaggi del disco, la decisione di spaziare negli arrangiamenti delle musiche per dare l’immagine di vastità dell’amato Brasile.

Ricordi la disco anni ’80 e ’90? Ely Bruna Remember the time (Irma Records – 2010)

Nata in Messico ma cresciuta negli Stati Uniti e infine trasferitasi in Italia, Ely Bruna parla correntemente Spagnolo, Inglese ed Italiano. La sua voce è stata più volte avvicinata a quella di grandi artiste internazionali, una su tutte Whitney Houston. Turnista per molte produzioni Dance negli anni ’90, ha girato il mondo grazie alla sua voce e ha partecipato a molte trasmissioni televise in Italia. è autrice anche per Mario Biondi negli album “Handful of soul” e “ I love you more”, insieme al suo produttore Nerio Poggi, in arte Papik, ha co-scritto buona parte dei brani del primo album appunto di Papik “Rhythm of life” tra cui il brano “Staying for Good”, singolo in promozione in questo momento che sta riscuotendo grandi consensi in tutto il mondo. Questo è il primo album a suo nome ed è un lavoro dedicato in gran parte a rifacimenti in stile soul-jazz di brani degli anni ’80 e ‘90. La scelta molto particolare dei brani fa si che si passi da una versione bossa di “Rhythm of the night” ad una versione R&B di “Barbie Girl”. Non poteva mancare un brano come autrice, dal titolo “1986” che è la vera perla del disco.


“In attesa del 20esimo anniversario delle Edizioni Ishtar, le edizioni discografiche che tramite la Schema Records ha pubblicato le migliori produzioni della scena Modern Jazz dalle sonorità elettroniche, siamo lieti di presentare alcune ristampe delle migliori uscite del catalogo”.

Gerardo Frisina - Ad Lib (Schema Records – 2010)

Nicola Conte - Other Directions (Schema Records – 2010)

“La musica di “Other Directions” nasce dal fascino che un certo periodo ha esercitato su di me il jazz prodotto tra gli anni ’50 e ’60 da Horace Silver, John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans, Yusef Lateef e di tanti altri. Rappresenta il cuore delle mie scelte artistiche perchè è riflesso nel mio modo di sentire. Ho voluto dare una lettura europea di questa tradizione essenzialmente afroamericana e credo di aver prodotto una interpretazione più romantica di quelle atmosfere.” Nicola Conte Per celebrare i vent’anni delle Edizioni Ishtar, la casa discografica che attraverso il marchio Schema ha pubblicato le migliori produzioni della scena jazz moderna/elettronica, non potevamo che partire da “Other Directions” di Nicola Conte, un disco prodotto con un ammirato rispetto verso la tradizione jazzistica classica ed innovativo allo stesso tempo, licenziato dalla label milanese nel 2004 alla leggendaria Blue Note, che arriva adesso sul mercato in una nuova veste, doppia e con un bonus cd pieno di inediti.

Qualche anno fa Gerardo riunì due musicisti del panorama jazz italiano, ne scaturì l’album “Indefinita Atmosfera” del gruppo Neos. Così iniziò la collaborazione tra Gerardo Frisina e la Schema Records. Grande esperto musicale, collezionista di dischi, accanito di rarità in vinile, Gerardo è oggi diventato il punto di riferimento di molti D.J.s internazionali. Gli appassionati del catalogo Schema sanno che Gerardo è stato l’ideatore delle ristampe della collana Rearward (la storica division della Schema) ed il compilatore di alcuni fortunati progetti come UP, Metti Una Bossa A Cena, le due ristampe di “Cabildos” e la ristampa di Charles Hilton Brown. Queto nuovo progetto intitolato “Ad Lib” dal latino Ad Libtum cioè “A Piacere / Liberamente” (termine molto usato dai musicisti jazz, quasi ad interpretare la libertà di espressione), nasconde tutta l’esperienza di chi ama la musica. Ore ed ore di ascolto e svariati generi musicali maturano ora in questo nuovo progetto. Riuscita amalgama che suona di passato, presente e futuro dove tutti i musicisti che ne hanno preso parte hanno dato il loro fondamentale contributo riuscendo ad interpretare facilmente le idee e le atmosfere che Gerardo voleva ottenere. Un apporto di rilievo è stato quello dei fratelli Gianni ed Enzo Lo Greco conosciuti al pubblico Schema come Soulstance ma anche di Fabrizio Bernasconi al piano, Andrea Dulbecco al vibrafono e Barbara Casini alla voce.

Soulstance - En route (Schema Records – 2010)

I fratelli Gianni & Enzo Lo Greco musicisti appassionati e creatori di alcuni tra i più interessanti progetti jazz degli ultimi anni, approdano alla Schema Records nel 1999 sotto lo pseudonimo di Soulstance e debuttano con l’album “En Route”, pubblicato sulla scia del singolo “Circle”. “En Route” è considerato il migliore risultato della collaborazione tra il duo e Luciano Cantone, il co-fondatore della Schema ha creduto fortemente nel progetto. I Soulstance prendono ispirazione da molte culture, in primis quella afro Americana, passando per il Soul Jazz e le sonorità brasiliane. La prima traccia dell’album è una sorta di colonna sonora dell’album stesso, presenta forti infuenze alla Isaac Hayes che troviamo anche in altre due tracce, “Check Into Your Record Bag” e “We Go Our’s Own Way”. “Uma Estrella Cadente” rivela il background musicale dei due artisti che ci ricorda molto quello di Pat Metheny. Nell’insieme l’album è una guida attraverso i nuovi jazzbeats e la meravigliosa musica del Brasile, ricamato con un incredibile qualità soul in linea con le migliori produzioni jazz del periodo.

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A cura di: Outdoor Project FOTO: P. M. Libertini / OP

Iniziati nel mese di giugno, nei parchi della provincia di torino, gli Outdoor Photographer (esperienze fotografiche per appassionati e foto-amatori), sono approdati all’isola d’elba, nel cuore del parco nazionale dell’arcipelago toscano. In queste pagine il racconto fotografico di questo percorso.

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inverno | 10/11

Outdoor Photographers

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Gran Bosco di Salbertrand 19/09/2010 - h 10,11 - Nikon D300s Esposizione manuale 1/400 f/9 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8 G ED VR II @400 (+ AF-S Teleconverter TC-20E II) gps 45°03’08.19”N 6°55’48.04”E

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Spiaggia dell’Ogliera Isola d’Elba 29/10/2010 - h 19,38 - Nikon D300s + cavalletto Esposizione manuale 0,6 f/14 iso 200 ob. AF-S DX Nikkor 18/70 mm 3,5-4,5G ED @ 65mm gps 42°44’43.87”N 10°07’11.68”E


inverno | 10/11

In apertura: A sinistra, Etroubles (Gran San Bernardo) 24/10/2010 - h 11,36 - Nikon D300s Esposizione manuale 1/50 f/5,6 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8 G ED VR II @85mm gps 45°49’05.04”N 7°13’19.56”E A destra, Colle del Nivolet (Gran Paradiso) 11/09/2010 - h 20,14 - Nikon D300s Esposizione manuale 1/250 f/10 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8 G ED VR II @75mm gps 42°29’15.02”N 7°08’44.62”E

Laghi Leytà (Gran Paradiso) 05/09/2010 - h 12,06- Nikon D300s Esposizione manuale 1/200 f/13 iso 200 Ob. AF DX Fisheye-Nikkor 10.5mm f/2.8G ED DX gps 45°29’24.01”N 7°07’54.48”E

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dietro lo scatto Dettaglio foglia di castagno 30/10/2010 - h 14,31 Nikon D200 Esposizione manuale 1/80 f/1,8 iso 100 Ob. AF Nikkor 50mm f/1.8D + lenti addizionali. gps 42°46’45.69”N 10°11’55.90”E Foto M. Brignetti

Panning con flash 04/07/2010 - h 9,19 - Nikon D300 Esposizione manuale 1/10 f/13 iso 200 ob. AF-S DX NIKKOR 18-200 mm f/3.5-5.6 G ED VR II gps 44°57’14.80”N 6°57’09.12”E Foto M. Piras

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Dietro lo scatto 30/10/2010 - h 14,31 Nikon D300 Esposizione manuale 1/200 f/2,8 iso 200 Ob. AF Zoom-Nikkor 80-200mm f/2.8D ED @200 gps 42°46’45.69”N 10°11’55.90”E Foto M. Piras


inverno | 10/11

Sempervivum Montanum (Valtroncea) 03/07/2010 - h 17,36 Nikon D90 Esposizione: (A) Priorità di apertura 1/160 f/5,6 iso 200 Ob. AF-S VR Zoom-Nikkor 70-300mm f/4.5-5.6G IF-ED @270 gps 44°57’14.80”N 6°57’09.12”E Foto R.Alu’

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Pian dell’Alpe allo specchio (Parco Orsiera Rocciavrè) 20/06/2010 - h 11,20 Due immagini panoramiche montate in Photomerge con 3 scatti orizzontali effettuati dallo stesso punto di ripresa, ruotando la fotocamera di 360° Nikon D300S Esposizione: manuale 1/1000 f/4,5 iso 200 Ob. AF-S DX Nikkor 18/70 mm 3,5-4,5G ED @ 27mm gps 45°04’01.74”N 7°01’56.58”E

Spiaggia dell’Ogliera (Isola d’Elba) 29/10/2010 - h 19,43 Panoramica montata in Photomerge con 3 scatti orizzontali Nikon D300S Esposizione: manuale 1/20 f/8 iso 800 Ob. AF-S DX Nikkor 18/70 mm 3,5-4,5G ED @ 46mm gps 42°44’43.87”N 10°07’11.68”E

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Pomonte (Isola d’Elba) 30/10/2010 - h 19,14 Nikon D300S + cavalletto Esposizione: manuale 0,4 f/9 iso 200 Ob. AF-S DX Nikkor 18/70 mm 3,5-4,5G ED @ 38mm gps 42°44’57.51”N 10°07’03.93”E

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Patresi (Isola d’Elba) 26/10/2010 - h 20,20 Nikon D300S + cavalletto. Esposizione: manuale 13,0 sec. f/7,1 iso 200 Ob. AF-S DX Nikkor 18/70 mm 3,5-4,5G ED @ 70 mm gps 42°47’32.74”N 10°06’34.83”E

Eriofori (Gran Paradiso) 05/09/2010 - h 12,15 Nikon D300s Esposizione manuale 1/250 f/11,0 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8G ED VR II @ 400 (+ AF-S Teleconverter TC-20E II) gps 45°29’24.01”N 7°07’54.48”E 24

Stella Alpina (Gran Bosco di Salbertrand) 19/09/2010 - h 10,34 Nikon D300s Esposizione manuale 1/640 f/7,1 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8G ED VR II @320 (+ AF-S Teleconverter TC-20E II) gps 45°03’08.19”N 6°55’48.04”E


inverno | 10/11 La prima nevicata (Allein) 24/10/2010 - h 11,24 Nikon D300s Esposizione manuale 1/125 f/2,8 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8G ED VR II @ 200 gps 45°49’05.04”N 7°13’19.56”E

Ranuncolo Acquatico (Gran Paradiso) 05/09/2010 - h 9,44 Nikon D90 Esposizione manuale 1/400 f/10,0 iso 200 Ob. AF-S VR Zoom-Nikkor 70-300mm f/4.5-5.6G IF-ED @ 300 mm gps 45°28’22.72”N 7°08’56.69”E Foto: M. Ianzano

Epilobium Angustifolium (Gran Paradiso) 12/09/2010 - h 13,03 Nikon D300s Esposizione manuale 1/250 f/9,0 iso 200 ob. AF-S NIKKOR 70-200mm f/2.8G ED VR II @ 360 (+ AF-S Teleconverter TC-20E II) gps 45°30’08.70”N 7°09’35.48”E 25


Pietra Murata (Isola d’Elba) 30/10/2010 - h 11,02 Nikon D90 Esposizione: manuale 1/200 f 5,6 iso 200 Ob. AF-S VR Zoom-Nikkor 70-300mm f/4.5-5.6 G IF-ED @ 300 mm gps 42°45’18.95”N 10°11’30.67”E Foto: S. Cacalano

Spiaggia dell’Ogliera 29/10/2010 - h 18,41 Nikon D90 Esposizione: manuale 1/8 f3,8 iso 200 Ob. AF-S DX NIKKOR 16-85mm f/3.5-5.6 G ED VR @ 22mm gps 42°44’43.87”N 10°07’11.68”E Foto: G. Scaturchio

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dietro lo scatto

Monte Giove (Marciana - Isola d’Elba) 26/10/2010 - h 13,31 A destra immagine realizzata con Garmin Oregon 550t Lunghezza focale 35mm con esposizione automatica. A sinistra scatto effettuato con Nikon D300s con esposizione misurata sulle ombre. gps 42°47’04.35”N 10°09’21.31”E

BACK STAGE

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d’epoca VELE

Le signore del mare TESTO: Stefano Martignoni FOTO: Francesco Rastrelli / Blue Passion

Golette di fine 800, sloop che hanno scritto la storia dell’America’s Cup, regali di ricchi innamorati, scafi che hanno cullato relazioni incoffessabili, sfizi di star hollywhoodiane e dittatori europei... Non importa quali storie narrino, tutte le barche che si sono date appuntamento alla XVI Edizione Vele d’Epoca di Imperia - Panerai Classic Yacht Challenge, hanno in comune la sconfinata passione dei loro armatori per il mare, per le tradizioni e per un modo di veleggiare ammantato di fascino.

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La barca d’epoca richiede un aproccio mentale e una filosofia uniche. Il rapporto che si instaura fra lo scafo e chi lo porta è diretto e umano, niente winch elettrici, solo braccia e schiene piegate a tesare scotte e drizze di questi capolavori che la passione di pochi, veri, appassionati ha riportato allo splendore originario. Le occasioni per ammirare queste signore del mare, che solcano le onde con baldanza da adolescenti ed eleganza da regine, sono poche e una delle più rinomate ha luogo nelle acque liguri dove, ogni settembre degli anni pari, si svolge la “Panerai Classic Yacht Challenge”. Un evento unico al mondo nato ventisei anni fa per valorizzare lo yachting del passato e che, dal 2006, fa parte dell’esclusivo Circuito “Panerai Classic Yachts Challenge”, che tocca alcune delle località storiche del Mediterraneo (Antibes, Cannes e Mahon), nonché i porti d’oltreoceano di Antigua, Nantucket e Newport. L’edizione 2010 ha visto la partecipazione di oltre cento imbarcazioni, testimonianza tangibile dello smisurato amore per il mare di tanti appassionati che coltivano l’antico spirito marinaresco, fatto di passione autentica per un modo di veleggiare elegante e fisico. E anche in questa occasione, fra le meravigliose protagoniste, spiccavano autentici gioielli

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XVI Edizione Vele d’Epoca di Imperia Panerai Classic Yachts Challenge

in cui un passato di storie e leggende si fonde con la bellezza di forme dimenticate e con il fascino dei legni pregiati, degli ottoni tirati a lucido e delle attrezzature ormai desuete. Non sono mancate le protagoniste delle regate e del diporto della prima metà del secolo: grandi e piccole, ma tutte con una storia spesso avventurosa e densa di mistero, accomunate dal desiderio di mostrarsi ancora competitive in regata. Un’intera flotta che ha animato di alberi svettanti e vele bianche le acque del golfo imperiese nei cinque giorni di regata. Le barche, vere star di questo appuntamento erano suddivise in tre categorie: Yacht d’Epoca, imbarcazioni in legno o metallo costruite prima del 1950; Yacht Classici, costruiti tra il 1950 e il 1977; Spirit of Tradition, yacht realizzati dopo il 1976 che seguono linee, materiali e concetti progettuali degli yacht d’epoca, tra cui le classiche, le classi metriche e i 12 metri Stazza Internazionale, protagonisti delle sfide d’epoca dell’America’s Cup. Tra gli yacht che hanno solcato le acque di Imperia spiccano per dimensioni le “tall ship” (grandi velieri armati con le vele quadre) Palinuro, nave scuola di 69 metri del 1934 della Marina Militare Italiana, ed Elena, replica di 55 metri di un’omonima goletta del 1911, ricostruita in Spagna secondo i piani originali di Nathaniel G. Herreshoff, mago della progettazione americana.

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Hanno rinnovato vecchie sfide quasi tutti i vincitori delle passate edizioni del Panerai Classic Yachts Challenge: i Classici Outlaw del 1963, Emeraude del 1975 e Chaplin del 1974, gli Epoca Bona Fide del 1899 e Rowdy del 1916. Per cercare di trasmettere l’atmosfera magica che avvolge questa manifestazione è sufficiente pronunciare il nome di alcune delle barche che l’hanno resa grande degli anni: le ottocentesche Partridge del 1885, Sif del 1894, Lulu e Jap, entrambe del 1897; Emilia del 1930, il secondo 12 metri SI costruito in Italia. Le famose Skagerrak, costruita per Adolf Hitler; Lasse, donata dal Re di Danimarca a Eva Braun; Zaca, di Errol Flynn; Royono, su cui si incontravano JFK e la Monroe; Tuiga, del principe Alberto di Monaco e la gemella Mariska del 1908. Alcune delle protagoniste della storia della Coppa America, come Endeavour (‘34), fatta rinascere da Elisabeth Meyer, proprietaria del Washington Post e Tomahawk (‘34/’37), un 12 metri SI già di Gianni Agnelli e oggi appartenente all’editore Rusconi. Infine, le affascinanti e leggendarie Croce del Sud, goletta del 1933, Cambria, cutter del 1928 e Moonbeam IV, cutter del 1920. Un consiglio, anche se non avete mai messo piede su una barca a vela: non prendete impegni per settembre 2012, e cominciate a lucidare i bottoni del vostro blazer blu...

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A seconda del tipo di alberatura e di vele usate, si possono distinguere diversi tipi di imbarcazione. Sloop: classico armamento d’imbarcazioni a vela con un solo albero, due vele, rispettivamente randa e fiocco, di differenti misure. Ketch: imbarcazione con due alberi. Il più alto è quello di Maestra (verso prua), quello più basso si chiama di Mezzana (verso poppa) ed è posizionato di fronte al timone. Yawl: imbarcazione a due alberi che si differenzia dal ketch per il solo fatto che l’albero più basso, di Mezzana, rimane dietro la ruota del timone. Cutter: armo dotato di due o tre vele con doppia velatura a prua. Il fiocco più ampio sullo strallo, il controfiocco e la trinchetta, vela più piccola sullo stralletto quindi più spostata a centro barca. Goletta: yacht di medie o grandi dimensioni con due alberi. Quello di poppa è pari o più alto rispetto all’albero di prua. Si possono prevedere vele supplementari a prua sugli stralli. Aurico: usato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, è caratterizzato da una randa di forma trapezoidale tesa tra l’albero, un picco nella parte alta e il boma. Al di sopra della randa può essere issata una seconda vela di forma triangolare: la controranda, murata all’alberetto (la parte superiore dell’albero) e al picco. Marconi (o bermudiano): attrezzatura velica così denominata perché ricordava le antenne della radio inventata dallo scienziato italiano. Questo armamento fu introdotto agli inizi degli Anni ’30, con i J-Class e prevede l’utilizzo di vele triangolari, con la randa inferita all’albero, in un pezzo unico e non più diviso in albero e alberetto e al boma, mentre la vela di prua, genoa o fiocco, è inferita allo strallo. A seconda del tipo di alberatura e di vele usate, si possono distinguere diversi tipi di imbarcazione.

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testo e foto: Alberto Maiorano photomaio.com

LANDES Il Quiksilver Pro France è una delle competizioni più attese e seguite dal popolo dei surfisti di tutto il mondo. Non a caso è Hossegor la location prescelta per accogliere i più grandi professionisti di questo sport e dare loro modo di esibirsi, offrendo onde di qualità e potenti con grossi tubi che sembrano gallerie scavate nell’acqua.

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Un grosso “tubo full plus over head” durante la competizione francese

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Stiamo parlando di uno dei più famosi beachbreak europei, caratterizzati dunque da un fondale sabbioso, che regalano mareggiate oceaniche e garantiscono una frequenza di onde invidiabile sia in inverno sia in estate. Vedere dal vivo atleti del calibro di Kelly Slater (fresco vincitore del suo decimo titolo mondiale, conquistato a distanza di ben diciotto anni dal primo), Mich Fanning e Dane Reynolds provoca forti emozioni anche a occhi profani e a un pubblico che con il surf non ha niente a che fare; se poi, come nel mio caso, lo spettatore è surfista e fotografo allo stesso tempo, il divertimento è assicurato. Quale migliore occasione quindi per vivere e documentare una settimana di gara vissuta sulla sabbia insieme alla mia attrezzatura fotografica, “congelando” i momenti più significativi dell’evento e non solo. Il vento, il sole, il sale, la sabbia sono gli elementi che hanno caratterizzato le mie giornate tra uno shooting e una session di surf-relax nelle spiagge delle Lande francesi. In genere, quando fotografo azioni sportive di surf cerco di creare un certo feeling con l’atleta, nel senso che preferisco conoscerlo per capire al meglio i suoi spostamenti in acqua e le sue prossime azioni per meglio posizionarmi sulla spiaggia e decidere le inquadrature migliori per esaltare al meglio la manovra che voglio fotografare. Penso che l’ottimale riuscita di un servizio sia determinato anche dal fatto di praticare o meno lo sport che si vuole rappresentare, ed è per questo che preferisco dedicarmi quasi esclusivamente al surf che, oltre a darmi grandi soddisfazioni a livello fotografico, è anche il mio sport da diversi anni, quindi posso dire di essere agevolato. Ritornando al feeling tra fotografo e atleta, questo crea una specie di col-


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Dall’alto, un’immagine dell’atleta Andy Irons, scomparso recentemente; il vincitore del Quiksilver Pro France Mick Fanning in azione e dopo la gara.

laborazione o meglio interazione tra le parti, che trasformano questo tipo di fotografia da passiva ad attiva, con la complicità dello sportivo che capisce e aiuta a risolvere le problematiche del fotografo a terra. Naturalmente, il discorso cambia e i problemi diventano ancora più complessi se il fotografo si trova in acqua con l’attrezzatura protetta da custodie subacquee. Prima di una session di surf, parlo sempre con l’atleta per capire al meglio dove si muoverà e quali manovre eseguirà una volta entrato in acqua, ma nel caso di una competizione di alto livello come il

Quiksilver Pro France non è possibile lavorare in questo modo, quindi bisogna farsi trovare sempre pronti e aspettarsi di tutto da questi incredibili surfer. L’azione nel surf è veloce e imprevedibile ed è per questo che non bisogna mai perdere di vista l’atleta, considerando inoltre il fatto che l’elemento acqua è in continuo movimento oscillatorio altobasso; per non parlare poi del disturbo provocato dall’arrivo delle onde che oscurano, a volte del tutto, il soggetto o che confondono l’auto-focus del nostro obbiettivo. È molto importante capire cosa sta succedendo in acqua, cioè quale onda il surfista prenderà e cercare di prevedere anche in quale direzione e quale manovra andrà a compiere. Generalmente, preferisco scattare con diaframmi molto aperti ma questo aumenta il rischio di confondere la messa a fuoco rischiando di cestinare poi lo scatto effettuato. La gallery pubblicata è stata prodotta praticamente tutta con f4 e limitrofi. Durante la competizione mi sposto continuamente sulla spiaggia e sulla battigia per cercare la migliore composizione di inquadratura, sempre per cercare di far fronte all’imprevedibilità, vera regina delle mie giornate. La variabilità del tempo, inoltre, influenza tutti i valori dell’esposizione che devono essere controllati continuamente, soprattutto se si lavora in modalità Manuale, situazione che preferisco in quanto mi permette di scegliere tutti i parametri e avere dunque il totale controllo su quello che sto facendo. Uno dei problemi che si incontrano se si fotografa da una spiaggia sulla quale si frangono grosse onde, è quello dell’acqua nebulizzata trasportata dal vento proveniente dal mare (onshore) che appanna continuamente la lente, problema che non sussiste se invece soffia vento da terra (offshore). Per quanto riguarda il cavalletto, quando lavoro sulla sabbia io preferisco sempre un monopiede perchè lo trovo comodo sia negli spostamenti che per collimare l’orizzonte, inoltre è meno statico e vincolante di un treppiede. Questi scatti racchiudono momenti magici che hanno regalato al mio obbiettivo e al mio occhio sensazioni difficili da spiegare, che posso soltanto cercare di trasmettervi con questi frame di vita vissuta in queste giornate autunnali di gara e soggiorno francese. Probabilmente, ad un occhio esperto questi scatti fotografici racchiudono errori tecnici da far rabbrividire i professionisti del settore ma penso che a volte ci si possa limitare a considerare il fatto che una fotografia non debba essere per forza “perfetta” ma suscitare una forte emozione in chi la osserva. “La perfezione è bella ma è stupida, bisogna conoscerla ma romperla.” Bruno Munari

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TESTO E FOTO: Roberto Mattioli Team Pedini - Iret

NUNAVIK

ADVENTURE CHALLENGE

correre con gli Innuit

Nunavik Adventure Challenge, o NAC, è un progetto per fare conoscere e praticare ai giovani Innuit della regione NUNAVIK le diverse discipline outdoor. Questo territorio, situato nell’estremo nord del Quebec, ha una superficie grande quanto la Francia e una popolazione di soli 12.000 abitanti, distribuiti in 14 villaggi situati lungo la costa, ed è accessibile solo in aereo e, nel breve periodo estivo, anche via mare con navi mercantili.

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Dal 6 al 20 settembre, lo staff di Endurance Adventure.com, che gestisce il progetto, ha organizzato la terza edizione, declinata in due eventi: il primo nel illaggio di Ivujivik e il secondo nel villaggio di Salluit. La NAC è una settimana di sport e avventura nella quale i giovani apprendono le tecniche degli sport outdoor, sia in termini teorici sia pratici, partecipando alle varie escursioni di trekking, mountain bike, orientamento, canoa e free climbing, inquadrati e seguiti da professionisti d’élite di adventure race. La settimana termina il sabato con la Nunavik Adventure Race, ideata per far debuttare i giovani Innuit nel mondo delle adventure race. Lo staff di Endurance Aventure.com, in questa occasione, era composto da 14 canadesi di cui 4 Innuit, due francesi e due italiani, Stefania ed io.

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I giovani e tutta la comunità Innuit, hanno partecipato con grande entusiasmo e in modo massiccio ai due eventi, che si sono susseguiti nelle due settimane di settembre. Nel piccolo villaggio di Ivujivic (327 abitanti), il centro abitato più a Nord del Quebec, situato nella Baia di Hudson e, successivamente, a Salluit, il villaggio più vicino (120km di distanza e 1.200 abitanti), durante tutta la settimana i ragazzi e molti adulti che non hanno resistito al richiamo degli sport outdoor, si sono cimentati in prove di kayak, mountain bike e free climbing. Per molti di loro era la prima volta, ma la velocità di apprendimento e adattamento ci ha stupiti. Dopo la prima salita con la mountain bike, percorsa a spinta, hanno ben presto imparato che il cambio permetteva di pedalare con uno sforzo minimo! Stessa cosa in ka-

I giovani di tutta la comunità Innuit hanno aderito con entusiasmo al NAC.


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yak, due giri su se stessi e poi via, per andare diritti bisogna pagaiare con la stessa intensità a destra e sinistra... Per l’arrampicata e i passaggi di corda invece, eravamo noi quelli più in apprensione. Spettacolare la “tirolese”, lunga 180 metri, dalla quale i ragazzi si lanciavano per passare da una sponda all’altra di uno dei tanti laghi di cui è disseminato il Nunavik. Per decidere il punto esatto in cui installarla, abbiamo utilizzato il GPS, localizzando prima i due waypoint sulle sponde del lago e verificando poi la distanza fra di loro e la differenza di quota per calcolare lunghezza e pendenza delle corde. Bravi e nessuna titubanza, questi ragazzi, tutti hanno seguito le istruzioni, ma soprattutto nessuno ha avuto timore o paura del vuoto. Si fa presto a capire che sono cresciuti in un ambiente in cui la forza della natura ha ancora una grande importanza. In questo breve periodo estivo la temperatura varia fra i 3° ed i 10°, mentre la temperatura media in gennaio è -35°, ma spesso scende sotto i -40°! Il paesaggio è quasi lunare: non ci sono né alberi né cespugli, il limite della loro crescita è 600 km più a sud. Solo muschi e licheni, che di tanto in tanto, ricoprono tratti di roccia e granito levigati dal ghiaccio e dalle nevi che al disgelo formano migliaia di laghi e torrenti dalle acque pure e limpide. Per tutta la nostra permanenza abbiamo bevuto da queste fonti, rifornendoci con le taniche dai torrenti. Oltre ad organizzare escursioni e allenamenti quotidiani con i giovani Innuit, lavoriamo alla preparazione dell’Adventure Race del sabato. Quando ci allontaniamo troppo dal villaggio per cercare i vari punti di passaggio, portiamo sempre con noi, oltre al GPS, un fucile, un coltello, alcuni razzi e bombolette di gas narcotizzante anti-orso... Le visite dei grandi orsi polari sono abbastanza frequenti: nell’inverno scorso uno si è spinto sino in paese aggredendo un bambino, mentre diversi gruppi di lupi artici sono stati avvistati non molto distanti. Il GPS, invece, ci serve per tracciare il percorso, che poi riportiamo sul computer con i vari check point e relative altimetrie, e diventa indispensabile per trovare la strada del ritorno quando si abbassano all’improvviso le nuvole, riducendo la visibilità a zero, cosa che capita molto spesso. Proprio questo tempo così variabile rappresenta l’incognita del Grande Nord. Gli aerei, infatti, a queste latitudini volano a vista, in quanto non c’è alcuna copertura di torri di controllo e l’atterraggio sulle piccole piste ghiaiate dei villaggi è possibile solo quando la visibilità lo consente. Dopo una prima settimana ininterrotta di bel tempo, evento più unico che raro da queste parti, nei giorni successivi sono la pioggia e il vento che ci tengono compagnia.

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Questo però non ci impedisce di apprezzare la bellezza di questi spazi immensi e vuoti. Anzi, il grigiore della pioggia e delle nuvole basse che si posano sul mare rende tutto quasi surreale; il cielo si unisce a terra e acqua e ti fa sentire un piccolo elemento integrante di questa natura. In una di queste giornate, con pioggia e vento, usciamo in kayak e abbiamo la fortuna di incontrare prima un gruppo di beluga e poi un branco di grosse foche che, nuotando sul dorso a una velocità incredibile, prima puntano su di noi e all’ultimo istante si immergono passando sotto i nostri kayak per riemergere poco oltre. Bellissimo, un attimo di incredibile emozione. Il giorno della gara è una gran festa e siamo costretti a limitare il numero dei concorrenti a 40, per pareggiare quello delle bici e dei kayak che abbiamo portato e messo a disposizione dei ragazzi! Incredibile: il 12% della popolazione è in gara! Come se a Milano si disputasse una gara con 156.000 concorrenti... È un evento anche per l’intera comunità del villaggio. Il sorriso con cui questi ragazzi affrontano la competizione e tagliano il traguardo è per noi una grande soddisfazione. Ma si tratta comunque di una gara e quindi meritano una menzione i due giovani vincitori di Salluit:

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Audlauk, 15 anni, e Saviakjuq di 16 anni. Questi, dopo essersi iscritti di buon’ora, per non togliere tempo alle attività quotidiane sono partiti per la caccia a bordo del loro quad e, dopo pochi minuti, avevano già abbattuto due anitre artiche. Poi, dopo aver gareggiato e vinto, nell’attesa della premiazione, hanno di nuovo imbracciato i fucili e sono ripartiti in cerca di prede. Per gli Innuit la caccia è una parte importante della vita, ma, soprattutto, da questi parti si diventa grandi alla svelta. Nella serata della premiazione, che si svolge all’interno della palestra della scuola, dove si entra senza scarpe per non sporcare, tutti ricevono un premio. Consegnamo attrezzatura come snowboard, zaini e altri articoli sportivi per dare ai ragazzi la possibilità di continuare a praticare sport anche dopo la nostra partenza. È una gran festa, sono tutti contenti, adulti e ragazzi, e ci pressano per avere una risposta. Vogliono sapere quando torneremo: “Next winter” rispondiamo. “Next week?” Magari... “No, next winter”, per una nuova avventura nello stupendo territorio del Nunavik, selvaggio, incontaminato e capace di regalare grandi emozioni. Per altre informazioni e curiosità: www.nunavikadventurechallenge.com www.nunavik-tourism.com

Suggestiva visione dell’aurora boreale


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Free Ski Mountaineering

Ph: Hansi Heckmair

TESTO: Eva Walkner | FOTO: SALEWA

Le Alpi Occidentali sono considerate la Mecca dei freerider. Ogni anno migliaia di sciatori da tutta Europa e da oltre oceano sono attratti dal richiamo fatale del massiccio del Bianco. Oggi chi vuole vivere la montagna lontano dagli impianti di risalita e dal turismo “mangia e bevi” può scoprire nuovi confini verso i quali avventurarsi. Come ha fatto Glen Plake, la leggenda vivente del freeski, che ha scoperto un couloir di 50° nel ghiacciaio della Noire. Una giornata da incorniciare, nel racconto di una ragazza tra le migliori interpreti del Free Ski Mountaineering.

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BRIVIDO BIANCO sul ghiacciaio della Noire

Ph: Ives Garneau

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Ph: Ives Garneau

“Dio è un freeskier” c’è scritto sulla T-Shirt di un caro amico. Oggi è uno di quei giorni in cui penso: “Fantastico, il sole splende nel cielo azzurro”. La vetta di granito si staglia sul ghiacciaio dai riflessi cangianti creando un contrasto magnifico. Benvenuta nelle Alpi Occidentali, mi dico. La funivia sale lentamente da La Palud, passando per il Rifugio Torino, e ci conduce fino alla stazione a monte sulla Punta Helbronner, a quasi 3.500 metri di quota. Ci concediamo volentieri questo aiuto artificiale perché Glen ci ha riservato una splendida sorpresa: la diagonale “Glacier de la Noire”. Su, giù, su, giù. Ci aspettano tanti metri a piedi, controsalite, riprese su ghiaccio ripido e neve crostosa, ma poi arriva la ricompensa: un couloir – speriamo incontaminato – con una pendenza di 50° e, secondo Glen, uno dei run più belli di tutta la regione del Monte Bianco. A proposito di Glen: sì, è Glen Plake, Mister Freeski in persona, il leggendario punk californiano dello sci. Per questa giornata ha lasciato la sua città d’adozione, Chamonix. Ha attraversato il tunnel che passa sotto la montagna più alta delle Alpi ed è qui con noi sulla prima funivia che parte da Courmayeur. A bordo troviamo anche Martin “McFly” Winkler, talento mondiale del freeski, film-maker e giudice al Freeskiing Worldtour nonché il collega Björn Heregger, un freerider professionista. Ma cosa hanno in comune questi tre signori? Nati a migliaia di chilometri l’uno dall’altro questo fantastico terzetto ha scoperto un filo conduttore che li unisce: il Free Ski Mountaineering. Climb to ski, ovvero salire alternando arrampicate molto impegnative dal punto di vista tecnico a passaggi alpinistici dove è necessaria l’attrezzatura d’alta quota, per poi ridiscendere in

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neve fresca, liberamente. O se preferite, con la mente libera. Stazione a monte. Ci lasciamo alle spalle la civiltà e le infrastrutture dell’industria dello sci. Una breve discesa. Poi la prima salita seria. Ramponi ai piedi, piccozza in mano e corda fissata all’imbrago. Con i crepacci profondi diversi metri c’è poco da scherzare. “Quassù devi sapere esattamente quello che fai” tiene a sottolineare Glen. Per fortuna siamo nel suo territorio: Glen conosce per nome ogni canalone, ogni crinale e quasi tutti i crepacci. Mentre saliamo ansimando ci scambiamo qualche opinione sulla nostra professione e sullo sviluppo del Free Ski Mountaineering negli ultimi anni. Appena qualche anno fa uno sciatore che avesse sci larghi ai piedi e un grosso sorriso in faccia veniva guardato con diffidenza dai suoi colleghi delle piste. Il freeskiing, ovvero lo sci su pendii incontaminati, lontano dalle piste battute, era uno sport di nicchia. Tutt’al più si era abituati a vedere qualche escursionista solitario che con sci stretti, e quindi più leggeri, lasciava le sue tracce nella neve bianca. Poi, a poco a poco, sono comparsi i primi “svitati”. I produttori di sci hanno cominciato a costruire sci dalle dimensioni generose, fino a produrre aste con larghezze da 100 mm sotto l’attacco. L’abbigliamento, e quindi le giacche, i pantaloni e tutto il guardaroba, ricordava sempre di più lo stile da snowboard. Il freeride con gli sci deve moltissimo alla sua disciplina gemella, la tavola. E oggi con lo sci fuoripista sta accadendo ciò che in passato ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo di numerose discipline sportive: i precursori si sono gettati nell’onda del movimento, che ora viene cavalcata commercialmente dall’industria.


inverno | 10/11 In apertura: a sinistra Bjorn Heregger e Martin Mc Fly Winkler impegnati nella salita del Ghiacciaio dello Stubai, a destra Eva Walkner nella discesa della North Face a Chamonix. Qui a sinistra Glen Plake durante la discesa della North Face a Chamonix, e in basso Bjorn Heregger in seconda di cordata con Eva Walkner.

Così, negli ultimi anni, la larghezza media degli sci è aumentata continuamente e cresce anche il numero di coloro che, affascinati dai video e dallo stile dei pro, vogliono saltare su questo treno. Tuttavia, per gli inesperti e i non allenati il rischio è spesso di finire in ospedale. Si perché la montagna richiede prudenza e preparazione: “I crepacci e le valanghe non aspettano che i rookies facciano esperienza” sottolinea Glen. Gli inesperti spesso mettono in pericolo la propria vita e quella degli altri. Quasi tre ore più tardi. È il momento del “Drop in”, l’entrata in un couloir mozzafiato. Glen non ha promesso molto. A destra e sinistra si ergono blocchi di granito affilatissimi. Ma davanti a noi si apre un piccolo paradiso. Un paradiso al quale accediamo solo con le nostre forze e la nostra tenacia, con le nostre capacità. Il firn è perfetto, ma dobbiamo sbrigarci. Il caldo aumenta di minuto in minuto e, con esso, anche la possibilità di provocare una valanga perché il terreno è molto ripido. Spesso, chi pratica fuori pista nelle località sciistiche attrezzate, non pensa ai pericoli in agguato in quelle zone, per non parlare della sostenibilità e dell’ambiente naturale. Per i cultori del Free Ski Mountaineering, invece è diverso: percepire in maniera chiara e consapevole ogni singolo momento che si sta vivendo è elemento portante di questa disciplina. Da un lato, si deve cogliere la straordinarietà della natura, della sua bellezza selvaggia e del suo essere privo di compromessi. Dall’altro perché questa è la nostra “assicurazione sulla vita”: dobbiamo percepire e valutare immediatamente ogni scricchiolio durante l’attraversamento di un seracco, ogni sussulto del ghiacciaio, ogni minimo “ffffttttt” provocato dai nostri sci che fanno scivolare una piccola lastra di neve. “Una cosa è attraversare un bel paesaggio in bicicletta soffermandosi a respirare il profumo dei prati e a sentire la freschezza dell’aria, un’altra cosa è sfrecciare a 220 sull’autostrada” spiega McFly paragonando il nostro approccio alla montagna al modo in cui spesso oggi si vive il turismo fuoripista. Ciò che conta nel Free Ski Mountaineering è l’unicità della linea percorsa, la completa fiducia nelle proprie capacità e l’affidabilità dei compagni. Mentre nel tradizionale “fuoripista” purtroppo molto spesso si tratta solo di metri di dislivello percorsi ogni giorno e di avere sul curriculum un run in più del compagno. Per noi il Free Ski Mountaineering è sinonimo di

sfida, individualità e sostenibilità ambientale. “Come freerider vorrei che anche le future generazioni avessero la possibilità di coltivare la medesima passione, e per questo pratico questa disciplina con il più grande rispetto possibile per la natura - filosofeggia Björn mentre sistema lo scarpone per avere il massimo controllo nella successiva discesa - è il presupposto fondamentale del Climb to Ski. Una chiara dichiarazione in favore della sostenibilità!”. Ci siamo: Glen è il primo a partire. Björn, McFly ed io non ci facciamo pregare. Con un largo sorriso e gli occhi pieni di gioia lasciamo che i nostri sci disegnino tracce nel canalone. Alla fine del tratto più ripido facciamo una sosta per valutare insieme la seconda parte della discesa. A un tratto sentiamo delle grida provenienti dall’alto. Due ragazzi, che a quanto pare hanno scelto il nostro stesso percorso, riconoscono Glen, e chiedono la nostra attenzione. Vengono giù come fossero telecomandati. E così facendo ci riempiono di neve e provocano la formazione di alcuni cumuli per niente piccoli lungo il couloir. Per fortuna sappiamo come comportarci in una situazione del genere e va tutto liscio, tuttavia la montagna richiede rispetto, stima e attenzione nei confronti della natura. Ma anche delle altre persone. Proseguiamo nella discesa mozzafiato. Pendii innevati da cartolina, blocchi di ghiaccio, salti, virate strette e ampi raggi: ci godiamo questa discesa e assaporiamo ogni secondo abbandonandoci completamente al silenzio del Bianco. Ripenso alla T-shirt del mio compagno di sci e ne parlo agli altri. Che rispondono silenziosi con un segno d’approvazione.

Ph: Hansi Heckmair

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trip

TESTO E FOTO: E. Personnettaz

I miei primi 4000 Vivere da sempre in un luogo può generare in noi quel senso di abitudine e routine che molte volte ci impedisce di apprezzare pienamente quello che ci circonda. A volte però è possibile colmare questo deficit lasciandoci trasportare da nuove e ambiziose sfide.

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Nell’estate appena trascorsa, noi lo abbiamo fatto. La Madonnina scruta da tempo immemorabile i numerosi alpinisti che ogni giorno giungono ai 4.063 metri della montagna “100% Made in Italy”. La vista dalla sommità del Gran Paradiso è straordinaria e ci appaga appieno dello sforzo fatto, senza però distrarci dalla discesa che ci attende sino al Rifugio Vittorio Emanuele. Emily ed io siamo molto contenti, è il nostro primo 4.000. Il training dell’estate è stato utile, sette gite di 1.000-1500m di dislivello, con una media di 6-8 ore di cammino lungo le nostre valli del Gran San Bernardo e della Valpelline: Col Collon, Mont Fallère, Mont Fourchon sono alcune delle mete che abbiamo esplorato. Rientrando a casa mi chiama Edi, amico e guida alpina, nonché compaesano, per sapere com’è andata: gli racconto della relativa facilità dell’impresa, grazie all’allenamento estivo. Inaspettata, arriva la sua proposta. Mi dice che deve verificare alcune cose e che si sarebbe fatto risentire la settimana successiva. Inizio quindi a riflettere su quella che sarebbe stata una sfida che da anni mi ero prefigurato ma che mai avrei pensato di affrontare, proprio in quell’estate. Per passione e professione trascorro la mia vita scivolando con lo snowboard ai piedi delle montagne della mia valle, ma una in particolare ha da sempre catalizzato il mio interesse e la mia curiosità, vuoi per la sua imponenza, vuoi per la sua maestosità, vuoi per il colore unico della sua sommità. Ora la sento più vicina, la montagna, la sfida imminente. Passa solo un giorno. Edi mi richiama e mi dà conferma dei posti disponibili nel

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La Madonnina posta ai 4.063 metri del Gran Paradiso


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rifugio tappa, circostanza tanto anomala quanto fortunata, visti i normali tempi di attesa che si misurano in mesi. Dopo un rapido consulto dell’evoluzione meteorologica, stabiliamo data e ora dell’appuntamento. Mi metto subito a preparare l’attrezzatura: imbrago, piccozza, ramponi, corda, casco... Ci troviamo mercoledì alle 9.00, nel parcheggio di La Palud a Courmayeur, rapida spesa in un negozio per rifornirci dei viveri necessari e via, attraverso il Traforo, in direzione Les Houches, in Francia. Da qui prendiamo la funivia per giungere alla stazione di sosta di Bellevue, dove il trenino a cremagliera ci trasporta a circa 2.000m, punto di partenza appena al di sotto del Nid d’Aigle, per la salita al rifugio Goûter. La prima parte del tracciato è abbastanza semplice. Si sviluppa tra rocce e terra e, saggiamente, Edi non ci indica subito la meta della giornata. Dopo qualche ora però la nostra guida punta il dito verso un luccichio lontanissimo, si tratta di una struttura di lamiere incastonata sulla sommità di una montagna di pietre, esattamente al di sotto di una cresta di neve. Ora, lo sforzo da calcolare risulta essere più chiaro. Attraversiamo “volando” il famigerato canale nei pressi della parte finale della salita verso il rifugio, tratto frequentato da pietre che amano rotolare proprio al passaggio degli alpinisti, un po’ come fanno i gatti fermi a bordo strada in attesa di far stridere qualche pneumatico. Superato il punto critico, l’adrenalina accumulata ci spinge in alto verso la meta, a 3.817m di quota, dopo 5 ore di camminata: siamo esausti ma la spettacolare vista della vertiginosa Aiguille de Bionassay ci restituisce forza ed energia mentale. Il rifugio è piuttosto affollato, soprattutto di stranieri: il sonno, o meglio il riposo, si preannuncia difficile anche perché la sveglia è puntata per le 01:30. Durante la cena una “tapparella” naturale di nubi sembra far calare il sipario sulla giornata appena trascorsa, e preannuncia una mattinata non limpida. Impossibile chiudere occhio. Il caos e il caldo non ci lasciano addormentare, ansia ed emozione fanno il resto... Ore 02:45, iniziamo a camminare immersi in un buio pesto, immersi nella tormenta e avvolti in un freddo tagliente. Un serpentone di luci ci precede e, passo dopo passo, cominciamo a superare alcuni gruppi partiti prima di noi. Tappa d’obbligo presso la Capanna Vallot, a 4.362 metri. Le sue lamiere ci proteggono per una ventina di minuti dall’ululare del vento, che ci avrebbe accompagnato ancora per un po’. Edi ci rassicura, la meta è vicina, probabile che si arrivi in vetta al termine della perturbazione e al diradarsi delle nuvole. Ci sono alpinisti che sembrano rinunciare alla salita, noi proseguiamo avvolti nel buio: la luce emessa dalla mia frontale

a stento illumina la traccia che intravedo attraverso la lente della maschera. Sì, perché per affrontare l’ultimo tratto ci siamo bardati come astronauti con scaldacollo, maschera, piumino, cappuccio, moffole. Proprio quando la quota inizia a farsi sentire sulle gambe e sui polmoni, intravvediamo uno spiraglio di luce che sembra illuminare una cresta, anzi la cresta finale. I primi raggi del sole illuminano i nostri volti: emozione indescrivibile trapela dai nostri occhi, che possono ammirare un panorama irreale, alba perfetta a 4.810m sul tetto d’Europa, il Monte Bianco! Da qui la prospettiva assume un significato astratto, difficile individuare in lontananza le vette che ci circondano, così familiari viste dalla vallata. Ci godiamo il momento, questa conquista in rispettoso silenzio, frutto di un lungo cammino percorso passo dopo passo Una metafora della vita, una sfida che ci sprona ancora una volta alla scoperta di ciò che ci circonda.

Una suggestiva alba sulla vetta del Monte Bianco

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TESTO E FOTO: FreeAlien

un anno di freeride Sono stanco, un pomeriggio sotto l’acqua, risalite a spinta, un photo shooting con continui avanti e indietro per trovare gli scatti migliori. Sveglia di buon’ora e solo qualche castagna di merenda... Così abbiamo chiuso la nostra stagione.

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Arrivo a casa ed entro in garage, scarico l’attrezzatura, appendo il casco e lo zaino, lancio i guanti, la maschera e le protezioni nella cesta. Sfilo le scarpe e appoggio con cura la bici vicino al banco da lavoro, la copro con la sua coperta invernale. Esco e chiudo la serranda. Sembra un sipario che cala su un altro anno di freeride. C’è chi conta gli anni dalle primavere, dalle vacanze estive, dal capodanno… Noi di FreeAlien li facciamo coincidere con le stagioni del freeride. E adesso

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che la bici riposa tranquilla, aspettiamo la neve per risvegliare gli sci e tornare nei boschi. Quest’ultimo anno di bici è cominciato e si è chiuso all’insegna della pioggia… Ad inizio stagione, le prime uscite sono state accompagnate dalle lunghe piogge primaverili, in chiusura ci hanno salutato le fredde piogge invernali. Tutto ebbe inizio a maggio, con la prima photo session dopo il riscaldamento svolto a Pasqua, per prendere confidenza con le nuove bici, super sofisticate. Siamo a Monfol, una borgata di Oulx (alta Val Susa) posta sull’alto di uno sperone roccioso, che era un tempo l’alpeggio estivo della frazione Gad. Siamo a 1700 metri di altitudine e, per la quota e il periodo, la temperatura è davvero fresca, giriamo con le felpe, ma ci vorrebbero ancora le giacche da snowboard! Si pedala a capofitto su un sentiero roccioso con oltre 700 metri di dislivello. Strette curve nel fitto bosco di pini e larici, salti in pietra, terreno sconnesso e roccioso, sottofondo di rami e pigne come eredità di un inverno particolarmente nevoso… cominciamo a vivere la nostra spiritualità con il bosco. Ispirati da questa situazione partono i primi scatti nel piccolo borgo. Un salto, una bella curva fra le mura diroccate delle vecchie baite, un panorama magnifico sulla roccia esposta che domina la valle. Già in passato abbiamo percorso questo sentiero e ognuno sa dove mettere le ruote. Arriviamo alla “pietra Gianotti” (battezzata così dal poco felice approccio di Gianot, il giorno che la scoprimmo), una roccia raccordata in modo naturale da muschio e terriccio e rivestita da un manto di aghi di pino e foglie; dietro, alcuni metri di vuoto poi un raccordo ugualmente morbido e con una pendenza in sintonia; un “doppio” naturale, uno di quei salti che fanno venire i brividi di piacere. C’è un gusto infinito a trovare una situazione naturale di questo tipo piuttosto che ricrearla su un sentiero artificiale. Risaliamo più volte senza sentire la fatica. La affrontiamo dapprima uno per volta, poi in coppia: uno salta e l’atro le gira intorno, cercando di sincronizzare le due azioni per permettere a Enzo di inquadrarci in modo perfetto. Continuiamo verso fondo valle, affrontando una zona trialistica con passaggi tecnici e un grande doppio che ci invita ad un ultimo salto. La strada si fa bianca ed entra nell’abitato di Gad, dove recuperiamo le nostre auto, sfiniti, ma felici. Il successivo shooting fotografico ha un diverso scenario. Siamo ad Ala di Stura, dove si inaugura un nuovo bike park, firmato dall’amico Paolo Morello, con una gara di enduro. Noi di FreeAlien non siamo racer e preferiamo godere della giornata di sole e dei single track del piccolo ma accogliente comprensorio. Arriva la bella stagione, a luglio e agosto si dà il massimo. Sole tutti i week-end, luce magnifica fino a tarda ora e poi le vacanze, quasi sempre in sella, rubando con mille scuse un po’ di mare alle compagne... L’estate è tutta nelle nostre valli, Sauze d’Oulx, Bardonecchia, Sestriere e Prali. A Sauze siamo di casa, conosciamo ogni centimetro di bosco, i secret spot e sfruttiamo tutte le strutture per “girare grosso”, e poi c’è il bel park curato da Francesca e Bibo. Le giornate a Sauze si chiudono sempre in pasticceria da Paola di Valsesia, e fra un gelato e qualche pasticcino archiviamo l’uscita “di casa”. Cambio di scena: Sestriere, a poche seggiovie di distanza da Sauze. Andiamo a provare la nuova pista disegnata da Zio Ifo, che ha ospitato una tappa del Campionato Italiano di DH. Raggiungere Sestriere da Sauze è emozionante di per sé e i 4° di questi strani giorni di agosto fanno venire anche i brividi. Dopo tre seggiovie e un trasferimento con ripidoni nel Vallone del Rionero, ci troviamo avvolti nella nebbia, ma incontriamo i cartelli che indicano “Pista nera di DH”. Spondoni che ti lanciano a tutta, gap da fare a mille, un tratto


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In apertura All’h imposta una curva nei boschi di Sauze e a fianco Gianot si lancia nella pista da DH di Sestriere. A sinisra in alto: All’h nella zona north shore ad Ala Di Stura e, sotto, Trovex in volo nei boschi di Bali, a Sauze. In alto: “Ci passiamo in due? Proviamo! Io prendo la pietra e tu passi vicino, occhio a non prendermi!!” ...Trovex ed All’h, negli spot segreti di Monfol.

nel bosco in contropendenza con radici, slalom tra gli alberi e i materassi arancioni, gradoni, passaggi su pietre con pendenza verticali, ancora salti lunghi, paraboliche, destra sinistra, salto! Ce la siamo bevuta tutta d’un fiato e dopo due giorni eravamo di nuovo là, per ubriacarci di velocità e di sole. Lasciamo la Via Lattea. A Bardonecchia dedichiamo un’intera giornata trascorsa negli spot dello Jaffreau e del Melezet. I nostri amici local ci avevano ingolositi svelando che erano state costruite nuove piste ricche di paraboliche. Ci prendiamo gusto e quasi perdiamo la luce per il servizio fotografico. Giriamo come criceti, sulla telecabina. Ci trasferiamo al Melezet dove altri amici ci portano in una sezione “north shore” segreta realizzata proprio per Cover, ricca di passaggi “caldi”, dove in pochi passano indenni: equilibrismi su tronchi, discese ripide, curve secche... Il terribile rientro al lavoro dopo l’estate non ci ferma, gli amici di Prali tengono aperte le seggiovie tutto settembre, e a fine mese bussiamo alla porta. La stagione è cambiata, la mattina il terreno è bagnato, fangoso. I primi giri servono a sondare la zona e capire dove poter scattare. Con prudenza perché i legni del “north shore” sembrano sapone. Ottobre, le mattine sono frizzanti e le temperature più basse. È ora di mettere in scena l’ultimo atto:

la sessione di freeriding autunnale con un photoshooting che chiude la stagione. Il palcoscenico è un secret spot nei pressi di Torino. La pioggia è di nuovo protagonista. La prima data in agenda salta, la seconda anche. Alla terza si va “QT-QC” (nostro acronimo per Qualsiasi Tempo - Qualsiasi Condizione...), il freddo inizia a legare un po’ il corpo, a bloccare quei movimenti che in freeride devono essere morbidi, sciolti, e la luce è improbabile. Il terreno è insidioso, sotto le foglie non si sa cosa c’è, si viaggia veloci su un tappeto arancione che si alza in volo sotto le nostre ruote. Trovex ha completamente sbagliato abbigliamento e il suo abbinamento giallo lo fa scomparire nel bosco autunnale. A valle, una provvidenziale castagnata ci scalda e rifocilla. La pioggia cade fitta sulle nostre teste. Le bici caricate sull’auto la prendono tutta, durante il rientro a casa… Siamo esausti, ma un altro anno di freeride è andato in scena e nulla ci rende più felici di essere attori protagonisti di questo fantastico mondo! FreeAlien ringrazia tutti i partner che hanno sostenuto la stagione freeride 2010: Alutech, Bollé, CamelBak, Crazy Sport, Dirty, Formula, Geax, The North Face e Transition. Trovate nostre info e tante altre foto su www.freealien.it

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La cincia dal ciuffo cerca riparo nel bosco. Un raggio di sole illumina la valle Monfalcon di Forni

testo: Umberto Sarcinelli FOTO: Gabriele Bano, Paolo Da Pozzo, Luciano Gaudenzio

carnia, carniola, carso, carinzia, caravanche‌ kar nella sua radice indoeuropea vuol dire roccia, pietra, per estensione montagna. un mondo solido, primordiale che l’uomo è riuscito a domare e a trasformare solo in parte e certamente non per sempre.

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Carnia

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Sopra:Bufera di neve a Casera Razzo. In basso: nel bosco riecheggia il bramito del cervo

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E su queste rocce, emerse dall’oceano e trasmigrate a nord, queste barriere di coralli e foraminiferi che sono emerse come picchi, pale e creste, la dissoluzione del tempo ha depositato polveri e detriti, mentre batteri, licheni e altri microorganismi hanno composto e amalgamato la terra. Il resto l’ha fatto la biogeografia. La Carnia è la porzione nord occidentale del Friuli, la parte montana del bacino del Tagliamento, uno dei fiumi alpini europei rimasto con le sue caratteristiche originarie (nonostante captazioni d’acqua, opere idrauliche e inquinamenti). A Ovest è un altro fiume, il Piave, che la delimita, a Est il confine è molto più sfumato. Infatti le Alpi Carniche proseguono sulla destra orografica del Fella, il maggior affluente del Tagliamento, passano lo spartiacque danubiano a Camporosso, dove l’acqua fluisce nell’enorme bacino danubiano con il sistema Gail – Drava – Danubio (e Sava - Danubio) che sfocia nel mar Nero e poi si confondono con la catena delle Caravanche fino alla pianura pannonica. La Carnia è come tutto il Friuli Venezia Giulia un luogo di incontro delle grandi regioni biogeografiche: Pannonica, Dinarica, Balcanica, Mediterranea, Norica. Un incrocio di biodiversità. In questa regione si trovano quasi tutte le specie animali e vegetali europee. Con molti endemismi e relitti glaciali. Luogo di incontro per le migrazioni degli uccelli: è l’ultima parte del Mediterraneo che si incontra verso i luoghi di riproduzione, la prima per gli svernamenti. Questo etimo di dura pietra, come si vede, potrebbe sembrare riduttivo per una terra che offre suggestioni infinite, piccoli microcosmi e vasti orizzonti. Ma se prendiamo la pietra come metafora ecco che la Carnia diventa essenza di una natura dura, incorruttibile, ancestrale, perfino magica.


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“Ai miei occhi era come se un gigante, un dio pagano con più di dieci dita, anzi, con cento artigli, avesse un tempo modellato il paesaggio, premendo con tanta forza la mano, in un attimo di giocosità, di collera o di distrazione, nell’argilla tenera o nella sabbia bagnata, da spingere il fondo di roccia sottostante verso il cielo. L’impronta del suo palmo divenne una piana con bassi colli, circondata da un semicerchio, una corona di monti. Le valli si aprirono nel momento stesso della creazione, restringendosi e approfondendosi in spaccature e gole man mano che salivano tra i monti. Le unghie, o gli artigli, si protesero a settentrione fino ai monti, quella massa solida che si levava come l’orlo irregolare di un frangente, una cresta d’onda di piena. Più a Ovest la mano del gigante, o del maestro, aveva lasciato un’altra impronta. Forse aveva dato alla Terra, che è ora la nostra dimora, uno schiaffo, con le dita rivolte incidentalmente a sud e all’Adriatico. Gli artigli o le unghie del gigante o del Signore avevano lacerato il suolo come un rozzo raspino, un erpice di dita, aprendovi gli alvei per il largo e ramificato fiume Tagliamento, che per questo si getta in mare in numerosi solchi. Il premio Nobel per la letteratura nel 1974, Eyvind Johnson, nel suo splendido romanzo storico “Il tempo di sua grazia” così descrive questa terra di asprezze e di sublimi bellezze, direttamente formata dal creatore. E in questo caso la poesia rende giustizia della Natura, la “fotografa”. La Carnia ricca di biodiversità è anche ricca di suggestioni e emozioni. Che si sentono percorrendo sentieri e creste, traversando valli e risalendo torrenti, ascoltando suoni e annusando profumi e umori, scoprendo sfumature e catturando luci. Mai come in questo mondo sospeso tra Alpe e Adria la fotografia diventa lo scrivere con la luce. I cieli quando non sono tersi regalano nuvole che sembrano armonizzarsi perfettamente con i profili di montagne e boschi e quando i nembi e i cumulonembi stendono una coperta grigia sulle vette, i colori non scompaiono, ma si fondono senza soluzione di continuità in mille sfumature, cancellando le ombre nette e mostrando una natura dalle infinite sottigliezze. Al naturalista, e ancora di più al foto naturalista, la Carnia offre il piacere della scoperta e la dimensione dell’esplorazione. Se cercate animali facili da fotografare, che si mettono in posa, andate al Bayerische Wald. Questi boschi, queste montagne sfidano la vostra perizia fotografica e la vostra competenza di biologi, oltre che la vostra preparazione fisica. Occorre conquistare ogni scatto, scoprire ogni inquadratura. Saper vedere e voler vedere. Non per nulla le Dolomiti Friulane, che chiudono

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La rugiada impreziosisce la tela del ragno

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a sud ovest e completano la Carnia, sono state nominate “Patrimonio dell’umanità”. Potete imbattervi in numerose specie di animali. L’orso è presente e non è stato reintrodotto: è arrivato naturalmente dalla Slovenia, passando anche per la valle del Gail. Recentemente una tana invernale è stata individuata ai limiti del parco delle Dolomiti Friulane, nei dintorni di Ampezzo la scorsa estate un esemplare si è mostrato diverse volte (e ha provocato qualche danno…), altri individui frequentano la Carnia con continuità. Sono nella quasi totalità giovani maschi in cerca di territori nuovi che lasciano le zone della Slovenia dove le concentrazioni di plantigradi sono notevoli (Kocevje, Monte Nevoso, Selva di Trnova). Orsi che vanno e vengono. Vengono in Italia per trovare cibo e tranquillità. Tornano in Slovenia attirati dalle femmine. E questo è il limite del ripopolamento naturale dell’orso nelle Alpi Orientali. L’università di Udine ha svolto un monitoraggio con tecniche avanzate, alcune originali, raccogliendo reperti biologici (feci, pelo) il cui Dna è stato analizzato. ”Abbiamo individuato – spiega Stefano Filacorda, il responsabile delle ricerche dell’università di Udine – undici fenotipi, cioè undici esemplari diversi di orso. Nessuno di questi è femmina”. Circostanza confermata dalla radiotelemetria. Due orsi sono stati catturati e dotati di sofisticati radiocollari (segnalano anche il movimento della testa), l’analisi dei loro spostamenti conferma che nel periodo della riproduzione ritornano in Slovenia Non solo orso, ma anche lince. In Carnia sono state scattate le prime fotografie in Italia di questi felini in libertà, utilizzando una trappola fotografia all’infrarosso. E proprio installando queste foto trappole i ricercatori dell’università friulana hanno potuto scoprire l’arrivo del cane procione per la prima volta in Italia. Questo canide (ha la particolarità di essere l’unico che va in letargo) proviene dalla Russia, dove è stato importato dalla Siberia come animale da pelliccia e da dove è fuggito dagli allevamenti dirigendosi verso ovest. La Carnia è la zona più occidentale e meridionale finora raggiunta. Tra i grandi carnivori c’è da segnalare anche la sporadica presenza del lupo, anch’esso proveniente dalla Slovenia. Cervi, caprioli, cinghiali in grande quantità (oltre a stambecchi e camosci) completano gli ungulati carnici e formano le principali prede naturali dei carnivori. Tra questi merita segnalare la presenza diffusa del gatto selvatico e di molte specie di mustelidi. Aquile, avvoltoi (il grifone vi nidifica, sono apparsi il gipeto e il monaco), galli cedroni, forcelli, pernici bianche, corvi imperiali, gracchi alpini, numerosi ra

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Sopra: I brillanti colori del torrente Arzino. A lato: le nuvole si staccano dai versanti innevati del M.te Sernio

paci diurni e notturni (compreso l’allocco degli urali, la cui prima nidificazione in Italia è stata recentemente certificata), per non citare il rarissimo e protetto re di quaglie, fanno parte della fauna della Carnia. Mentre la flora costituisce un’enciclopedia “en plein air”. La Carnia è un mosaico armonico di ambienti naturali. Alpi basse, ma con latitudine alta, che in poche migliaia di metri di dislivello mostrano una straordinaria variabilità, anche paesistica. Boschi fitti e maestosi di faggi (Venezia si fonda sugli alberi della “Carnia fidelis”), di abete, radure di erica, prati in quota, fioriture straordinarie di orchidee. Le acque scavano e modellano, restituiscono tutti i colori del cielo e della terra, dipingono riflessi che sembrano la madre dell’astrattismo. La Carnia non è tutta in queste descrizioni e suggestioni. Va esplorata e scoperta, con l’occhio attento e disincantato, la macchina fotografia accesa, una mente disposta a stupirsi e… con due gambe che funzionano. Chi vuole scoprire fotograficamente questi luoghi, potrà farlo insieme agli autori nell’autunno del 2011. Maggiori informazioni nel sito del fotografo Luciano Gaudenzio www.naturalight.it

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CARNIA

confine tra cielo e terra Edizioni SELEKTA Formato: 32 cm x 29 cm Edizione 2010 228 Pagine 202 Fotografie Fotografi: Gabriele Bano, Paolo Da Pozzo, Luciano Gaudenzio Testi: Umberto Sarcinelli, Giacomo Buliani Grafica: Annalisa Gaudenzio Prezzo: Euro 60 Il libro è acquistabile anche on-line all’indirizzo www.carniafoto.it

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TRIP

TESTO E FOTO: Nikka Dimroci

GIORDANIA

c’è vita sul Mar Morto Non ricordo esattamente come, ma nella settimana più calda dell’anno ci ritrovammo nel punto più basso della Terra. Sul Mar Morto le temperature sono in media 10 gradi più alte che ad Amman, città ventilata dove anche se la colonnina del termometro sale abbondantemente sopra i 30, si gode solitamente di una piacevole brezza. Ma in quei giorni, decidere di soggiornare a -430m sotto il livello del mare, sembrava destare un po’ di perplessità anche tra i cordialissimi giordani.

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Personalmente, immaginavo le strutture sul Mar Morto come dei vecchi stabilimenti termali dall’aria un po’ demodè dove avrei incontrato solo anziani con problemi reumatici e dermatologici. Invece, gli alberghi delle catene internazionali e gli stabilimenti balneari, pur non sfigurando il panorama, raccolgono una variegata popolazione di ospiti delle più diverse estrazioni sociali. Negli stabilimenti più eleganti, a bagno nelle infinity pool con vista sull’imponente paesaggio roccioso che circonda le acque del lago salato, si possono facilmente trovare i sofisticati giovani dai fisici impeccabili dell’Amman più internazionale e trendy, mentre a poca distanza, sulle spiagge di livello più popolare, nei pomeriggi di venerdì, non sarà difficile che con la gentilezza tipica locale, veniate invitati ad unirvi a qualche numerosa famiglia che d’abitudine qui trascorre il giorno festivo della settimana, allestendo grigliate in riva al Mare. Insinuandosi tra le incrostazioni dei depositi di sale, immergersi nell’acqua del Mar Morto, densa come un olio, dà proprio la sensazione di essere avvolti in un tiepido abbraccio terapeutico, che offre evidenti risultati anche estetici. Da queste parti, basta stare a mollo per pochi minuti al giorno e cospargersi ogni tanto del benefico ed iperminera-

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lizzato fango che in abbondanza si trova sul fondale, per ottenere in breve tempo una pelle dall’aspetto morbido e liscio. Senza considerare l’impagabile vantaggio di un’abbronzatura a zero rischi per merito dell’altissimo tasso di ossigeno dell’aria, che filtra naturalmente i raggi “cattivi” del Sole accantonando ogni rischio di scottatura. Ma il bello di questo posto non è solo la garanzia di recuperare il sorriso godendo di ore di puro relax, magari facendosi fare un massaggio in una delle rinomate SPA, ma scoprire che la natura che circonda questa zona, offre inattese sorprese che possono riservare ancora più inattese scariche di adrenalina. Dopo esserci rimessi in marcia, lasciando l’area più edificata e scendendo lungo la strada che attraversa il Wadi Araba, proprio a pochi chilometri dalle strutture a 5 stelle, si apre la Riserva Naturale del Wadi Mujib: la gola rocciosa percorsa dal fiume Hidan. L’area, gestita dalla Royal Society for the Conservation of Nature, è uno dei tanti parchi naturali della Giordania dove esiste la possibilità di soggiornare in piccole strutture perfettamente integrate con la natura circostante. La RSCN gestisce infatti le aree naturali del Paese, operando su principi di basso impatto ambientale e soprattutto cercando di coinvolgere le popolazioni locali insegnando loro a


estate | 10 In apertura - Petra. La città bassa e il Tesoro (a destra). A sinistra: duna di sabbia nel deserto del Wadi Rum A destra: (dall’alto) - Petra. Il Siq - Amman. Il Books@ Cafè - Mar Morto

sfruttare in maniera produttiva le risorse naturali del posto (www.rscn.org.jo). Facendo riferimento al Visitor Centre del parco, una piccola costruzione che si trova proprio all’apertura della gola e che si incontra lungo la strada principale che costeggia il mare, se preferite una sistemazione più spartana rispetto ai grandi hotel, potete chiedere di soggiornare in uno dei bungalow in riva al mare della Riserva: si tratta di casupole dello stesso colore della roccia, alimentate ad energia solare, sotto la cui veranda, mollemente adagiati su un’amaca, si può godere di uno degli impressionanti e tipici tramonti di fuoco sul Mar Morto. Il Wadi Mujib è anche famoso perché vi si possono effettuare alcuni dei trekking più eccitanti del Paese. Non sapendo esattamente cosa aspettarci, ci siamo avventurati sul percorso fluviale più semplice, che è di sicuro già sufficiente a scuotere gli animi anche del turista più sonnacchioso... Dopo esserci liberati da ogni indumento superfluo, aver indossato il salvagente d’ordinanza ed un paio di scarpe comode (anche per camminare nell’acqua), siamo stati accompagnati da una giovanissima e paziente guida ad entrare nella gola. Il percorso, tra ostacoli più o meno piccoli, rocce da scavalcare e corde a cui aggrapparsi, risale il torrente che scorre sul fondo del canyon. Lo scenario è davvero speciale: a seconda del periodo dell’anno, la portata del torrente può variare e ci si può dunque trovare più o meno immersi nell’acqua, piacevolmente tiepida ed invitante, con un livello che può assestarsi alle caviglie o arrivare anche fino al collo. Durante l’escursione, durata in totale due ore, alzando gli occhi verso l’alto la vista si apriva sulla striscia di azzurro del cielo e sulla moltitudine di sfumature e forme della tipica roccia rossa. Mentre ci muovevamo sul fondo della gola, attraversando una quieta pozza d’acqua con invisibili pesciolini che ci mordicchiavano i piedi, dall’alta cascata che alimenta il torrente, sono improvvisamente sbucati trekker esperti che, imbragati, si calavano a corda doppia, immersi nel forte getto d’acqua che precipita dall’alto. Ma questa cornice non è tutto. In quanto Riserva Naturale, avventurarsi da queste parti, riserva piacevoli sorprese anche dal punto di vista degli incontri con gli animali. Avvistamenti emozionanti sono la norma, nelle aree segnalate. Ci basta lasciare lo stradone principale e seguire uno degli itinerari via terra: ci si addentra in un habitat apparentemente arido, ma costellato di fonti termali, in cui si possono incontrare i tipici stambecchi nubiani, lucertole color cobalto, ma anche linci del deserto, iene, volpi e con un po’ di fortuna, anche lupi e leopardi. Per info: www.visitjordan.com • italy@visitjordan.com

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TRAIL RUNNING

TESTO: S. Scagliarini | FOTO: Marco Spataro - Stefano Torrione

tor de géants Settembre 2009 – Sotto un cielo plumbeo e con pessime previsioni meteo per i giorni seguenti, quattro esperti trailer stavano per cominciare un test che avrebbe dovuto dare il definitivo avallo allo svolgimento, di lì a un anno, di quella che doveva diventare la competizione di trail running più dura al mondo, il Tor des Géants, il “Giro dei Giganti”, dalla lingua patois parlata in Valle d’Aosta. 69


Uno spettacolare passaggio in cresta. La concentrazione non evita di godere degli stupendi paesaggi che accompagnano gli atleti.

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Davanti a loro un circuito che concatenava le due Alte Vie della Valle d’Aosta, la 2 e la 1, con partenza da Courmayeur in direzione dell’area del Gran Paradiso, il primo dei quattromila sui quali queste vie si arrampicano seguendo percorsi secolari che oggi sono la delizia dei trekker di tutto il mondo. Lunghissimo il percorso, con 330km di paesaggi sempre diversi, reso spietatamente selettivo dai 24.000m di dislivello positivo, certamente carico di fascino per gli scenari e le montagne più alte d’Europa lambite dal percorso: Monte Rosa, Cervino e Monte Bianco, con quest’ultimo a fare nel contempoda sfondo alla partenza e da agognata meta dopo i sette giorni ininterrotti di gara e avventura. I quattro volontari, tutti quarantenni, due uomini e due donne, avrebbero duvuto procedere sempre insieme e sostare nei punti concordati con l’organizzazione, che sarebbero stati gli stessi adibiti a ristori principali durante la competizione. Ad accompagnarli furono pioggia e anche neve, perché il percorso si sviluppava mediamente a 2.000m, con punte abbondantemente oltre i 3.000. I quattro, che si definivano “fisicamente nella media, esperti e specificamente preparati per gli ultra-trail” riuscirono, nonostante le difficili condizioni meteorologiche, a terminare l’intero percorso entro le 150 ore del tempo massimo che l’organizzazione aveva fissato come limite, dormendo mediamente 3 ore per notte e nutrendosi con vere cene. Impresa durissima, ma non disumana... Settembre 2010 – Esattamente un anno dopo. Splendeva il sole su Courmayeur e le previsioni erano positive. Schierati alla partenza, 320 trailer da 17 nazioni; fra loro, specialisti plurivittoriosi, appassionati di montagna, maratoneti e triathleti saturi di competizioni insipide, veri alpinisti ansiosi di affrontare la montagna in maniera alternativa, giovani e anziani (addirittura due settantenni dallo spirito straordinariamente giovanile). Accomunati tutti da un sano sorriso di entusiasmo e di energia vitale che è stata il carburante vero della loro performance. Dopo poche ore di gara la situazione appariva già abbastanza delineata, con un piccolo gruppo di atleti a fare l’andatura ed il lungo serpentone dei concorrenti ad


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interpretare alla propria andatura le salite verso La Thuile, Valgrisenche e l’impegnativa ascesa ai 3.300m del Col Loson, la più alta cima di tutto il percorso, che conduceva dopo una lunga discesa a Cogne. Durante la prima notte una perturbazione, fortunatamente l’unica della settimana e circoscritta all’area, portava pioggia e neve oltre i 2.000m e produceva una prima selezione: al secondo giorno i ritirati erano 45. Ad imprimere una forte accelerazione erano i due favoriti, lo spagnolo Salvador Calvo Redondo e il tedesco Uli Calmbach, insieme all’outsider italiano Nico Valsesia, forte atleta multi-sportivo, protagonista di diverse edizioni della Race Across America, la massacrante coast-to-coast ciclistica da Los Angeles a Savannah (Georgia), nella quale ha conquistato anche un secondo posto. Proprio Valsesia appariva il più aggressivo nella tattica, con ritmi alti e soste brevissime o nulle, anche per nutrirsi. Dietro, i distacchi iniziavano a misurarsi in ore e l’attenzione era alla classifica femminile con tutte le favorite nelle prime 20 posizioni in classifica assoluta: la tedesca Giulia Boettger, la francese Corinne Favre e l’altoatesina Anne Marie Gross, nazionale della 24 ore su pista, alla sua prima esperienza in un trail, che procedeva in compagnia dell’esperta canadese Jen Segger. Le tattiche nell’affrontare il riposo erano assai diverse: i primi si concedevano solo microsonni di pochi minuti , mentre i più dormivano alcune ore nelle brande appositamente allestite dall’organizzazione nelle 7 basi vita dove erano operativi veri ristoranti 24 ore su 24, per soddisfare le esigenze alimentari degli atleti. Qui, i concorrenti ritrovavano la loro borsa con gli effetti personali per garantirsi assistenza anche senza accompagnatori al seguito, i quali per regolamento non potevano

offrirla salvo in prossimità delle 7 basi. Il primo colpo di scena si è avuto al controllo orario di Chardonnay (a 130km dalla partenza) dove Valsesia, 3° a pochi minuti dai due battistrada, era costretto a ritirarsi ormai svuotato di energie. A 3 ore dalla coppia di testa, un rimontante Ulrich Gross, fratello di Anne Marie, anche lui nazionale delle 24 ore su pista e alla sua prima esperienza sul trail. Nei successivi 60km,

La discesa è una delle fasi più delicate per i muscoli delle gambe

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prima di arrivare a Gressoney, la sua regolarità gli permetteva di recuperare lo svantaggio: la sua tattica prevedeva di correre senza mai esagerare, ascoltando le sensazioni trasmesse dal corpo e di limitare al massimo lo shock muscolare provocato da una corsa in discesa troppo rapida, a differenza dei leader che si tuffavano a capofitto in discesa. Quest’ultimo forse uno stile più adatto a gare meno lunghe, ma correre in discesa per 24.000m di dislivello si è rivelato devastante per il Uli Calmbach, che al rifugio Coda (165° km) pagava parecchie ore di soste e non riusciva a riprendere la stessa andatura tenuta sino a lì. Quando Gross raggiungeva Redondo, i due procedevano affiancati per i diversi km di una lunga salita, con l’altoatesino che verificava la stanchezza dello spagnolo, per poi allungare nella successiva discesa e distanziarlo di 50’. Vantaggio che gli permetteva, dopo 46 ore dalla partenza e 200km di gara, di concedersi un sonno di 30’, terminato con gli applausi che annunciavano il sopraggiungere di Redondo. Lo spagnolo non si fermava sperando in un riposo prolungato di Gross, il quale si concedeva anche una doccia calda, una fasciatura al piede per ovviare ad una vescica, che miracolosamente avrebbe resistito fino al traguardo, e ripartiva con 30’ di ritardo consapevole di essere meno affaticato del battistrada. Dopo 27km e due ascese impegnative, i due si ricongiungevano in cima al Gran Tournalin, a metà fra il Monte Rosa (alle spalle) e il Cervino (di fronte). Redondo era affaticato e Gross riusciva a staccarlo di quel tanto che bastava per raggiungere la Base Vita sostare brevemente e rifornirsi rapidamente, per poi riprendere la strada mentre Redondo sopraggiungeva e si concedeva il suo primo sonno (30’) dopo 54 ore e 227km di gara! A ruoli inversi, era Gross che ora si sentiva braccato, ma con l’esatta percezione dei distacchi fornitigli dalla moglie, in contatto telefonico, la quale monitorava il sito web della gara nella sezione dove erano immessi, in tempo reale e a disposizione di tutti, i passaggi ai numerosi check point e gli orari di entrata e uscita delle basi vita. Sapere che l’inseguitore perdeva terreno e non sentirsi troppo stanco rendeva gli ultimi chilometri di gara per Ulrich meno difficili, consentendogli di chiudere la gara dopo sole 80 ore dalla partenza. Intanto, la gara femminile vedeva protagonista la sorella Annemarie che, in progressione costante, recuperava terreno anche agli uomini e terminava 4° assoluta, a 11 ore dal fratello Ulrich. Allo scadere della 150° ora di gara sono stati 179 i trailer che hanno concluso la prima edizione della competizione, con l’ultimo classificato, il maestro di sci cinquantenne Gigi Riz, che ha scientificamente cercato lo scoccare dell’ultimo minuto per prendersi gli applausi della piazza, gremita come all’arrivo del primo.

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20-26 FEBBRAIO AUDI GOLD CUP 2011 Cortina d'Ampezzo Lago di Misurina (Auronzo di Cadore)

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turismo di charme

hotel e residence relax e wellness ai piedi del Monte Bianco

Situato in una cornice dal fascino straordinario il Complesso del Courmaison dista solo pochi minuti da Courmayeur. Un servizio di navetta continuo, a disposizione degli ospiti dalle 8.00 alle 20.00, permette di dimenticare l’auto nell’ampio parcheggio sotterraneo, collegando la struttura agli impianti di risalita, al centro di Courmayeur, alle vicine terme convenzionate di Prés-Saint-Didier, famose per le proprietà delle loro acque, nonché alle frazioni circostanti. Il Complesso è diviso in tre unità ricettive, strutturate in modo da venire incontro alle diverse esigenze della clientela: il Grand Hotel Courmaison, 4 stelle, dispone di 55 camere, ristorante, bar, ampio dehor estivo, Centro Congressi, postazioni internet e wi-fi, Centro Benessere, Mini Club, campo da tennis, campo di calcetto, ping pong, mountain bike e parco giochi per i più piccoli . Il Residence Courmaison e il nuovo Residence Superior, en-

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trambi 3 stelle, offrono diverse tipologie di appartamenti: monolocali, bilocali e trilocali, arredati con ogni confort nel rispetto del gusto valdostano. IL GRAN HOTEL COURMAISON Il Gran Hotel Courmaison coniuga la qualità e i servizi di un grande albergo con la calda accoglienza , l’estrema professionalità e cortesia che ogni ospite riceve fin dal suo arrivo. L’Hotel, 4 stelle, dispone di due 2 junior suite e 55 camere, alcune comunicanti, ideali per famiglie, tutte arredate con design tradizionale ed esclusivo. Confort, charme ed eleganza sono ai vertici dell’ospitalità. Le junior Suites, più ampie, hanno una zona giorno tutte le camere sono dotate di balcone, linea telefonica diretta, minibar, tv sat, cassetta di sicurezza, bagno con vasca o doccia, asciugacapelli, set di cortesia, ciabattine. Postazioni internet e wi-fi nella hall e nella sala congressi Baltea.


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Le Grand Hotel

Cour Maison www.courmaison.it

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I RESIDENCE Il Residence Courmaison e il Residence Superior costituiscono due strutture adiacenti all’hotel e dispongono di accoglienti appartamenti da 30 a 100 mq, ideali per nuclei da 2 a 6 persone. Sono composti da soggiorno, cucina completa, una o più camere da letto, bagno con vasca o doccia, balcone o terrazza panoramica. Per chi preferisce la flessibilità, il soggiorno in Residence è una soluzione di alto livello con un ottimo rapporto qualità prezzo. Nel Residence Superior gli Ospiti troveranno eleganti appartamenti, adatti alla clientela più esigente, con cucine completamente attrezzate, lavastoviglie, microonde, caminetti, televisore LCD, pavimenti in legno vecchio, boiserie, cassaforte, bagni rivestiti in legno e linea di cortesia. Lavanderia a gettoni con lavatrici e asciugatrici, riscaldamen-

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Le Grand Hotel & Residence CourMaison Route Mont Blanc - Loc. Pallesieux 11010 Prè Saint Didier (AO) - Tel. 0165 831400 hotel@courmaison.it - www.courmaison.it

Il fitness trova grande spazio nell’health club, dotato di attrezzature Techno Gym. L’approccio al recupero psicofisico è all’insegna della multidisciplinarietà e il luogo che maggiormente rappresenta l’espressione di benessere e felicità è la Spa. Aperta tutti i giorni anche ad ospiti esterni, con orario continuato dalle 10.30 alle 20.00, propone i più aggiornati servizi di estetica per la remise en forme. Polisensorialità, musica, infusi, trattamenti olistici, sala relax, sauna, bagno turco, sono solo alcune delle opportunità che vi attendono dopo una sciata, una passeggiata o una giornata di lavoro. Ogni trattamento della SPA Emotions viene eseguito con grande cura, professionalità e con prodotti di alta qualità. Per il viso maschere e trattamenti altamente idratanti, tonificanti a base di ingredienti naturali per il benessere totale del corpo e della mente. Ampia scelta di massaggi ad hoc per ogni esigenza per distendere i muscoli dopo un’intensa attività fisica.

to regolabile, servizio sveglia, e possibilità di take away per il dinner completano l’ampia gamma di servizi offerti dalla Struttura. La molteplicità delle offerte e la cura dei particolari sono tra gli obiettivi del Courmaison. Centro Benessere Per ottenere un assoluto benessere e relax, il Complesso Courmaison propone la scoperta dei benefici della SPA e del Centro Benessere, il più grande della Valdigne. Piscina riscaldata, idromassaggio, sauna, bagno turco, vasche di reazione e palestra sono tra le tante proposte offerte i nostri Clienti. La grande piscina interna riscaldata si affaccia con le sue vetrate panoramiche sull’ampio dehor, attrezzato come solarium nei mesi estivi e con una vista esclusiva sul Monte Bianco.

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Val Gardena

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Benessere & gourmet al Gardena Grödnerhof DI: Emanuele Roncalli

Relais & Chateaux Hotel Gardena Grödnerhof Tel. 0471/796315 info@gardena.it www.gardena.it

La Val Gardena mette l’abito bianco. I paesaggi alpini più autentici, i monti rocciosi ammantati di un candore accecante, le vie del centro di Ortisei, adornate di luci e ghirlande, l’aria frizzante, profumata e quasi speziata di sapori tipicamente natalizi regalano da sempre affascinanti atmosfere a quanti desiderano trascorrere una vacanza, un long weekend o una settimana bianca in questo paradiso dell’Alto Adige Nel cuore della cittadina si passeggia dopo aver abbandonato le piste, tra le originali casette, tra le viuzze e le caratteristiche stuben. Il Relais & Chateaux Hotel Gardena/Grödnerhof che vanta una lunga tradizione alberghiera, è un cinque stelle che pone al centro dell’attenzione l’ospite e le sue necessità con un servizio unico e impeccabile in tutte le Dolomiti. Anais SPA è il regno della bellezza con trattamenti all’avanguardia eseguiti da esperti professionisti che insieme al Centro Wellness e Fitness si estende su un’area di 1.300 m2. La gastronomia è un altro fiore all’occhiello dell’hotel con una cucina raf-

finata e un’attenta ricerca e selezione delle materie prime e degli ingredienti. Per tutti i gourmet ci sono anche le proposte del ristorante stellato Anna Stuben, situato in un’ala dell’albergo, dove gli amanti del buon cibo verranno sedotti dalle specialità dello chef Armin Mairhofer. I suoi menu, sono a base di deliziosi piatti ispirati alla cucina tradizionale e alle antiche ricette ma rivisitati e resi più moderni nella forma e nel gusto. Per gli appassionati dello sci l’hotel Gardena è strategico e ideale: gli impianti di risalita, che si immettono sullo splendido circuito della Val Gardena e sulla celebre Sella Ronda sono a 200 metri di distanza. Dal 9.01 al 13.02 l’offerta 7 pernottamenti in mezza pensione “Gourmet” compresi i servizi “Speciale Gardena” prezzi a partire da € 1.421 a persona.

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ABGEBILDETES MODELL: MX88 | TAILLIERUNG: SCHAUFEL 128 mm – SKIMITTE 88 mm – SKIENDE 113 mm | LÄNGEN: 158 cm, R 15 m – 168 cm, R 17.5 m – 178 cm, R 20 m – 188 cm, R 22.5 m

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