minimo numero uno

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foglio periodico di piccoli pensieri sull’ a r c h i t e t t u r a e sull’ a r c h i t e t t u r a d e l l e c o s e

francesco caroto, giovane con il disegno di un pupazzo, museo di Castelvecchio, foto di g.giagnotti, Verona, 2010

numero 1

febbraio 2011


fondato nel dicembre 2010 da alberto ficele, guglielmo giagnotti e rossella tricarico. | collaborazioni in questo numero di davide vulpio, elena garuccio, etienne le beschu de champsavin, ludovico fontana, rossella ferorelli. | si ringrazia l’ école nationale supérieure d’ architecture de versailles per aver accolto la rivista nella sua biblioteca. | contatti su minimoarch@gmail.com

editoriale

il corpo è dinamismo (e polis) trying to explain the complexity of urbanism

di g.giagnotti

studente di architettura, facoltà di Bari

I

l processo (del corpo), il progetto (della città) parte da una diagnosi, da un’ipotesi e da un sospetto: esso richiede la partecipazione degli astanti, li divide in partiti, si svolge seguendo procedure ritualizzate e si chiude con sentenze. Dal processo-progetto consegue un diverso assetto del futuro di scambi e interazioni inter partes. La realtà sensibile, la realta’ manifesta (pur esse non coincidendo quasi mai) reggono pertanto un ampio confonto con coloro che subiscono il processo. Tale figura di fatti ha orientato le pratiche urbanistiche del XX secolo secondo i principi di partecipazione democratica e corale al progetto: l’urbanisitica come pratica giuridica nell’antica Atene di-viene rappresentazione ontologica del sapere della città. E’ nel divenire che le figure della continuità

della regolarità dell’eqilibrio si inseguono, sovrapponendosi e confliggendo; tali figure sono state condivise a fini teleologici a costruire cioè uno stile propriamente analitico discorsivo alla base di ogni scienza e disciplina. In questo quadro L’urbanistica risulta piu un sapere ( decisamente sempre meno elegante di una scienza poiché pecca in fatto di unitarietà) eppur tale deve essere. Talvolta è capitato nella storia di associarla a menzione di architettura a grande dimensione: errore sovraumano che ha portato il moderno razionale al suo fallimento nella applicazione pratica. L’architettura come arte può significare il mondo umano e dargli nuovi significati, un’arte è un’opera che si sottrae alla verifica in senso stretto ma non puo sottrarsi al contesto di una partecipazione democratica. La scienza non può sottrarsi alla verifica.

allegoria della sezione urbana nella storia (ovvero le riflessioni grafiche su “sprawl town” di r. ingersoll), a.ficele, 2009

L’urbanistica nel suo cenno piu alto dovrebbe andare allora oltre l’idea di sapere ma rimanervi tale e superare la matrice quadrata che l’ha generata (l’architettura) poichè essa non potrebbe reggerla. Essa non puo’ ridursi (come accade) alla programmazione di infrastruttture, attrezzature, servizi e quant’altro. L’organizzazione spaziale indica qualità che non sono fisiche (si pensi a Lynch, Kevin): il tipo di rapporti sociali, la mobilità, le alternative di uso del tempo, il coagularsi di capacità inventive, tensione verso il rinnovamento, la cultura , gli altri uomini, la coscienza delle contraddizioni economiche e sociali. Lo sforzo di liberazione della società dall’oppressione di classe e strato.


architettura e significante

architettura e formalismi

architettura ed editoria

chiedici la parola

la tyrannie de la boîte

basta che ne valga la pena

di r. ferorelli

di e. le beschu de champsavin

di l. fontana

studente di architettura, école de Versailles

giornalista pubblicista

Dans la pratique comme dans les idées, la

Qui non è un problema di architettura,

the signifier and its signified according to architects studentessa di architettura, facoltà di Bari

Chiedici la parola. Ma poi non aspettarti che noi la si sappia usare.

Noi architetti, si sa, pensiamo per immagini. Con le parole siamo a proprio agio sì, ma, insomma, se per la penna che abbiamo in tasca ci dai in cambio una matita, non ci pensiamo su neanche un minuto. Perché, d’altra parte, gli architetti fanno le cose. Mica sono lì per dar loro un nome. A quello pensano quelli che si divertono con le parole, i letterati, i filosofi. I bambini (“Bitetta!”). Le mamme (no, amore. “Bi-ci-clet-ta”). I consulenti di marketing. I poeti. I preti (Ripetiamo. Questo è: peccato). Gli immigrati clandestini (Io sono solo un uomo). Le amanti tradite (Sei solo un uomo). I baristi. I dottori. Gli arbitri. Gli indovini. Gli scettici. I giudici. I giornalisti. I commercianti. I ladri. Gli stilisti. Gli scienziati. I moralisti. Insomma, a dare i nomi alle cose sono buoni tutti, non è poi un grande affare. Come dire: se arriva uno e, indicando una sedia, la chiama “elefante”, beh, non ce la possiamo mica prendere con l’architetto. No davvero. Certo, se poi quella sedia la chiama semplicemente “sedia”, allora possiamo star certi che non è un architetto. Un architetto l’avrebbe chiamata col suo nome vero. Il suo nome. Il nome vero di quella sedia. Insomma, se non si tratta di sedie, agli architetti le parole proprio non interessano. Le parole sono per gli scrittori. Eppure… Eppure giurerei che una signora, una volta, abbia detto: «Una delle possibili definizioni giuste di scrittore, per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sia a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura». Elsa Morante, mi pare che si chiamasse. E poi c’era quel tale col cognome strano, ricordo solo che di nome faceva Rem. Quest’uomo disse: «Volevo costruire, come scrittore, un mondo in cui potessi finalmente lavorare come architetto». Mah, visionari. No. Le parole proprio non sono per noi. Eppure talvolta sollevo lo sguardo dai disegni e penso che, mettiamo il caso, un giorno sorgesse un brutto palazzone all’angolo di un incrocio fondamentale della mia città. Mi ci potrei abituare? Ma sì, esistono tante cose brutte in tanti posti. E poi: mettiamo il caso che nel palazzone brutto si aprisse una gioielleria di dubbio gusto. Mi ci potrei abituare? Beh, il mercato è mercato. E poi: mettiamo il caso che a quel gioielliere venisse in mente di dare al palazzo il nome del suo negozio. Una cosa del tipo: “Palazzo Gioielli bellissimi”. Mi ci potrei abituare? O dovrei pensare all’importanza che i nomi dei luoghi rivestono nella storia delle città? A quante persone e famiglie che hanno dato il nome a quelle cose si deve la storia sulla quale camminiamo, senza nemmeno accorgercene? A quanto peso hanno quelle parole, nel definire un’identità urbana? A quanta fatica stiamo facendo, per continuare – o cominciare – ad averne una? Poi però, penso: sono solo parole, e io sono un architetto. E riprendo a disegnare.

the “box formalism” in architectural trends

boîte s’impose comme nouveau mode de pensée. Définie comme un contenant en matière rigide, de forme et de dimension variable, elle est entrée dans le langage courant des architectes. Mais cette tendance amène rapidement à une simplicité réductrice des outils de conception architecturale, voir de l’architecture elle-même ! La boîte, une entité indépendante, qui est conçue comme ayant sa propre autonomie physique et visuelle ; une autonomie, qui généralement, reste de surface ; la simplification d’une réalité bien plus complexe, faite de compromis… En passant du concept à la réalité du projet, la boîte s’ouvre, se décompose, fusionne, se fond dans d’autres éléments et à des niveaux variables. A ne pas se tromper dans le discours que l’on porte sur des tels éléments de composition: de l’organigramme à l’espace ; des espaces au projet ; du signal ou du symbole à l’image…

BIG process, form the Compact Organization to The public village

La boîte comme élément de composition architecturale commence doucement à prendre des allures de règle classique (de la juste proportion, de rythme, de couleur…), politiquement correct. Un formalisme standard, qui rassure d’un point de vu spatial, constructif ou économique… Un rationalisme non sans intérêt, mais dont le simple raccourci formel restreint dangereusement la réflexion sur l’architecture.

musèe de Quai Branly, J. Nouvel, Paris

La boîte comme un élément hermétique rompt avec son environnement extérieur…paradoxe d’une société qui se prétend être plus en phase avec son écosystème. Peut-être devrions-nous nous poser les bonnes questions, ou plutôt prolonger la réflexion « durable » au-delà de simples préoccupations techniques, dirigées par le marché de l’industrie ? Le contact, la continuité, la perméabilité ne sontils pas des termes plus justes à aborder ? Mais la question de la boîte comme élément hermétique pourrait aussi prolonger le débat sur la démarche de repli de nos sociétés, tels que : le repli identitaire, le repli sécuritaire, le repli de la sphère privée,…

boîtes, blog.move2b.fr

La boîte comme élément creux, sans poids, sans épaisseur, et finalement sans contenu: une solution miracle qui peut tout contenir et rien à la fois.

the sense of publishing a magazine

di filosofia, di ornitologia o di letteratura ungherese: il problema è che ne deve valere la pena. Se quattro ventenni decidono di fondare una rivista, se decidono di fondarla oggi, allora non conta molto se vanno fuori tema: l’importante è che quello che scrivano sia meritevole di essere elevato a rango di articolo. Ho un amico che dirige da anni una rivista cartacea gratuita che si basa sui contributi (gratuiti) di amici e aspiranti giornalisti. Da un paio d’anni, però, le offerte di collaborare si sono più che dimezzate. Il motivo è che ora le persone hanno mille strumenti per fare sentire la propria voce, e che lo possono fare senza alcun filtro, e senza dover chiedere nulla a nessuno. Chi prima scriveva per lui, o comunque era un suo nuovo potenziale collaboratore, oggi lo scrive sul suo social network. Secondo il mio amico, insomma, sono sempre di meno le persone che si sbattono per scrivere su una rivista cartacea che tanto chissà chi la leggerà. Già, chi saranno i lettori? Se la rivista è anche sul web, già è un altro discorso. Ma il moltiplicarsi degli strumenti del comunicare ha di fatto diminuito il numero delle persone realmente motivate a scrivere. Prima sui giornalini cartacei scrivevano un po’ tutti, anche quelli che non sognavano di fare quello per mestiere. Oggi ci sono altri modi per esprimersi, e quello della rivista è passato di moda. Ecco perché la sola idea di pensare a una rivista è apprezzabile. Certo, dire che oggi le riviste stiano scomparendo è una cazzata. Anzi, forse con l’iPad e le diavolerie varie ci sarà un rinascimento di riviste e fogli autoprodotti. Chissà. Certo è che, se si decide di fare questa esperienza, bisogna cercare di essere perlomeno più originali, o migliori di un post, di un aggiornamento di stato o di un commento su YouPorn. Mentre scrivo, chiedo la stessa cosa a me stesso: queste parole sono meritevoli di essere scritte su una rivista. La risposta è sì e la ragione è semplice: lo meritano perché sono pensate per questo. Sono una marea di cazzate, ma sono cazzate pensate espressamente per questo. Non le scriverò su Facebook. Poi, è chiaro, c’è il tema. Questa rivista ha scelto come tema l’architettura. Un argomento che sarà usato per dare spazio alle pippe mentali di chi deciderà di scrivervi. Il tema, insomma, è l’ultimo dei problemi. L’importante è che ci sia qualità, che uno legga queste parole e non pensi di avere tolto del tempo alla lettura dei tweet dei suoi amici. O almeno che pensi così per il primo numero. Perché poi forse il secondo numero di questa rivista già non esisterà più, perché l’editoria e il giornalismo cambiano ogni giorno, e questo cambiamento coinvolge anche i giornali ventenni intellettualoidi universitari e romantici come questo che avete tra le mani, o sull’iPad.


architettura e fisica

architettura e artigianato

architettura e interni

la fisica applicata ai sistemi umani

il liutaio

il collezionista di Baker Street

di e. garuccio

di d. vulpio

di r. tricarico

Basta con l’olio il pane e le mozzarelle.

Sherlock Holmes viveva al 221b di Baker Street.

how explain human systems through physical ones studentessa di fisica, facoltà di Bari

Se si potesse giocare una partita a scacchi,

con il mondo come scacchiera e gli uomini come pedine, l’unico avversario plausibile sarebbe senza dubbio l’insieme delle leggi fisiche. Questa affermazione deriva dalla constatazione che l’intera umanità nelle sue azioni segue comportamenti statistici spesso ben precisi. Giocare questa partita a scacchi, quindi, corrisponderebbe allo studiare, prevedere e calcolare le mosse di un avversario che conosce la distribuzione delle velocità di Maxwell-Boltzman, il punto di congelamento dell’acqua e così via. Bisogna chiarire fin dall’inizio che quando si parla di poter prevedere le azioni umane, non si intende la capacità di prevedere il futuro o i comportamenti di un singolo individuo, ma ci si vuole riferire all’analisi di un gruppo di individui per i quali le condizioni che caratterizzano il loro stato fanno sì che questi perdano in parte la loro individualità e che siano accumunati dai medesimi scopi (ciò semplifica il problema da analizzare). Lo strumento utilizzato per l’analisi scientifica della società umana è la meccanica statistica, intesa come studio del comportamento collettivo di un sistema di numerosi “oggetti” sottoposti alle medesime leggi fisiche e in una ben definita interazione.Sorge spontaneo in questa discussione un problema di etica; nel momento in cui gli esseri umani perdono la capacità di un pensiero singolo e originale, viene meno anche ciò che li distingue dagli animali cioè, il libero arbitrio. L’uomo in questa prospettiva, fa un ulteriore passo indietro rispetto alla centralità dell’universo e si chiede quindi se è realmente così speciale e così diverso dalla natura che lo circonda, così come affermava Blaise Pascal (Pensieri,347): “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua bastano ad ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire ed è conscio della superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo, invece, non ne sa nulla”. D’altronde è facile accorgersi che per l’uomo è spesso difficile distinguersi completamente dall’animale, ch’egli spesso antropomorfizza attribuendogli virtù, vizi e dignità umani, o facendone un simbolo. Le applicazioni di tale settore scientifico spaziano dalla possibilità di studiare ambiti economici, politici, culturali, o che riguardano la moda o la sicurezza alla possibilità di migliorare la qualità della vita, come per esempio il traffico autostradale o lo viluppo delle infrastrutture cittadine. La potenza di questo strumento è notevole, poiché permette di effettuare un’analisi critica e scientifica della società e quindi di apportare cambiamenti che favoriscano lo sviluppo di una comunità. Allo stesso tempo però rischia anche di essere un mezzo per controllare la società stessa, specie negli ambiti economici, politici e culturali; è quindi opportuno un ponderato utilizzo.

a day spent at the luthier’s studio studente di architettura , facoltà di Bari

Volevamo - per così dire - cambiare un attimo argomento delle nostre contemplazioni, preferendo che fosse la musica a spiccare e non, come sempre accade, l’ottimo cibo pugliese. Volevamo un liutaio (vero) e l’abbiamo trovato. Si tratta di un uomo sulla trentina, Fischetti Cosimo, ferroviere nel tempo libero - a detta del suo cognome - liutaio tutto l’anno. Nella per nulla turistica Lizzano fra questi roveti e questi olivi secolari, che alimentano penose retoriche territorialistiche di chi poi il suolo lo inquina realmente, sta lui col suo laboratorio piccolo quanto un appartamentino popolare, nell’interrato d’ un oramai ex garage. A Lizzano le strade sono larghe, le case ad un piano, indi le macchine le lasciate fuori. Entriamo. Passiamo da una strettoia - tra un vegetale infastidito ed il parapetto di una scala - e subito la piccola rampa del garage, dove troneggiano sbilenchi sacchi di intonaco premiscelato. Cosimo finalmente rifà l’habitat dei suoi strumenti. Mangia e dorme al piano di sopra, ma crea nell’interrato, o meglio vi lavora a tempo pieno. Entrando le macchine per tagliare e sgrossare le pesanti tavole in abete o acerino italiano con cui si fanno rispettivamente la tavola e il fondo del contrabbasso. La bottega pullula di trucioli, si cammina sui trucioli, vi si posano gli abiti, vi si spengono le sigarette. Tagliata e ben lisciata la tavola di acero la si accoppia ad una sua simile, con potente colla (siamo sullo spessore di quattro centimetri) e vi si disegna sopra la forma caratteristica tanto conosciuta del contrabbasso, con le sue volute barocche reiterate. Poi inizia il duro lavoro. Lavoro di subbia, sgorbia, reni e mazzuolo. Bisogna ora sgrossare - ma a mano - la tavola, che non ha certo una sezione dalla forma piatta: è curva, come curvo è l’universo e le onde sonore e le strade che abbiamo percorso per arrivare fin qui, col plauso di Niemeyer. È la mano che comanda, che tasta ripetutamente questo sacro legno con tutto quello che verrà a costare, ed è pur duro, per cui è d’obbligo il gradus con il quale si giunge allo spessore perfetto del fondo: circa otto millimetri. Le tracce degli strumenti (pure questi costosi, una subbia della qualità più ordinaria è sui trenta Euro) di questa delicata escavazione sono sempre rette rispetto all’altezza del fondo e si riconoscono perfettamente anche a lavoro finito, dove tutto è liscio. Cosimo lavora da un bel po’ di tempo ed è già pieno di ordinazioni, ha imparato l’antico mestiere degli Stradivari e degli Amati; prima di tutto il contrabbasso lo sa suonare e sa suonare pure il basso elettrico con portentosa abilità, ne fabbrica, ma non ne vende: “lo faccio per piacere, il lavoro qui non manca mai, anzi.” Persone normali che vestono in modo normale, uomini di lavoro e d’arte che fanno cose che in Puglia non si fanno (l’altro vero liutaio è a Lecce e si chiama Capodivento, poi stop), i cui committenti sono di tutti i tipi, l’importante è che il prodotto sia eccellente.

a “noir” history about objects and surfaces exhibition designer

Martin abitava non distante da lì, in una casa vittoriana le cui memorie erano ben nascoste da moquette rosa biscotto e carta da parati in tinta, impreziosita da un borghese motivo damascato. Era un pezzo di ragazzo, molto curato e dall’aria affabile. Ereditò quella casa e un bel conto in banca quando era appena maggiorenne. Da allora la sua “occupazione” fu la nullafacenza, interrotta da insaziabili ricerche di oggetti che potesserorompere la monotonia delle sue stanze. Era una sorta di collezionista, seppur non sia possibile definire i suoi criteri di selezione. In generale era attratto da forme aguzze e lame ma al contempo aveva una certa predilezione per le forme zoomorfe, infatti alla sua collezione di animali impagliati s’era aggiunto anche uno sgabello ricavato dallo stampo di una carcassa di cinghiale: campeggiava nel bel mezzo della sala da thè a ridosso di una mucca messa “a tappeto”. Quell’angolo di casa era diventato il suo altare, sebbene ci fosse solo una seduta, tant’è che aveva deciso di compiere l’estremo gesto di rimuovere la polverosa moquette. Aveva inoltre avuto l’accortezza di munire ogni stanza di un fermacarte, in vetro, pietra o lega metallica, che non sempre rispondeva alla sua funzione: talvolta fermava una porta, tal’altra bloccava libri su una mensola. Ad ogni modo si presentava come ragazzo affabile. Riusciva con facilità a celare i suoi furoriparossistici, o meglio, riusciva a trattenerli in casa, scaricandoli in quotidiane abrasioni al rivestimento delle pareti. La cosa aveva dato i suoi frutti, se proprio vogliamo trovare un aspetto positivo in tutta questa manfrina, che consentiva di visualizzare sulle pareti del sontuoso appartamento una percorso storico fatto di cromatismi e florescenze. Prima era stata la volta del glicine misto a oro, poi del rosso pompeiano col bianco giglio, poi ancora ocra con fogliame in rilievo. La scoperta non aveva destato in lui nessun entusiasmo poiché aveva una specie di avversione per le superfici verticali e ne conosceva benissimo la causa: Sherlock Holmes e la sagoma del suo profilo. Era presente sulle pareti della fermata metropolitana di Baker Street. Ogni singolo profilo era composto da centinaia di profili riprodotti su piccole piastrelle in bianca ceramica smaltata che nella sua testa andavano moltiplicandosi. Il personaggio era stato protagonista dei suoi traumi infantili tanto da provocare in lui siffatta avversione. Messo il naso fuori casa si sentiva costantemente controllato e perseguitato, trovò quindi opportuno vietare l’accesso della sua dimora a chicchessia. La cosa gli riuscì per un po’ di anni finché, data la fama di “ricco collezionista” di cui godeva, venne preso di mira da un ladro professionista di origine scozzese. Il malcapitato ahimè non sapeva che ad accoglierlo ci sarebbero state folle di oggetti contundenti e mentre si accingeva a fuggire dalla finestra della cucina un colpo alla nuca lo fermò: un metallico corpo alieno affondò le zampe nel suo cranio. Si trattava di uno spremiagrumi. Martin fu arrestato 5 giorni dopo l’accaduto. Sherlock Holmes aveva colpito ancora.


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