Logosnet_Società della conoscenza e formazione

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SOCIOLOGIA DEL LAVORO N. 103

SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E FORMAZIONE A cura di Barbara Bertagni, Michele La Rosa e Fernando Salvetti Scritti di Angelo Benozzo, Barbara Bertagni, Trevor Boutall, Massimo Bruscaglioni, Lorenzo Cantoni, Ulderico Capucci, Michele La Rosa, Lauro Mattalucci, Paolo Minguzzi, Claudia Montedoro, Franco Nanetti, Roberto Panzarani, Dunia Pepe, Claudia Piccardo, Gian Piero Quaglino, Emilio Rago, Fernando Salvetti, Elena Sarati, Francesca Serra, Chiara Succi, Laura Tucci.

Angeli


Hanno collaborato al presente volume: Angelo Benozzo, Università della Valle d’Aosta Barbara Bertagni, Logos Knowledge Network e Centro Studi Logos Trevor Boutall, The Management Standards Consultancy Massimo Bruscaglioni, Università di Padova Lorenzo Cantoni, Università della Svizzera Italiana di Lugano Ulderico Capucci, Associazione Italiana Formatori Michele La Rosa, Università di Bologna Franco Nanetti, Università di Urbino Lauro Mattalucci, Consulente di gestione del personale e sviluppo organizzativo Paolo Minguzzi, Università di Bologna Claudia Montedoro, Isfol Claudia Piccardo, Università di Torino Roberto Panzarani, Università La Sapienza di Roma Dunia Pepe, Isfol Gian Piero Quaglino, Università di Torino Emilio Rago, Osservatorio Permanente sulla Formazione Manageriale della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Milano Elena Sarati, Consulente di gestione e sviluppo del personale Fernando Salvetti, Logos Knowledge Network e Centro Studi Logos Chiara Succi, Università della Svizzera Italiana di Lugano Francesca Serra, Isfol Laura Tucci, Specialista in gestione e sviluppo del personale in un gruppo multinazionale


Indice

Presentazione, di Barbara Bertagni, Michele La Rosa e Fernando Salvetti Parte prima La formazione oggi: ruolo e prospettive, di Claudia Montedoro, Dunia Pepe e Francesca Serra La formazione nella società della conoscenza, di Ulderico Capucci Come e perché parlare di metacompetenze per la formazione, di Michele La Rosa Knowledge governance e dintorni: il futuro prossimo venturo del lavoro manageriale, di Fernando Salvetti Una formazione centrata sulla persona, di Gian Piero Quaglino La microcultura personale ‘empowerment oriented’, di Massimo Bruscaglioni Lo spazio della formazione per le comunità di pratiche, di Claudia Piccardo e Angelo Benozzo Accettazione e rifiuto dell’eLearning nelle organizzazioni: una mappa, di Lorenzo Cantoni e Chiara Succi 5


Parte seconda Self-empowerment: per non morire di lavoro, di Barbara Bertagni La leadership situazionale tra immaginario e realtà, di Franco Nanetti Intangibles, processi di ricerca e innovazione, di Roberto Panzarani Gestione della conoscenza e nuovi paradigmi formativi: i risultati di un’indagine, di Paolo Minguzzi Competenze senza incubi: i National Occupational Standards, di Trevor Boutall Oltre la formazione apparente: dalle comunità di apprendimento alle comunità di pratica, di Lauro Mattalucci e Elena Sarati La formazione e il movimento. La formazione… vero cambiamento per le persone e le organizzazioni, di Laura Tucci La valutazione quantitativa della formazione aziendale. Dalle misure economico-finanziarie agli indicatori bilanciati, di Emilio Rago Summaries

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Presentazione di Barbara Bertagni, Michele La Rosa e Fernando Salvetti

Il presente volume affronta un tema strategico: la formazione nella società dell’informazione e della conoscenza. La società del terzo millennio è assai diversa da quella per la quale era stato progettato il sistema di istruzione che stiamo per abbandonare (scuola) o è stato abbandonato (università). Globalizzazione, new economy, finanziarizzazione dell’economia, apertura dei mercati internazionali sono alcuni degli elementi che caratterizzano le società nelle quali viviamo e con le quali i sistemi formativi devono oggi fare i conti. Negli scenari attuali, la risorsa economica di base non sono più (o soltanto) il capitale finanziario o il lavoro e tanto meno le risorse naturali, ma le relazioni, le conoscenze, il capitale umano e intellettuale. Le conoscenze, le capacità e l’immaginazione, così come il networking per la messa a fattor comune di esperienze, capacità e conoscenze e, quindi, la capacità di apprendere, contano più dei capitali fisici, tecnologici e finanziari tradizionalmente al centro degli scenari economici ed organizzativi. L’esigenza di formare persone con elevate qualifiche, calate sulla cultura locale, deve sapersi conciliare contemporaneamente con la necessità di fornire quelle competenze necessarie per rapportarsi ad una società che non ha altri confini che non siano quelli planetari. Ciò anche alla luce delle principali trasformazioni del mercato del lavoro, che pongono l’accento sull’importanza della circolazione del sapere in una logica tesa alla formazione dell’individuo non solo nelle sue componenti legate al lavoro e alla sfera produttiva, ma anche nel rispetto della sua crescita personale e sociale (empowerment e self-empowerment) quale soggetto responsabile ed attivo anche sul piano del sapersi mettere e rimettere in gioco in mercati del lavoro mobili, fluidi, flessibili e precari. Centrale diviene il ruolo dell’individuo come risorsa, in cui l’identità professionale richiama non solo abilità di ordine tecnico, ma anche un capitale umano da costruire e ricostruire lungo tutto l’arco dell’esistenza. 7


Cambiano quindi le caratteristiche richieste ai “nuovi” lavoratori: a questi non vengono semplicemente chieste conoscenze generali o competenze specialistiche, ma anche e soprattutto propensione ad apprendere, capacità di cogliere i segnali di cambiamento e di reagire ai problemi, flessibilità e mobilità. Alle competenze tradizionali si aggiungono oggi competenze di carattere generale e trasversale (o metacompetenze), che consentono quindi al lavoratore di muoversi in contesti sempre meno regolati. Così come l’e-competence è un termine, e una richiesta, sempre più presente negli scenari delle nostre vite, lavorative e non. L’uso della parola competenza nella riflessione sul sapere e sul sapere fare è da tempo oggetto di dibattito, poiché si tratta di un concetto dai contorni sfumati, che non a caso viene utilizzato per esprimere l’ambivalenza di mutamenti culturali che riguardano il passaggio dalla centralità del concetto di insegnamento a quello di apprendimento, e, in riferimento al sistema socio-produttivo, il passaggio dal fordismo al post-fordismo e alla conseguente crisi delle tradizionali categorie utilizzate per inquadrare il lavoro e le professioni. Se si assume questa prospettiva, riflettere sul formare e sull’educare significa non tanto soffermarsi sui contenuti (i singoli saperi, le discipline), ma sul modo in cui si predispone un soggetto all’apprendimento. Nell’attuale società i saperi subiscono una continua trasformazione in qualsiasi campo, e nuovi saperi entrano continuamente e velocemente nel complesso scenario della conoscenza. Non è più possibile continuare a riprodurre le conoscenze nei modi tradizionali e, se le istituzioni formative (in primis la scuola e le università) non si adegueranno nell’organizzare nuove modalità di trasmissione dei saperi, correranno il rischio di essere emarginate dalle nuove infrastrutture di produzione della conoscenza. Il concetto di apprendimento, così come quello dei saperi in rete e del networking, diviene il nucleo intorno al quale ruota l’impostazione della formazione oggi, a qualsiasi livello, in una prospettiva che ne sottolinea il carattere costruttivo: ogni soggetto si impegna nella costruzione delle proprie abilità, assume consapevolezza del proprio punto di vista, in una continua attività di organizzazione e di ri-organizzazione delle proprie conoscenze e capacità, in un processo in cui la persona assume (o dovrebbe assumere) un ruolo attivo, con un accento particolare sul modo in cui si apprende e in cui si produce apprendimento. Per quanto riguarda, in particolare, le aziende e le altre organizzazioni, solo negli ultimi anni la maggior parte dei “managers” hanno cominciato a considerare conoscenze e competenze come risorse strategiche che dovrebbero gestire allo stesso modo in cui gestiscono i flussi di cassa, il personale o le materie prime. E specialmente per le organizzazioni che puntano ad essere learning organizations, ovvero “sistemi cognitivi” in grado di strutturare le conoscenze e i comportamenti di coloro che ne fanno parte, 8


la knowledge governance – e quindi la gestione del capitale umano e intellettuale, così come degli altri “intangibles” – costituisce un obiettivo strategico (e quindi critico). Il lavoro manageriale del futuro prossimo venturo sarà connotato, ben più di oggi, in termini di sviluppo del capitale umano e intellettuale: creazione di conoscenza organizzativa, gestione e sviluppo delle conoscenze, delle capacità e delle abilità, per diffonderle all’interno/esterno delle organizzazioni e tradurle in prodotti, servizi e sistemi. Con l’avvertenza che la conoscenza è un oggetto complesso e poliedrico: accanto a conoscenze verbali (o comunque verbalizzate e narrate) o numeriche, troviamo insights soggettivi, intuizioni, modelli mentali, credenze, percezioni e varie forme di quella che viene solitamente definita “conoscenza tacita” e che ci ricorda che noi possiamo conoscere e saper fare più di quello che sappiamo esprimere e, inoltre, che le conoscenze più preziose difficilmente possono essere insegnate e trasmesse con modalità dirette, appartenenti alla famiglia di quello che siamo abituati a ricondurre al “razionalismo cartesiano”. Ben sapendo che le tecnologie da sole non possono garantire l’utilizzo ottimale del capitale umano e intellettuale e che l’elemento chiave più rilevante per un pieno utilizzo (o, se vogliamo, per un efficace “sfruttamento” produttivo) delle conoscenze e delle capacità è costituito dal consolidamento di una cultura organizzativa volta a incoraggiare e supportare la condivisione delle conoscenze e delle competenze.

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Parte prima

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La formazione oggi: ruolo e prospettive di Claudia Montedoro, Dunia Pepe e Francesca Serra*

1. La ridefinizione dei percorsi conoscitivi e professionali nella knowledge society Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ed il fenomeno della globalizzazione sono tra i fattori che contribuiscono maggiormente a caratterizzare l’attuale società come ‘società della conoscenza’ o ‘società dell’informazione’. Il Libro Bianco della Commissione Europea – Crescita, Competitività Occupazione – già nel 1995 sottolineava come la diffusione delle Ict avrebbe influenzato il nostro modo di comunicare, di lavorare, ma anche abitudini e tempo libero. L’imponente sviluppo dei mezzi di comunicazione avrebbe rappresentato l’origine di un accorciamento delle distanze spaziali e temporali, della nascita di società multinazionali e transnazionali e quindi della globalizzazione delle culture. I cambiamenti socio-economici degli ultimi decenni, osserva Domenico Lipari1, sono in primo luogo riconducibili ad una profonda trasformazione della natura del lavoro e delle professioni; all’imprescindibilità della variabile tecnologica e del settore dei servizi ai fini del benessere economico; alla ‘mondializzazione’ delle relazioni e degli scambi economici, accompagnata da un crescente dinamismo dei tempi e delle modalità di scambio; alla crucialità dei processi di produzione e gestione dell’informazione, anche alla luce dell’impossibilità di una pianificazione di lungo periodo connessa all’aumento della velocità di cambiamento e alla ridotta possibilità di stabilità. * Per l’elaborazione di questo articolo Claudia Montedoro ha scritto il paragrafo 2, Dunia Pepe ha scritto il paragrafo 3 e Francesca Serra ha scritto il paragrafo 1. 1. Lipari (2002, p. 95).

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Proprio perché sono immerse nella società della conoscenza e proprio perché sono rivolte soprattutto alla creazione di conoscenza, le istituzioni e le organizzazioni si trovano oggi ad affrontare contraddizioni e difficoltà del tutto nuove2. Nell’era della globalizzazione le organizzazioni debbono essere in grado di raggiungere l’integrazione globale e l’adattamento locale allo stesso tempo; debbono saper affrontare contesti diversi in termini di forza lavoro, clienti, fornitori, imprese correlate; debbono avere, infine, la capacità di gestire il loro contesto interno e contemporaneamente di superarlo per poter funzionare in modo efficiente e vincere le sfide della globalizzazione. Le possibilità per un’impresa di vivere, di crescere, di gestire le contraddizioni e le incertezze sono legate dunque all’entità, alla ricchezza ed alla flessibilità del suo patrimonio di conoscenze. Le organizzazioni che hanno più chances sono quelle capaci di gestire forze contraddittorie, quali competizione e cooperazione, integrazione e disintegrazione, creatività ed efficienza. Le organizzazioni debbono avere il tempo e la possibilità di costruire e consolidare le loro conoscenze, di accumularle e replicarle, debbono saper convertire le conoscenze tacite in esplicite e debbono saperle utilizzare efficientemente e velocemente se vogliono essere competitive sul mercato3. È all’interno di questa prospettiva che il concetto di ‘Società dell’Informazione’ si trasforma in ‘Società della Conoscenza’. “I saperi individuali acquisiscono primaria importanza; la crescente complessità dello scenario economico e sociale richiede non solo l’acquisizione di nuove informazioni, ma anche la capacità di produrre e sviluppare nuove conoscenze e competenze necessarie ad affrontare compiti evolutivi e sociali per lo sviluppo individuale, professionale e civile. L’accento è posto sulla ‘pervasività’ delle conoscenze, dei saperi, delle competenze tanto nel lavoro quanto nella vita individuale e sociale, nell’economia e nelle politiche di sviluppo”4. L’apprendimento lungo l’intero corso della vita diviene un vero e proprio diritto alla cittadinanza attiva il cui esercizio è necessario come fattore produttivo, come fattore di crescita individuale e di sviluppo delle risorse umane ma anche come fattore di coesione sociale5. Con i Consigli di Feira e Lisbona, nel 2000, l’Unione Europea dedica un asse prioritario ai temi dell’istruzione e della formazione permanente. Il buon esito della transizione verso un’economia e una società basate sulla conoscenza non 2. Nonaka e Toyama (2003, p. 83). 3. Ibidem. 4. Alberici (2002, pp. 10 -11). 5. Ibidem.

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può non essere accompagnato da un orientamento verso l’istruzione e la formazione permanente. Nei documenti programmatici dell’UE con il termine lifelong learning si indicano tutte le attività di apprendimento finalizzate a migliorare le conoscenze, le abilità e le competenze in una prospettiva personale e civica, sociale e occupazionale. Tutto questo nella prospettiva di realizzare i quattro grandi obiettivi della cittadinanza attiva, della possibile realizzazione da parte di ciascun individuo, dell’inclusione sociale e dell’occupabilità attraverso tutte le possibili attività di apprendimento: formale, non formale ed informale. Del resto già nel 1970, Paul Lengrand nell’Introduzione all’educazione permanente, scritta per l’Unesco in occasione dell’anno internazionale dell’educazione, sottolinea che l’educazione non riguarda solo l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze, ma lo sviluppo dell’individuo nella sua interezza. Ne deriva che i compiti della formazione si declinano in due specifiche direzioni: favorire l’attivazione di strutture e di metodi per aiutare gli individui nella continuità del loro apprendimento e della loro formazione per tutta la vita e attrezzarli, anche attraverso le forme molteplici dell’autoapprendimento, affinché possano essere artefici del loro sviluppo. Il sistema di accesso al mondo del lavoro si caratterizza sempre più per le richieste di crescente qualificazione verso qualsiasi categoria professionale a livello di competenze sia di tipo professionale, sia di tipo tecnico, sia di natura trasversale, soprattutto nei termini di capacità di reagire al cambiamento. All’interno di questa prospettiva sono evidenti i rischi di esclusione di coloro che non sono sufficientemente competenti o che non rispondono alle richieste del mercato. “Il tratto coercitivo della scena organizzativa e del mercato, scrive Quaglino6, è divenuto più pressante per l’individuo, che si trova sempre più spesso nella condizione di dover ripartire alla ricerca di un’occupazione dopo che la precedente è andata con il tempo esaurendosi”. A fronte di questa situazione gli obiettivi della formazione e dell’orientamento tendono sempre più a porre l’accento sulle capacità di azione degli individui. “L’individuo, osserva Aureliana Alberici7, oggi è chiamato a costruire da sé le proprie certezze, preoccupandosi, in prima persona, delle possibilità di inserimento nel mercato del lavoro attraverso l’istruzione e la formazione. Del resto non bisogna dimenticare che ciò che caratterizza il fenomeno dell’esclusione nelle moderne società sta anzitutto nella mancata 6. Quaglino (2003, p. 18). 7. Alberici (2002, pp. 10-11).

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inclusione nel lavoro e nella società civile, la quale passa quasi sempre per una ‘esclusione formativa’ in senso stretto o attraverso un dirottamento di strati di popolazione verso una formazione debole, in quanto inadeguata ai bisogni delle moderne società. A ciò si aggiunge il fatto che, venute a mancare importanti garanzie quali la sicurezza economica, lavorativa, di appartenenza politica, religiosa, familiare ecc., aumenta il senso di incertezza di tutti i cittadini in genere. Emergono nuovi bisogni di sicurezza, il cui soddisfacimento è avvertito dal soggetto come necessario al fine di divenire più forte e autonomo come persona; potersi orientare tanto nel lavoro quanto nella vita sociale; dare significato alla massa di informazioni e all’agire quotidiano scoprendo reti di significati e rafforzando così la fiducia in se stesso; accrescere le proprie competenze tanto nel lavoro quanto nell’ambito più ampio della realtà sociale”. “I processi di trasformazione della realtà istituzionale ed organizzativa evidenziano, in primo luogo, il passaggio da una logica gerarchica ascendente (gioco dell’up-down o del down-up) ad una dinamica sociale che si sviluppa in orizzontale (gioco dell’in-out). Al soggetto necessita non tanto la capacità di affinare le proprie performance in funzione di una progressione di carriera, nell’ambito di uno stesso lavoro o di una stessa azienda, quanto, piuttosto, la capacità di transitare da una funzione ad un’altra e da un ambiente di lavoro ad un altro”8. Un secondo significativo passaggio riguarda la progressiva riduzione del lavoro dipendente a vantaggio di quello indipendente, nell’ambito di un sistema workless growth, in cui la crescita non necessariamente porta lavoro9. Il soggetto, non più supportato e gestito dal proprio contesto lavorativo, si trova nella condizione di dover fare affidamento sulle proprie capacità e potenzialità, che riguardano, soprattutto, il saper individuare gli ambiti d’azione più confacenti alle proprie caratteristiche, per un verso, e il saper agire al fine di incrementare la possibilità di usufruire della formazione, per l’altro. Il fattore solitamente indicato come il ‘sapere al lavoro’ nella prospettiva di Fontana e Varchetta10 se, da un lato, rappresenta un risorsa strategica fondamentale della società contemporanea, dall’altro, rappresenta il fondamento di un’incertezza e di una competizione incessante. Vivere e lavorare oggi nelle organizzazioni è molto più preoccupante e affaticante di un tempo anche per chi occupa posizioni di responsabilità. Rispetto alle diffi8. Cunti (2000, p. 58). 9. De Rita (1998, pp. 27-35). 10. Fontana e Varchetta (2005 p. 87).

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coltà di vivere oggi nelle organizzazioni e rispetto alla necessità da parte degli individui di dover costruire e ricostruire i loro percorsi di carriera, scrive Edgar Morin11, la formazione sembra avere “il compito di colmare il senso di vuoto e di inadeguatezza e di facilitare il rinnovamento rapido del proprio modo di guardare al mondo. La formazione e, in particolare, la formazione lifelong learning diventa in ultima analisi uno strumento capace di sostenere l’individuo nell’incertezza”. Il momento formativo diventa un’essenziale risposta ad una situazione problematica, legata ad una mancanza/carenza di saperi, conoscenze, competenze considerate necessarie per affrontarla12. Le ricerche più recenti sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei lavoratori nei confronti della formazione ci dicono che continua a crescere l’interesse e che aumenta il numero degli individui che scelgono di passare parte del proprio tempo libero ad arricchirsi professionalmente. C’è da dire, però, che non è ancora chiaro se queste scelte siano da imputare alla necessità di costruirsi in anticipo nuove vie di fuga da settori in crisi o all’intenzione di migliorare le proprie performance nel proprio ambito lavorativo. Dall’analisi delle tipologie dei corsi che vengono frequentati si direbbe che i lavoratori vogliano crescere culturalmente per sentirsi più adeguati al mondo del lavoro attuale ma che, allo stesso tempo, non abbiano ancora chiaro il modello di impegno professionale che li vedrà occupati negli anni a venire13. Attraverso l’educazione permanente non solo l’individuo cerca di superare le sfide del cambiamento nella propria sfera personale, ma cerca altresì di dare un senso al proprio ed all’altrui agire, di partecipare attivamente sul terreno politico, sociale, culturale alla vita singola e associata. “Queste sono alcune delle principali caratteristiche che contribuiscono a comporre il profilo di una società segnata dalla precarietà delle scelte individuali e quindi dall’obbligo, per il soggetto, di decidere”14. “La centralità del soggetto chiama fortemente in causa il concetto di responsabilità, da intendere sia come gestione autonoma e consapevole delle proprie attività, anche in situazioni di lavoro dipendente, sia come costruzione di un capitale di conoscenze e di pratiche permeabile alla sua modificazione e ricostituzione. Le caratteristiche del sistema sociale, per un verso, e quelle che connotano l’adultità nell’attuale momento storico, per l’altro, pongono in primo piano l’emergenza formazione, che apre la riflessione pedagogica sugli scenari dei diversi ambiti del sociale, in cui l’individuo 11. Morin (1999). 12. Alberici (2002, p. 48). 13. Rapporto ISFOL 2005 (sintesi), pp. 17-18. 14. Cunti (2000, p. 59).

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interagirà con intenzionalità e modi diversi in relazione alla formazione acquisita”15. Relativamente a queste problematiche, Pineau osserva come la formazione sia diventata antropoformazione, vale a dire un processo attraverso cui l’uomo si ‘dà una forma’ in quanto soggetto nell’interazione tra la vita nel suo complesso e le forme individuali che essa può assumere. “In particolare, lo scenario attuale della formazione appare dominato da quattro grandi temi: la fenomenologia ermeneutica dell’esperienza, l’esplorazione e l’interpretazione della nostra esperienza, la ricerca di senso e il ‘darsi una forma’. I processi di ricerca di senso e di costruzione di una propria forma sono obiettivi, mentre quelli connessi all’analisi dell’esperienza e alla sua interpretazione sono strumenti attraverso cui raggiungere tali scopi. È proprio dell’organismo umano, infatti, il cercare di conseguire una forma esistenziale compiuta di cui è parte integrante anche la propria ‘forma professionale’. Ciò motiva la ricerca di un senso, composto, in primo luogo, a partire dalla propria esperienza. La formazione, dunque, non può che essere esplorazione e traduzione interpretata e interpretante di questa stessa esperienza, che, però è spesso tacita e sconosciuta”16. Una buona formazione è, secondo Demetrio, un’esperienza di carattere trasformativo la cui peculiarità è quella di generare altra domanda di formazione nel momento in cui incoraggia l’interrogazione di sé. La formazione deve, infatti, essere intesa come sviluppo di un processo di interrogazione personale. Quando essa è capace di attivare questa messa in discussione, allora il soggetto è predisposto all’autoformazione: nel momento in cui il soggetto si percepisce arricchito e mutato, può percepirsi autosufficiente tanto sul piano della gestione delle relazioni quanto a livello di ‘gestione’ della propria soggettività e della persona; in altre parole il processo di cambiamento innesca processi di autonomizzazione, di autorealizzazione e di autoappropriazione. La realtà del lavoro e della formazione, scrivono Fontana e Varchetta, danno vita oggi ad un quadro contraddittorio e difficile. Ma è dall’interno delle contraddizioni che emerge comunque una domanda irriducibile di soggettualità, da parte di coloro che abitano le organizzazioni e vogliono lì formarsi. “Una preghiera individuale tenacemente orientata al recupero di un significato personale del lavoro e una richiesta collettiva di reciprocità e riconoscimento sociale attraverso il lavoro… In altre parole, l’individuo – più solo di un tempo – ha ora la possibilità concreta di conquista15. Sarracino (2003). 16. Pineau (2004, p. 62).

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re ‘sporgenze individuali’ negli eventi organizzativi, assumendosi individualmente la responsabilità di tale sforzo progettuale ed esecutivo”. Si tratta di una scelta, non banale né scontata, espressa da donne e uomini che, “nel proprio progetto di vita e lavoro non rinunciano a cercare se stessi e gli altri e non temono la lotta per il riconoscimento”17. È proprio attraverso il riconoscimento che gli individui cercano di non sostare inutilmente, di non ripiegarsi su di sé e di entrare in relazione con gli altri. È attraverso il riconoscimento, in definitiva, che gli individui cercano di costruire un sentimento di appartenenza alle dinamiche della formazione e del lavoro, una sorta di ‘cittadinanza’, per dirlo con le parole di Massimo Tomassini. Ed è importante sottolineare come, in questa moderna città, proprio come avviene nella politeia dell’antica Grecia, la cittadinanza non sia uno status passivo legato alla nascita ed al territorio, ma un sistema che nasce organicamente dall’agire dotato di senso delle persone e chiama in causa una pluralità di competenze cognitive, affettive, sociali, discorsive, etiche, riflessive”18. 2. L’innovazione dei modelli formativi e l’apprendimento di competenze strategiche L’esigenza di un rinnovamento profondo della cultura della formazione tende ormai da alcuni anni, osserva Domenico Lipari19, a configurarsi come un bisogno diffuso in una crescente varietà di contesti tecnici e professionali. Ciò che appare decisivo, per le organizzazioni esposte alla competizione internazionale, è la capacità di innovare e di trasformare. E poiché l’innovazione è in larga misura legata alla possibilità di organizzare ed attivare capacità riflessive sull’esperienza accumulata nelle pratiche lavorative consolidate, emerge con forza la priorità e la centralità, per questo tipo di organizzazioni, della risorsa umana, del capitale intellettuale, dell’investimento in ricerca e in saperi innovativi. Si delinea dunque in modo sempre più definito una nuova logica, opposta a quella della razionalizzazione, e basata sull’intreccio di quattro essenziali dimensioni: la capacità di innovazione; il capovolgimento del rapporto quantità-qualità nel senso del primato della qualità; la centralità della risorsa umana; la capacità di ascolto e di apprendimento. 17. 18. Tomassini (2004, pp. 18-19). 19. Lipari (2005, pp. 11-12).

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Il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale ha trasformato definitivamente il modo di lavorare e richiede a tutti i diversi attori una competenza strategica ‘primaria’, di tipo ‘meta’, quella di governare l’incertezza e di affrontare attivamente il cambiamento. Adattarsi, anticipare, innovare, rischiare, diventano quindi competenze strategiche di primaria importanza, attrezzi culturali di sopravvivenza di soggetti e organizzazioni. Al lavoratore oggi sono richieste complesse ed articolate doti umane, competenze e cultura per affrontare e gestire il cambiamento, per essere competitivi a livello globale. La centralità del concetto di apprendimento si traduce definitivamente nel concetto di metacompetenza intesa come capacità, da parte dell’individuo, di adattarsi alle dinamiche evolutive del suo sistema professionale di riferimento, di sapersi orientare nel mercato del lavoro, di trasformare e ricostruire continuamente gli strumenti che gli consentono di entrare e rientrare nel mercato del lavoro. Nella società della conoscenza la categoria fondamentale dell’esperienza professionale è la capacità di apprendere ad apprendere. Capacità che implica una pluralità di dimensioni: cognitive, emotive, sociali, linguistico-narrative. Questa categoria, scrive Aureliana Alberici, riguarda una disposizione fondamentale, flessibile e adattiva, legata a capacità individuali relazionali, affettive, di responsabilità, orientamento, progettazione e intervento sul reale. Si tratta di ciò che in altri termini si può definire la metafora degli “attrezzi del mestiere per comprendere e per poter essere attori sociali nella Knowledge society”20. Il fondamento del concetto di competenza non sembra rappresentato tanto da situazioni oggettive, quanto dal soggetto e dalla sua intenzione di mettere in discussione e di ricostruire le proprie competenze. Ed è proprio in questo senso che le metacompetenze danno senso e significato forte alla categoria dell’apprendere ad apprendere, quale categoria fondamentale del lifelong learning. Le competenze strategiche tendono a configurarsi realmente nei termini della capacità da parte di ogni individuo di saper costruire e ricostruire continuamente i propri strumenti professionali ed esistenziali per far fronte alle condizioni di variabilità del proprio ambiente di riferimento. La metacompetenza, scrive Giuseppe Varchetta21, definisce un territorio ‘oltre’, di secondo ordine, nel quale le donne e gli uomini dispiegano le proprie abilità/dimensioni più alte, nel tentativo di inventare un senso a quanto sta a loro accadendo rispetto alle interazioni diverse in20. Alberici (2002). 21. Varchetta (2003, p. 14).

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trapsichiche e interpsichiche, delle quali sono autori e coautori, all’interno di un processo di comunicazione non predefinito da procedure impositive ma caratterizzato da una forte disponibilità all’ascolto, al confronto, all’attenzione. In ambito istituzionale ed organizzativo così come in ambito formativo si rende necessario mobilitare il soggetto stesso, le sue risorse, le sue capacità, la sua energia, le sue possibilità reali di influenzare ciò che lo riguarda, il suo ‘potere’. Dove, in questo caso, con la parola ‘potere’ (power) non si riferisce al potere esercitato da qualcuno su qualcun altro, bensì all’empowerment, al potere ‘interno’, caratteristico del mondo interiore della persona. Diverse competenze e metacompetenze assumono grande rilevanza in relazione alla dimensione dell’individuo ed al rafforzamento della sua sfera interiore: la responsabilizzazione, la fiducia nell’uso delle proprie competenze, il pensiero operativo positivo, la capacità di saper valutare e gestire le risorse disponibili, la fiducia verso i futuri intervenienti, controllabili e non controllabili. Metacompetenze teoriche ed applicative ricorrono all’interno di una logica fortemente interattiva. Alcune competenze di base sono “alimentatrici, per non dire conditio sine qua non, di diverse metacompetenze applicative quali l’orientamento ad apprendere, la flessibilità, l’innovatività, la responsabilizzazione, la posizione proattiva”22. Tutto questo comporta la definizione di dispositivi e modelli attivi di formazione in cui giocano un ruolo centrale l’individuo in formazione ed il processo stesso di apprendimento. Nel dominio della ‘Formazione Professionale’, il principale movente della domanda di metacompetenze è rappresentato dall’esigenza di acquisire ‘strumenti di gestione dell’incertezza: sono i giovani, i disoccupati, le categorie svantaggiate, coloro che, superati i cinquanta anni di età, devono affrontare nuove transizioni nel mondo del lavoro ad avanzare la richiesta di formazione alle metacompetenze. La capacità da parte degli individui, di costruire nuove competenze durante il percorso di formazione, sembra trarre origine da un processo di evoluzione individuale che permette di “superare la percezione di un universo chiuso e di uno spazio limitato e di delineare un orizzonte aperto nel quale l’individuo diventa capace di rimettere in gioco le proprie capacità orientamento, le possibilità di ricostruire e di ridefinire i suoi strumenti di conoscenza e di azione”23. “È grazie a questo percorso, scrivono Leonardo Verdi Vighetti e Irene Bertucci, che l’individuo arriva ad una metacompetenza fondamentale: 22. Bruscaglioni (2003, pp. 282-283). 23. Verdi Vighetti e Bertucci (in preparazione).

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l’apprendere ad apprendere. Questa metacompetenza, che rappresenta il livello più alto dell’apprendimento, presenta tuttavia, sotto molti aspetti, un carattere paradossale ed anomalo visto che parla di incertezza e di crisi in un mondo, come quello della formazione, che dovrebbe essere fatto di certezze”. Ma è proprio la natura paradossale di questa metacompetenza che ci permette di andare oltre e di progettare il futuro. Per ciò che riguarda i domini della formazione continua e della formazione superiore, è grazie al concetto di metacompetenza che diventa possibile ripensare e ridefinire il rapporto tra l’evoluzione organizzativa e la crescita professionale dell’individuo. È grazie alla possibilità, da parte dell’individuo, di costruire i propri percorsi di conoscenze e di assumersi la responsabilità dei propri orientamenti utilizzando al meglio l’insieme degli apprendimenti formali, non formali ed informali, lungo tutto il corso dell’esistenza, che si attua la sfida dell’apprendimento permanente. Il discorso sull’apprendimento di metacompetenze si traduce così in un discorso sulla possibilità di conciliare il potenziamento dei progetti organizzativi con l’espressione dell’autonomia individuale24. Il percorso di formazione alle metacompetenze deve essere posto in relazione, da un lato, con l’istituzione al fine di identificare quelle aree di sviluppo organizzativo che consentono all’istituzione stessa la realizzazione dei propri progetti imprenditoriali in tempi e modalità congruenti con le dinamiche di cambiamento; dall’altro, la formazione alle competenze deve essere rivolta ad individuare il profilo delle competenze dell’individuo, a tracciare le aree nelle quali è possibile attivare un sostegno, e mettere in atto dei processi di empowerment. In questo senso la logica del lifelong learning dovrebbe permettere alle persone di rimanere in una condizione di occupabilità e di inserire il proprio percorso di lavoro e di realizzazione personale all’interno di contesti organizzativi e sociali più ampi in rapida evoluzione. “È la sfida del lifelong learning. Sfida paradigmatica, istituzionale, operativa. Per le organizzazioni. Si tratta di un netto miglioramento dell’efficacia delle azioni formative. Per le persone, di un sicuro miglioramento delle capacità di affrontare il cambiamento, un’accresciuta possibilità di occupazione durevole, una più equilibrata integrazione delle attività professionali nei progetti di vita…”25. I tanti interrogativi aperti dalle possibili ridefinizioni dei concetti e dei modelli della formazione chiama dunque in causa una grande varietà e ricchezza di argomenti. All’interno di questa grande varietà e ricchezza esiste un tema fondamentale, una sorta di ‘filo rosso’ che attraversa i tanti codici compresi nell’universo della formazione, le tante dimensioni verso cui la formazione si muove. 24. Bertini (2003). 25. Ivi, p. 109.

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Questo ‘filo rosso’, questo elemento ‘fondante’, è legato senza dubbio al ruolo ed alla centralità dell’individuo come costruttore dei mondi e dei significati che egli stesso gli attribuisce. I discorsi sulla formazione lifelong presuppongono la centralità di modelli attivi di apprendimento che danno valore al soggetto di conoscenza; in termini per molti aspetti analoghi, anche i temi ed i concetti legati all’e-learning chiamano in causa un soggetto di conoscenza che vive il suo ruolo come centrale, un soggetto motivato ad apprendere, capace di tracciare i fili ai quali è legata l’estensione e la costruzione del proprio sapere. All’interno di ogni discorso sulla conoscenza l’individuo sembra porsi in definitiva, con il suo universo di valori e di conoscenze, come fondamento di un sistema di scambi e di relazioni di cui egli stesso è in gran parte artefice. È proprio in questo senso ed all’interno di questa prospettiva che il concetto di metacompetenza acquista valore e significato forte. Ogni conoscenza finisce per configurarsi nei termini di una meta-conoscenza, o meta-competenza, perché è uno strumento flessibile, adattivo, strategico, capace di permettere ad ogni donna e ad ogni uomo di apprendere sempre, di apprendere ad apprendere nelle diverse condizioni dell’esistenza. L’individuo, con la sua capacità di costruire senso e significato, si pone al centro di una rete di conoscenze e saperi che evolve, nella knowledge society, secondo una grande varietà di modi possibili. Per ciò che riguarda il confronto con la realtà di riferimento, la sfida che si pone oggi agli studiosi di formazione e di apprendimento lungo tutto l’arco della vita riguarda proprio la possibilità di potersi confrontare con le istituzioni, con l’universo dell’istruzione e dell’impresa al fine di mettere in atto dei processi applicativi per l’innovazione dei dispositivi e dei sistemi della formazione. In una prospettiva rivolta al futuro, teorizzare e progettare per l’innovazione dei sistemi formativi significa, in primo luogo, favorire lo sviluppo della cooperazione tra sistemi formativi ed altri sistemi che producono o utilizzano le conoscenze; in secondo luogo, incoraggiare la dimensione della riflessività in tutti quei sistemi che permettono l’inserimento e la crescita dell’uomo al lavoro quali la formazione e l’orientamento, le organizzazioni e le istituzioni, i contesti territoriali impegnati in una prospettiva generale per la diffusione e la promozione del lifelong learning. 3. La formazione e l’universo dei saperi in rete Se, da un lato, le organizzazioni postindustriali sono orientate a diminuire il peso delle burocrazie e ad enfatizzare il valore locale delle conoscenze, d’altro lato, anche la riflessione sulla formazione muove, come si è visto, verso una significativa revisione del suo bagaglio di teorie, di tec23


niche e di metodi di intervento. “Innanzitutto si viene depotenziando il senso stesso dell’idea di ‘formare’ nella sua essenza di azione orientata a ‘dar forma’ a plasmare, a promuovere in definitiva l’adattamento passivo degli individui a compiti ripetitivi e di routine. In secondo luogo, e in contrasto con le interpretazioni e le pratiche tradizionali, si viene affermando una concezione centrata sulla logica dell’apprendimento. Il tema dell’apprendimento organizzativo così come i temi legati alle competenze, alle conoscenze tacite, al valore delle forme intuitive del sapere pratico diventano tra i motivi dominanti del rinnovamento della cultura e delle pratiche di formazione”26. Si afferma la convinzione che il senso della formazione non risieda più soltanto nella mera trasmissione di nozioni di savoir faire o di comportamenti. Vengono valorizzate le esperienze locali di apprendimento e le forme locali di generazione delle competenze, mentre prendono vita significativi mutamenti di prospettiva anche sul terreno metodologico. I luoghi privilegiati della formazione non sono più soltanto gli ambiti istituzionali e codificati, ma anche le variegate esperienze concrete e le pratiche spontaneamente generate dalle relazioni quotidiane della vita lavorativa: è qui che gli attori scoprono i problemi ed inventano le soluzioni che ritengono appropriate producendo innovazioni e apprendimenti significativi. Proprio per questo, sia nei metodi che nei modelli della formazione, si rendono necessari interventi che siano in grado di aderire alle realtà concrete con approcci flessibili, ricchi di capacità operative ed a forte caratterizzazione riflessiva. All’interno di questa prospettiva, tesa privilegiare la centralità dell’apprendimento, si vengono consolidando stilizzazioni di intervento e metodologie di tipo riflessivo tra le quali alcune paiono particolarmente rilevanti27: quelle legate ai temi dell’apprendimento organizzativo e in particolare alla promozione e alla coltivazione di comunità di pratica; quelle derivanti da un recupero in chiave formativa della tradizione della ricerca-azione in cui osservazione, ascolto e ricerca sono intimamente legati all’intervento contestualizzato; quelle centrate sui modelli costruttivisti della conoscenza che, grazie anche alla grande diffusione dei modelli e-learning di formazione, tendono sempre più ad esprimersi in metodologie attive di insegnamento e di formazione. “Negli anni recenti, scrivono Boldizzoni e Nacamulli28, si è assistito al declino della formazione realizzata prevalentemente ‘in aula’ e ad una grande proliferazione di nuovi metodi ‘fuori dall’aula’ quali: l’outdoor e 26. Lipari (2005, p. 13). 27. Ivi, pp. 14-15. 28. Boldizzoni e Nacamulli (2004, p. 1).

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l’indoor, i giochi aziendali, il teatro d’impresa, il coaching, il counseling, e il mentoring, l’e-learning, l’analogia scientifica e letteraria, il cinema ecc.”. Un ulteriore fenomeno anche esso strettamente legato all’influsso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è la progressiva ibridazione fra attività di formazione e di comunicazione”. È partire dai primi anni del nuovo secolo che si raccoglie, nel campo della formazione, la sfida delle nuove tecnologie, di Internet e dell’e-learning. I cambiamenti dei processi di formazione e di conoscenza legati all’introduzione delle Ict sono sostanziali e profondi. I concetti di conoscenza, di competenza e di metacompetenza sfumano nella ricchezza delle implicazioni e dei significati connessi all’e-competence ed alle dinamiche dell’e-learning; il percorso formativo di un individuo nella sua globalità si ridefinisce in un complesso percorso, reale e virtuale allo stesso tempo, che integra metodologie e strumenti di diversa natura ed in cui diventa impossibile fare una netta distinzione tra lavoratore e persona in apprendimento visto che l’e-learning diventa un aspetto essenziale dell’attività lavorativa oltre che del lifelong learning. “Inizialmente si attribuisce grande enfasi alla componente tecnologica… Tuttavia, in un periodo successivo, si scopre l’importanza di coniugare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie con le nuove filosofie pedagogiche, soprattutto si prende coscienza che le strategie possibili di formazione non sono quelle basate sull’e-learning puro ma quelle blended. Più in particolare si cerca di dar vita ad un rapporto di collaborazione e di competizione fra i media tradizionali dentro e fuori dall’aula e quelli nuovi connessi alla rete, influenzati dagli usi sociali, dalle interpretazioni culturali e dalle sfide emergenti… Ci si rende cioè conto che il mondo della formazione può realizzare un salto di qualità, facendo sistema fra l’ampio ventaglio dei metodi d’aula disponibili e quello altrettanto ampio e ancora più variegato delle metodologie fuori dall’aula”29. L’e-learning appare in definitiva come uno strumento destinato non a sostituire l’aula, ma ad integrarsi con questa, a potenziarne l’efficacia, ad incrementarne l’efficienza; a ridurre lo spreco dei costi, ad aumentare i benefici, a consentire un ampliamento di interventi ‘mirati e ragionati’. La formazione ‘blended’ appare una realizzazione coerente ed adeguata all’allargamento stesso dei confini della formazione30. Il tema dell’apprendimento lungo tutto il corso della vita, grazie proprio all’utilizzo delle nuove tecnologie, diventa uno dei temi più cari alle politiche dell’Unione anche se, in questo specifico dominio, il cammino è 29. Ivi, pp. 2-26. 30. Capucci (2005, pp. 5-7).

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ancora agli inizi viste le tantissime difficoltà legate all’alfabetizzazione di massa sul piano informatico ed alle questioni di accessibilità per tutti i cittadini. Nella pubblica amministrazione le nuove tecnologie si vanno diffondendo progressivamente anche se tendono ad attecchire più velocemente negli ambienti meno burocratizzati, come le imprese private e le scuole di alta formazione o i master. A breve-medio termine si può prevedere una crescita anche se modesta dell’e-learning nelle scuole, con modelli vicini al semplice sito di scambio di materiali. Nelle università l'elearning tende ad entrare silenziosamente nelle pratiche quotidiane degli insegnanti, che cercano di rafforzare il corso tenuto in aula con l’utilizzo della rete per distribuire materiali didattici e per comunicare velocemente e in maniera ampia ed efficace con tutti gli studenti31. L’e-learning sembra acquisire in definitiva un’importanza sempre più rilevante all’interno di ambiti di studio e di lavoro tanto diversi e lontani fra loro per natura e per significato come lo sono ad esempio, da un lato, quello della ricerca scientifica avanzata che ha un’estrema urgenza di comunicazione e di confronto a distanza, dall’altro, quello che permette la collaborazione fra studenti di paesi lontani oppure la comunicazione a scuola con bambini e ragazzi ospedalizzati o lungodegenti. È proprio grazie all’espansione ed all’utilizzo sempre più diffuso delle nuove tecnologie che si sviluppa, per dirlo con le parole di Ulderico Capucci, un’area di ‘formazione invisibile’ che non fa parte degli interventi strutturati, presidiati dalla ‘Formazione’, e non rientra nella classificazione tradizionale degli investimenti formativi. “Si tratta di un’evoluzione strisciante, ma continua e pervasiva, che tutte le organizzazioni stanno percorrendo verso l’arricchimento dei ruoli, agevolato e consentito dalle tecnologie… Questa straordinaria evoluzione del significato del ‘lavoro della conoscenza’ passa attraverso la tecnologia, le banche dati, i suoi parametri, i suoi confronti, il suo micro knowledge management dedicato e gestito dal singolo operatore… Questo è davvero – in prospettiva per tutti i ruoli – il più importante contributo all’apprendimento in rete”32. È ancora all’interno di questa generale prospettiva che si può parlare di contaminazioni formative. La formazione diventa luogo di crescita e di sviluppo, di incontro e di scontro fra saperi differenti capace anche di andare oltre l’oralità e la cultura alfabetica, intese come uniche tecnologie educative33. Le tematiche sulla società della conoscenza e sulla centralità 31. Eletti (2005, pp. 13-16). 32. Capucci (2005, p. 7). 33. Boldizzoni (2004, p. 87).

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dell’apprendimento sono fortemente legate in definitiva al discorso sul lifelong learning. Il computer, osserva Domenico Parisi, rappresenta un elemento centrale nel discorso sulla modernità e sulla razionalità della società occidentale nella misura in cui esteriorizza nelle macchine quella razionalità che precedentemente aveva trovato posto solo nella mente umana e dentro le organizzazioni sociali degli esseri umani. “Forse già tremila anni fa la cosiddetta arte del Paleolitico superiore […] è stata una conseguenza ma anche una causa di un ampliamento delle nostre capacità cognitive di immaginare, prevedere, ricordare, sentire da soli e insieme agli altri. Certamente, l’adozione della scrittura alfabetica […] ha avuto un ruolo importante nell’emergere della civiltà greca e quindi di quella occidentale. La permanenza e l’oggettività delle parole scritte, rispetto alla volatilità di quelle dette, ha accresciuto le possibilità della memoria e l’accumulazione della conoscenza ed ha […] contribuito alla comparsa della filosofia, della scienza e della democrazia politica nella Grecia classica. Quasi un millennio dopo, l’avvento della stampa ha reso possibile il crearsi di comunità estese di ricercatori e scienziati, distanti nello spazio e anche nel tempo, con scambi facilitati e accelerati dalla riproducibilità meccanica dei libri”34. Il computer rappresenta una tecnologia cognitiva dalle potenzialità infinitamente più grandi e innovative rispetto ad altre tecnologie vecchie e nuove come l’arte, la scrittura e la stampa ma anche il telefono, la radio e la televisione. Il computer costituisce un fondamentale e innovativo strumento di conoscenza, nella misura in cui crea i primi artefatti cogniti e comunicativi con cui è possibile interagire. Se la realtà è ciò con cui interagiamo possiamo dire che il computer allarga e crea un più di realtà mentale e sociale, esso ci presenta delle informazioni e reagisce alle nostre azioni proprio come fanno la nostra mente e in buona misura le altre persone35. L’impatto rivoluzionario che le nuove tecnologie digitali hanno, e avranno in futuro, sulle attività di apprendimento e di formazione e, più in generale, sulle attività di comunicazione e di elaborazione cognitiva della realtà, è legato a due novità introdotte dalle nuove tecnologie. La prima novità riguarda Internet e l’e-learning, cioè l’apprendere all’interno dell’ambiente costituito da Internet. La seconda riguarda il potenziamento della comunicazione non verbale come mezzo di comunicazione e di apprendimento accanto e, per certi versi, al posto della comunicazione verbale, che è tradizionalmente il canale attraverso il quale avviene l’apprendimento36. 34. Parisi (2000, p. 54). 35. Ivi, p. 59. 36. Parisi (2005, pp. 117-128). .

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Tutte e due le novità pongono problemi che ancora non hanno una soluzione. Internet vuol dire nuovi modi di conservare, trovare, distribuire, utilizzare l’informazione, e nuovi modi di interagire con altre persone in comuni attività di apprendimento e di formazione. Internet pone problemi non risolti di validazione dell’informazione che non esistevano quando l’informazione era conservata soltanto nei libri o nelle riviste scientifiche o nelle teste delle persone legittimate a possedere l’informazione, e pone problemi non risolti di utilizzo più libero, cioè senza guide esterne, dell’informazione da parte di chi impara, e di filtraggio e selezione di grandi quantità di informazioni facilmente accessibili. Lo stesso vale per la dimensione sociale dell’apprendimento attraverso Internet. Internet può rendere possibile forme di apprendimento collaborative ed interculturali la cui importanza è fondamentale nel processo di globalizzazione della società contemporanea37. Dal punto di vista dei mutamenti e delle innovazioni che interesseranno inevitabilmente gli sviluppi dei sistemi e-learning di formazione, un’ulteriore novità è che, per la prima volta nella storia dell’educazione, la figura di chi è esperto dei contenuti si scinde dalla figura di chi è esperto nella comunicazione dei contenuti, e si pongono domande difficili su come fare interagire queste due diverse figure. La multimedialità digitale pone problemi nuovi e complessi e richiede, per risolverli, competenze e capacità che, diversamente dalle capacità linguistiche, non si possono considerare come naturalmente presenti nelle persone. Nel campo della formazione, tutto questo comporta dei cambiamenti delle cui conseguenze ancora non ci rendiamo pienamente conto. Si tratta in primo luogo di definire in concreto e con precisione, attraverso gli strumenti di analisi forniti da discipline come la psicologia, la pedagogia, le scienze della comunicazione, l’informatica, ma soprattutto attraverso esperienze concrete di produzione di materiali multimediali, quali sono le nuove competenze e le nuove professionalità. In secondo luogo si tratta di definire in quali modi queste nuove competenze e professionalità possono essere organizzate, quali possono essere possedute da un’unica persona e quali vanno invece distribuite su persone diverse, in quali modi e all’interno di quali strutture di formazione possono essere acquisite, con quali corsi e attività di formazione e nell’ambito di quali discipline possono essere riconosciute. In questo dominio si pongono una serie di problemi tra i quali, ad esempio, l’opportunità di richiedere, a chi deve produrre i nuovi materiali di ap37. Pepe (2005, pp. 134-140).

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prendimento, una formazione di base di tipo cognitivo, pedagogico, o addirittura di creatività grafica e artistica, oppure una formazione di base di tipo informatico. È evidente la necessità di entrambi i tipi di sensibilità e di formazione, ma questo non significa che mettere insieme in modo equilibrato e complementare le due sensibilità e le due competenze risulti facile. “Un altro problema è come far confluire nella produzione dei nuovi materiali di apprendimento esperienze e competenze che sono state sviluppate altrove, ad esempio nel campo dei computer games o nel campo della pubblicità e del marketing. Visualizzazioni, animazioni, interfacce interattive, simulazioni, hanno un ruolo centrale nei computer games, mentre l’uso della visualità per scopi di comunicazione e di modificazione della ‘testa’ delle persone caratterizza da sempre la pubblicità e il marketing”38. All’interno di una prospettiva più generale se, da un lato, l’universo della formazione specialmente al livello della scuola e dell’università e un po’ meno al livello della formazione professionale, aziendale e manageriale, tende ad essere sostanzialmente stabile, d’altro lato, l’universo delle nuove tecnologie e della comunicazione sociale è un mondo innovativo e soprattutto è un mondo aperto, in cui ogni dominio travalica in altri e cerca intenzionalmente di non vedere i confini tra i diversi settori e le diverse applicazioni, non fosse altro che per ragioni economiche, cioè per sfruttare di più e meglio quello che si è inventato applicandolo in diversi settori. Il problema è quindi di aprire all’innovazione, alla flessibilità e alla interazione tra applicazioni diverse il mondo della formazione. Si pensi al possibile uso, per scopi di formazione, di strumenti di comunicazione diversi come il personal computer, Internet, il telefono cellulare nelle sue diverse versioni, le playstation nelle loro diverse versioni, i computer palmari e, nel prossimo futuro, anche la televisione digitale. Altrettanto seri sono i problemi posti dalla progressiva espansione dei modi non verbali di comunicare e di apprendere che è resa possibile dalle nuove tecnologie digitali. Il linguaggio verbale è da millenni il modo consolidato e praticamente esclusivo di imparare. Il computer può rendere possibile oggi un nuovo modo di conoscere la realtà, attraverso la creazione di realtà virtuali, copie semplificate, modelli di simulazione. Tutti questi strumenti possono diventare efficaci modelli di apprendimento in diversi contesti: scuola, formazione, formazione professionale, manageriale, riqualificazione degli adulti. Apprendere attraverso il vedere e il fare grazie ad una simulazione, osserva Parisi39, non solo consente di apprendere an38. Parisi (2005, p. 127). 39. Parisi (2001).

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che a persone che non hanno necessariamente una grande familiarità con il linguaggio verbale, ma può consentire a larghe fasce di utenti di apprendere attraverso l’osservare e l’agire, con risultati di comprensione e coinvolgimenti motivazionali spesso non ottenibili usando esclusivamente il canale del linguaggio verbale. Con Internet il ruolo dell’insegnamento dalla cattedra e della trasmissione delle informazioni dall’insegnante agli studenti si ridimensiona, l’insegnante perde di importanza come fonte di informazioni e ne acquista come guida all’apprendimento e nella interazione a due vie con gli studenti. L’e-learning pone dunque problemi nuovi di gestione di ambienti di apprendimento diversi da quelli tradizionali, che sono l’aula scolastica e la lezione dalla cattedra, e problemi di nuovi ruoli e compiti delle persone coinvolte nelle attività di apprendimento, con il passaggio dalla tradizionale struttura di interazione a stella tra insegnanti e studenti, con l’insegnante al centro della stella, a nuove strutture di interazione, più varie, tra gli stessi studenti e tra gli studenti e altre figure come esperti e tutor. I luoghi della formazione e le tipologie degli utenti si moltiplicano; la figura del docente tradizionale si ridefinisce e si articola in una grande pluralità e diversità di figure che chiamano in causa tutor ed e-tutor. “Le reti, scrivono Boldizzoni e Nacamulli, introducono in definitiva una grande diversità nei processi formativi: non si tratta soltanto della diversità dei linguaggi e delle discipline in gioco, ma anche, e soprattutto, della diversità delle esperienze individuali nei confronti della conoscenza”40. In questa fase di profondi mutamenti i sistemi formativi devono consegnare agli individui non tanto strumenti per apprendere un sapere in fieri, quanto piuttosto la capacità di apprendere ad apprendere, cioè di reinventarsi in ogni momento relativamente al sapere, alle competenze e persino alla professione. Oltre che alla costruzione di nuove forme di interconnessione tra saperi diversi, chiave di volta della creatività scientifica, occorre educare gli individui a nuove forme di cittadinanza, ben oltre i confini dello stato nazionale, secondo una forma di identità aperta e dinamica. E questo all’interno di un universo in cui anche i percorsi lavorativi e professionali appaiono e scompaiono, le competenze evolvono e diventano obsolete in brevissimo tempo. Anche nei contesti professionali oggi si pone una difficoltà ormai da tempo familiare a chi opera nei contesti scientifici: tutto può risultare pertinente, ma non nello stesso modo e non nello stesso momento. Nell’universo dei saperi in rete i confini delle competenze non sono più rigide barriere. “Dipendono da obiettivi e da giudizi transitori, costruiti e revocabili, strategici per cosi dire. L’individuo ha bisogno non so40. Boldizzoni e Nacamulli (2004, p. 3).

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lo di mappe cognitive ampie e flessibili; ha bisogno anche di strumenti per fare evolvere queste stesse mappe, per allargarle, per ristrutturarle o per incrementare il loro potere di discriminazione”41. Il sapere, sottolinea Roberto Maragliano42, si presenta, fuori e dentro di noi, sempre meno come una struttura ‘data’ di elementi fissi, e sempre più come uno spazio a ‘n’ dimensioni, un conglomerato fluido che opera come ‘agente di intermediazione’ tra individui ad un tempo eguali e diversi. “La conoscenza, allo stato attuale, vive di queste diversità e nello stesso tempo di questa unitarietà, vive delle logiche del patto e della convenzione, si accresce per effetto delle dinamiche dello scambio. Più che una cosa fisica agisce come un ‘oggetto simbolico’, un intermediario di regole, concetti, pratiche, linguaggi che a sua volta genera regole, concetti, pratiche, linguaggi”. Alcuni elementi fondamentali sembrano caratterizzare, secondo Giorgio Olimpo, l’universo della formazione nella società della conoscenza ed in relazione allo sviluppo delle nuove tecnologie. Questi elementi riguardano sostanzialmente l’espansione e l’accessibilità del sapere, la libertà di rotta sul mare dell’informazione, la familiarità con le dimensioni del sapere e con le strutture dell’informazione, la dimensione dell’apprendimento in gruppo e la possibilità di operare con le idee43. Potremmo dire in definitiva che l’universo della formazione è cambiato nella misura in cui sono cambiati gli elementi che lo compongono, il rapporto esistente tra di essi e tra di essi ed il soggetto di conoscenza. In termini specifici, l’universo della formazione si è progressivamente trasformato nel tentativo di rispondere e di adeguarsi alle trasformazioni intervenute nella vita dell’uomo ed alle esigenze di sapere dall’uomo espresse. Alcuni fattori fondamentali hanno giocato un ruolo essenziale in questo cambiamento, tra di essi: i fattori storici e geografici; i processi di estensione e di globalizzazione delle comunicazioni; l’enorme impatto delle nuove tecnologie; la ridefinizione dei saperi disciplinari; l’instaurarsi di nuovi e più creativi legami tra i campi e gli strumenti del sapere; le particolari esigenze da parte dell’uomo di far fronte, attraverso i propri strumenti di crescita personale e professionale, alle difficoltà ed ai vincoli della società della conoscenza. Traendo ispirazione da una metafora tratta dal dominio dell’astronomia, potremmo dire con Thomas Kuhn che questo universo è cambiato così co41. Bocchi e Ceruti (2004, p. 4). 42. Maragliano (1998, p. 21). 43. Olimpo (1998, pp. 44-46).

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me sono cambiate, nella storia dell’umanità, le interpretazioni che l’uomo ha dato dell’universo celeste. Non si può dire che le tante interpretazioni della struttura cosmologica, scrive Kuhn, fossero vere o false, tutte erano plausibili nella misura in cui rispondevano alle specifiche esigenze dell’uomo di raffigurare il proprio universo come appariva in quel momento ed in una particolare prospettiva. “In una delle forme principali della cosmologia egizia la Terra era rappresentata come un piatto bislungo. La dimensione maggiore del piatto era parallela al Nilo… Chiaramente questo universo era modellato sul mondo quale l’egizio lo conosceva: egli viveva in realtà in un piatto bislungo, limitato dall’acqua nella sola direzione in cui lo aveva esplorato; il cielo osservato in un giorno o in una notte senza nuvole, sembrava e sembra a forma di cupola… Il sole era Ra, la principale divinità egizia… Le stelle dipinte sulla volta del cielo erano divinità minori e rinascevano ogni notte”44. La combinazione tra scienza e storia è essenziale per capire l’evoluzione dell’astronomia planetaria e delle sue grandi interpretazioni come quella legata alla rivoluzione copernicana. La scoperta e la rivoluzione di Copernico furono determinate in maniera essenziale da fattori estranei all’astronomia: tra questi gli studi medievali sulle meteoriti, i viaggi attraverso l’Atlantico che avevano dilatato gli orizzonti terrestri dell’uomo del rinascimento, un atteggiamento filosofico e psicologico che aveva portato gli uomini a ritenere che la loro dimora terrestre fosse soltanto un pianeta tra gli altri e non più il centro della creazione divina. Riferimenti bibliografici Aa.Vv. (2004), Apprendimento di competenze strategiche. L’innovazione dei processi formativi nella società della conoscenza, FrancoAngeli, Milano. Aa.Vv. (2005), La simulazione nella formazione a distanza: modelli di apprendimento nella knowledge society, Isfol, Roma. Alberici A. (2002), L’educazione degli adulti, Carocci, Roma. Argyris C. (2004), Reasons and Rationalizations. The Limits to Organizational Knowledge, Oxford University Press, Oxford. Argyris C., Schön D.A. (1998), Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, Guerini, Milano. Bertini G. (2003), “L’apprendimento autogestito”, Sviluppo & organizzazione, n. 96. Blackler F., McDonald S. (2000), “Power, Mastery and Organizational Learning”, Journal of Management Studies, vol. 37, n. 6. Bocchi G., Ceruti M. (2004), Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano. 44. Kuhn (1972, p. 9).

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La formazione nella società della conoscenza di Ulderico Capucci

1. La tecnologia, il marketing e la conoscenza Tradizionalmente e per convenzione culturale utilizziamo la parola “tecnologia” per indicare un SAPERE, una COMPETENZA che ha una specificità: quella di avere una natura tecnico-scientifica. In questo senso la conoscenza incorporata nella tecnologia è sempre esistita ed è sempre stata fondamentale. La tecnologia e la sua innovazione hanno consentito il progresso economico e sociale, hanno contrassegnato la storia dell’umanità. La tecnologia è fondata su una conoscenza che, per la sua natura, ha le caratteristiche di essere certa, razionalmente trasferibile, sia nel tempo che nello spazio; ogni organizzazione può “acquistare” attraverso licenze, accordi, la tecnologia posseduta da altre organizzazioni. Da almeno venti anni le organizzazioni si sono spostate, o si stanno spostando, dal prodotto al mercato. Questa affermazione vale per le imprese, per le banche e i servizi, per la Pubblica Amministrazione, per le Istituzioni, per l’Università, per tutte le organizzazioni. La tecnologia, di prodotto e di processo, rimane un fattore necessario ma non più sufficiente, l’orientamento al cliente e al mercato, la soddisfazione dei bisogni esistenti, emergenti, latenti è la fonte della generazione di valore, la base delle strategie di differenziazione e di sviluppo della propria identità competitiva. Orientamento al cliente e al mercato chiamano in causa il marketing, se di questo abbiamo una interpretazione corretta. Il marketing non è certamente solo contraddistinto dalla strumentazione di pricing, pubblicità, promozione, comunicazione, distribuzione. Il marketing, in realtà è una “tecnologia”; un SAPER FARE, una COMPETENZA, che si fonda su un corpo di conoscenze comuni e consolidate. In effetti il marketing è una “tecnologia della conoscenza”, basata solo ed esclusivamente sulla capacità di acquisire, accumulare adattare, segmentare la conoscenza delle regole che 35


muovono il mercato, i clienti e i concorrenti, i non clienti e i potenziali concorrenti. Il marketing è basato sulla profonda conoscenza del rapporto tra le cause e gli effetti, tra le leve del marketing mix e le risposte dei consumatori. Sapere di marketing vuol dire conoscere il mercato, ascoltare e interpretare le infinite “differenze” che si trovano dentro il mercato che non ha nessuna caratteristica di omogeneità. Ecco il punto: la tecnologia è certa, stabile, omogenea, “scientifica”; il marketing è una tecnologia che elabora infinite informazioni variabili nei luoghi, instabili nel tempo, la trasforma in conoscenze, estremamente differenziate ed in continua evoluzione. Un mercato è “segmentabile”, e i criteri con cui possiamo individuare, riconoscere, classificare, le differenze di comportamento dei cliente sono molti. Possiamo cogliere “differenze” tra i clienti della banca pensando al sesso, all’età, allo stato familiare, alla professione, alla attività esercitata, alla ricchezza posseduta, all’atteggiamento verso il risparmio, verso il denaro, verso il rischio; possiamo ancora classificarli in funzione dei bisogni, in funzione del tempo disponibile, in funzione della stabilità del reddito (questo solo se pensiamo ai criteri molteplici di segmentazione). Possiamo andare avanti e vedere che il mercato della banca è diverso in città e in provincia, al Nord e al Sud, nelle zone più ricche e più povere, nelle zone con più concorrenti e in quelle con meno concorrenti. È diverso il mercato nei diversi periodi dell’anno, per Natale o per Ferragosto, il 28 del mese dopo lo stipendio, o prima. Quello che vogliamo dire che il Marketing non ha nessuna cultura, non ha nessuna omogeneità, è un SAPERE ed una COMPETENZA fondata esclusivamente su rigorosi metodi, che consentono di acquisire, elaborare informazioni in continuazione, in modo specifico per segmenti, luogo, territorio, momento, per disporre di conoscenze. Pensiamo alle strategie di “globalizzazione”, che hanno bisogno di essere poi declinate localmente. Tutte le organizzazioni “globali”, e lo diventano progressivamente anche molte iniziative del settore no-profit, della assistenza sociale e del volontariato, hanno bisogno di conoscere con precisione come articolare il rapporto tra l’accentramento delle variabili globali e il decentramento di quelle locali, e hanno bisogno poi di conoscere a fondo problemi, risorse, opportunità, specificità del loro territorio. Insomma, il Marketing, quello industriale, ma anche istituzionale o associativo, ha bisogno di elaborare in continuazione conoscenze differenziate, specifiche, customizzate al contesto in cui le diverse unità, ai diversi livelli operano. Il Marketing è una “tecnologia della conoscenza”, che ha il ruolo deputato a generare valore attraverso la propria capacità di elaborare conoscenze articolate, differenziate, flessibili. La formazione di marketing e al marketing è proprio una “educazione”, portatrice di metodi, di competenze, di valori. Educazione anzitutto “valoriale”, per smontare luoghi comuni e stereotipi negativi, e per costruire una corretta cultura di “orientamento al mercato”. 36


Nell’immaginario collettivo – al di fuori degli addetti ai lavori – Marketing ha tuttora una connotazione negativa. Marketing è equiparato a “vendita più pubblicità”: fare marketing equivale a fare affari, a promuovere se stessi, a pubblicizzare la propria attività. Non è ancora chiara la profonda differenza tra “vendita” e “marketing”: è con la prima si vuole appunto “vendere” qualcosa a qualcuno, di cui non ne ha bisogno, nel proprio esclusivo interesse; con il marketing si vuole conoscere la domanda – o meglio il bisogno, e si vuole “servire” la domanda. Certamente c’è di mezzo il proprio interesse, conseguito però solo attraverso la conoscenza prima, il rispetto e il servizio dopo. Esiste ancora lo stereotipo che il marketing possa manipolare i consumatori, e creare bisogni inesistenti; questo assunto non è vero, perché la “manipolazione” della pubblicità e del marketing non funzionano, se i clienti non sono disponibili ad essere manipolati. Il marketing non crea bisogni, ma li esplicita solo se sono latenti, ma comunque esistenti. Altrimenti non si capirebbe perché molti ottimi progetti di marketing falliscono o non funzionano. Marketing, quello serio e quello vero, contengono molti valori positivi, antitetici rispetto a quelli della vendita. Il marketing è ascolto, è umiltà di chi non conosce e vuole conoscere, è rispetto dei bisogni degli altri, è rifiuto delle proprie opinioni, della auto-referenzialità, a favore dei fatti, dei dati, della osservazione della realtà. La formazione – cosiddetta “commerciale” spesso ha contenuti più della vendita che del marketing, si spinge verso la relazione con il cliente, il rapporto di servizio, la relazione positiva del front-end. Due considerazioni: la prima ci dice come il passaggio “dal prodotto al mercato” apra le porte ad una “economia della conoscenza” estremamente ricca; la seconda ci dice che una profonda formazione ed educazione al “marketing” sarebbe oggi fondamentale, sia a livello personale, che a livello organizzativo, che a livello istituzionale. L’orientamento al mercato è un “driver” di cambiamento della economia come del comportamento personale, ed è profondamente educativo 2. Decisioni e conoscenza Il management di una organizzazione produce decisioni: tutta la sua attività e ogni sua funzione, di pianificazione strategica, di gestione operativa, di organizzazione, si traduce in azioni che fanno parte del processo decisionale, sia nella fase di “problem solving”, sia nella vera e propria fase di “decision making” sia nella fase di implementazione e poi di controllo. Più in generale possiamo dire che ogni attività umana produce decisioni, 37


di rilevanza più o meno significativa. Ora dobbiamo immaginare che il processo decisionale comporta l’utilizzo di una materia prima fondamentale che è la conoscenza, che entra a far parte di tutte le fasi del processo decisionale. La conoscenza è l’oggetto della analisi e della diagnosi, la conoscenza alimenta la elaborazione delle alternative; la conoscenza massimamente consente di valutare le alternative, sia in funzione degli obiettivi, sia in funzione del loro quadro di rischio. Anche la realizzazione operativa della decisione la “execution” ha bisogno di conoscenza, la sua velocità e qualità certamente è dovuta alla organizzazione di comportamenti e al rigore nel rispetto dei programmi, ma contiene anche una buona dose di conoscenza, relativa al “realismo” con cui una decisione si confronta ai suoi gradi di probabilità, alla tipologia di incertezza con cui si confronta. Insomma il processo decisionale è alimentato costantemente dalla disponibilità e qualità della conoscenza. Pensiamo adesso che ogni decisione è elaborata e realizzata all’interno di un particolare “contesto”, caratterizzato da condizioni di maggiore o minore complessità ed incertezza. Diciamo che oggi l’organizzazione in particolare, e la società più in generale, si trova a vivere in condizioni di elevata complessità. Un contesto presenta crescenti gradi di complessità in funzione di alcune caratteristiche: • la numerosità di variabili che lo determinano Condizioni semplici • • • •

Condizioni complesse

la loro imprevedibilità la loro interdipendenza il grado di rischio che comporta la rapidità del tempo di risposta richiesto.

Possiamo visualizzare il contesto in cui operiamo così Condizioni semplici

“Bassa devianza”

“Alta devianza” 38


In condizioni di “ambiente” più semplici, meno complesse, quando le variabili in gioco sono poche e prevedibili, i problemi che si presentano si possono definire a “bassa devianza” dalla esperienza precedente, dalle condizioni note e conosciute. In questo caso la conoscenza che è necessaria per prendere decisioni è già disponibile, accumulata dalla passata esperienza, consolidata e posseduta da molti. In condizioni di ‘ambienti più complessi’ il fenomeno cambia rispetto al precedente in tutti i fronti: la elevata devianza dei problemi che si presentano si confronta con una bassa esperienza precedente, con una maggiore difficoltà di elaborare la conoscenza necessaria. Ma si aggiunge un ulteriore fenomeno pensando anche al tempo scarso a disposizione per la risposta. Questo significa che la singola persona che decide non può fare affidamento né su soluzioni note, né sulla possibilità di andare a cercare altrove le risposte. Per questo deve disporre già, nel proprio campo cognitivo, una maggiore quantità di conoscenza, queste devono essere aggiornate, deve essere in grado di connetterle tra di loro, infine deve essere in grado di utilizzarle per “apprendere” in tempo reale. Così, un po’ scolasticamente, abbiamo visto un po’ più in dettaglio e a fondo il rapporto che esiste tra le decisioni e la conoscenza. Proviamo a ricorrere ad una metafora: quella di chi va in montagna. In una scalata di montagna “facile”, la complessità è limitata, possiamo portare insieme ad un esperto, la guida, anche degli inesperti, possiamo affrontare le situazioni che si possono presentare comunque con poche procedure e con una buona dose di attenzione e di capacità fisica. Se pensiamo ad una scalata estrema, molto difficile, addirittura ad una “via nuova”, cambia tutto. Abbiamo bisogno che tutti siano molto esperti, le conoscenze diventano sofisticate: conoscenze climatiche, conoscenze di materiali, conoscenze di roccia e ghiaccio, conoscenze fisico-biologiche, ecc. Abbiamo soprattutto bisogno di grande conoscenza delle regole comuni, che consentono di interagire con il massimo di autonomia individuale, con il massimo di fiducia e di rispetto sulle relazioni tra gli scalatori. Questa metafora appare molto chiara sulla correlazione tra contrasti, complicità, decisioni, conoscenze. Ci dice che, per esempio, le conoscenze sono individuali, ma anche collettive, omogenee, ma anche organizzative. Ci dice sulla interdisciplinarietà delle conoscenze. Ci dice come ciascuno per affrontare la scalata, è responsabile del proprio aggiornamento, per non mettere a rischio se e gli altri, che – in caso di pericolo grave – sono eticamente chiamati a sostenerlo e a rischiare per lui. Questa metafora ci dice molte cose sulla natura, sui legami, sull’utilità, sulla profondità, sulla sperimentazione della conoscenza. Ci dice soprattutto che – le regole di comportamento, di comando, di relazione, sono tutte in funzione del sapere, che è fonte di legittimazione esclusiva del potere. 39


Ora la formazione dice oggi a tutti che viviamo in un ambiente complesso, dice qualcosa o molto sulle implicazioni della complessità. Ancora non riesce ad educare profondamente e completamente a sviluppare una cultura della conoscenza in linea con le esigenze molteplici che abbiamo qui provato ad esplorare. Per fortuna non dobbiamo fare scalate estreme, ma certamente abbiamo lasciato da un pezzo le passeggiate e le escursioni facili: siamo a metà strada probabilmente, ma i risultati ci dicono che dobbiamo imparare ancora molto. 3. L’organizzazione e la conoscenza Negli ultimi 40 anni abbiamo fatto un “percorso” volto a costruire modelli, principi, disegni, funzionamento dell’organizzazione. Il passaggio dal taylorismo all’organicismo è solo il punto di partenza, oggi occorre esplorare altre prospettive per capire quanto è successo. Avevamo un modello che possiamo definire “verticale”. Questo riguardava anzitutto l’assetto della “produzione”: il processo produttivo avveniva interamente all’interno della impresa, e si configurava nella organizzazione di una “mass production”, una produzione di massa con una strategia di crescita quantitativa; il “volume” della produzione era il driver della efficienza, della economia di scala, della riduzione dei costi. La strategia portava alla crescita quantitativa, attraverso la spinta sui volumi; ma anche attraverso la diversificazione. L’impresa diventata grande, il volume, la produzione di massa, la verticalità del processo produttivo interno sono gli elementi che conformano un modello di impresa che possiamo visualizzare come verticale. Parallelamente si muove l’organizzazione che, all’aumentare della dimensione, assume un analogo disegno verticale, perché si regge sulla gerarchia. Ogni 7-8 persone ci vuole un capo, di unità, reparto, ufficio. Ogni 4-5 unità ci vuole un capo che eserciti la supervisione ed il controllo. Così anche l’organizzazione si configura come verticale, assume un disegno piramidale, che si sostiene sul principio della gerarchia, sul principio del controllo, regolata – nei suoi processi decisionali stabili – in un pacchetto di procedure e di norme prescrittive. Non c’è solo il taylorismo e la catena di montaggio, c’è una verticalità dell’impresa, della produzione, della struttura. Oggi il fenomeno si è progressivamente “appiattito”. Il processo produttivo, nel suo insieme, si sta progressivamente esternalizzando. Nascono aggregazioni di imprese che si collegano tra di loro in un “network”. Stiamo andando verso l’impresa “rete”: quella costituita da una serie di collegamenti orizzontali che alimentano una progressiva serie 40


di legami di interdipendenza tra micro-imprese, in una relazione di fornitore-cliente. La strategia non e più di diversificazione, ma diventa di focalizzazione: nascono imprese più piccole, più specializzate, ma più collegate. La produzione di massa si è trasformata in “lean production”: una produzione flessile il cui paradigma principale non è il volume, ma la qualità, la tempestività della risposta al mercato; il contenimento dei costi non è legato alla economia di scala, alla ottimizzazione delle quantità, ma alla eliminazione degli scarti, degli sprechi, delle soste, del non utilizzo ottimale delle risorse e degli investimenti pre-esistenti. Con la “lean production”, un processo produttivo “leggero” e veloce, da’ luogo alla “lean organization”: ad una organizzazione leggera, che elimina tutto ciò che non produce valore. Elimina, in primis, le gerarchie; per meglio dire elimina il ruolo di supervisione della gerarchia, lasciando in piedi solo il ruolo di integrazione. Così il modello di impresa e il modello organizzativo, da una configurazione verticale, si trasformano progressivamente in un modello orizzontale, interno ed esterno: così come l’impresa rete, generata dalla esternalizzazione produttiva prima e dalla necessità di governo delle relazioni integrate dopo. Ma la “learn organization” elimina altre cose che non producono valore: elimina i controlli, perché basati solo dai difetti precedenti, che hanno un costo che non si può più far pagare al cliente finale. Elimina le procedure, che allungano i tempi, fanno lavorare in sequenza, comportano perdite di valore nella separazione tra i momenti di scambio. Elimina anche le scorte che non servono, i magazzini che costano, i semilavorati che stanno fermi e aumentano il capitale circolante impiegato. Attraverso tutte queste operazioni di eliminazione di elementi costosi; mix “HARD”, abbastanza rigidi ma solidi per sostenere l’organizzazione, quanto diventa fragile, rischia di non stare più in piedi. L’organizzazione piatta, fluibile, orizzontale e trasversale ha bisogno di un nuovo collante, per avere una forma più “liquida”, ma comunque una forma. Questo nuovo collante lo troviamo nella conoscenza, o meglio nella conoscenza organizzata, quella che dà forma e consistenza ai processi orizzontali, allo scambio di valore che avviene in ogni trasmissione orizzontale tra un fornitore ed un cliente, fondamentalmente basato sullo scambio di conoscenza e sulla ottimizzazione della conoscenza tra i bisogni e le risorse, tra i problemi del cliente e le possibili soluzioni del fornitore, tra la utilità generata per il cliente e dall’impiego ottimale delle risorse del fornitore. La conoscenza alimenta i processi e le relazioni di scambio nella rete. La conoscenza consente anche il governo dei processi. Un processo è governato, solo quando conosco uno standard e quando conosco lo scostamento da questo standard. La “risorsa” dà la conoscenza dalla devianza, lo standard è l’aumento della conoscenza della prestazione attesa. La procedu41


ra solidifica un’esperienza precedente, la traduce in una disposizione prescrittiva, si applica senza bisogno di alcuna conoscenza addizionale. Il processo richiede a tutti gli operatori conoscenza pregressa, conoscenza scambiata, conoscenza dello scostamento, conoscenza per il miglioramento. Così abbiamo esplorato un po’ il contenuto di conoscenza che richiede il passaggio da un modello verticale di impresa ad un modello orizzontale, da una organizzazione gerarchica e proceduralizzata ad una organizzazione piatta e processiva. Anche in questo caso abbiamo a che fare con la conoscenza, crescente in quantità e qualità. Abbiamo a che fare con altre categorie che riguardano la conoscenza: anzitutto quelle dello “scambio” che sostiene l’integrazione; poi con la conoscenza dei processi operativi dei fornitori e dei clienti; poi con quella dello standard, della misura, dello scostamento e del miglioramento. Così abbiamo arricchito un po’ il bagaglio delle riflessioni relative all’impatto dell’innovazione organizzativa rispetto al governo delle conoscenze. 4. Formazione e apprendimento organizzativo Nella società della conoscenza la formazione, pur con tutta la rilevanza che vogliamo e dobbiamo attribuirle, gioca un ruolo modesto all’interno del ventaglio più ampio di studi, di strumenti e di percorsi, con cui le organizzazioni apprendono. Intanto dobbiamo ricordare il distinguo tra la competenza individuale, la competenza collettiva e la competenza organizzativa. Già il passaggio dalla competenza individuale a quella collettiva, distintiva di una “comunità” professionale, comporta un salto qualitativo notevole. La competenza collettiva comporta alcune significative operazioni: • anzitutto la sua “omogeneità”. Una famiglia professionale è tale quando i legami all’interno della famiglia si fondano su di una base di conoscenze e di competenze comune, su una sorta di standard sociale, di cui la comunità dispone e nel quale si riconosce. In assenza di questo requisito la competenza rimane patrimonio individuale dei soggetti, ed è auto-referenziato, proprio perché non è socialmente riconosciuto. La omogeneità della conoscenza – competenza collettiva non è una omologazione, ma è un riferimento comune, che ciascuno poi utilizza in modo individuale, ma che consente la comunicazione tra le persone, la loro interazione, la fiducia reciproca. Proprio questo fondamento fa sì che all’interno di una vera famiglia professionale esista e sia praticato il valore dello “scambio” di conoscenza, il valore della “fiducia professionale”, la prassi della accettazione della competenza altrui e di apertura alla cessione della propria. La competenza collettiva è tale, anche se tutte 42


le persone che la riconoscono e la detengono, non sono chiamate ad operare insieme, non sono chiamate ad interagire in un contesto organizzativo che le faccia operare per uno scopo comune. Possiamo pensare alla competenza collettiva dei medici, degli ingegneri, dei piloti di aereo: la competenza collettiva consente la sostituibilità, non implica necessariamente l’interazione e la integrazione; • la competenza collettiva poi, per definizione, è una competenza esplicita e non tacita, è codificata e codificabile in modo formale, è nota e visibile alla comunità, è comunicabile e trasmissibile. Nel tempo diventa interiorizzata. Questo significa che chi appartiene ad una famiglia professionale, fa ricorso alla competenza collettiva, in modo automatico, senza porsi domande da una parte, e senza avere molti dubbi dall’altra, proprio perché si affida e confida ad un sapere che gli consente maggior grado di certezza nella misura in cui è condivisa dagli altri. Questo è il valore aggiunto della competenza collettiva che diventa cultura, proprio nella misura in cui, oltre al suo riconoscimento comune, assume il valore della “interiorizzazione” da parte dei componenti. La competenza collettiva in questo senso è qualcosa di più della somma delle competenze individuali, nella misura in cui contiene il valore aggiunto della accettazione-condivisione-interiorizzazione dell’intero corpo sociale; • la competenza collettiva infine è “distintiva” di quella particolare famiglia e la contraddistingue dalle altre. Questo ha a che fare con la specializzazione da una parte, ma con il significato di appartenenza dall’altra, che contraddistingue la collettività evoluta. Se pensiamo, per esempio, ad un fenomeno naturale, come la conoscenza e le competenza di chi deve andare in mare. Le diverse comunità che vivono sull’acqua hanno sviluppato nel tempo una competenza, un saper fare, una barca che è tipica di quella comunità e che è diventata distintiva della stessa. Chi ha viaggiato un po’ per il mondo ha visto un numero infinito di imbarcazioni diverse che non sto a citare, distinte tra di loro in funzione anche del contesto fisico e dei materiali a disposizione. Ma anche nel mediterraneo abbiamo in Liguria il gozzo ligure e a Sorrento il gozzo napoletano. La competenza collettiva fruisce di una caratteristica di distintività che è parte integrante della identità della comunità che la sviluppa, la codifica, la patrimonializza, la diffonde, la riconosce e la utilizza. Così abbiamo puntato a descrivere alcuni elementi significativi del passaggio dalla competenza individuale a quella collettiva per evidenziarne gli elementi che ne fanno la differenza non solo quantitativa ma anche qualitativa. Evidentemente la formazione può contribuire alla creazione di competenze collettive, e non solo individuali, sia all’interno delle organizzazioni, sia tra le organizzazioni, nella misura in cui opera nei confronti di vere e proprie “famiglie professionali” o comunità professionali. È evi43


dente però che la formazione non basta a fare questa operazione così descritta, ma certamente il suo modo di operare, soprattutto a monte e a valle di un intervento formativo può contribuire alla creazione di competenze collettive. Ma il passaggio più importante è il secondo, dalla competenza collettiva a quella organizzativa, In questo caso il soggetto che apprende è l’organizzazione stessa, e non più le persone, se pure all’interno di comunità o famiglie. L’apprendimento organizzativo è l’apprendimento di una diversa entità, una squadra e non un gruppo, che impara ad interagire per produrre un risultato che è dell’organizzazione. Non possiamo continuare a parlare di lavoro in team, di processi organizzativi, di net-work di reti, se non abbiamo ben chiaro questo distinguo: nel team, nel processo, nel net-work il risultato è non frutto della competenza di una pluralità di soggetti ma soprattutto della qualità e della efficacia della loro relazione e interazione. Questo punto è fondamentale, e va capito a fondo, se noi operatori di formazione e di apprendimento all’interno della organizzazione, vogliamo davvero contribuire a migliorare la competitività del nostro sistema, a tutti i livelli. Due considerazioni: • nella società della conoscenza, nella organizzazione della conoscenza, l’apprendimento organizzativo è più importante di quello individuale. Ormai nella società a rete e nella organizzazione processiva, tutti i risultati significativi non vengono da un singolo soggetto, ma da una relazione integrativa; • in particolare se pensiamo all’Italia, alle organizzazioni italiane, è ragionevolmente certo che le singole persone, i managers delle aziende e anche della Pubblica Amministrazione, mediamente non sono meno preparati, capaci, competenti dei loro colleghi di altri Paesi; per contro i risultati e l’efficienza delle organizzazioni è certamente meno competitiva rispetto a quella di altri paesi e sistemi più efficienti ed efficaci. Tutti gli amanti della musica sanno riconoscere nell’orchestra una competenza organizzativa che va al di là dei singoli componenti, del tutto insufficienti a produrre un buon gioco di squadra. Dobbiamo avere la stessa chiarezza nel riconoscere una competenza anche a tutte le altre organizzazioni. Guardiamo l’azienda nella quale oggi l’organizzazione è “processiva”. I suoi principali risultati dipendono dalla qualità dei processi e dalla competenza organizzativa che li sostiene: • l’innovazione è figlia di un processo. L’innovazione di prodotto è figlia della competenza della ricerca, progettazione, della industrializzazione, del marketing, del suo trasferimento in valore per il cliente; spesso è figlia di un “sistema”. Così il time-to-market è il frutto della competenza delle relazioni tra le diverse fasi del processo di sviluppo del nuovo prodotto; 44


• la qualità totale, quella che unisce la qualità percepita con l’impiego ottimale delle risorse, è figlia di un processo; altrettanto per la qualità del servizio. Chiunque abbia provato a chiedere alle hostess del check-in in aeroporto “… a che ora partirà il volo, che è in ritardo…”, si è sentito rispondere “non lo so”. L’organizzazione che sa rispondere, sa connettere la conoscenza della torre di controllo con quella delle strutture di terra, con quella dell’equipaggio, con quella del banco di imbarco. Alcune organizzazioni lo sanno fare, altre no. Allora la competenza a monte è quella di chi ha disegnato il processo, per farlo funzionare. Ma il processo, che non è una procedura, una catena di montaggio, richiede a tutti i suoi operatori di apprendere il suo funzionamento, di apprendere a gestire gli strumenti operativi per farlo funzionare, di apprendere infine come interagire per affrontare “insieme” la devianza, l’emergenza, la imprevedibilità, che caratterizza il processo a differenza della semplice procedura. Per questo l’orchestra fa le “prove” con il Direttore; per questo la squadra si allena durante la settimana per imparare gli schemi di gioco, per questo i vigili del fuoco fanno le esercitazioni per imparare a dominare sull’incendio. Per questo la formazione è debole di fronte al problema dell’apprendimento organizzativo. Ha bisogno di complementarsi con le leve organizzative, ha bisogno di complementarsi con gli strumenti operativi, con i meccanismi per l’integrazione. Soprattutto ha bisogno di trasformarsi da processo di educazione dei singoli o della collettività, in strumento di “learning organization”, di cui da tempo abbiamo cominciato a parlare, un poco ad operare. Questo discorso relativo alla “squadra”, all’organizzazione processo, all’impresa-rete, non riguarda oggi solo l’impresa e l’organizzazione produttiva. Pensiamo alla Pubblica Amministrazione, alla quale è oggi chiesto e affidato il ruolo di promuovere l’economia e il benessere del territorio. Questo è fattibile solo se dimentichiamo gli Enti Pubblici della P.A. tradizionale, per pensare invece ad una “amministrazione-gestione-sviluppo” del “bene comune”, del patrimonio sociale, perseguito dalle istituzioni, dai cittadini, dalle imprese, dalla società INSIEME. I problemi da risolvere, quelli della crescita economica, della mobilità, della sicurezza, della scuola, del lavoro, dell’ambiente, della salute, sono affidati oggi al funzionamento di una rete, di “portatori di interessi”, di stake-holder, che hanno per definizione ruoli e interessi diversi, ma che devono perseguire scopi comuni. I progetti di sviluppo locale hanno bisogno di “partenariato forte”, con una forte rete di legami per superare gli infiniti particolarismi. Anche questo è un processo, che non funziona “spontaneamente”, ma che ha bisogno di nuove competenze. Competenze di “filiera”, di processi cioè che legano diversi operatori, economici e non, tra di loro. Competen45


ze di valutazione economico-sociale, tra diverse soluzioni, spesso rispetto alla non-soluzione di un problema. Competenze di aggregazione del consenso sociale. Competenze di capitalizzazione delle risorse locali e di sviluppo della identità specifica di un territorio. Tutte queste competenze sono di natura organizzativa, sono un “saper fare” sociale, che contraddistingue una rete. Una rete è tale quando non è una semplice pluralità di soggetti, ma quando la qualifica una nuova soggettività con tutte le caratteristiche di una singola organizzazione, che funziona sulla base di processi e di competenze organizzative. Per questo la società della conoscenza va capita fino in fondo, per “vederne” in modo chiaro tutte le implicazioni profonde e ampie, a livello di singolo soggetto, a livello di ogni organizzazione, a livello di una rete e infine di una società. La conoscenza diventa patrimonio solo quando si declina dentro una competenza, che è dei soggetti prima, della collettività dopo, della organizzazione-società alla fine del percorso. 5. Il knowledge management In natura il “progresso” dell’uomo, delle sue diverse organizzazioni sociali, che si sono chiamate tribù, popoli, società, è stato visibilmente legato alla capacità di apprendere, ma anche di “gestire” il proprio patrimonio di conoscenza e di esperienza. Lo ha fatto però avendo a disposizione tempi lunghi, millenni prima, secoli dopo, ma comunque tempi lunghi. Nella società e nelle organizzazioni della conoscenza vogliamo fare la stessa operazione di “gestire” il patrimonio di sapere, ma in tempi molto più corti, con popolazioni molto più ampie, con contenuti molto più articolati e complessi. Inoltre la civiltà nella storia ha accumulato e gestito un patrimonio di competenze prevalentemente “teoriche”, di natura hard e visibile; noi oggi vorremmo fare una operazione analoga anche per competenze “soft”, per definizioni non tangibili, immateriali. In effetti ogni generazione ha ereditato dalla precedente tutto il bagaglio teorico-tecnologico, ma ha beneficiato poco delle esperienze, per esempio, legate alle relazioni, al comportamento, al servizio, al mercato. Tutto questo per dire che oggi, nella organizzazione ad alta intensità di conoscenza, con l’esigenza di sviluppare “learning organizations”, ci si è posto davanti il problema del “knowledge management”, della riproduzione quindi di quel processo storico naturale dell’uomo, della sua sistematizzazione, allo scopo di mutuare quanto avvenuto in passato, ma applicarlo ad un portafoglio di conoscenze e competenze molto più complesso e articolato, con tipologie di conoscenze tecniche e non, materiali e immateriali, riuscendo poi a farlo in tempi molto ravvicinati e con popolazioni 46


molto ampie. Se la formazione vuole davvero dare un contributo più forte dell’attuale alla organizzazione della conoscenza, deve sicuramente allargare il perimetro dei propri interventi, uscire dall’aula, governare il processo di “knowledge management” nelle sue diverse fasi e nelle sue molteplici applicazioni e strumenti, assumendo il ruolo che è stato definito di “facilitatore” di questo processo. Oggi riconosciamo che ogni organizzazione ha un determinante patrimonio di SAPERE, che può essere gestito con la stessa logica con cui può essere gestita ogni altra risorsa aziendale, come lo è di fatto il patrimonio degli impianti produttivi, che sono progettati, acquistati, installati, utilizzati, mantenuti, e di cui misuriamo e miglioriamo continuamente le prestazioni, Proviamo a ricordare brevemente cosa contiene questo processo di “knowledge management”. Possiamo identificare sei fasi del processo di knowledge management: 1. la fase di acquisizione e di sviluppo; 2. la fase di codifica e di industrializzazione; 3. la fase di custodia - accumulo - patrimonializzazione; 4. la fase di diffusione, distribuzione, omogeneizzazione; 5. la fase di monitoraggio, misurazione, valutazione; 6. la fase di manutenzione e miglioramento. Naturalmente occorre una premessa: in tutto questo processo, nelle sue diverse fasi, c’è una duplice componente, c’è costantemente la combinazione di un percorso teorico-organizzativo, e di una alimentazione invece esclusivamente etico-valoriale. Possiamo pensare, per utilizzare un linguaggio non mio, una “corrente fredda” e una “corrente calda”. La prima richiede organizzazione, banche dati, informatizzazione, strumenti operativi, senza i quali la conoscenza difficilmente si accumula e si conserva in situazioni complesse. La seconda, ancora più importante della prima, richiede che il sapere sia legittimato e riconosciuto, che il ventre dell’organizzazione ne faccia un uso strategico, che ne sia il primo attore e utente del processo stesso. Occorre ancora che la comunità accetti lo scambio, ne pratichi il riconoscimento, sia disponibile al confronto e all’innovazione del sapere. Insomma il processo di knowledge management ha un grandissimo bisogno di “educazione” a monte della sua esistenza, e durante la sua vita, prima ancora di essere oggetto di apprendimento esso stesso. Educare il vertice e la comunità ad una mappa mentale che riconosca un modello di impresa, un modello di management, un modello di comportamento che sposta il successo, la convenienza, la convivenza dal potere al sapere. Fatta questa premessa proviamo a vedere le sei fasi del processo citate. 1. L’acquisizione e sviluppo della conoscenza La conoscenza tecnologica ricorre alla ricerca propria, o alla acquisizione di altri, sotto forma di accordi o licenze. 47


Analogamente si può fare con altre conoscenze attraverso diverse modalità: • la analisi e diagnosi dei propri successi e insuccessi. Questa è una prima importante fonte di ricerca. I formatori sanno che il processo di apprendimento degli adulti si consolida con i successi; gli errori sono fondamentali, solo se ne capiamo la ragione, se evitiamo di ripetere l’errore; anche i successi acquistano valore se ne capiamo la ragione. In una organizzazione tutti i successi e gli insuccessi possono essere oggetto di ricerca. In questo senso la formazione può fare davvero molto; • una forma simile di ricerca è la analisi e diagnosi per confronto, quello che possiamo chiamare il benchmark interno. In ogni organizzazione c’è chi fa meglio e chi fa peggio; c’è una unità-fabbrica-filiale-punto vendita, ma anche reparto-facoltà-comune che ha regolarmente risultati migliori degli altri, superiori alla media e agli standard. Ciò che si può scoprire e imparare, analizzando ciò che si fa, le azioni e le prassi dei migliori, è sorprendente. L’eccellenza di ogni organizzazione è già raggiunta, se tutti si avvicinano ai primi, se si riesce ad allineare in alto le prestazioni. Se tutti gli ospedali funzionano come i migliori, se tutti i comuni funzionano come i più bravi, saremmo un altro Paese. Se in Fiat l’Auto va male, ma Iveco va bene, sarebbe utilissimo capire perché, cosa si è fatto di qua e di là, senza limitarsi a dire che “… la situazione è diversa…”. La ricerca poi ha bisogno di essere seguita dalla sperimentazione. Anche nelle organizzazioni si può aprire un cantiere, un laboratorio, un luogo di sperimentazione. Nelle diverse organizzazioni oggi si opera dovunque con la logica del “progetto”, per produrre innovazione o per risolvere problemi e situazioni complesse. Si comincia anche ad aprire progetti che hanno invece un diverso scopo: quello di sperimentare per produrre “apprendimento”. 2. La codifica e industrializzazione La conoscenza e la competenza, per essere gestita utilmente, per essere trasferita e diffusa, ha bisogno di una seconda fase. Le parole chiave di questa operazione comportano la traduzione del sapere in “routine fluibili”. • routine - è evocativo del fatto che la competenza si traduca in PRASSI, in un comportamento capace di generare performance, in modo il più possibile ripetibile, per diventare automatico. Possiamo accettare di utilizzare l’idea di una “ingegnerizzazione” della competenza in prassi “routinarie”. Questa terminologia non ci piace, ci sembra riduttiva e meccanicistica, ma non lo è. La base di ogni professione “codificata” è fatta di routines codificate. Pensiamo al medico chirurgo che affronta una operazione complessa. Non inventa soluzioni cui ricorre durante l’intervento, ma si affida a prassi consolidate, definite “protocolli”; 48


• la routine però deve essere “fluibile”: deve essere definita con un criterio che consente da una parte, e richiede dall’altra, la contestualizzazione alla specifica situazione. In altre parole il “knowledge management” prende la conoscenza e l’esperienza acquisite e le incorpora in una serie di prassi codificate che mettono a disposizione di chi opera tutto il bagaglio incorporato dal passato, lasciando però da un lato, e richiedendo dall’altro, la gestione della decisione. Questa operazione di “codifica” avviene in diversi modi. Il più usuale e quello dei “manuali”. A scuola impariamo dai libri, ogni dilettante che vuole coltivare i fiori, o dedicarsi alla pesca o alla fotografia, va in libreria e cerca un manuale, lo studia, poi sperimenta da sé, poi se ha imparato lo mette da parte, e se non riesce a imparare lo butta via. Lo scopo dei manuali è quello di rendersi inutili, ma sono una insostituibile fonte di sapere. Le ricette di cucina contengono “routines fluibili”, che hanno bisogno di essere complementate dalla capacità di chi le consulta. 3. La patrimonializzazione La conoscenza si può accumulare e conservare. In ambienti tecnici oggi la “memoria tecnica” è d’uso: terminato un progetto per esempio, si lascia traccia documentata di come lo si è progettato e degli “apprendimenti” che si sono realizzati durante la progettazione stessa. In ambiti al di fuori di quello teorico, questa prassi non è diffusa. Anche qui la formazione può contribuire molto. Si sta peraltro diffondendo la individuazione e la conservazione delle “best practice”. La conservazione della conoscenza è oggi molto aiutata dalla tecnologia: è possibile costruire “scaffali e armadi” per custodire, conservare, accumulare conoscenza, con il supporto della tecnologia; è possibile costruire “banche dati” che consentano di accumulare conoscenza ed esperienze, praticamente in tutti i campi. Anche le comunità di pratica sono strumentate e organizzate per consentire a ciascuno di alimentare la conoscenza comune, di scambiarla e di renderla disponibile per gli altri. Internet è di per sé, un grande contenitore di conoscenza, di tutti i tipi, ormai disponibile per tutti. 4. La diffusione, distribuzione, omogeneizzazione Questa è la fase più tradizionalmente conosciuta e utilizzata: la scuola è da sempre l’istituzione deputata alla diffusione del sapere, nelle sue più diverse espressioni. La formazione tradizionale è un mezzo e un canale per la diffusione della conoscenza. Qui però vogliamo collocarci all’interno dello specifico problema di knowledge management, che opera all’interno di una organizzazione che apprende, e quindi vogliamo richiamare la diffusione di quello specifico sapere che si è creato in modo specifico e distintivo all’interno di quella organizzazione. 49


Le Corporate University erano state pensate a questo scopo: di essere University di una specifica organizzazione, deputate a diffondere proprio le specifiche conoscenze sviluppate, codificate all’interno dello stesso. La formazione può fare molto per mettersi al servizio di questo specifico processo, per trasformarsi in specifica “scuola interna”, luogo deputato ad essere il punto di riferimento per questo particolare scopo. 5. Il monitoraggio, la misurazione e la valutazione Il tema della misurazione delle competenze è d’obbligo: ciò che non si misura non esiste. Ogni competenza ha dei “grading”: la misura delle competenze non è solo un accertamento della sua presenza o meno, ma una vera e propria valutazione del suo livello. Questa opinione è possibile solo se si dispone di uno standard, di criteri di riferimento per la valutazione. Nello sport esistono le misure quantitative, ma anche quelle qualitative: si uniscono le competenze nel judo, nel pattinaggio artistico; per farlo occorre avere definito a monte un criterio. Le competenze dentro una organizzazione si possono graduare in base a diversi criteri; per esempio si può graduare la competenza in base al suo empirismo o sostegno teorico; si può misurare in base alla possibilità di risolvere problemi semplici o complessi; in base al grado di autonomia di chi le possiede; in base alla profondità e all’ampiezza. Oggi le “scorecards” sono uno strumento teorico per farlo. Monitorare le competenze vuole dire valutarle individuare chi le possiede, dove si trovano, la loro diffusione in una popolazione, il tasso di aggiornamento e di innovazione, la distanza delle competenze esistenti rispetto a quelle richieste; il monitoraggio vuole dire inventariarle, mapparle, valutarle in modo molto articolato, a livello individuale, collettivo. 6. La manutenzione e il miglioramento Il monitoraggio ha lo scopo di poter affrontare il miglioramento. Questo ci può portare a cercare nuove competenze, o ad aggiornare le precedenti, o a consolidarle e mantenerle, o a identificarne la qualità, o a migliorarne la diffusione. Tutti percorsi di miglioramento possibili all’interno di un focus di knowledge management. Gli strumenti del miglioramento ci riportano alla fase iniziale, quella della acquisizione, con un ampliamento delle fonti e dei percorsi. Questo è il richiamo al processo di knowledge management, alle sue fasi e ai suoi strumenti. Evidente la possibilità per la formazione di diventare protagonista dell’intero processo, o di specializzarsi su una specifica fase, o di inserirsi contribuendo più o meno parzialmente a singole attività e strumenti. Nella società e nella organizzazione della conoscenza il governo del processo di knowledge management sarebbe dovuto: abbiamo davanti un grande lavoro per realizzarli. 50


6. Quale formazione nella Società della conoscenza? Oggi, e sempre più nel futuro, le nostre organizzazioni avranno un crescente bisogno di trasferire e distribuire conoscenza, di diversa natura e a diversi scopi. Un bisogno riguarda l’aggiornamento delle conoscenze esistenti. Si dice che un medico mediamente, se non si aggiornasse continuamente, avrebbe una competenza obsoleta nel giro di tre-quattro anni. Nel campo della elettronica civile, la tecnologia dei telefoni cellulari ha un ciclo di vita inferiore ad un anno. Ma anche nel nostro mestiere di formatori assistiamo ad un rapido evolversi delle competenze richieste: tutti gli interventi “funzionali”, dall’e-learning, al knowledge management, come abbiamo visto, richiedono un forte aggiornamento delle conoscenze e competenze. Se pensiamo al passaggio dal modello di management del profitto a quello del valore, abbiamo qualcosa di più di un semplice “aggiornamento”; siamo già nell’area di uno spostamento di assunti di base e paradigmi di riferimento. Poi dobbiamo pensare al “grading” della conoscenza: si può conoscere in tanti modi, più o meno approfonditi. Posso dire di “conoscere” una persona, perché l’ho incontrata una volta, oppure perché l’ho frequentata a lungo, oppure perché ne sono un intimo amico. Nella Bibbia la “conoscenza” di una donna aveva poi un altro significato. Posso dire di conoscere il mercato, perché ne conosco i dati qualitativi e la morfologia, oppure perché ne conosco a fondo le leggi che lo governano. Posso dire che dei flussi finanziari ho una conoscenza empirica, oppure sostenuta da un forte bagaglio di conoscenza dei modelli teorici che li interpretano. Dobbiamo immaginare che la profondità delle conoscenze richieste nelle organizzazioni sia nel tempo incrementale, con “grading” più alti per misurarne la disponibilità. Un altro percorso indica la progressiva integrazione delle diverse conoscenze che l’organizzazione ci richiede; la interdisciplinarietà è il portato dei processi, delle forme organizzative che si spostano dalla sequenza alla simultaneità, dalle strutture sempre più chiamate ad assumere un ruolo di “sistemiste” e a giocarsi sul piano della “combinazione” dei saperi. Abbiamo ancora l’esigenza di elaborare e di diffondere nuove competenze, prima non disponibili. Pensiamo alla P.A., la cui missione e strategia, comandata dalle esigenze dei cittadini, e mediate dalla politica, è ormai rivolta a promuovere lo sviluppo del territorio. Per farlo occorre disporre di conoscenze e competenze relative alle diverse “filiere”, alle connessioni tra gli interessi dei diversi “stakeholders”. La gestione della mobilità, la tutela dell’ambiente, la promozione dell’economia locale, la gestione del problema dei rifiuti, e tutte le altre nuove problematiche economiche e sociali, richiedono lo sviluppo di competenze nuove, sicuramente per la P.A., spesso nuove in assoluto. 51


L’innovazione in generale, non solo tecnologica, ma di mercato, organizzativa, di servizio; l’allungamento e lo spostamento della catena del valore richiedono nuove competenze. Questi diversi trend stanno a indicare un crescente bisogno di formazione? Sicuramente no. La formazione ha un costo molto elevato, in termini economici e di tempo; la formazione ha evidenti limiti quantitativi al suo utilizzo. In realtà la società della conoscenza non ha bisogno di formazione, ma ha bisogno di apprendimento, ed evidentemente non è la stessa cosa. In realtà ha bisogno di più valore nell’apprendimento: non solo apprendimento delle persone, ma trasferimento nel lavoro, ma applicazione dell’apprendimento alle prestazioni ed al loro miglioramento. Ancor più dobbiamo pensare ad un apprendimento utile al posizionamento competitivo della propria organizzazione. I passaggi sono quattro, se vogliamo pensare al “valore dell’apprendimento”. L’obbiettivo del futuro è quindi quello di migliorare progressivamente il rapporto costi-benefici della formazione: più apprendimento utile con meno costi per ottenerlo. A questo punto la funzione tradizionale dell’aula, e anche quella più innovativa del fuori aula appaiono una risposta importante, ma insufficiente a rispondere alla quantità e qualità della odierna e futura società della conoscenza. Dobbiamo trovare un meccanismo che venga incontro a questa contraddizione: più apprendimento utile, con meno formazione. Ci viene incontro una antica riflessione: si impara facendo. La risposta che dobbiamo trovare nell’aumentare il prodotto di apprendimento contenuto nel lavoro, dobbiamo dare al “lavoro” un diverso contenuto e significato. 7. Lavoro e apprendimento Nella società della conoscenza il lavoro cambia la sua intrinseca natura. Il taylorismo, più in generale la produzione di massa e l’economia dei capitali, non solo ha creato la rigida separazione dei compiti, ruoli stretti e a confini definiti, ma ha soprattutto separato il pensiero dall’azione, il fare dal pensare a come fare meglio. Non solo la catena di montaggio aveva questo dogma, ma parimenti il “funzionario” burocrate era preposto alla semplice applicazione di procedure; anche a livello di management era chiaro il distinguo tra il livello responsabile di elaborare le strategie, e gli altri dirigenti responsabili di realizzarlo. Nella organizzazione “knowledge intensive” tutto quanto è completamente rovesciato: a tutti i livelli il lavoro ha visto una ricomposizione tra l’azione, concreta, pratica, materiale, e la riflessione, astratta, teorica, immateriale. Silvio Ceccato, un personaggio singolare, autore che si è collocato tra la scienza, la filosofia e la narrazione, spiegava che l’attività dell’uomo è sostanzialmente fatta di lavoro, di gioco, di studio. Spiegava Ceccato che 52


il lavoro è una attività che ciascuno di noi fa, la cede ad altri, per avere un corrispettivo compenso. Il gioco, che gli adulti chiamano “hobby” è invece parimenti un lavoro, una fatica, un impegno, ma è fatto per sé, non è ceduto agli altri, e la ricompensa non è lo scopo perseguito. Lo studio è parimenti un lavoro, ma è finalizzato ad avere vantaggi dilazionati nel tempo. Ora l’organizzazione di oggi è “avvicinante” questi tre diversi momenti: certamente ha avvicinato lavoro e studio, in parte anche lavoro e hobby. L’ideale sarebbe arrivare ad una completa sovrapposizione dei tre momenti, dei relativi contenuti e significati. Per ora riportiamo questa ricomposizione certa tra fare e pensare, tra esecuzione e riflessione, in tutti i ruoli dell’organizzazione. Anche a livello operaio, in larga parte della produzione, il lavoro non è solo più esecuzione, fatica, manualità. L’attuale addetto alla conduzione di un impianto, ne alimenta e sorveglia il funzionamento, aggiorna una lunga serie di dati sulla produzione, la qualità, gli scarti, i consumi, le soste; altrimenti nella “fabbrica integrata” tutti i grafici nell’andamento dei processi sui tabelloni della cosiddetta “gestione a vista”, e pensa a produrre quantità, qualità, flessibilità, continuità, miglioramento del suo impianto. La quantità di conoscenza richiesta e prodotta è cospicua. Il “lavoro” sta diventando “immateriale”, pieno di analisi, diagnosi, interventi e sempre più vuoto di semplici esecuzioni. Un meccanico che si occupa di riparazioni di auto, usa mediamente le mani per due ore su otto: per il resto utilizza diagnostica elettronica e consulta manuali, studia interventi. La pura esecuzione non contiene più valore: in fabbrica finisce in automazione, in ufficio finisce nel pc, altrimenti progressivamente viene eliminata. Un addetto allo sportello di banca che si limiti a fare semplici operazioni manuali sarà presto sostituito dalla automazione: il valore della sua prestazione sarà giustificato solo dal contesto di relazione con il cliente. Il lavoro quindi ha un duplice trend: da una parte richiede un progressivo incremento di contenuto di conoscenza, indispensabile a chi lo realizza. Dall’altra parte però il lavoro genera conoscenza, è la fonte principale per produrre apprendimento, così come è stato per secoli e millenni di storia. Nel nuovo umanesimo delle nostre organizzazioni attuali e future ritorna ad essere così. Per rispondere quindi all’esigenza di generare approfondimento utile con meno costi e con meno formazione, la strada maestra da perseguire sembra essere questa. Dobbiamo imparare ad insegnare come rendere più esplicito e consapevole, più intenso e più utile il potenziale contenuto di apprendimento che esiste nelle azioni quotidiane. Abbiamo bisogno di una “azione riflessiva”: un lavoro che è certamente costituito da un fare, da una azione, che contiene conoscenza, ma che produce contemporaneamente una “riflessione”. Abbiamo bisogno che l’azione quotidiana lavorativa produca due output e non uno solo: una prestazione da una parte, ma insieme ad un secondo 53


output immateriale, che consiste nel progressivo accumulo dei “learnings”, sia della memoria storica degli errori, sia dei rumori e dei numeri… Si tratta di utilizzare l’“action learning” o il “training on the job” come modalità didattica, come metodologia formativa alternativa all’aula tradizionale, ma di educare le persone a fare questa action learning continuativamente, al di fuori di un intervento istituzionale finalizzato prioritariamente all’apprendimento. Si tratta di identificare l’apprendimento nel lavoro come sottoprodotto stabile, esplicito e consapevole, fruibile per tutti, anche e soprattutto al di fuori di un intervento formativo. 8. Esempi di evoluzione del lavoro Proviamo a vedere alcuni esempi di come la conoscenza sta trasformando il lavoro. In Autogrill, nei punti di ristoro dove esiste un market, l’addetto al rifornimento della merce negli espositori è una funzione chiave. Il suo compito è quello di rilevare i prodotti venduti, prelevarne altri dal magazzino, registrarne i codici, e fisicamente rifornire la merce esposta, secondo le stesse quantità e mix precedenti, di marche, formati, assortimento. In alcuni punti eccellenti la persona è stata “addestrata” a fare qualcosa di più e di meglio. Consultando nel computer la velocità della merce acquistata, nel suo reparto, nelle ultime due settimane, conoscendo le politiche di assortimento centrali e alcuni fondamentali di virtual-merchandising, alla persona addetta a questa mansione è stato chiesto di modificare lo spazio assegnato ad ogni prodotto a favore di quelli che hanno avuto una maggiore rotazione. Lo scopo è stato di assegnare una responsabilità di incrementare il ricavo del reparto, con la conoscenza necessaria a compiere l’operazione discrezionale di gestire autonomamente l’utilizzo dello spazio espositivo. In una seconda fase alla persona è stato insegnato, conoscendo il margine di redditività dei diversi prodotti e i fondamentali del DPP, Direct Product Profitability, di incrementare ulteriormente autonomia e responsabilità per gestire la redditività del proprio reparto, pur mantenendo sempre fisso l’assortimento messo a disposizione dal marketing centrale. In una ulteriore fase si è insegnato alla persona come organizzare piccole operazioni di promozione: per esempio nel “giorno del Papà”, unendo una cravatta a una bottiglia con un piccolo nastro, ed esponendo il tutto su un piccolo tavolo, per incrementare ulteriormente il valore dello spazio. Questo è un esempio di trasformazione completa di un “lavoro”; inizialmente ripetitivo, noioso, faticoso fisicamente, di pura esecuzione, in larga parte materiale, fino a fare diventare l’addetto un vero e proprio “imprenditore del suo reparto”, che conosce le logiche di consumo, l’impor54


tanza della luce espositiva, l’indice di rotazione delle merci, le previsioni di rifornimento, il suo mercato locale. Abbiamo riunito l’azione a una buona dose di pensiero, anzi la componente esecutiva è ormai annegata dentro a molti spazi conoscitivi. Prendiamo adesso l’esempio di un ruolo ad alto contenuto tecnico, in cui il lavoro ha già in sé una buona dose di competenze tecniche relative al prodotto progettato e vediamo dove la conoscenza aggiuntiva arricchisce, anche in questo caso, il suo contributo alla catena del valore. Iniziamo dalle conoscenze economiche, al costo dei materiali, al costo della produzione, al costo della distribuzione, al costo di esercizio o in caso, di manutenzione, fino ad arrivare a saper valutare non solo il costo del prodotto all’origine, ma anche tutti i costi che il prodotto si porterà dietro nel suo ciclo di vita dello stesso. Quando il progettista conosce e sa governare questa lunga catena di costi avrà arricchito il suo patrimonio di conoscenze tecniche con una ricchissima e profonda conoscenza di tutti i processi operativi a valle del suo ruolo, dalla produzione al cliente fino alla fine del prodotto. Facciamo la stessa operazione per quanto riguarda la conoscenza del mercato, del cliente, dei suoi bisogni, dei suoi fattori di acquisto e soprattutto di quanto il cliente è disposto a pagare, quanto apprezza, quanto valore attribuisce a tutti benefici del suo prodotto, benefici materiali e immateriali, bisogni esistenti, emergenti e latenti. Adesso passiamo invece alle conoscenze utili al progettista relativamente ai suoi futuri fornitori, di materiali, di componenti, di servizi. I suoi fornitori sono esterni, ma anche interni. Le sue conoscenze tecnico-economiche aggiuntive gli consentono di produrre valore per i suoi fornitori esterni e/o interni, utilizzando al meglio la loro risorse, i loro materiali, i loro impianti, la loro competenza tecnica. In questo caso, completamente diverso dal precedente, abbiamo fatto una operazione diversa, abbiamo fatto in modo che il progettista sviluppi una conoscenza di quanto la sua azione progettuale influisca a produrre risultati ed effetti lontani dal suo ruolo, sia a valle verso produzione e mercato, sia a monte verso produzione ancora e fornitori. Il lavoro che era già ricco di conoscenze, tutte interne al suo ruolo di progettista, lo ha di nuovo trasformato in un imprenditore del suo prodotto, in un “artigiano industriale”, che conosce profondamente, pur nel suo ruolo profondamente tecnico, tutti gli altri fenomeni ed effetti tecnici, di qualità di processo, di mercato, per l’intera catena del valore. Anche in questo caso la trasformazione è notevolissima. Prendiamo un terzo caso, il ruolo del venditore, nuovamente diverso dai due precedenti. Il ruolo di venditore è ricco di capacità e molto povero di conoscenze. Il ruolo classico di venditore richiede una persona brillante, estroversa, un po’ aggressiva, ragionevolmente furba. Il suo successo non dipende quasi per nulla dalla sua quantità e qualità di conoscenze, comunque acquisite. Deve conoscere un po’ il prodotto che vende, deve essere 55


informato sulle condizioni di vendita, ma poco più. Saper vendere è sostanzialmente legato alle sue doti naturali, al suo DNA genetico, alle qualità della persona, non allo studio e alla scuola. Per lui “conoscere il cliente” vuol dire saper cogliere le debolezze, saper lusingare la sua vanità, lucrare sulle arrendevolezze, non vuol certo dire conoscere i bisogni, le funzioni d’uso, i problemi operativi. Insomma, quello del venditore è un ruolo che è ricco di azione, di azione intuitivamente “intelligente”, povero di valutazioni razionali, di problem-solving analitico, di sapere professionale. Un ruolo, potremo dire “muscolare”, cui si addice la ricca tradizione di aggettivazioni “maschiliste”. Oggi questo venditore, diventato partner del cliente, ha studiato molto e si è arricchito di moltissime conoscenze. Conosce il mercato potenziale, conosce come il cliente compera da altri e perché. Conosce il valore economico che offre al cliente. Il venditore di Ferrero della Grande Distribuzione, diventato Key Account, discute con il Category Manager della distribuzione, fa piani di trade marketing e di comarketing, è in grado di calcolare la redditività che il suo prodotto genera per il “trade”, misurato per rapporti ai metri lineari occupati. È diventato anche lui un “imprenditore”, in rapporto al cliente, che è diventato un’azienda multinazionale di distribuzione, che si trova davanti. Anche qui una diversa concezione del lavoro, che non è misurato dal numero delle visite fatte in un giorno, ma è misurato addirittura dalla redditività del cliente, ma continuativa nel tempo e destinata a durare perché stabile negli anni. Tre esempi diversi, con una costante comune: un significato diverso del lavoro, un diverso rapporto tra la persona stessa e il suo lavoro, un tramonto della nomenclatura tradizionale e il morire di mansioni tradizionalmente riconosciute e il nascere, dentro le organizzazioni della conoscenza, di “professioni”. 9. La formazione ed il suo ruolo Per concludere le osservazioni finali sullo stato dell’arte della formazione nelle organizzazioni di oggi. Per questo farei riferimento alla ricerca appena conclusa, di AIF insieme alla Università di Cà Foscari, sugli investimenti e sulle attività formative di venti grandi aziende italiane. La ricerca è stata molto analitica, qualitativa e quantitativa, con questionario e intervista, ha tracciato tutti i punti relativi al processo di formazione; le aziende erano selezionate, tra quelle che sono significative nell’impegno formativo. I risultati, che qui non abbiamo lo spazio per riportare almeno in sintesi, consentono peraltro una attendibile lettura trasversale dell’attuale ruolo della formazione. Emerge un quadro con molti elementi di positività: la formazione è oramai legittimata, non ha più crisi di identità, non è 56


più autoreferenziale. Gli investimenti sono stabili o leggermente crescenti. La domanda invece è in aumento. Il processo di analisi dei bisogni è più legato a strategie e piani, il rapporto tra la domanda e i bisogni è valutato in modo sostanzialmente positivo. C’è un allargamento delle popolazioni, la spinta verso una formazione non solo di qualità, ma “che serve”, c’è un crescente interesse verso la valutazione dei risultati, c’è un crescente raccordo tra la formazione e le linee di sviluppo, e il modello delle competenze. Questo è il quadro della positività, che assegna alla formazione un crescente ruolo nel miglioramento della competitività. Emerge però anche un quadro di potenziali criticità, dovuto proprio al fatto che emerge un trend verso la “diffusività” del fenomeno formativo e dell’apprendimento. Il suo allargamento di confini ha diverse direttrici; la responsabilizzazione delle persone al proprio sviluppo, che inizia a formare un legittimo portatore di esigenze personali; il decentramento e la presa in carico della formazione da parte di linee di business; l’uscita della formazione dall’aula al processo di knowledge management; l’apparire chiaro di crescente visibilità di una “formazione invisibile”, insita proprio nel lavoro. Tutte queste spinte vedono la formazione in ritardo sia nella sua innovazione, sia nel governo di un fenomeno più diffuso, sia nel ruolo di integratore di sistema tra nuove articolazioni della formazione. Tutto questo lascia ampi spazi di immaginazione per un ruolo futuro della formazione nella società della conoscenza.

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Come e perché parlare di metacompetenze per la formazione di Michele La Rosa

1. Introduzione Quanto di seguito sinteticamente esposto, muove ovviamente “da lontano” e trova le sue ragioni in motivazioni macro e più generali, oltreché specifiche dell’ambito dell’apprendimento, che intendiamo in questa sede evocare e presentare, legittimandole, sia pur in termini sintetici. I nostri passaggi razionali e logici proporranno il seguente percorso analitico. Innanzitutto prendere consapevolezza dei profondi mutamenti societari avvenuti e cui stiamo tuttora assistendo e che, pur non potendo essere trattati analiticamente in questa sede, mettono in rilievo una intensità, profondità e rapidità di condizioni nuove che unite alla dimensione della complessità paiono stravolgere i consueti e consolidati percorsi della conoscenza e dell’apprendimento; ciò unito alle trasformazioni (che percepiamo anche se forse non riusciamo ancora a valutarne tutte le implicazioni) apportate dalle nuove tecnologie, muta lo scenario di riferimento e di partenza della nostra analisi. Dunque si ri-parla di competenze ed in specifico di metacompetenze o competenze strategiche (nel senso in cui spiegheremo più oltre), perché a nostro parere in tale prospettiva non possono non mutare gli obiettivi, i percorsi, la metodologia e gli strumenti che consolidati erano ormai acquisiti nel campo sia della formazione sia dell’apprendimento. E questo dunque rappresenta un primo ambito da specificare. Secondariamente sta mutando, ma vorremmo affermare senza tema di smentita che è già profondamente mutata, la platea dei discenti; e ciò non solo in quanto a composizione, così come ad una prima analisi potrebbe apparire, ma anche in quanto ad aspettative e livelli e tipologie di socializzazione e quindi di linguaggi e possibilità/modalità di ascolto. 58


Di conseguenza quella che era la formazione tradizionale, cui peraltro il sistema sociale non aveva mai dedicato estrema attenzione quasi i modelli formativi fossero infallibili ed immutabili, oggi si impone più che mai urgente e prioritaria in termini di formazione continua e formazione permanente. Così non solo si sono previsti percorsi universitari nuovi, ma si avviano iniziative di aggiornamento più sistematiche e meno “ritualistiche” rispetto al passato nonché ci si pone il problema della formazione continua e/o permanente come impegno del sottosistema socio-culturale ma anche come dovere del soggetto di autoformazione ed autoaggiornamento. Tuttavia, in tutto l’immenso scenario della formazione e delle competenze (perché oggi si deve parlare di competenze e si deve formare per l’occupabilità che è altro rispetto non solo alla professionalità “classica”, “chiusa”, predefinita ed “ingessata” – quando un sistema relativamente statico forse lo consentiva – ma anche allo stesso limitarsi all’approccio per competenze) e proprio per l’ottica nuova che crediamo debba assumere la formazione ed al compito nuovo cui deve assolvere, nel rapporto fra le cosiddette competenze specifiche, specialistiche e/o “tecniche” e le competenze strategiche (o metacompetenze come in una analisi presso l’Isfol si è appunto definito ed alla quale per i riferimenti teorico-interpretativi qui ci rifaremo) noi non possiamo non privilegiare queste ultime, focalizzando dunque la nostra attenzione su di esse. Ed in questo caso le competenze strategiche paiono doversi approcciare sia in termini traversali (come competenze “comuni” – non identiche – nel nostro caso a tutto il management) sia in termini distintivi per aree funzionali. E vedremo che sia la definizione sia la loro “gestione” risulta profondamente diversificata. Pensiamo così sempre più a processi di autoformazione cui si deve fare riferimento in maniera più forte e decisa in sede universitaria ma lifelong in entrambi i casi, al pari di processi di formazione all’ingresso sempre in entrambi i casi anche se profondamente differente per le modalità istituzionali che potrà/dovrà assumere. Ma pensiamo a processi di aggiornamento differenti sufficientemente ampi, immaginati anche in forme autonome e autogestite, anche se poi dovrà avere un ruolo la valutazione periodica e incisiva nonché una funzione di stimolo e di “servizio” in sede attuativa ed operativa lasciata ai soggetti interessati ed alle relative aggregazioni di base. Non intendiamo avventurarci in implicazioni operative analitiche; certo emerge come debbano oggi essere considerate metacompetenze le capacità di conoscere i soggetti con cui ci relazioniamo (collaboratori o clienti che siano) così variegati per socializzazione, linguaggio ed esperienze, così apparentemente “autonomi”; la capacità di trasmettere oggi le conoscenze esaltando il ruolo del “metodo” e della trasmissione di una metodologia piuttosto che di contenuti specialistici (da trasmettere sì ma come esemplificazioni forti); la capacità di conoscenza e di governo delle nuove tecno59


logie (intendendo il concetto di governo come saper autonomamente e validamente utilizzare le potenzialità conoscitive delle nuove tecnologie; in specifico non è tanto rilevante sapere navigare in internet per cercare i siti necessari, ma essere consapevoli del tipo di conoscenze che questi siti sono in grado di dare; le fotocopie cioè non fanno conoscenza e neppure un loro potenziale accumulo); la capacità di comprendere il reale rapporto che deve sussistere fra lezioni frontali, studio personale ed altre attività (l’apprendimento non è isolamento ma padronanza del proprio essere nel sociale); la capacità di innovare; la capacità del saper (e saper insegnare a) “formalizzare” l’apprendimento (come si fa una sintesi, come si organizza un discorso) che è anche personalizzare l’apprendimento stesso; la capacità di “gestire” i propri collaboratori. 2. I mutamenti in atto nella società La società del terzo millennio è assai diversa da quella per la quale era stato progettato il sistema di istruzione che stiamo per abbandonare (scuola) o è stato abbandonato (università). Globalizzazione, new economy, finanziarizzazione dell’economia, società dell’informazione, apertura dei mercati internazionali sono alcuni degli elementi che caratterizzano un nuovo modello di società con il quale il sistema formativo deve oggi fare i conti. Per fare questo si richiameranno alcuni termini che ormai costituiscono una sorta di mappa per leggere le attuali trasformazioni sociali: al tema della globalizzazione e della complessità si aggiunge quello dell’individualizzazione dei rapporti tra individuo e società. L’attuale fase storica è infatti sempre più caratterizzata da una accentuata disconnessione tra l’esperienza soggettiva e l’organizzazione della società. Si ridisegnano oggi le traiettorie tracciate dai punti di contatto tra l’esperienza individuale e quella sociale; mutano le mappe spaziali della vita sociale, oltre l’esperienza dei confini nazionali (Harvey, 1993), per lasciare spazio a nuove composizioni: i sistemi economici e finanziari, sostenuti dai progressi tecnologici, in particolare nel campo delle nuove tecnologie comunicative, si organizzano su scala mondiale, amplificando le interdipendenze, a livello di conseguenze ed effetti a livello di sistema economico globale, ma allentando in parte, o riconfigurando i radicamenti politici e territoriali e soprattutto la possibilità delle persone in carne ed ossa di percepire come “reali” o piuttosto “realistici” i meccanismi che governano i processi che presidiano il governo dei fenomeni sociali ed economici. Anche i governi e le amministrazioni statali che presidiano le varie sfere di attività si muovono secondo strategie sempre più “de-territorializzate” (Wilke, 1999), evidenziando connessioni e vincoli di tipo co60


gnitivo, che riguardano l’utilizzo di saperi specialistici, il riferimento a determinati contesti simbolici, la conformità all’azione di organismi internazionali, la diffusione di stili culturali. Le idee, le informazioni, le culture, supportati dalle tecnologie telematiche, viaggiano ormai a livello planetario (Baraldi, 2003). Sugli esiti di questo fenomeno non ci sono indicazioni univoche: omologazione v.s. deficit di socializzazione, decomposizione e ricomposizione delle piattaforme culturali; ciò che si constata è l’indeterminatezza e l’autonomizzazione dei percorsi individuali rispetto a questi aspetti del vivere sociale: “Oggi l’individuo inizia a rivendicare con forza […] la sua unicità e la sua singolarità, la sua simultanea appartenenza a processi e reti di interazione quanto mai differenti. In una parola, sempre di più l’individuo si pone come unità culturale in se stessa autonoma, che solo in quanto tale può diventare un soggetto nei circuiti di dipendenza più ampi” (Bocchi, Ceruti, 2004). Internazionalizzazione dell’economia, crescita esponenziale del sistema delle telecomunicazioni che destrutturano i vincoli di spazio e di tempo tipici della società industriale rappresentano fattori di trasformazione che non possono non avere riflessi sul sistema formativo, a partire dalla pressione di richieste per la diffusione delle conoscenze (linguistiche, informatiche e tecnologiche, ecc.) indispensabili per affrontare la complessità e la relativa necessità di reperire le risorse per diffondere il più possibile queste competenze. L’esigenza di formare persone con elevate qualifiche, calate sulla cultura locale, deve sapersi conciliare contemporaneamente con la necessità di fornire quelle competenze necessarie per rapportarsi ad una società che non ha altri confini che non siano quelli planetari. Ciò anche alla luce delle principali trasformazioni del mercato del lavoro. Un ulteriore aspetto della globalizzazione che interroga il sistema della formazione è infatti la polarizzazione del mercato del lavoro tra professioni qualificate e altre a bassissima qualificazione e relative differenziazioni a livello di status, tutele (Rizza, 2003), ecc. Infatti con la progressiva destrutturazione del mercato del lavoro entra in crisi anche la consequenzialità tra istruzione e occupazione anche se da un lato diminuiscono i rischi di disoccupazione e precarizzazione lavorativa all’aumentare dei titoli di studio; sono dall’altro lato sempre più indeterminate le probabilità che l’istruzione garantisca accesso a determinate occupazioni. In questa prospettiva l’istruzione può essere efficacemente interpretata come una chance: rappresenta una conditio sine qua non per l’inserimento lavorativo desiderato, ma nello stesso tempo non lo garantisce. Si allunga così la fase di transizione tra scuola e lavoro e in questa area grigia assumono sempre più rilevanza le competenze acquisite, ma anche le risorse in termini di capitale sociale con il portato di disparità che ciò comporta. 61


La crisi del modello fordista e quindi della concezione standardizzata ed omologante del lavoro ha avviato nuove tendenze nel modo di intendere ed organizzare il lavoro. I modi di lavorare si trasformano perché le tecnologie e le imprese sono divenute più flessibili, più “snelle” e più reattive agli stimoli del mercato ed il lavoratore stesso è costretto ad essere più flessibile e reattivo. Profondi cambiamenti si riscontrano dunque nei modi di lavorare, nei luoghi, nei tempi, nei contenuti del lavoro e quindi nel lavoratore stesso. Cambiano quindi le caratteristiche richieste ai “nuovi” lavoratori: a questi non vengono semplicemente chieste conoscenze generali o competenze specialistiche, ma anche e soprattutto propensione ad apprendere, capacità di cogliere i segnali di cambiamento e di reagire ai problemi, flessibilità e mobilità. Alle competenze tradizionali si aggiungono oggi competenze di carattere generale e trasversale (o metacompetenze), che consentano quindi al lavoratore di muoversi in contesti sempre meno regolati. 3. Dalla professionalità all’occupabilità Il mutamento radicale riguardante il mercato post-fordista del lavoro e delle professioni è, dunque, sempre più flessibile, diffuso sul territorio, mutevole ed aperto. Ciò pone l’accento sull’importanza della circolazione del sapere in una logica tesa alla formazione dell’individuo non solo nelle sue componenti legate al lavoro e alla sfera produttiva, ma anche nel rispetto della sua crescita personale e sociale quale soggetto responsabile ed attivo. Centrale diviene il ruolo dell’individuo come risorsa, in cui l’identità professionale richiama non solo abilità di ordine tecnico, ma anche un capitale umano da costruire e ricostruire lungo tutto l’arco dell’esistenza. L’apprendimento per tutto l’arco della vita, l’acquisizione di competenze professionali trasferibili basate sulle abilità necessarie in un mercato del lavoro flessibile, mobile, fluido nel consentire passaggi da un rapporto di lavoro ad un altro, ha posto al centro il tema dell’occupabilità che implica, tra gli obiettivi prioritari, la predisposizione di politiche attive dell’occupazione al fine di formare una forza lavoro competente, qualificata che sia in grado di agire in un mercato del lavoro in perpetuo cambiamento. Le politiche del lavoro, in altri termini, sono oggi incentrate su alcune idee di fondo intrecciate tra loro: la flessibilizzazione dei rapporti di impiego da sviluppare attraverso incentivi alla mobilità tra un’occupazione ed un’altra e tra rapporti standard e non standard (Samek Lodovici, Baici, 2001; Magatti, Rizza, 2003), la correlazione tra cicli produttivi ed orari di lavoro e fra questi ultimi e i carichi di cura familiari, spesso concentrati sulle donne (Saraceno, 1998), la formazione professionale e quella conti62


nua lungo tutto l’arco della vita (La Rosa, 2002), la messa a punto di servizi per l’impiego che assicurino con continuità un adeguamento delle caratteristiche del lavoro ai cambiamenti della produzione e delle tecnologie (Acconero, 2002). In questa direzione, il concetto di occupabilità si prefigge l’obiettivo di un miglioramento qualitativo delle performance del mercato del lavoro e delle opportunità per gli individui, offrendo loro possibilità di maggiore scelta attraverso processi di riqualificazione (Tronti, 2001). I lavoratori non sono infatti più sostenuti da un addestramento centrato su contenuti specifici, ma si orientano verso la crescita della capacità di apprendere, al fine di mettere in relazione i differenti contenuti professionali appresi con le relazioni sociali attivate. Il tema dell’occupabilità è anche una delle questioni centrali su cui convergono le direttive comunitarie a partire dalla revisione del Trattato dell’Unione Europea realizzato ad Amsterdam nel 1998. Il raggiungimento della piena occupazione rappresenta il nucleo centrale della strategia dell’Unione Europea che assegna un ruolo rilevante al miglioramento della capacità di inserimento professionale, all’incentivazione dello spirito imprenditoriale, alla riorganizzazione del lavoro promovendo la reciproca capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori, il rafforzamento delle politiche relative alle pari opportunità. Più specificatamente l’Unione Europea ha enfatizzato i seguenti elementi che rappresentano linee direttive che tutti gli stati membri sono invitati a percorrere: • migliorare l’occupabilità, ovvero le capacità di inserimento professionale, attraverso misure di politica attiva del lavoro mirate alla formazione dei giovani e dei disoccupati di lungo periodo; • sviluppare l’imprenditorialità, favorendo iniziative di creazione di impresa da ricercare soprattutto attraverso la semplificazione dell’accesso al mercato da parte degli attori economici e la riduzione del carico amministrativo e fiscale soprattutto sulle aziende medio-piccole, spina dorsale dell’economia europea; • incentivare l’adattabilità delle aziende e dei lavoratori, da raggiungere attraverso la negoziazione tra le parti sociali, la ricerca di nuove forme di organizzazione del lavoro e di gestione dei tempi di lavoro; • dare nuova forza alle politiche per le pari opportunità, sia in riferimento alla riduzione delle discriminazioni tra uomini e donne, aumentando, ad esempio, la conciliazione tra vita professionale e familiare, sia per quanto concerne la partecipazione al mercato del lavoro da parte dei disabili. Particolare enfasi è attribuita al rafforzamento della coesione sociale da raggiungere aumentando la partecipazione al mercato del lavoro. L’obiettivo centrale è quello dell’aumento dell’occupabilità dei cittadini europei, individuando alcuni grandi settori che richiedono un impulso specifico in considerazione del ruolo centrale da essi ricoperto nel perseguimento degli obiettivi a lungo termine. In particolare si fa riferimento a: 63


• un potenziamento delle politiche verso la piena occupazione nell’ottica della creazione di nuovi e migliori posti di lavoro. L’attenzione è rivolta alla realizzazione di politiche attive incentrate sull’occupabilità di gruppi che non hanno accesso al mercato del lavoro spesso a causa di qualifiche insufficienti. Importante, a questo proposito, è ritenuta i) la riduzione degli oneri fiscali sul lavoro allo scopo di accrescere la domanda e il tasso di occupazione, ii) il miglioramento dell’efficienza del mercato del lavoro, con l’obiettivo di scongiurare il verificarsi di situazioni nelle quali alti tassi di disoccupazione coincidono con la penuria di manodopera, iii) l’invecchiamento attivo, scoraggiando misure di prepensionamento, iv) l’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, v) l’incoraggiamento della creazione di un ambiente più favorevole all’imprenditorialità; • la promozione delle competenze e della mobilità attraverso la riduzione degli ostacoli amministrativi al riconoscimento professionale delle qualifiche formali. Il tutto allo scopo di favorire la diffusione di un’economia basata sulla conoscenza. Da queste considerazioni si evince che il concetto di occupabilità, come sottolinea Gallino (1998, p. 242), “è una caratteristica personale definibile come una somma variabile di competenze formali, di saper fare pratico, di capacità di lavorare con gli altri, di esperienze sul terreno”. Esso può essere incrociato con quello di inoccupabilità poiché “gran parte dei giovani stentano a trovare lavoro quando escono dalla scuola, non tanto perché le imprese non abbiano un lavoro da offrire loro, quanto piuttosto perché non li considerano idonei a venire occupati” (Gallino, 1998, pp. 242-243). Il tema dell’occupabilità è dunque strettamente intrecciato con il mondo della scuola e con quello del lavoro. La prima, come è noto, ha costruito pochi rapporti con il secondo che a sua volta però spesso finisce per erodere e consumare l’occupabilità degli adulti, accreditando poca importanza alla formazione continua ed all’aggiornamento professionale. A giudizio di Gallino (1998, pp. 244-245) un modo per accrescere l’occupabilità “dovrebbe allora consistere nel fare entrare (molto) più lavoro nella formazione e (molta) più formazione nel lavoro. Meglio, nell’intrecciare strettamente l’una con l’altro”. L’occupabilità, letta sotto questa lente, fa riferimento sia agli aspetti soggettivi – vale a dire alle caratteristiche della persona, alle capacità e competenze di cui può disporre – sia a quelli oggettivi, di contesto, attinenti all’ambiente istituzionale del quale l’attore fa parte e che egli stesso contribuisce a costruire (Scott, 1998). È possibile quindi sottolineare come l’occupabilità possa essere riferita “all’insieme di condizioni, costituite da elementi individuali, del contesto di appartenenza del soggetto e della relazione che si instaura tra individuo e contesto di appartenenza, che possono presentarsi come concrete opportunità di lavoro, fatte di modalità e strumenti di ingresso e permanenza al lavoro, di 64


risorse che attribuiscono certezza in un ambiente incerto e provvisorio” (Gosetti, 2004, p. 14). 4. Nuovi obiettivi, strumenti, metodologie e percorsi dell’apprendimento: le metacompetenze Una terza tendenza riguarda la radicale trasformazione del sistema di organizzazione e trasmissione dei saperi. Nell’attuale società i saperi subiscono una continua trasformazione in qualsiasi campo, e nuovi saperi entrano continuamente e velocemente nel complesso scenario della conoscenza. Non è più possibile continuare a riprodurre le conoscenze nei modi tradizionali e se le istituzioni formative (in primis la scuola e le università) non si adegueranno nell’organizzare nuove modalità di trasmissione dei saperi correranno il rischio di essere emarginate dalle nuove infrastrutture di produzione della conoscenza. Il concetto di apprendimento diviene il nucleo intorno al quale ruota l’impostazione della formazione oggi, a qualsiasi livello, in una prospettiva che ne sottolinea il carattere costruttivo: ogni soggetto si impegna nella costruzione delle proprie abilità, assume consapevolezza del proprio punto di vista, in una continua attività di organizzazione e di ri-organizzazione delle proprie conoscenze, in un processo in cui la persona assume ruolo attivo, con un accento particolare sul modo in cui si apprende e in cui si produce apprendimento (Montedoro, 2003). Contestualmente, il passaggio da un’idea di formazione quale sistema per la trasmissione di sapere, a processo di apprendimento, implica il transitare dalla rilevanza di acquisire blocchi di saperi e conoscenze trasmessi, che via via nel percorso formativo delle persone andavano a consolidarsi in profili professionali, da spendersi nello svolgimento di un mestiere, di una mansione di un ruolo, all’idea di competenza; concetto che sintetizza l’inscindibile nesso tra il sapere e l’agire, in un rapporto però non lineare, ma circolare, riflessivo. In questo senso ragionare di metacompetenze e di competenze strategiche assume la valenza di un’impostazione metodologica (Alberici, 2003), in base alla quale le stesse competenze si ridefiniscono sulla base delle metacompetenze nel senso che le prime vengono ridefinite, acquistano un senso differente perché cambia il processo di conoscenza, cambia il modo attraverso il quale ci si appropria di contenuti specialistici, di sapere e si utilizza poi questo sapere nell’azione. In particolare il nuovo modo di conoscere riguarda prima di tutto la riflessività del pensiero umano e il carattere autopoietico della competenza. Il concetto di competenza (e le sue articolazioni: metacompetenze, competenze strategiche, ecc.) rappresenta allora un possibile trait d’union tra le caratteristiche degli attuali contesti socioeconomici e il mondo della 65


formazione, in un’ottica di non esclusivo adeguamento alle esigenze della sfera economica, ma di promozione delle persone. Si tratta di una prospettiva dinamica che privilegia l’analisi non solo degli stock di sapere che una persona è in grado di immagazzinare attraverso la partecipazione ad una o più esperienze formative, ma l’analisi dei flussi di apprendimento che non sono necessariamente lineari, ma che si fondano sull’alternarsi di momenti di creatività, consolidamento, rielaborazione attraverso i quali i soggetti sperimentano e agiscono competenze riflessive in grado di destrutturate e ristrutturare gli stimoli provenienti dal contesto ambientale, in un processo di vera e propria costruzione (Pepe, 2003) e che consente di leggere in “positivo” l’individualismo, quale tratto caratteristico delle società contemporanee. L’uso della parola competenza nella riflessione sul sapere e sul sapere fare è da tempo oggetto di dibattito, poiché si tratta di un concetto dai contorni sfumati, che non a caso viene utilizzato per esprimere l’ambivalenza di mutamenti culturali che riguardano il passaggio dalla centralità del concetto di insegnamento a quello di apprendimento, e, in riferimento al sistema socio-produttivo, il passaggio dal fordismo al post-fordismo e alla conseguente crisi delle tradizionali categorie utilizzate per inquadrare il lavoro e le professioni (Isfol, 2001; La Rosa, 2002). Formare, nella definizione etimologica più ampia, deriva da forma e significa plasmare, modellare qualcuno per fare assumere la forma voluta, educare con l’insegnamento. Dunque osserviamo che l’atto del formare richiama quello dell’educare: guidare qualcuno, da ducere, condurre, portare verso, attraverso “quell’insieme di attività/progetti/interventi/processi rivolti intenzionalmente e in modo organizzato alla facilitazione del processo di apprendimento, continuo e permanente, finalizzato all’acquisizione di skill, abilità e conoscenze, alla conseguente capacità di utilizzo, di manipolazione, produzione-creazione delle stesse, nonché alla capacità di acquisizione e sviluppo di competenze per e nel lavoro” (Montedoro, 2001). Se si assume questa prospettiva, riflettere sul formare e sull’educare significa non tanto soffermarsi sui contenuti (i singoli saperi, le discipline), ma sul modo in cui si predispone un soggetto all’apprendimento. Alla luce di tali elementi e per concludere le nostre presenti riflessioni, quali atteggiamenti deve presentare allora un “buon” formatore al pensiero metacompetente? In proposito Morin ci sembra ne tracci un identikit piuttosto convincente e a Lui rimettiamo dunque la risposta. Esso deve: • fornire un sapere che metta il soggetto nella condizione di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare i problemi in termini multidimensionali; • preparare la mente ad affrontare le sfide della crescente complessità e i problemi che quest’ultima pone alle diverse forme di conoscenza; 66


• sostenere le menti ad affrontare l’incertezza favorendo intelligenza strategica e predisponendo le coscienze alla sfida per realizzare un mondo migliore; • educare alla comprensione umana fra persone e “insegnare” il sentimento dell’affiliazione (a partire dal proprio villaggio sino al villaggio globale); • sostenere una cittadinanza globale come comunità di destino dove tutti gli umani sono posti a confronto con gli stessi problemi vitali e mortali (Morin, 2000). Sviluppare pensiero che sia metacompetente, nel senso che abbiamo cercato di illustrare, è quindi, crediamo, una delle scommesse chiave e dell’insegnamento contemporaneo e della società della conoscenza nel suo complesso. Si tratta, in questo senso, anche di una questione interna alla democrazia: creare le condizioni per formare cittadini che siano in grado di affrontare e progettare i loro personali ed autonomi “percorsi” d’adattamento sociale, e che siano anche capaci di rivolgere il loro sguardo oltre se stessi, verso i problemi del loro tempo, e in virtù di ciò, accettare di partecipare attivamente alla loro definizione e risoluzione sociale. Sociale che non deve essere vissuto come un qualcosa di intangibile, immodificabile, naturale e in quanto tale estraneo al loro agire, ma come lo sfondo di una sfida etica da affrontare con passione, competenza e consapevolezza. 5. Metacompetenze e istituzioni formative: il ruolo dell’università A fronte di questo scenario, quali conclusioni possiamo trarre sul ruolo che la formazione istituzionale potrà avere nel rispondere alle esigenze del mondo produttivo? La creazione di un più efficace raccordo tra formazione, istituzione e mondo del lavoro diviene un tema centrale ed è un aspetto cui si presta crescente attenzione anche nel contesto Europeo1. Limitandoci per un momento ad analizzare quanto previsto dalla riforma universitaria già attuata, oltre alle finalità più o meno professionalizzanti dei percorsi formativi universitari previsti dal nuovo ordinamento, sono almeno tre intenti impliciti nella riforma che costituiscono altrettante innovazioni nella direzione della creazione di un più stretto raccordo tra formazione e mondo del lavoro: • l’inserimento di docenza “laica”; 1. Si fa riferimento agli accordi della Sorbona (1997), di Bologna (1998) e di Praga (2001).

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• la flessibilità curriculare; • la consultazione con il mondo del lavoro. L’inserimento di docenti provenienti dal mondo del lavoro e della produzione apre le porte dell’università ai contesti produttivi; la previsione curriculare di attività formative che sviluppino la conoscenza dei contesti lavorativi (tirocinii e stage) potrebbe favorire l’inserimento dei laureati negli stessi; infine, la possibilità che gli atenei, nel configurare la propria offerta formativa, attivino momenti di consultazione con le organizzazioni rappresentative della produzione, dei servizi e delle professioni rappresenta uno strumento forte per promuovere logiche di incontro tra università e sistema socio-economico (l’art. 11 comma 4 della legge 509/99 cerca di fare luce sul delicato rapporto fra Università ed impresa prevedendo una consultazione con il mondo produttivo nel momento in cui un Ateneo costituisce corsi di laurea). Per quanto riguarda poi gli effettivi sbocchi dei nuovi titoli universitari nel mercato del lavoro, bisogna ancora una volta partire da quanto dice la riforma. La laurea ha come obiettivo quello di coniugare una formazione generale con una maggiormente professionalizzante, quindi più rapidamente “utilizzabile” sul mercato del lavoro. Per contro, la laurea specialistica è indirizzata a fornire una formazione di livello avanzato “spendibile” in contesti professionali altamente qualificati e specifici. Ai due livelli di istruzione superiore si aggiungono poi i corsi di specializzazione, aventi l’obiettivo di fornire conoscenze e abilità per funzioni richieste nell’esercizio di particolari attività professionali ed i master. Il master di primo livello ha l’obiettivo di fornire conoscenze e abilità professionali di tipo tecnico operativo. Il master di secondo livello è finalizzato ad un ulteriore perfezionamento della formazione culturale acquisita e all’apprendimento di ulteriori competenze di livello progettuale utili nel mondo del lavoro. Come si vede, vi è nell’indicazione delle finalità dei diversi livelli di istruzione superiore un continuo intreccio tra cultura e professionalità, tra formazione al sapere e formazione al lavoro. Un intreccio che risponde in pieno alle esigenze espresse da un contesto produttivo in continua evoluzione. Il mondo del lavoro e delle professioni, infatti, esprime con forza l’esigenza di reclutamento di individui dotati di un bagaglio di conoscenze e competenze sempre maggiore, di conseguenza pare auspicabile e necessario creare le condizioni affinché aumenti il numero di giovani che proseguono gli studi verso una formazione “alta”. Dall’altro versante alle risorse umane che operano ed opereranno nel mondo del lavoro viene richiesto con sempre maggiore forza di mantenere aggiornate le proprie conoscenze. Tale orientamento verso la formazione continua sollecita gli individui a sviluppare una grande capacità di concettualizzazione delle conoscenze acquisite sul lavoro, un’attitudine, questa, più facilmente assolvibile da chi 68


è in possesso di un bagaglio di metodi e concetti che solo un’istruzione “superiore” può offrire. 6. Conclusioni Gli elementi velocemente richiamati concordano pienamente con la necessità di puntare sull’apprendimento per tutto l’arco della vita (lifelong learning) come fattore prioritario su cui agire per lo sviluppo economico, per la crescita della coesione sociale e per contrastare la disoccupazione. La logica non è più quella di formare “professioni” e neppure “solo” quella di dare competenze specialistiche e determinate, ma di permettere ai giovani (ma anche degli adulti) di acquisire la competenza della occupabilità, vale a dire la capacità di rinnovare ed arricchire la propria formazione globale per far fronte alle sempre nuove esigenze lavorative. In questo giocano un ruolo fondamentale proprio quelle competenze da noi definite strategiche o metacompetenze. Infatti alla luce delle trasformazioni del mondo del lavoro che rendono la flessibilità un’esigenza imprescindibile, concetti come “qualifica” e “mansione” perdono parte del loro significato a favore della capacità dei soggetti di sviluppare, attraverso l’apprendimento continuo, le proprie competenze strategiche, trasversali professionalizzanti in grado di garantirne l’occupabilità. La scuola e l’università in questo quadro possiedono le infrastrutture, le competenze ed un capitale umano di ottimo livello (un discorso più articolato lo si dovrebbe fare per quello che riguarda le risorse economiche) che ha la necessità di essere valorizzato attraverso l’inserimento di dette istituzioni in un sistema complessivo ‘a rete’ che le renda meno autoreferenziali ed aperte all’ambiente esterno non solo in funzione della formazione dei giovani ma anche per inserirsi da protagonisti in un processo di formazione continua per tutto l’arco della vita che riguarda anche gli adulti. Riferimenti bibliografici Accornero A. (2002), Il mondo della produzione, il Mulino, Bologna. Alberici A. (2003), “Le metacompetenze e la competenza strategica in azione nella formazione”, in Isfol (a cura di), Apprendimento di competenze strategiche, FrancoAngeli, Milano. Baraldi C. (2003), Comunicazione interculturale e diversità, Carocci, Roma. Bocchi G., Ceruti M. (2004), Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano. Gallino L. (1998), Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino. 69


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Knowledge governance e dintorni: il futuro prossimo venturo del lavoro manageriale di Fernando Salvetti

1. Si governa sempre troppo Si governa sempre troppo, o, almeno, occorre sospettarlo. Conviene quindi puntare a sviluppare l’arte di governare il meno possibile. Liberalismo/liberismo come linea-guida d’azione, nelle organizzazioni, per la gestione delle conoscenze e, più in generale, delle competenze e del capitale umano e intellettuale? Sì. Essere liberali – lo dico con la definizione di uno studioso “insospettabile” e fuori della mischia, Michel Foucault – significa essere progressisti, nel senso di un continuo adattamento dell’ordine legale (e, quindi, gouvernementale ed organizzativo) alle scoperte scientifiche, ai progressi dell’organizzazione e delle tecniche economiche, ai mutamenti della struttura della società, alle esigenze più attuali1. Sono convinto che serva una forma di riflessione critica sulla “pratique gouvernementale”. A favore del governo minimo, come principio di funzionamento della knowledge governance nelle aziende e in generale nelle organizzazioni che investono in formazione, sviluppo delle competenze, sistemi e strumenti di gestione e sviluppo del capitale umano, knowledge management e dintorni. Chi governa (uno stato, una città, un’azienda…) non percepisce mai abbastanza bene che “rischia di governare sempre troppo”. Il governo mini1. Foucault (2001, pp. 820ss.; 2005, pp. 135 e 262): “Je serais tenté de voir, dans le liberalisme, une forme de réflexion critique sur la pratique gouvernementale”. Foucault non si è occupato espressamente di knowledge governance nelle organizzazioni, ma le prospettive che i suoi studi aprono mi sembrano molto interessanti. In generale su Foucault e il management cfr. McKinlay & Starkey (1998), mentre per quanto riguarda la sua analisi del liberalismo cfr. il recente saggio di Deschênes (2005).

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mo è l’arte di governare il meno possibile, tra un massimo e un minimo, orientandosi verso il minimo piuttosto che verso il massimo possibile2. Ma perché questa proposta di autolimitazione della “ragion di governo” in ambito di knowledge governance, cioè di gestione del capitale umano e intellettuale? Nei prossimi paragrafi una risposta, possibile e praticabile all’interno delle organizzazioni. 2. Knowledge society e lavoro manageriale Nella knowledge society i picchi di efficienza ed efficacia sembrano appartenere alle organizzazioni che operano sulla base di modelli reticolari, capaci di anticipare la mutevolezza dell’ambiente esterno con elevata creatività e flessibilità. In un’economia prevalentemente immateriale, centrata sulla conoscenza e sull’informazione, tra i modelli più performanti di organizzazione (anche del lavoro) troviamo configurazioni che rinviano a collages, a patchworks od a networks, che riducono la gerarchia come forma di coordinamento e controllo e dove, invece, l’integrazione decentrata e la rete divengono i principali drivers organizzativi3. Uno dei più importanti fattori di differenziazione competitiva tra le organizzazioni è costituito dalla capacità di coltivare e accrescere gli (ormai famosi, ma non necessariamente diffusi) assets intangibili: l’intelligenza, l’esperienza, l’immaginazione e, più in generale, le soft skills, oltre alle competenze specialistiche e trasversali, al know-how e al know-what4. Nella knowledge & connected society e negli scenari della knowledge economy, tanto per evocare alcuni dei nomi che spesso vengono usati per parlare del nostro quotidiano e del nostro futuro prossimo venturo, le conoscenze, le capacità e l’immaginazione, così come il networking per la messa a fattor comune di esperienze, capacità e conoscenze, ovvero la capacità di apprendere, contano più dei capitali fisici, tecnologici e finanziari tradizionalmente al centro degli scenari economici ed organizzativi. 2. Foucault (2005, pp. 29 e 36). 3. Cfr. ad esempio Drucker (1993), Hatch (1997), Hassard & Parker (1993), Borum & Strandagaard-Pedersen (1989, pp. 219ss.), Bell (1981), Linstead (2004), oltre ai molti e interessanti spunti di riflessione che si trovano nel numero 100/2005 di “Sociologia del lavoro” dedicato ai nuovi paradigmi e ai nuovi scenari economici, organizzativi e del lavoro: in particolare i saggi di Bonazzi (2005, pp. 24ss.), Butera (2005, pp. 45ss.), De Masi (2005, pp. 81ss.) e La Rosa (2005, pp. 199ss.). 4. E l’elenco degli intangibles può proseguire ancora: brand equity and reputation, strategy execution, innovative culture, ideas and relationships, qualifiche professionali, competenze tecnologiche, talenti, abilità, condivisione di valori-guida e di regole di condotta derivanti dall’appartenenza a comunità professionali specializzate e qualificate, e magari anche relazioni peer to peer con gli appartenenti alle migliori comunità internazionali di buone pratiche.

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Negli scenari attuali, la risorsa economica di base non sono più (o soltanto) il capitale finanziario o il lavoro e tanto meno le risorse naturali, ma le relazioni, le conoscenze e il capitale umano e intellettuale5. Peter Drucker ha parlato di knowledge work nei primi anni Sessanta (dello scorso millennio, potrei dire per enfatizzare un po’), ma solo negli ultimi anni “i managers” hanno cominciato a vedere conoscenze e competenze come risorse strategiche che dovrebbero gestire allo stesso modo in cui gestiscono i flussi di cassa, le risorse umane o le materie prime. E specialmente per le organizzazioni che puntano ad essere learning organizations, ovvero “sistemi cognitivi”6 in grado di strutturare le conoscenze e i comportamenti di coloro che ne fanno parte, la knowledge governance costituisce un obiettivo strategico (e quindi critico)7. Infatti, la knowledge economy richiede modelli di funzionamento organizzativo flessibili, orientati all’in5. Per una panoramica generale su questi temi cfr. ad esempio le elaborazioni pubblicate dall’OECD (1999) e gli studi di Lipparini (2002; 1998), Rullani (2004), Vittadini (2004), Cravera, Maglione & Ruggeri (2001), Rifkin (2000, pp. 69ss.), Stewart (2002), Michaud & Thoenig (2004), Guida & Berini (2000), Riboud (1978), Porter (1989), Prahalad & Hamel (1990), Stalk, Evans & Shulman (1992, pp. 57ss.), Eppler (2003), Davenport & Prusak (1998), Panzarani (2004), Bettiol (2005), Low & Cohen Kalafut (2002). In particolare sul capitale umano e intellettuale molto si sta scrivendo in questi ultimi anni, ma è tema già esplorato lungo varie direttrici in passato: non è questa la sede per un excursus bibliografico, anche se mi sembra comunque opportuno segnalare la trattazione svolta da Foucault (2005, pp. 176ss.) durante il suo corso al Collège de France del 1979 sur la naissance de la biopolitique, all’interno del quale dedicò un’attenzione specifica al “lavoro inteso come comportamento economico”, alla sua “scomposizione in capitale-competenza e in reddito”, alla ridefinizione dell’homo oeconomicus “come imprenditore di se stesso” e, quindi, alla “nozione di ‘capitale umano’ con i suoi elementi costitutivi”. In questa direttrice, risulta particolarmente interessante il confronto con gli studi ormai classici di Schultz (1958; 1960, pp. 571ss.; 1962, pp. 1ss.; 1981) e Becker (1962, pp. 9ss.; 1964; 1976), così come, su tutt’altro piano, può essere interessante la lettura del romanzo che Amidon (2005) ha scritto sul tema. 6. In proposito gli ormai classici studi di Simon (1988), ma tenendo conto della critica di Nonaka & Takeuchi (1997, p. 75), secondo i quali il suo razionalismo “cartesiano” gli ha precluso la comprensione di dimensioni importanti quali la “conoscenza comportamentale” tematizzata da Barnard (1938) e la “conoscenza tacita” di Polanyi (1966). Per una panoramica recente su questi temi cfr. anche North (2005) e Rizzello (2003). In generale sulla learning organization possono essere particolarmente utili Senge (1990 e 1992), Argyris & Schön (1998), Tomassini (1993), Miggiani (1994). Altrettanto utili le critiche e i contrappunti di Nonaka & Takeuchi (1997, pp. 35ss.). 7. Sul knowledge management, così come sulle learning organizations, le voci e le opinioni sono ovviamente molteplici e sufficientemente discordi da alimentare un vasto dibattito: per una breve sintesi cfr. ad esempio Daft (2001, pp. 271ss.), Quagli (2001), Garvin (1998, pp. 47ss.), Venzin, Von Krogh & Ross (1998). Per una presentazione di casi ed esperienze di knowledge development realizzate in organizzazioni italiane cfr. Montironi & Genova (2004), mentre per un’analisi sistematica del tema della gestione della conoscenza nelle organizzazioni, molto aggiornata ed approfondita anche con una ricerca comparativa italo-francese basata su studi di caso, è interessante il testo di Minguzzi (2006).

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terazione continua con i clienti e al controllo della qualità, basati su un uso intenso delle risorse della conoscenza. Servono accentuate capacità di interazione con “l’esterno”, di creazione e rielaborazione delle conoscenze, di raccordo tra le dimensioni cognitive e comportamentali nell’agire degli individui e dei gruppi in situazioni operative8. Soprattutto negli scenari caratterizzati da prodotti spesso non durevoli, da bisogni di consumo instabili, da mercati sempre meno definiti in termini regionali o nazionali, la competizione è assimilabile a una guerra di movimento in cui il vantaggio competitivo dipende dalla capacità di anticipare le tendenze di mercato e di rispondere rapidamente ai bisogni in evoluzione dei clienti. Tanto che uno dei criteri utilizzato per individuare i “competitors di successo” è guardare a quelli che riescono a muoversi più rapidamente “dentro e fuori dai prodotti”, dai mercati e in taluni casi anche da interi settori economici. Come dire, in altri termini, che il cuore della strategia di un’organizzazione non è nella struttura dei suoi prodotti e dei suoi mercati, ma nelle sue capacità dinamiche e, quindi, nella dinamicità dei suoi comportamenti9. Dal punto di vista organizzativo e direzionale, gli snodi critici sono costituiti dalle interdipendenze tra conoscenze e comportamenti, tra saperi individuali e collettivi, tra routine e innovazione. Il lavoro manageriale del futuro prossimo venturo sarà connotato, ben più di oggi, in termini di sviluppo del capitale umano e intellettuale: creazione di conoscenza organizzativa, gestione e sviluppo delle conoscenze, delle capacità e delle abilità, per diffonderle all’interno/esterno delle organizzazioni e tradurle in prodotti, servizi e sistemi10. 3. La costruzione sociale delle conoscenze e delle capacità “Il problema di come emerge un sistema di conoscenza è lo stesso di come è creato ogni bene collettivo”11: parola di Mary Douglas, l’antropologa impegnata ad esplorare i rapporti tra menti individuali, culture e so8. Tomassini (1993, p. 11). 9. Stalk, Evans & Schulman (1992, p. 62), Teece, Pisano & Shuen (1991), Nonaka & Takeuchi (1997, p. 87). 10. Cfr. ad esempio Nonaka & Takeuchi (1997, pp. 27 e 300), secondo i quali in un futuro non troppo lontano “il top management verrà valutato non soltanto attraverso criteri di performance economica, ma anche sulla base della qualità della vision di conoscenza che saprà offrire ad altri sia all’interno sia all’esterno dell’organizzazione”. Come peraltro ci ricorda anche Quinn (1992), la capacità di gestire il “capitale intellettuale” è rapidamente assurta, nella nostra epoca, a capacità critica e distintiva del dirigente. 11. Douglas (1990, p. 81).

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cietà. Il conoscere è una delle attività umane sottoposte al massimo condizionamento sociale e la conoscenza è una “struttura sociale”12 e, quindi, un bene collettivo13. In quanto individui abbiamo una razionalità (molto) limitata e, costituendo le organizzazioni, ad un primo livello estendiamo i limiti della nostra capacità di reperire, elaborare e gestire le informazioni. Ad un secondo livello, attraverso l’organizing riusciamo a “creare” nuove informazioni, conoscenze, capacità e competenze utili per trovare/ridefinire le soluzioni ai nostri problemi lavorativi. Ad un terzo livello, attraverso queste nostre attività percorriamo dei sentieri che, quando non si interrompono, ci consentono di individuare le nostre ways of worldmaking14: cioè ci consentono di scoprire le modalità attraverso le quali “creiamo” le stesse realtà, organizzative e di mercato, all’interno delle quali operiamo. Ecco il punto chiave: la “creazione” sociale, intersoggettiva, della realtà15. Come dire, in altri termini, che l’organizzazione dipinge il proprio scenario, lo osserva con il binocolo e cerca di trovare un sentiero nel paesaggio16. Basti ricordare, in proposito, che anche la più elementare idea della nostra logica, quella di similarità, dipende dall’interazione sociale17. Ovviamente, la circostanza che i significati delle “cose” e, in generale, le immagini della “realtà” sono collettivi, vale a dire condivisi dalle altre persone che vivono immerse nella stessa cultura e sono appresi tramite l’interazione sociale, rende difficile capirlo in quanto siamo sospesi nella rete di significati che noi stessi abbiamo tessuto18. I sistemi di conoscenza, in quanto reti di significati condivisi, sono realtà socialmente costruite: in particolare, ragionando di organizzazioni possiamo dire che “la realtà” non è tanto rappresentata dalle condizioni del mondo fisico o naturale, ma è piuttosto definita attraverso legami e ac12. Così ad esempio Fleck (1983, p. 101). Tema ovviamente sconfinato: personalmente trovo utili, come mappe per orientare la navigazione, le voci conoscenza ed epistemologia del dizionario di Abbagnano (1988), l’antropologia della conoscenza di Elkana (1989), la sociologia della cultura di Griswold (1997) e la storia sociale della conoscenza di Burke (2002). Per quanto riguarda, in particolare, l’organizzazione aziendale, può essere utile la sintesi sul knowledge management di Daft (2001, pp. 271ss.). 13. Douglas (1990, p. 46). 14. Sulle ways of worldmaking cfr. Goodman (1978) e la stessa Douglas (1990, pp. 43ss.). Cfr. anche De Geus (1988). 15. D’obbligo citare almeno un classico: Berger & Luckmann (1967). 16. Cfr. Weick (1993, p. 193). 17. Come sottolinea Douglas (1990, pp. 96ss.), “è ingenuo trattare l’identità che caratterizza i membri di una classe come una qualità inerente alle cose o come un potere di riconoscimento inerente alla mente”. I paragoni tra diverse culture rendono chiaro che “nessuna superficiale identità di caratteristiche spiega come gli elementi siano attribuiti ad una classe”. 18. Altri classici: Geertz (1987, pp. 6ss.) e Bruner (1992).

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cordi interpersonali. E le entità socialmente costruite esistono soltanto fino a quando i loro membri pensano che esistono e si comportano di conseguenza. Nelle organizzazioni, quindi, c’è un livello di conoscenze esplicite che possono trovare espressione numerica e verbale ed essere comunicate e condivise facilmente sotto forma di procedure, formule, assiomi. Ma c’è anche un importante livello di conoscenze tacite, scarsamente formalizzabili, come i valori di riferimento o come, più semplicemente, l’insieme delle abilità esprimibili con il termine know-how. E nella conoscenza tacita è implicita una dimensione cognitiva particolarmente rilevante costituita dagli schemi, dai modelli mentali, dalle credenze e dalle percezioni soggettive, così consolidate da essere “assiomatiche” – in quanto, nonostante la loro difficile esplicitazione, questi modelli impliciti determinano il nostro modo di percepire il mondo circostante. Per comprendere le dinamiche che generano le reti di significati condivisi, le norme e i valori di riferimento, le forme e le pratiche attraverso le quali le credenze, le emozioni, i significati, i valori e i principi d’azione vengono espressi, affermati, comunicati e rispettati (o violati), occorre tener conto degli assunti taciti e impliciti – spesso inconsci – che contribuiscono a strutturare il modo in cui i membri di un’organizzazione percepiscono, pensano e sentono19. La conoscenza, insomma, è un oggetto complesso e poliedrico: accanto a conoscenze verbali (o comunque verbalizzate e narrate) o numeriche, troviamo insights soggettivi, intuizioni, modelli mentali, credenze, percezioni e varie forme di quella che viene solitamente definita “conoscenza tacita”20 e che ci ricorda che noi possiamo conoscere e saper fare più di quello che sappiamo esprimere e, inoltre, che le conoscenze più preziose difficilmente possono essere insegnate e trasmesse con modalità dirette, appartenenti alla famiglia di quello che noi occidentali siamo abituati a ricondurre al “razionalismo cartesiano”. Ciò che è importante in una piramide qualsiasi non si trova arrampicandosi sulla cima, ma individuando i percorsi che conducono ai tesori na19. Cfr. ad esempio la corporate culture survival guide di Schein (2000). 20. Oltre al classico Polanyi (1966), cfr. Nonaka & Takeuchi (1997, pp. 68ss.) che peraltro sostengono come uno dei più importanti esponenti della scuola economica austriaca, Hayek (1945), “sottolineò pionieristicamente l’importanza della conoscenza tacita, specifica del contesto e della particolarità delle circostanze spazio-temporali”, pur non riuscendo a cogliere appieno l’importanza del processo di conversione della conoscenza specifica del contesto, in larga misura “tacita”, in conoscenza esplicita. Cfr. anche Daft (2001, p. 273): la conoscenza esplicita (il sapere “cosa”) è quella “che può essere codificata, messa in forma scritta e trasmessa”, mentre la conoscenza implicita o tacita (il sapere “come”) è spesso molto difficile da tradurre in parole in quanto “si basa sull’esperienza personale, su regole approssimative, intuizione e giudizi soggettivi”, competenze pratiche e soluzioni creative.

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scosti all’interno. La knowledge economy sembra favorire le organizzazioni strutturate con un modello reticolare, capaci di anticipare la mutevolezza dell’ambiente esterno con elevata creatività e flessibilità. Le organizzazioni flessibili possono essere efficaci e “proattive” nei mercati di riferimento grazie, soprattutto, allo sviluppo di quel peculiare fattore competitivo rappresentato dalla conoscenza e dalle relative competenze distintive delle diverse culture aziendali. E perché le organizzazioni possano svilupparsi lungo questa direttrice occorrono un’articolazione in piccole e medie unità produttive basate su team interfunzionali autogestiti21, l’implementazione di networks informatici integrati, la capacità di stabilire con il cliente – grazie anche all’information technology e alla digitalizzazione – una relazione tendenzialmente stabile, e, last but not least, l’uso attivo del cervello del maggior numero possibile delle persone disponibili. 4. Kosmos e Taxis L’organizzazione non è un concetto assoluto, così come l’organizzare non è mai a senso unico in quanto implica la possibilità di elaborare una strategia e un insieme di tattiche operative per cercare di assicurare la “produttività” (possibilmente senza dimenticare il “benessere”) delle persone che lavorano. Non esistono ricette organizzative uniche e sicuramente efficaci, utilizzabili in ogni contesto. Soprattutto, non esistono organizzazioni ideali. Però esistono organizzazioni efficaci, in grado di elaborare e tradurre in pratica strategie di successo in ambienti complessi e in costante cambiamento. Organizzazioni sempre meno “gestite” da un vertice con funzioni di totale controllo sull’indirizzo strategico e, poi, sui processi organizzativi e produttivi, e sempre più “guidate” da leaders in grado di influenzare e incanalare attività e processi non solo nei gruppi di lavoro interni, ma anche all’esterno dei tradizionali confini organizzativi per integrare – con varie strategie cooperative – i teams operativi di altre strutture connesse in rete e con le quali solitamente si condividono interessi ed obiettivi. Organizzazioni orientate ad alimentare lo spirito imprenditoriale, l’innovazione continua e culture interne caratterizzate dalla propensione al cambiamento. Quindi, organizzazioni che devono riuscire a costruire condizioni di lavoro motivanti e soddisfacenti, che devono cercare di “trattare bene” le persone per fare in modo che abbiano voglia di fare e di farlo proprio al loro interno e non da qualche altra parte. 21. Sul valore del gruppo e sull’“atteggiamento di gruppo” nella società industriale cfr. le interessanti pagine di Actis Perinetti (1956), che anticipano molti dei temi che solo successivamente la letteratura specialistica italiana ha saputo sviluppare.

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In altri termini, sempre meno τ ξις (taxis), cioè ordine costruito attraverso una rigorosa pianificazione razionale ed un rigido controllo verticistico, e sempre più κ σµος (cosmos), ordine spontaneo che si autogenera in quanto emerge dall’interno dello stesso sistema organizzativo sotto forma di “invenzioni” basate sulla capacità degli attori organizzativi di generare dinamiche organizzative che non consistono soltanto in semplici risposte adattive all’ambiente, ma che si concretizzano in strategie e tattiche d’azione elaborate (consapevolmente o meno, tacitamente o esplicitamente a seconda dei casi) grazie alla capacità di agire in situazioni complesse e di disordine ristrutturando eventualmente il proprio modello d’azione22. Se si considerano le organizzazioni come delle macchine, allora il controllo è indispensabile. Ma le macchine generano piramidi gerarchiche rigide e prospettive monoculari23 o, al massimo, binoculari. Il controllo co22. Per queste categorie cfr. l’interessante studio di Hayek (1986, p. 51), che si muove in parte all’interno del paradigma della teoria generale dei sistemi, ma, soprattutto, nella prospettiva dell’individualismo metodologico, secondo cui la comprensione delle azioni e dei punti di vista degli attori sociali è il momento essenziale di ogni analisi. Hayek in particolare sostiene che i greci del periodo classico “erano più fortunati” di noi, perché “possedevano due parole distinte per i due tipi di ordine, cioè taxis per ordine costruito, come per esempio l’ordine di uno schieramento di battaglia, e cosmos per un ordine formatosi spontaneamente Anche se un’organizzazione lavorativa è strutturata come taxis, ovvero come ordine “costruito artificialmente”, cioè deliberatamente progettato e che “mira alla realizzazione di scopi concreti”, in questo mio articolo propongo di estendere l’accezione di cosmos per ricomprendere alcune dinamiche auto-organizzative che si sviluppano nelle piramidi appiattite e knowledge driven della net-economy: dinamiche auto-organizzative che non consistono soltanto in semplici risposte adattive all’ambiente (come si potrebbe sostenere all’interno di una visione sistemica tradizionale), ma che si concretizzano in strategie e tattiche d’azione elaborate (consapevolmente o meno, tacitamente o esplicitamente a seconda dei casi) in situazioni specifiche dagli attori organizzativi. Circostanza che negli attori organizzativi implica – come sostiene ad esempio Lanzara (1993, pp. 11ss.) – il possesso della negative capability, cioè la capacità di “essere” nell’incertezza, di agire in situazioni complesse e di disordine mantenendosi orientati alla “attivazione di contesti e di mondi possibili”. Negative capability che rappresenta la competenza distintiva del man of achievement e consiste nella capacità di gestire anche momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione, ristrutturando eventualmente il proprio modello d’azione e sviluppando nuove routines cogliendo le potenzialità d’azione che possono rivelarsi in tali momenti. Per un’analisi specifica dedicata ad organizzazione, impresa e conoscenza in Hayek cfr. Fiori (2006) e Novarese (2006). Per un’analisi degli ordini statici e dinamici nella società complessa nella prospettiva hayekiana cfr. Robilant (2006) mentre, per una disamina approfondita delle dinamiche dell’ordine sociale spontaneo in Hayek (ma non solo), cfr. Moroni (2005). 23. Peraltro, come notano Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, pp. 31-32), all’interno delle organizzazioni di lavoro si incontrano sovente persone che hanno dell’organizzazione “un’idea compiuta e forte, unidimensionale, piatta: l’ambiguità delle comunicazioni, la pluralità delle variabili con cui vanno confrontate le decisioni, l’esistenza di relazioni multiple, differenziate, contraddittorie, il verificarsi di intoppi e disconferme, l’insorgere di nuove esigenze, tutto ciò che è vita dell’organizzazione non può essere visto, preso in con-

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me strategia prioritaria di management, soprattutto a medio ed a lungo termine, genera trappole: interpretazioni di ruolo (da parte di dirigenti e quadri, così come di impiegati e anche operai) rigide e tendenzialmente incapaci di aprirsi al confronto, sistemi chiusi e autoreferenziali di atteggiamenti, credenze e abitudini di pensiero. Le macchine danno luogo a un ambiente disciplinare24 ove può esistere, come istanza organizzativa, il modo imperativo allo stato puro: un ambiente monodimensionale, in cui si presuppone che l’output venga univocamente determinato dall’input, che assume le forme del comando e che contribuisce a generare prigioni psichiche ed a produrre soggetti disciplinati, demotivati, alienati. La multiprospetticità appartiene ad un altro universo, dove l’istanza gerarchica viene non certo cancellata, ma mediata e indebolita da altri principi organizzativi (il coordinamento e il team interfunzionale, l’integrazione, la negoziazione per la definizione degli obiettivi e per la ripartizione dei carichi di lavoro, la “budgettizzazione” e, quindi, ancora la negoziazione delle risorse e dei criteri per la loro allocazione), e dove si considerano le organizzazioni come culture costitute da collages di conoscenze parziali, di interpretazioni provvisorie e contestuali e, quindi, come strutture e processi in evoluzione25, sintesi instabili di τ ξις che si apre al κ σµος. 5. Knowledge governance Il consolidamento di un’idea, così come più in generale lo sviluppo e la gestione delle conoscenze e delle capacità sono processi sociali da prendesiderazione, tenuto in conto (…). Per queste persone – per usare un’efficace espressione di Bion (1971, p. 125) – ‘le parole sono cose: quelle cose che si suppone la parola rappresenti, per loro sono indistinguibili dal nome che le designa e viceversa’. Da qui una sorta di impossibilità di passare dal caso specifico a una generalizzazione trasversale, a una astrazione, o anche di coniugare un principio generale con una situazione determinata”. 24. Nel senso che Foucault (1975) ha magistralmente esplorato in termini di disciplinamento carcerario, militare, ospedaliero, scolastico e industriale manifatturiero. 25. Secondo il contributo, spesso considerato quasi “eversivo” da molti addetti ai lavori organizzativi, di Landier (1988, pp. 63-70), che sembra ispirarsi soprattutto all’epistemologia di Edgar Morin, gli schemi, i concetti ed i linguaggi della tradizione organizzativa risultano completamente inadeguati di fronte alle nuove condizioni della competizione mondiale caratterizzate dall’incertezza, dalla turbolenza, dalla globalità e dall’interdipendenza dei fenomeni, mentre risposte organizzative adeguate possono essere fornite guardando ai modelli scientifici della complessità: pertanto, l’organizzazione si deve articolare in cellule secondo la logica sistemico-cibernetica, sorpassando tutto quanto rinvia all’organizzazione piramidale, alle reti di comunicazione “centralizzate ed arborescenti”, alla crescita non differenziata delle varie parti ed articolazioni organizzative, alla chiusura rispetto all’imprenditorialità o all’inter-imprenditorialità tra le cellule (interne ed esterne) di un sistema organizzativo articolato in gruppi autoregolati, autonomi e agili.

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re molto sul serio e da governare con altrettanta attenzione e, soprattutto, discrezione. Discrezione nel senso originario del termine, derivante dal tardo latino discerne˘ re e intesa come moderazione, senso di opportunità e di misura, facoltà del giudicare sapendo distinguere e facendo chiarezza anche nelle situazioni poco chiare ed ambigue26. Come dire che il verbo conoscere rimanda strettamente ai verbi “potere” ed “essere in grado”, oltre che al “capire”27. Ma come si fa a governare al meglio la conoscenza, il capitale umano e intellettuale, le dinamiche cognitive e comportamentali all’interno delle organizzazioni? Come si crea e come si gestisce, in modo flessibile e dinamico, il patrimonio delle conoscenze e delle capacità caratteristiche di un’organizzazione? In altri termini, è possibile progettare delle organizzazioni in grado di essere flessibili, elastiche e creative come una mente umana ben allenata?28 La sfida principale è utilizzare la conoscenza dispersa, spesso incompleta o contraddittoria, di cui dispongono i singoli individui e che nella sua globalità non appartiene a nessuno. Le strategie e le tattiche organizzative possibili, così come i tools a supporto, sono relativamente ben conosciuti dagli addetti ai lavori organizzativi. Molti di noi, infatti, hanno dimestichezza con parole-chiave quali managing knowledge and intellectual capital, corporate learning and knowledge creation, knowledge generation and development piuttosto che loosing knowledge, embedding knowledge in key-processes, knowledge codification and coordination, building knowledge-based products and services, assessing knowledge and human capital, linking knowledge across borders, networks and new organizational focus as vehicle for knowledge building, knowledge transfer con le relative tecnologie, piuttosto che con i dibattiti relativi all’eventuale istituzione della posizione di Chief Knowledge Officer. Allo stesso modo molti di noi frequentano le communities of practice e magari discutono delle organizzazioni come sistemi cognitivi, piuttosto che di approcci differenziati al knowledge management che, a seconda dei casi, si focalizzano sui meccanismi per la gestione della conoscenza esplicita (data warehousing, data mining, knowledge mapping, librerie elettroniche, intranets e networks) oppure sui meccanismi per la gestione della conoscenza tacita (dialoghi come via di accesso all’intelligenza collettiva, storie di apprendimenti e 26. Come ci ricorda Dante, “lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è la discrezione”. 27. Come diceva Wittgenstein (1964), vi è un uso del verbo “conoscere” evidente quando diciamo “ora lo so!”, intendendo “ora posso farlo!” ed “ora capisco!”. Per un’interessante escursione nei territori della conoscenza e del management cfr. anche Nonaka & Takeuchi (1997, pp. 49). 28. Morgan (1998, p. 96).

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narrazioni organizzative per veicolare modelli d’azione e metafore di riferimento ed orientamento…). Ma in buona sostanza, qual è lo scopo di tutti questi meccanismi? E soprattutto, perché ci sono sempre più managers che incoraggiano e supportano non solo attività come il knowledge mapping, ma anche come i dialoghi e le narrazioni organizzative? Perché le organizzazioni di successo di oggi sono in genere quelle che più delle altre sono in grado di svolgere con efficacia le attività di raccolta, immagazzinamento, distribuzione e utilizzo delle informazioni. Ben sapendo che le tecnologie da sole non possono garantire l’utilizzo ottimale del capitale umano e intellettuale e che l’elemento chiave più rilevante per un pieno utilizzo (o, se vogliamo, per un efficace “sfruttamento” produttivo) delle conoscenze e delle capacità è costituito dal consolidamento di una cultura organizzativa volta a incoraggiare e supportare la condivisione delle conoscenze e delle competenze. Per dirla con un titolo giornalistico: learning to share!29 E, per proseguire con la stessa enfasi, posso aggiungere proprio le parole di una giornalista: “No, selfishness is not dying, but more and more companies are seeing the profit and advantage in sharing knowledge”30. Allo stesso modo, alcune aziende negli ultimi anni hanno introdotto campagne interne di comunicazione e sensibilizzazione piuttosto significative: uno degli slogan utilizzati alla Nokia Telecommunications è che “la conoscenza si traduce in potere solo quando è condivisa”, mentre la Texas Instruments ha dato vita al premio aziendale “Non-l’ho-inventato-io-ma-l’ho-fatto-lo-stesso” per incoraggiare le persone a mettere in comune la conoscenza31. Evitando le enfasi e i “si deve”, può essere utile introdurre un concetto ad hoc che rappresenta anche una linea-guida operativa: quello dei drivers epistemici32, intesi come i fattori (in primo luogo soggetti, quindi processi organizzativi) in grado di creare valori, credenze e concetti condivisi e utili per assicurare un grado sufficiente di compattezza e, al contempo, di flessibilità del sistema di conoscenze e capacità interno all’organizzazio29. Si tratta di uno dei titoli del numero speciale di Newsweek (December 2005 - February 2006) dedicato alla knowledge revolution. 30. Cfr. il numero speciale di Neewseek appena citato, alla p. 40. 31. Daft (2001, p. 274). 32. Proponendo il concetto di driver epistemico, il riferimento che sottintendo è all’episteme tematizzata da Foucault in Les mots et les choses (1966) per alludere – fatte le debite differenze – all’insieme delle griglie concettuali, inconsce e anonime, che stanno alla base delle conoscenze (e delle pratiche) di una certa epoca, delle quali costituiscono lo sfondo comune. Il passaggio da una episteme ad un’altra avviene attraverso una serie di discontinuità enigmatiche, cioè di rotture radicali ed inspiegabili da parte di chi le vive in quanto vi è immerso, le quali fanno sì che all’improvviso le cose non siano più percepite, descritte, enunciate, caratterizzate, classificate e sapute allo stesso modo.

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ne. Soggetti che dispongono delle competenze necessarie per facilitare i processi collettivi di knowledge integration e di invenzione di nuove conoscenze, capacità e prospettive d’azione33 – soprattutto attraverso l’esplicitazione delle percezioni, dei vissuti emozionali, degli insights e delle credenze soggettive e, poi, con la formalizzazione a livello organizzativo dei modelli mentali e degli schemi cognitivi considerati più efficaci34. In particolare, un soggetto organizzativo che assuma il ruolo di driver epistemico si trova ad essere una specie di imprenditore interno equipaggiato con una dose sufficiente di “spirito di frontiera” (oltre che di committment e di sponsorizzazioni interne ad elevato peso specifico politicoaziendale) tale da consentirgli di generare dinamiche di knowledge sharing così come di knowledge development35 e, in generale, di coordinare e gestire situazioni di interazione di diverse informazioni, conoscenze e capacità, piuttosto che metodologie di lavoro, tali da facilitare lo sviluppo di nuove conoscenze, capacità, concepts, progetti o prodotti, servizi, sistemi. 33. Cfr. ad esempio Reich (1991). 34. In proposito cfr. ancora una volta Nonaka e Takeuchi (1997, pp. 33ss.): “La difficoltà degli osservatori occidentali a prendere in esame la questione della creazione di conoscenza organizzativa ha un fondamento nell’adesione a priori all’assunto per cui l’organizzazione è una macchina deputata alla ‘elaborazione di informazioni’. Questo assunto è profondamente radicato nella storia del management in occidente, da Frederick Taylor a Herbert Simon, e si traduce in una visione della conoscenza come evento necessariamente ‘esplicito’, e in qualche misura formale e sistematico. La conoscenza esplicita può trovare espressione numerica e verbale ed essere facilmente comunicata e condivisa in forma di dati grezzi, formule, procedure codificate o assiomi. Essa viene spesso assimilata a un codice informatico, a una formula chimica o a un sistema di regole generali (…). La rappresentazione della conoscenza nelle imprese giapponesi è, peraltro, radicalmente diversa. Per esse la conoscenza verbale e numerica non è che la punta di un iceberg, la conoscenza essendo in primis un evento ‘tacito’, qualcosa cioè di difficilmente afferrabile ed esprimibile. La conoscenza tacita è eminentemente personale e poco formalizzabile, caratteristiche queste che complicano la sua comunicazione ad altri o la sua condivisione con altri. Essa è una categoria comprensiva nella quale ricadono insight soggettivi, intuizioni e indizi. Essa, infine, ha le sue radici più profonde nell’azione e nell’esperienza individuale, oltre che negli ideali, nei valori e nelle emozioni personali. Più precisamente, è possibile distinguere due dimensioni di conoscenza tacita. La prima è quella tecnica, che comprende l’insieme di abilità e di forze informali difficili da cogliere sussunte nel termine know-how (…). Nel contempo, nella conoscenza tacita è implicita una dimensione cognitiva rilevante, di schemi, di modelli mentali, di credenze e di percezioni così consolidate da essere diventate assiomatiche. Questa dimensione cognitiva della conoscenza tacita riflette la nostra rappresentazione della realtà (l’essere) e la nostra visione del futuro (il dover essere). Nonostante la loro difficile formulabilità, questi modelli impliciti determinano il nostro modo di percepire il mondo circostante”. 35. Per certi versi si tratta di una figura organizzativa assimilabile al project leader delineato da Nonaka & Takeuchi (1997, p. 302), anche se non necessariamente sotto il profilo soggettivo il driver epistemico deve provare il “particolare piacere a tentare cose nuove ed a prendere iniziative” di cui parlano i nostri due autori. In proposito cfr. anche, in termini molto operativi, Coulson-Thomas (2003).

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Il tutto, ça va sans dir, creando le condizioni per governare direttamente il meno possibile e, quindi, per aumentare il tasso di κ σµος riducendo di conseguenza quello di τ ξις. L’organizzazione è un fenomeno complesso, non riducibile entro classificazioni risolutive e conclusive: un fenomeno di cui si possono anche avere cognizioni sofisticate ma una comprensione sempre approssimata, parziale, orientata da obiettivi e interessi solo in parte manifesti e manifestabili36. In questa prospettiva, si può dire che knowledge governance significa non solo ingegnerizzare e presidiare processi e procedure, quanto piuttosto apprendere a creare e gestire conoscenza dotata di valore competitivo. In altri termini, l’organizzazione basata sulla conoscenza e knowledge driven è uno spazio (eventualmente fisico, sicuramente culturale) in cui le persone continuano a scoprire le modalità attraverso le quali creano la loro realtà e anche quelle attraverso cui possono modificarla37 – attraverso l’attivazione ricorsiva di circoli virtuosi esperienza-condivisione della conoscenza-esperienza, in cui le conoscenze condivise a livello organizzativo diventano base di nuove applicazioni, di nuove esperienze e, così, di nuove conoscenze. L’organizzazione lavorativa knowledge driven si configura quindi come una dimensione cognitiva e sociale caratterizzata da processi in costante evoluzione, dove “conoscere” non vuol dire tanto “riconoscere”, cioè apprendere qualcosa di dato e di “esterno a noi”, quanto piuttosto percorrere le molteplici ways of worldmaking che possono consentire di creare e costruire non solo nuovi prodotti, ma nuovi modi di pensare e di agire, quindi nuovi orizzonti e scenari di senso – all’interno dei limiti e delle forme consentite dalla struttura organizzativa entro cui si opera. Questo tipo di organizzazione apre e genera, dunque, una dimensione in cui le persone si ritrovano immerse in “mondi di pensiero” e, al contempo, di azione che a loro volta possono generare nuovi mondi: un po’ come vivere nel λ γος (logos) eracliteo dove il divenire e il cambiamento generano l’innovazione continua, che, per chi lavora nelle organizzazioni basate sulla conoscenza, si configura come un processo di “ricreazione del mondo” – alla luce di un ideale o di una visione particolari, distintivi della cultura organizzativa entro cui si opera. 36. Cfr. Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, p. 29). Per Morin (1983, p. 74), “oggi sappiamo che tutto ciò che la fisica antica concepiva come elemento semplice è organizzazione. L’atomo è organizzazione; la molecola è organizzazione; l’astro è organizzazione; la vita è organizzazione; la società è organizzazione. Ma ignoriamo tutto del significato di questo termine: organizzazione”. 37. Apprendere a creare e gestire conoscenza dotata di valore competitivo significa non solo poter cogliere le opportunità che si presentano e fornire prodotti e servizi di elevata qualità, ma soprattutto poter creare nuove opportunità, nuovi servizi, nuovi prodotti.

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Una formazione centrata sulla persona di Gian Piero Quaglino

La trasformazione non è affatto alle nostre spalle. Murray Stein

Nel corso degli ultimi trent’anni la formazione ha acquisito un pieno statuto metodologico e disciplinare oltre che un’ampia diffusione di domanda e un significativo sviluppo della comunità professionale. Se si dovesse, molto in sintesi, tracciare il bilancio di questo percorso si potrebbe affermare che oggi il campo della formazione ha una sua articolazione e una sua complessità tali da consentirci di individuare una pluralità di dimensioni e di istanze, consentendoci di riconoscere differenti formazioni per differenti ambiti, obiettivi, progetti. È del tutto evidente, ad esempio, la specificità che è venuta configurandosi nell’attenzione dedicata alla cosiddetta formazione a distanza e nel conseguente e-learning. Altrettanto riconoscibili nel panorama di proposte di cui si compone la formazione oggi, risultano quelle che vanno al di là del setting tradizionale d’aula (outdoor), così come le istanze per progetti di formazione individualizzata e personalizzata, e le recenti versioni di formatore come tutor, guida, consulente. Si registra, tra gli altri anche il richiamo ad una formazione lungo il corso della vita (life-long learning) e, insieme a questa, investimenti per finalità di apprendimento organizzativo, ossia una formazione fortemente legata all’azione organizzativa, alle sue logiche e alle sue sfide. La formazione appare inoltre sempre più riconoscibile per quel suo rimando al tema dell’autoformazione, ossia come quella formazione che muove dal soggetto e a questo ritorna necessariamente. Non di meno, all’orizzonte, sembrano profilarsi altre questioni capaci di ampliare ben oltre lo spazio di complessità della formazione, questioni che muovono nella direzione di un vertice formativo individualizzante, quando non individuativo: in altre parole, ciò che identifica lo spazio della conoscenza e della cura di sé. All’interno del panorama che queste nuove tendenze delineano è soprattutto su quest’ultima che portiamo la nostra attenzione, convinti che sia anzitutto a questa nuova formazione che occorre pensare, essendo questa l’espressione più autentica di ciò che la formazione può essere in termini di percorso di crescita personale. Queste pagine intendono fornire una breve delineazione di questa proposta 88


– così come già tentato nella postfazione alla nuova edizione di Fare Formazione (2005) – per una formazione che non sia: • né per l’organizzazione, ossia una formazione che procede nel breve periodo per profili di competenze, di capacità e di contenuti, intenta a interagire con un orizzonte di mestieri di riferimento, ossia per mutuazione di istanze istruttive orientate alla qualificazione professionale; • né in organizzazione, ossia una formazione il cui orizzonte di strategia e cultura è per lo sviluppo organizzativo, per processi e per finalità di medio periodo a consolidamento dell’appartenenza e del contratto psicologico, per bilanciamento tra cambiamento individuale e cambiamento istituzionale, in una prospettiva di crescita della relazione tra individuo e organizzazione. Ciò che si intende qui delineare è il disegno di una formazione capace di andare oltre l’organizzazione e verso orizzonti di esistenza piena e autentica, per mutuazione di istanze educative, per percorsi e traiettorie di lungo periodo, al di là di contenuti e processi, verso la riappropriazione dell’individualità del progetto di sé, ossia in favore dello sviluppo personale prima che non del sistema organizzativo. La proposta individua le dieci tessere che si ritengono fondamentali per la costruzione del modello di questa nuova formazione, tessere che vengono rappresentate nella figura 1 di cui segue una sintetica descrizione. Fig. 1

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1. La formazione ha indubbiamente a che fare con l’esperienza del perfezionarsi di forme, con tutto ciò che, per via di consapevole orientamento o mediante l’esplorazione aperta delle possibilità, modellando consegue un qualche miglioramento. Questa idea di miglioramento può essere richiamata anche in riferimento ad un campo più ampio di significati di pratiche che condividono un certo grado di sovrapponibilità con la formazione, ossia più precisamente: l’addestrare (per acquisire competenza), l’ammaestrare (per rendere abile), l’istruire (per sovrapporre sapere) e l’educare (per conseguire traguardi di sviluppo personale). All’interno di queste opzioni, la formazione acquista forma concreta all’interno di un esercizio a due: la diade è quella maestro-allievo. Nella formazione questi si mostrano impegnati in un andare attraverso e in un procedere affiancato. La formazione si rivela capace di assumere forme ora improntate al tradimento (suggerito nel latino tradere) di forme ormai obsolete, ora a compiti di ammodernamento e nella ricostruzione dell’edificio (del tedesco bildung). La formazione non sembra dunque riconducibile a finalità meramente istruttive, al contrario in essa si trovano anche tracce di un tentativo di dare origine e inaugurare uno stato di cose ancora non presente, così come di un’operazione di mantenimento e cura. Il tradimento e la trasformazione, la generazione e la coltivazione coesistono dunque come significati profondi dell’azione formativa a riprova della plasticità – concettuale e di pratiche – della formazione. Non pare quindi inappropriata al caso l’immagine del crocevia, immagine a sua volta evocativa di crucialità e criticità che la formazione non può negarsi o eludere in alcun modo. La formazione opera infatti in coincidenza dell’articolarsi delle alternative e in presenza del dubbio e delle complicazioni che discendono dalla scelta: in altre parole alla formazione spetta un compito che non solo è opposto alla conservazione, ma agisce in favore del cambiamento, in un'ottica di continuo e interminabile percorrere, in altre parole: è percorso di lungo periodo che si rivolge a soggetti disposti ad accoglierne le fatiche e gli intralci in una esplorazione ricca di occasioni di apprendimento da sé e per sé. In questo suo inseguire mete di sviluppo personali la formazione si istituisce all’interno di una relazione tra soggetti adulti. 2. L’adulto, ossia il ‘chi’ di questa nuova formazione, configura il secondo importante tassello da prendere in considerazione. L’essenza della relazione formativa, le polarità, l’equilibrio, la reciprocità e la com-passione che in essa trovano collocazione fanno dell’adulto non semplicemente l’interlocutore e il destinatario dell’evento formativo, ma anche il referente di una serie di questioni e sfide che la formazione non può non negarsi. Continuamente sfidata e rapportata ad un traguardo mobile, l’adultità è condizione più che non stato: ha il compito interminabile di ripetere se stessa in forme sempre nuove. Tale dovrebbe essere il soggetto di una for90


mazione capace di non cadere nel miraggio della conquista definitiva. Il divenire adulto è traguardo della formazione che si nutre di un bisogno di ridefinizione costante: solo così infatti può darsi in termini di disposizione soggettiva che ricava la propria verità (irrinunciabilmente soggettiva e parziale) a partire dal proprio limite e dalla propria imperfezione. È questa la formazione che sfida la ricerca identitaria soggettiva e tali possono essere i parallelismi tra le traiettorie esistenziali-individuative e i percorsi formativi. La formazione che sceglie il proprio centro nell’adulto è quindi occasione, laboratorio, in altre parole esercizio di quel giusto equilibrio tra le molteplici polarità che configura la sfida tipicamente adulta della integrazione degli opposti. Nel profilo adulto possono integrarsi la capacità di prestare cura e il coraggio di inseguire la propria individualità, il governo dell’incertezza (capacità negativa) e la capacità di proponimento, la sosta del pensiero e l’impulso all’azione. Questo equilibrio ricorda, almeno nell’etichetta, quello ‘quasi stazionario’ lewiniano. Altra sfida con cui è chiamato a confrontarsi l’adulto, e di cui la nuova formazione può diventare scenario, è inclusa nell’idea della caducità, della mortalità e dunque del limite: l’adulto non rinuncia, bensì esprime un interesse che si fa distaccato pur mantenendosi attivo per quell’esistere che si scopre posto a confronto con il suo limitare mortale. In termini formativi dunque il profilo adulto si scopre correttamente incarnato nell’idea che la forma scelta non sia altro se non una tra le infinite possibili. Si potrebbe quindi convenire che la formazione che opera a favore del mantenimento della condizione adulta sia una formazione che non ricorre ad artificiose cristallizzazioni, ma che preserva la plasticità delle forme garantendone il rinnovamento. L’adulto che tradisce se stesso in funzione della tras-formazione è anche l’adulto che si dà in forma di legame. Tra le questioni che lo riguardano infatti v’è anche quella dell’amore. L’adulto scopre la completezza per via della propria parzialità e della ricerca dell’altro che affonda nell’amore di cura e nell’amore di legame. Entro il suo malinconico e solitario procedere, questo adulto non può non risultare un essere profondamente ed inevitabilmente emozionale. 3. Se tutto questo è l’adulto che partecipa di un investimento, prima di tutto personale, in un percorso di formazione di sé, condividendo obiettivi non già di pura informazione quanto piuttosto di conoscenza e cura di sé, la prima tappa di tale procedere formativo non può che essere nell’esperienza. Questa richiede di essere pensata in modo articolato e ricco di rimandi per via dei quali muovere ben oltre ‘il fare’ cui si rischia facilmente di ridurla. L’esperienza infatti non è solo rigida sequenza di azioni ordinate, né sempre si concreta in protocolli da seguire o in azioni che si susseguono senza precisa destinazione. Altre tre aree di significato meritano di es91


sere qui evocate: l’esperienza è anche pensabile come prova, perizia e avventura. A ben vedere, infatti instaura legami sia con la stringente procedura dell’esperimento, sia con la destrutturante condizione del procedere per tentativi ed errori: sceglie da un lato di votarsi alle ragioni del metodo e dall’altro di riproporre il dubbio permanente e pressoché irresolubile. Entro queste polarità si colloca l’esperienza nelle sue molteplici forme che per via di prove e avventure più o meno improvvisate conducono a nuovi apprendimenti. L’esperienza svela la sua composita possibilità tra la certezza dei fatti, l’esercizio prefigurato in ogni suo passaggio e la sfida interna che porta il nome di ricerca interminabile, di prova esposta al rischio. È a questa seconda modalità del fare che la formazione dell’adulto dovrebbe più frequentemente rivolgersi. Posta a confronto con tale duplicità di destinazioni e traguardi (evocati dalla versione tedesca della parola: erfahrung ed erlebnis) l’esperienza conduce sempre ed in ogni caso ad apprendimenti provvisori; essa infatti prepara, ma non conclude, non esaurisce mai il suo compito di avvicinamento del soggetto ai territori che pur appartenendogli scontano la difficoltà della comprensione e dell’attraversamento. Questa esperienza, così indelebilmente legata e legante i destini soggettivi, performante e suscettibile di acquisire forma e di variarla, confronta il soggetto della formazione con l’ineliminabilità del dubbio permanente, con la logica eccitante quanto liberatoria della scoperta, e con un traguardo che necessita di una progettualità non stringente, ma neppure lassa. 4. A salvaguardare dal rischio che l’esperienza incorra nella sterilità della tecnica interviene la riflessione, secondo transito del ciclo trasformativo che questa nuova formazione va descrivendo. Le qualità supposte e le direzioni necessarie a che la pratica riflessiva possa essere esercitata laddove l’esperienza si impratichisce su contenuti connessi alla questione nucleare del Sé di questa nuova formazione, trovano espressione nelle definizioni che ne segnalano la natura pacata e approfondita, il suo compiersi con tranquillità e senza fretta. La riflessione è esercizio del pensiero estraneo a dinamiche di accelerazione e, invece, disposto all’immersione in profondità, capace di indagare compostamente e penetrare a fondo. Trattasi, in altre parole, di un pensiero che circoscrive, che esercita il sospetto, la lungimiranza e l’acume necessari a sostenere la ricerca di senso. L’immagine e le metafore che il fenomeno fisico della riflessione (luminosa) evoca possono aiutare a comporre il quadro di questa formazione che mediante la riflessione si inserisce entro una logica del dare-avere, similmente a come con la rifrazione si danno l’attraversamento e il rimbalzo, l’acquisto e la perdita. Laddove l’esperienza consente di incedere, la riflessione accede, si inoltra attraverso quei territori che l’esperienza ha approssimato, avvicinato. Come contenuto anche nell’etimologia latina di 92


reflexiœne(m), questa disposizione rende possibile – per via di inclinazioni e ripiegamenti – l’attraversamento e dunque lo spalancarsi di nuovi significati. Tuttavia, non va commesso l’errore di incaricare la riflessione di un compito di completa e rassicurante luminosità: al contrario, essa apre, nel suo dirigersi verso intime profondità, al rischio che l’attraversamento di territori sconosciuti profila dinnanzi. La riflessione è anche esercizio di integrazione di opposti o quanto meno occasione del loro incontrarsi. Oltre che arte dell’avvicinamento, la riflessione è pratica di conciliazione e di inclinazione su di sé prima che non di tensione verso un contenuto. Come tale la riflessione contiene la possibilità dello smarrimento che segue l’inseguimento e la perdita che si danno, inevitabili, quando il compito della formazione viene ad avere a che fare con l’ineffabilità dell’enigma del sé. 5. È proprio l’inseguimento di luci e ombre favorito dalla riflessione a consentire quello sprofondamento e quel raccoglimento che sono generativi di un nuovo slancio, di un procedere oltre verso un territorio che è in parte quella stessa esperienza da cui aveva preso avvio il percorso e in parte il nuovo, ancora sconosciuto, successivo approdo: l’interpretazione. L’accesso a questo altro territorio della formazione contiene l’implicito di aver preferito traguardi trasformativi a definitive acquisizioni di sapere. L’interpretazione è infatti questione di significato e non di conoscenza, di comprensione prima ancora che di spiegazione. La doppia anima di traduzione fedele e di attribuzione di significato rende l’interpretazione un’occasione al contempo di recupero e invenzione. Come questione di parole che si rincorrono, l’interpretare offre al soggetto di rintracciare i fili della propria storia personale in un arricchimento che procede anche per via di mutilazioni e perdite. Questa pratica, che si presta al soggetto come modalità di comprensione della propria natura interiore, procede per tempi lunghi: difficili risultano lo scioglimento e la lisi, tanto che essa pare quasi condannare il soggetto ad un lavoro senza destinazione. Va inoltre considerato che il principio dell’interpretazione non è altra cosa se non l’interprete, cosicché l’interpretazione non appartiene ad alcuno se non al soggetto stesso che la esercita. In tale direzione muove questa formazione che interpreta se stessa quotidianamente avendo assunto che non si daranno progressi in conoscenza e cura di sé per mezzo di significati che non siano del soggetto, ossia da questo ricercati e faticosamente conquistati. L’autentica radice della propria personale formazione non può infatti darsi in forma di facile acquisto di verità altrui, ma risiede piuttosto nel recupero e nella ricerca (spesso faticose) dei propri personalissimi motivi. Il soggetto, nell’intraprendere questo percorso interpretativo di sfida che continuamente ripropone il dubbio e l’incertezza, si dispone così ad una formazione la 93


cui circolarità (anche ermeneutica) tende a ripetere se stessa senza mai esaurire la propria ricerca. 6. La custodia dei significati che di volta in volta l’interpretare rinnova è affidata alla narrazione, tappa conclusiva del circolo della formazione trasformativa. Il narrare, inteso come operazione di raccolta e recupero utile ad arricchire la memoria degli eventi, ha il potere di restituire al soggetto il suo ruolo di protagonista di quella interiorità del sé che questa formazione suppone oggetto di esperienza restituibile alla riflessione e interpretabile sul piano simbolico. Nella narrazione è contenuta la possibilità di ‘afferrare’ e ‘trattenere’ senza che questa operazione connoti esperienze, riflessioni e interpretazioni del soggetto per via di alcun senso definitivo o ultimo. Al contrario la narrazione va pensata come fase del percorso formativo che anziché concludere dispiega, che sospendendo solo temporaneamente, in realtà non chiude, bensì prepara la ripresa del percorso. Nelle storie è contenuto un tentativo di dare forma e significato cui la formazione non dovrebbe mai rinunciare. Raccogliendo e ricomponendo, l’operazione narrativa istituisce un legame di unicità tra autore e testo: così come per l’interpretazione, e per le precedenti esperienza e riflessione, il punto nodale torna ad essere il soggetto. In ogni storia il caso, ma anche ogni storia un caso. La forma per così dire ‘buona’ che questa formazione dovrebbe inseguire necessiterebbe di muovere dalla consapevolezza di poter ricercare l’autentico della propria formazione osservando alcune imprescindibili regole. Prima tra queste il vincolo della semplicità, poiché la narrazione formativa dovrebbe saper esprimere l’esperienza nella sua versione più semplice. In secondo luogo, ogni narrazione dovrebbe concedersi spazi di insondabilità, risvolti ambigui, zone d’ombra difficilmente penetrabili: la narrazione ha diritto alla insondabilità completa: se non altro per il fatto che questa resta l’unico modo per consentire al percorso di proseguire. In ultimo, le narrazioni dovrebbero contenere soluzioni strettamente personali prima che non universali: la morale, in altre parole, più che nella storia, è in ciò che l’autore le consente. La circolarità di questa nuova formazione che si rivolge all’adulto e che a questi propone un percorso che dall’esperienza muove verso la riflessione, per accedere poi all’interpretazione e confluire nella narrazione, necessita infine di essere completata in quelle sue altre componenti che – similmente a satelliti – ne configurano l’equipaggiamento e il traguardo. 7. Per questa formazione volta alla coltivazione, alla conoscenza e alla cura di sé, non vi potranno essere altri strumenti e metodi, altre ‘armi’ e risorse che quelle della critica da un lato e della clinica dall’altro. La critica va pensata non solo come giudizio, esame rigoroso, analisi disciplinata e approfondita, tensione investigativa ed altro ancora, né peraltro, va 94


concepita nella sua pura e semplice valenza di ammonizione, di monito, di biasimo. Al procedere di una formazione trasformativa infatti non occorrono affatto la condanna dell’errore, la censura e la vergogna; piuttosto si tratta di considerare la critica come l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità e del disassoggettamento. Se è inoltre vero che critica e crisi sono congiunte in radice, si tratta dunque di considerare la formazione e il suo cammino come processo di avanzamento verso un Sé non più assoggettato, ma piuttosto soggettivato. D’altro canto la clinica, che condivide anch’essa la dimensione della crisi, va riconosciuta per le sue valenze di attenzione e riguardo, di premura e sollecitudine, di trattamento e terapia. Essa va anzitutto considerata come disposizione alla clemenza che deve accompagnare il transito dall’esperienza alla riflessione, all’interpretazione e infine alla narrazione: non l’accanimento terapeutico, né l’accanimento pedagogico dunque. Dalla polarità critica/clinica non resta che compiere l’ultimo passaggio per muovere verso la polarità apprendimento/cambiamento che configura il traguardo di questa nuova formazione. 8. Non può infatti essere trascurato il fatto che l’apprendere resta la questione per eccellenza e dunque anche il punto da cui ripartire per un ripensamento della formazione. L’apprendimento ha a che fare, come indicato dai significati della parola, con l’adattamento che si dà per via dell’aderire, dell’afferrare e dell’affondare. L’esperienza dell’apprendimento è permeata di valenze emotive: la passione (di colui che desidera e dunque si protende ad afferrare, entrare in possesso di un sapere nuovo) e l’apprensione (di colui che è in apprendistato ed anela ad apprendere). Figurano, insieme, il desiderio e il timore per ciò che potrebbe cambiare, poiché l’apprendere altro non è se non operazione che segna, traccia, lascia orme e impronte di sé (dall’inglese learning) e dunque in qualche misura avvia una modificazione. Ciò che la critica e la clinica vorrebbero suggerire al soggetto è proprio una spinta a farsi carico del compito trasformativo inscritto nell’apprendere. D’altro canto rinunciare all’essenza del cammino dell’apprendere implicherebbe la scelta di edulcorarlo per renderlo più lieve, fondamentalmente innocuo, dunque di superficie, senza peso o sostanza: sarebbe questa la strada lungo la quale si perde ogni possibilità che la formazione giunga al suo compimento o consegua il suo traguardo di più profondo sapere per proseguire oltre sino al cambiamento, ovvero sino alla trasformazione del sapere in trasformazione del soggetto: questo l’apprendimento più alto cui la formazione dovrebbe invece muovere. Il legame tra apprendimento e cambiamento va dunque inteso nella molteplicità dei rimandi qui segnalati tra formazione e trasformazione. Se allora si riporta questa immagine del cambiamento non ad un generico universo di fenomeni, bensì al cammino della formazione, essa non potrà che essere 95


espressa in quell’immagine di conseguimento dell’adultità che corrisponde alla pienezza del Sé per la quale Jung ha parlato di individuazione. La formazione che qui si è andata configurando in termini di passaggi cruciali, tappe, protagonisti e destinazioni, è, lo ripetiamo, solo una proposta tra le altre. La ragione del suo convincerci più di altre risiede, almeno nelle intenzioni, nel suo impegno a restituire la formazione al suo compito ultimo, al suo traguardo più autentico che è il soggetto stesso, o meglio la sua suprema vocazione che si esprime nella persona, ovvero nell’immagine del Sé. La formazione è forse giunta, in altre parole, al nodo che le impone di pensare alla propria trasformazione (di modi, tempi e destinazioni), cosicché in essa si riscoprano anche nuove possibilità per quel compito fondamentale che è la tras-formazione dell’uomo. Riferimenti bibliografici Demetrio D. (2000), L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, La Nuova Italia, Firenze. Demetrio D. (2003), Filosofia dell’educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Utet, Torino. Gennari M. (2001), Filosofia della formazione dell’uomo, Bompiani, Milano. Knowles M. (1973), Quando l’adulto impara, tr. it. FrancoAngeli, Milano, 1996. Lipari D. (2002), Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e Associati, Milano. Mezirow J. (1991), Apprendimento e trasformazione, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2003. Quaglino G.P. (2004) (a cura di), Autoformazione: autonomia e responsabilità per la formazione di sé nell’età adulta, Raffaello Cortina, Milano. Quaglino G.P. (2005), Fare formazione, Raffaello Cortina, Milano. Schön D.A. (1987), Educating the Reflective Practitioner: Toward a New Design for Teaching and Learning in the Professions, Jossey-Bass, San Francisco. Stein M. (2005), Trasformazione. Compito fondamentale dell’uomo, Moretti & Vitali.

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La microcultura personale ‘empowerment oriented’ di Massimo Bruscaglioni

1. Self empowerment e sentimento della persona di protagonismo sulla propria vita Sentirsi della persona protagonista della propria vita: questa è a livello sintetico ed intuitivo, la più incisiva definizione dello stato di self empowerment della persona. Per avvicinarsi peraltro con maggiore concretezza anche alla operatività (cioè a come può avvenire ed essere facilitato lo sviluppo del self empowerment della persona), è utile riprendere e sottolineare nella definizione di empowerment la radice “potere”: in termini di verbo, cioè di possibilità, di apertura di possibilità, di stato di pluripossibilità (come sarà illustrato nel successivo paragrafo secondo “stabilità, cambiamento, possibilitazione”). Fino a non molto tempo fa la persona individuale era descrivibile, ed in larga parte prevedibile nei suoi comportamenti significativi dal punto di vista sociale, sulla base di una serie di parametri oggettivi od oggettivabili (quali: età, sesso, tipo di lavoro, residenzialità geografica, stato civile, livello socioeconomico, appartenenze ai grandi gruppi caratterizzati ideologicamente, ecc.). Ciò che era interiore nella persona, in particolare soggettivo, era relegato nel campo del cosiddetto privato e comunque considerato socialmente non rilevante. Tende ad emergere ora (non affrontiamo qui il tema del perché ora e proprio ora) la crucialità del soggetto “persona”: individuabile e descrivibile e prevedibile nei comportamenti soltanto aggiungendo, ai precedenti, anche una serie di altri parametri interni molto personalizzati e spesso almeno parzialmente soggettivi, quali: motivazioni; aspirazioni; percezioni; concezioni circa la qualità della vita; bisogni ma anche desideri; orientamenti nell’uso delle proprie risorse personali e d’ambiente. E soprattutto “vissuti” personalizzati di quegli stessi elementi “oggettivi” che caratteriz97


zano l’individuo dall’esterno, quali: vissuto del proprio lavoro; della propria strutturazione degli affetti e familiare; della propria eventuale religiosità; del proprio orientamento ed eventuale appartenenza politica; della propria qualità quotidiana della vita e delle proprie aspirazioni che la riguardano; delle cause della propria situazione socioeconomica; ecc. Nelle società moderne questi aspetti caratterizzano adesso la persona non solo e come sempre nel cosiddetto privato, ma anche nei comportamenti socialmente significativi (esempi noti: la estremamente diminuita prevedibilità del comportamento di acquisto e di uso del denaro; il comportamento di voto nelle elezioni). Sottolineando gli aspetti positivi di tale fenomeno di individualizzazione, potremmo esclamare “la persona finalmente!”. La persona cioè portatrice della propria interità finalmente anche essa protagonista della sua propria vita e del sociale; legittimata e degna di attenzione e di sforzo per il suo benessere complessivo, per la sua possibilità di sentirsi responsabile, per il suo empowerment e sentimento di protagonismo sulla propria vita, per la sua possibilità di sentirsi contribuente al benessere personale e collettivo. Lo studio del self empowerment della persona, vuoi come stato in cui la persona si trova vuoi come processo operativo per raggiungere tale stato (empowerment è parola duplice, di stato e di processo, come altre parole quali achievement, realizzazione, organizzazione) fa parte di questo nuovo approccio: che ha come focus la persona (senza debordare nell’approccio terapeutico) e la sua interità, il suo sentimento di protagonismo, di vitalità, di benessere adulto, di responsabilità, di socialità scelta e non solo ereditata. 1.1. Stabilità, cambiamento, “possibilitazione” In questo tipo di società in cui i cambiamenti sono visibilmente ampli, frequenti, pervasivi, spesso rapidi, secondo chi scrive la dinamica principale per la persona è quella tra stabilità e cambiamento: la persona si trova infatti sempre più spesso di fronte a nuovi problemi e nuove opportunità, che sollecitano fortemente questa dinamica. La mia esperienza, negli ultimi dieci anni, di conduzione di molte centinaia di approfonditi colloqui individuali di counseling, conferma questa crucialità: spessissimo le persone si chiedono “cambio o non cambio” lavoro, strutturazione della vita affettiva, modo di comunicare e rapportarmi, ed ancor prima modi di capire e capacità su cui puntare? Perché ciò che prima andava bene ed era apprezzato ora non va più bene, e cosa devo cambiare? Vorrei continuare in ciò che faccio e sono, ma anche dovrei forse cambiare qualcosa? 98


Qui si propone che alla bipolarità stabilità-cambiamento debba essere aggiunto un terzo polo, sia sul piano teorico concettuale sia sul piano concreto (per esempio nell’intenzione di aiuto alla persona): la apertura della persona di una o più propria nuova possibilità. Nuova possibilità che, aggiunta a quella della situazione stabile precedente e ad altre possibilità alternative, determina una situazione di “pluripossibilità”, entro la quale la persona soggetto può scegliere quale iniziare ad implementare nel processo operativo di messa in atto nel rapporto con l’ambiente. La situazione della persona che ha aperto al suo interno una “nuova possibilità” (concetto che più avanti definiremo con più precisione), non è più la stessa/stabile, perché può ora maggiormente scegliere ed eventualmente decidere di intraprendere strade nuove; ma non è neanche ancora quella del cambiamento vero e proprio avvenuto nella persona e nella sua situazione, perché la nuova possibilità non è ancora stata prescelta e perseguita operativamente nella sua messa in atto. Il concetto di “possibilitazione” (denominazione sintetica del “processo operativo di apertura di nuove possibilità all’interno del soggetto”, raggiungendo egli uno stato di pluripossibilità) è importante per almeno due motivi che qui sottolineiamo: 1. perché permette una alternativa allo stato di paralisi che talvolta si crea nella persona, attratta e respinta sia dalla stabilità sia dal cambiamento, per motivi spesso speculari; 2. perché focalizza e rende visibile la natura dell’importante processo e percorso preliminare che molto spesso costituisce la prima fase (poco visibile dall’esterno) del cambiamento vero e proprio (quando esso successivamente avviene di fatto come risultato finale). Nella figura 1 è riassunto e sottolineato come il processo di possibilitazione e lo stato di pluripossibilità rappresentino l’essenza del processo e dello stato di self empowerment:

Fig. 1 - L’essenza del processo operativo del self-empowerment 1. Apertura di una o più nuove possibilità interne alla persona ↓ 2. Stato di “pluripossibilità” della persona ↓ 3. “Metà” possibilità di scelta (tra le più possibilità, compresa quella della permanenza nella stabilità) ↓ 4. Sentimento di responsabilità e di protagonismo sulla propria vita

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1.2. La possibilità personale interna individuale una nuova possibilità interna coesistente con altre possibilità alternative, quando può veramente (vedremo di seguito quali sono le condizioni) sceglierla per iniziare e cercare di realizzare il processo della sua messa in atto nell’interazione con l’ambiente in cui vive. Esempio di stato di pluripossibilità interna della persona nell’area lavorativa della vita: • permanere più soddisfatto (essendo consapevole che è una scelta) nell’attuale configurazione lavorativa; • cambiare azienda; • cambiare tipo di lavoro nella stessa azienda; • cambiare modo di lavorare nello stesso ruolo e nella stessa azienda; • cambiare aspetti significativi del suo rapporto psicologico persona/lavoro (motivazioni, aspettative, salto di qualità perseguito, concezione della propria professionalità attuale e auspicata, …). * Esempio nell’esempio: una persona che da anni non va a colloqui di selezione per un nuovo lavoro, non risponde a inserzioni, non cerca nuovi contatti, da anni neanche ha scritto e dispone del proprio curriculum vitae professionale… probabilmente quella persona non ha, al proprio interno, nessuna delle possibilità suddette: ancor prima di confrontarsi col mercato del lavoro, già dentro di sé non “può”, non ha “il potere di”. “Possibilità interna della persona” non va peraltro confusa con alcuni altri concetti: • non va confusa con “fantasia” pura, con flash mentale, con “immagine subitanea”. Per essere tale “la possibilità” esige infatti un complesso lavoro mentale, talvolta lungo e impegnativo; • non va confusa con “opportunità ambientale concreta”: la possibilità mentale diventerà opportunità concreta solo dopo che sarà dalla persona scelta, sviluppata, avviata con successo in particolari condizioni ambientali (la persona, nell’esempio precedente, si decide a iniziare a cercare un nuovo lavoro e attraverso un processo operativo lo trova); • non va confusa neanche con “potenzialità” (peraltro qui possono influire la definizione e le connotazioni date alla parola potenzialità): la quale già prefigura condizioni di incontro tra 1) la possibilità interna della persona, 2) l’esito del percorso concreto fatto dalla persona nel proprio sviluppo per esempio di nuove risorse personali, 3) condizioni d’ambiente (per esempio di tipo di figure professionali richieste dal mercato). La possibilità interna è quella che permette alla persona di iniziare a intraprendere e investire in un percorso senza escludere la possibilità di successo, la cui entità dipenderà anche da molti fattori d’ambiente. Esempio: la possibilità interna può essere quella di diventare molto bravo, al limite campione, in una specialità sportiva; è evidente che il livello di successo concreto dipenderà poi successivamente da molte cose, a cominciare dal 100


livello dei competitors. Nella vita reale spesso questi fattori esterni peraltro incidono, modificandoli in parte, sul percorso realizzato e sulla stessa mèta perseguita: con un utile processo di adattamento che non compromette l’essenza qualitativa della possibilità interna iniziale. Proponiamo qui di seguito una definizione articolata di nuova possibilità interna di una persona. Tale proposta deriva soprattutto dalla osservazione dei comportamenti delle persone (di fronte a fattori, esterni e/o interni, che stimolano cambiamento, evoluzione, apprendimento, crescita) sul lavoro, e/o nell’ambito di colloqui di counseling individuali richiesti dalle persone e/o nell’ambito di laboratori in piccolo gruppo di autosviluppo personal professionale e di sviluppo di metacompetenze. La nuova possibilità interna in una persona è costituita essenzialmente da una nuova prefigurazione mentale, fortemente sperimentata e positiva, di sé nella situazione della possibilità realizzata, convivente nella persona con altre e diverse possibilità, necessariamente corredata di una serie di fattori cruciali: 1. alimentazione di energia desiderante e non solo di energia necessitata (mobilitazione dell’io desiderante nello specifico della possibilità in oggetto); 2. costruzione di una pensabilità di sé nel desiderio-progetto realizzato, positiva nel senso che la persona prevalentemente ci si vede e ci si piace; 3. previsione di massima delle modalità attraverso cui la persona si potrà procurare le risorse che attualmente le mancano, interne (es. capacità) ed esterne (nell’ambiente); 4. vision positiva di percorso: immagine cioè positiva di sé non solo nell’esito finale ma anche durante il percorso, talvolta lungo e faticoso, che la persona dovrà sostenere: per esempio per procurarsi le risorse necessarie; 5. previsione di massima delle modalità attraverso cui la persona potrà riuscire ad “aggirare” i propri problemi storici soggettivi nello specifico di quella nuova possibilità: come riuscirà cioè ad evitare il blocco indotto da proprie caratteristiche personali interiori problematiche. Nello specifico, non in generale: senza cioè pretendere di risolvere tali problematiche a livello personale globale complessivo; aspetto questo, eventualmente più tipico dell’intervento terapeutico; 6. disponibilità a proiettare la suddetta pensabilità positiva (punto 2°) sul piano di realtà, in particolare con accettabilità di livelli di successo variabili nell’incontro con l’ambiente reale; 7. forte “sperimentazione” della prefigurazione mentale, tenendo conto che la sperimentazione: a) quando possibile è anche concreta, attraverso la sperimentazione operativa di un primo passo iniziale reversibile (infatti non è ancora 101


cambiamento) con valutazione personale dell’esito, all’esterno ed all’interno di sé; b) in ogni caso a livello mentale (con contenuti sia razionali sia emotivi) la sperimentazione è ripetuta e sempre più dettagliata; c) la sperimentazione deve comunque essere fatta (soprattutto quando non è realizzabile sul piano concreto) anche attraverso atti “simbolici”: atti cioè che concretamente sembrano avere poca rilevanza però hanno forte significato per la specifica persona (esempi: per una donna cambiare pettinatura, sperimentare un nuovo look, spostare i mobili di casa; per tutti: comprare un oggetto strano; rivedere dopo tanto tempo una persona; dialogare mentalmente con un defunto importante della propria vita; fare qualcosa di insolito). 2. La microcultura personale empowerment oriented Sono qui proposti alcuni esempi nell’intento di facilitare una prima comprensione intuitiva del concetto di “microcultura personale”. • Esempi metaforici: – i due celebri personaggi di Don Camillo e Peppone notoriamente appartengono a gruppi e culture sociali assolutamente diverse, per certi versi opposte nell’ambientamento dell’Emilia degli anni ’50. Però hanno un qualcosa (che poi proporremo di denominare microcultura personale empowerment oriented), che li assimila assai: per esempio non accettano che sia impossibile trovare una soluzione compatibile con i due schieramenti quando si tratta di un bambino da salvaguardare, un valore economico da non distruggere, un affetto profondo anche se contraddittorio per le ideologie. Così loro che si ritrovano di notte, di nascosto dai rispettivi gruppi, a cercare una nuova possibilità; – immaginiamo che in una famiglia tre fratelli, che sono bravi ragazzi, convergano e/o convergeranno su una simile cultura sociale. Ma quando, ogni anno nello stesso anniversario familiare, si tratta di andare al ristorante: uno preferisce il solito ristorantino “in cui stiamo così bene insieme”; uno ne vuole provare un nuovo all’anno, magari con cucina tipica di un altro paese; uno si disinteressa della scelta, borbottando che bisogna cambiare il mondo e la società, mica pensare al ristorante. • Esempi realistici: – due ex compagni di scuola trascorrono una quasi intera vita di lavoro nella stessa azienda; però uno si guarda intorno, è sempre informato su altre aziende, persone, lavori; dice spesso che potrebbe cambiare e andare a fare quello o quell’altro; peraltro di fatto accet102


ta e anzi gradisce cambiamenti di ruolo nella stessa azienda. L’altro dice che sta bene dove è, salvo lamentarsi sempre di questo o quello; e comunque non gradisce cambiamenti dentro l’azienda e dentro il suo ruolo lavorativo; – due sorelle sono entrambe consistentemente religiose, però: una si pone tante domande, qualche volta perfino “se Dio c’è davvero”; e comunque cerca sempre anche sacerdoti e voci nuove. L’altra è pia e senza grilli per la testa, ama la tradizione, ha anche un po’ di nostalgia di quando la S. Messa veniva detta in latino. Persone con una cultura sociale assai simile possono infatti, su base assolutamente individuale, avere un qualcosa di molto diverso, che riguarda non tanto le cose quanto il modo di porsi rispetto alle stesse cose; qualcosa che qui denominiamo “microcultura personale” e che qui di seguito vogliamo descrivere più sistematicamente e nell’ambito di una tipologia. La microcultura personale empowerment oriented è costituita da un insieme di orientamenti, e di tendenze a tali orientamenti, correlati tra di loro, che si applicano trasversalmente su oggetti specifici di volta in volta molto diversi: orientamenti che riguardano non tanto i grandi contenuti di rilevanza sociale, ma invece i modi in cui la persona li vive e si rapporta con essi; orientamenti che non risentono delle appartenenze sociali e culturali della persona, ma sono assolutamente individuali e risentono in particolare modo della soggettività e delle dinamiche interne della singola persona. 2.1. Orientamenti e tendenze caratterizzanti la microcultura personale empowerment oriented A) fattori conseguenti dall’orientamento fondante al processo di “possibilitazione”: A1) orientamento alla apertura di nuove possibilità interne della persona ed allo stato di pluripossibilità; orientamento microvaloriale alla mètapossibilità di scelta, ed ai conseguenti sentimenti psicologici di responsabilità e di almeno relativo protagonismo sulla propria vita. Questo orientamento si differenzia da quello verso la possibilità unica: vuoi unica in quanto attuale (conferma della stabilità), vuoi unica in quanto quella auspicata come esito di un processo radicale che sostituisce la situazione attuale con una diversa e precisata fin dall’inizio. B) fattori evidenziati fin dall’inizio dai padri fondatori del concetto di empowerment: B2) tendenza all’investimento psicologico su ciò che la persona “può” fare perché dipende da Lei (più che investire psicologicamente su 103


B3) B4)

B5)

B6)

ciò che non può fare perché dipende da altri, o dal sistema, o dal caso, o dalla fortuna); tendenza all’investimento psicologico sulle risorse disponibili, interne ed esterne (piuttosto che su quelle non disponibili); tendenza all’investimento sulla self efficacy ed in particolare sulla capacità di saper reperire e mobilitare le risorse adatte tra quelle disponibili (piuttosto che sul timore di non saperle raggiungere all’occorrenza); tendenza all’investimento psicologico, quando il fenomeno è effettivamente totalmente fuori dal proprio controllo, sulla speranza e la fiducia in fattori “intervenienti” positivi, e non solo sul timore di quelli negativi; orientamento tendente alla valorizzazione, sia auto che etero riferita, piuttosto che alla critica, sia pur costruttiva;

C) fattori evidenziati dallo studio delle fasi e aspetti cruciali del processo operativo con cui si aiuta una persona ad aprire una sua nuova possibilità interna ed a sviluppare il proprio self empowerment: C7) tendenza alla mobilitazione dell’energia desiderante; tendenza a cercare rispondenza della nuova possibilità rispetto anche a criteri di desiderabilità e non solo di necessità; tendenza a distinguere tra bisogni e desideri; C8) tendenza a costruire nuova pensabilità positiva di sé nella situazione nel nuovo progetto-possibilità una volta che viene immaginato realizzato; C9) orientamento intenzionale allo sblocco, al rifiuto della paralisi, all’aggiramento degli ostacoli esterni e di quei problemi storici soggettivi personali interni che tenderebbero a far percepire l’impossibilità personale verso la mèta auspicata; C10) orientamento alla sperimentazione reversibile, a quel passaggio all’azione che non è ancora cambiamento ma ne fornisce l’esperienza, concreta iniziale o anche solo simbolico psicologica; C11) orientamento alla ricerca di nuove (nel senso di non ben utilizzate) risorse dentro di sé e di nuove risorse nell’ambiente; C12) attenzione alle intervenienti, cioè a quei fattori ambientali di novità che non sono programmabili nello specifico ma che statisticamente sono frequenti: che potrebbero risultare positivi e incidere sul passaggio da impossibile a possibile di ciò che viene perseguito; C13) tendenza ad investire la interità della propria persona, di volta in volta nelle diverse aree e situazioni, piuttosto che a segmentare se stessi;

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D) fattori ulteriori osservati nelle persone come correlati ai precedenti (frutto probabilmente della proiezione di fattori personali interni sulla propria interazione con l’ambiente esterno) D14) orientamento favorevole all’allargamento della propria esperienza, anche in assenza di necessità o di vantaggi, all’acquisizione di nuove capacità, all’apprendimento, alla crescita personale continua anche in età adulta; D15) atteggiamento (sul piano emozionale, precedente l’analisi del contenuto) favorevole ai fattori di innovazione provenienti dall’esterno; D16) orientamento favorevole alla flessibilità: per esempio nei comportamenti, nei ruoli, nell’organizzazione; D17) tendenza a vivere psicologicamente il sentimento di responsabilità e ad apprezzare l’aumento di responsabilità; D18) facilità, nella comunicazione, ad andare oltre la ripetizione confermativa ed anche oltre lo scambio per sviluppare anche comunicazione generativa di nuovi contenuti e risultati; D19) orientamento ad accettare le contraddizioni, a gestirle, ad elaborarle generativamente per creare nuove realtà; maggiore facilità ad andare oltre la motivazione autorealizzativa ed a percepire la motivazione generativa. 2.2. Confronto delle tre microculture personali con focus sull’asse stabilità-cambiamento Proponiamo la seguente tipologia e definizioni sintetiche: • microcultura personale orientata all’empowerment: orientamento alla scelta tra più possibilità, e quindi tendenza alla apertura di nuove possibilità per aversi uno stato personale di pluripossibilità; • microcultura personale orientata alla stabilità: orientamento alla conferma della possibilità costituita dalla situazione attuale; • microcultura personale orientata al cambiamento radicale: orientamento alla possibilità costituita da una precisata configurazione finale che si sostituisce, eliminandola, alla configurazione attuale (la denominazione esatta sarebbe infatti quella di microcultura personale orientata al cambiamento “sostitutivo”, in questo senso “rivoluzionario”). Si rileva che di fatto è la microcultura personale empowerment oriented quella che, nei suoi effetti statistici e probabilistici, risulta maggiormente favorevole alla innovazione ed al cambiamento: che più frequentemente sono realizzati non attraverso un processo radicale di sostituzione ma attraverso un progressivo aggiungersi di nuove possibilità: le quali, una volta sperimentate come positive, si aggiungono alla situazione precedente e 105


infine la modificano per spostamento delle crucialità. Raramente infatti nei sistemi sociali evoluti (persone adulte, società evolute, organizzazioni consistenti) il cambiamento avviene in maniera radicale, eliminando il vecchio e sostituendolo col nuovo. Nei sistemi evoluti molto più frequentemente il cambiamento come effetto finale avviene attraverso il processo progressivo e reiterato di possibilitazione. Nelle persone adulte, la componente della cultura orientata al cambiamento radicale sostitutivo paradossalmente determina processi di cambiaSpecchietto riepilogativo delle principali caratteristiche delle tre microculture personali sull’asse stabilità-cambiamento microcultura personale orientata alla conferma della STABILITÀ

microcultura personale orientata al CAMBIAMENTO RADICALE SOSTITUTIVO

microcultura personale orientata ALL’EMPOWERMENT

orientamento alla conferma della situazione attuale (possibilità unica: quella attuale)

orientamento ad una precisata situazione futura che eliminerà e sostituirà la situazione attuale (possibilità unica: quella futura “rivoluzionaria”)

orientamento allo stato di pluripossibilità ed alla apertura di nuove possibilità (possibilità plurime)

motivazione autopercepita prevalente di tipo necessitato: corrispondente a bisogni e doveri

motivazione ad un qualcosa di diverso e di ordine superiore, in cui bisogno, desiderio, necessità, dovere si confondono tra di loro

attivazione di motivazione ed energia desiderante, accanto a quella bisognosa corrispondente alle necessitate

tendenza al rispetto di limiti e vincoli, propri e d’ambiente

tendenza a porsi concettualmente su un piano diverso, dove si ritiene non ci sarà più quel tipo di limiti e di vincoli

orientamento all’aggiramento di limiti, vincoli, carenze; al depotenziamento, sullo specifico di volta in volta, dei blocchi esterni e di quelli personali

tendenza alla gestione, alla miglioria dell’attuale, all’innovazione concepita come miglioramento evolutivo dell’attuale estrapolato linearmente

orientamento alle azioni che scardinano il funzionamento attuale e innescano quello nuovo rivoluzionario

tendenza all’innovazione continua; fiducia anche nei possibili salti di qualità e nell’innovazione e nel progresso per aggiunta (di nuovo al vecchio)

tendenza a percepirsi eterodeterminati, a sottolineare ciò che non si può fare perché dipende da altri

tendenza a chiedere ad altri la forza determinante per rovesciare l’attuale situazione e sostituirla con quella radicalmente diversa

tendenza ad investire psicologicamente su ciò che si può fare: sottolineatura delle possibilità di autodeterminazione

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segue microcultura personale orientata alla conferma della STABILITÀ

microcultura personale orientata al CAMBIAMENTO RADICALE SOSTITUTIVO

microcultura personale orientata ALL’EMPOWERMENT

orientamento privilegiato alla gestione ottimale delle risorse attuali

investimento sulla prefigurazione di una configurazione di risorse disponibili totalmente diversa dall’attuale per natura e quantità

orientamento privilegiato alla ricerca di nuove risorse

motivazioni psicologiche fondamentali alla rassicurazione ed alla conferma di identità

motivazione psicologica fondamentale alla percezione di essere in minoranza ma nel giusto, e di essere tra i precursori di un futuro mondo molto diverso e migliore

motivazione psicologica fondamentale data dall’innovazione: che è energeticamente extraordinaria ed, in senso lato, erotica

valorizzazione del sé unitario coerente e compatto; accettazione del rischio di rigidità

orientamento ad un sé diverso e propria coerenza parametrata non sull’attuale ma nella proiezione sull’assetto futuro

valorizzazione dei plurimi sé possibili; la coerenza e unitarietà sono date dall’io complessivo regolatore

aspirazione ad eliminare le contraddizioni; loro gestione comunque tendenzialmente tramite ricerca di compromesso ed equilibrio

investimento su uno solo dei poli della contraddizione per farlo diventare modello dominante nel futuro

accettazione delle contraddizioni, sia proprie interne che esterne; tentativo di integrarle generando nuovo sé e nuove soluzioni

innovazione come evoluzione fisiologicamente migliorativa dell’attuale

innovazione come rottura col passato

essenza della innovazione come aggiunta di nuova possibilità

diffidenza nel progresso, se non come crescita naturale

fiducia nella rivoluzione

fiducia nel progresso

mento reale solo raramente: spesso determina purtroppo invece la scissione tra “ciò che vorrei” e “ciò che forzatamente resta la mia realtà” (esempio: vorrei fare il poeta in un’isola nell’oceano indiano, ma sono costretto a fare il ragioniere in questa azienda).

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2.3. Il concetto di microcultura personale Tentiamo qui di definire un po’ più precisamente il concetto di “microcultura personale” ed alcune sue caratteristiche: • “PROCESSUALE” PIÙ CHE CONTENUTISTICA: gli orientamenti e le tendenze tipiche di una microcultura personale non riguardano tanto i grandi orientamenti, tipici invece della cultura sociale dell’individuo (esempi: il valore della solidarietà, della libertà, dell’individuo, del dovere, della religiosità, del lavoro, della famiglia); ma riguardano piuttosto i modi, molto individuali e soggettivi, in cui la persona li tratta, li vive, si rapporta con essi, “li processa”. • “PERSONALE”: la microcultura è assolutamente individuale: può essere caratterizzata in modo molto diverso anche tra fratelli di una stessa famiglia e tra gemelli anche se monozigoti. Essa riguarda le dinamiche in buona parte soggettive e interne della persona: per questa ragione è preferibile denominarla come “personale” piuttosto che come “individuale”. Può essere molto simile tra persone che appartengono e/o si riferiscono a gruppi sociali e culturali diversi, così come può essere molto diversa tra persone che hanno caratteristiche oggettive e socio culturali molto simili. • “TRASVERSALE”: come si deduce dalle prime due caratteristiche suddette (processuale e personale) la microcultura personale è trasversale in un duplice senso: 1. è trasversale rispetto ai contenuti, in quanto riguarda non la differenza/similitudine tra di essi ma bensì il modo di “processarli”, cioè di porsi in rapporto ad essi; 2. è trasversale rispetto ai gruppi sociali di appartenenza ed alle culture di diversi tipi (sociologiche, professionali, organizzative, di ruolo, ideologiche, nazionali…). È probabile che realizzando ricerca sistematica emerga anche qualche correlazione significativa, ma si osserva che principalmente le persone con uno stesso tipo di microcultura personale si trovano sistematicamente sui diversi versanti dei gruppi sociali e culturali. • “MICRO”: è un termine che, a livello di efficacia intuitiva, sintetizza alcune delle caratteristiche suddette: è assolutamente individuale, riguarda il mondo personale interno, orienta non i grandi contenuti sociali ma i modi psicologici con cui la persona si rapporta ai suoi stessi propri contenuti culturali, è visibile solo se si presta una attenzione specifica alla singola persona. Non viene denominata come “psicologica”, anche se questo aggettivo ne favorirebbe la comprensione concettuale intuitiva, per non confonderla (come vedremo più avanti) con le caratteristiche di personalità. 108


Per chiarire meglio il concetto di microcultura personale, possiamo immaginare metaforicamente che l’individuo abbia due diversi tipi di carta di identità culturale (oltre, ovviamente alla carta di identità oggettiva, concepita come quella anagrafica con più dettagli di quella rilasciata dal Comune): • una sorta di carta di identità che riassume la sua cultura sociale, le tendenze tipiche delle culture sociali dell’individuo; quali per esempio (in estrema semplificazione e in linguaggio un po’ naif, e mescolando tipologie riferite ad ambiti molti diversi): cultura religiosa o non religiosa, di destra o di sinistra, specialistica o manageriale, operaia o impiegatizia, tecnico scientifica o umanistica; ecc.; • una sorta di carta di identità individuale della sua “microcultura personale”, che riporta le tendenze microculturali: cioè come si è detto, di tipo più processuale che contenutistico, personale più che di appartenenza sociale, con le radici nella soggettività individuale più che in fattori oggettivi. Da questo punto di vista la persona potrebbe essere caratterizzata sull’asse razionale-emozionale o sull’asse autoritario-non autoritario (secondo la famosa ricerca di Adorno che peraltro con la scala F cercava le correlazioni con l’antisemitismo e con l’orientamento di personalità favorevole alla dittatura); oppure, come in questa sede si è fatto sin qui, sull’asse stabilità-cambiamento, che rappresenta secondo chi scrive la più significativa dinamica nella persona che vive nella società moderna. La microcultura di una persona, data la sua connessione con la soggettività e le variabili psicologiche, viene spesso considerata come un dato di personalità. Questa convinzione viene confutata da chi scrive, in attesa di dati sistematici di ricerca rigorosa, sulla base di almeno due elementi di evidenza, declinati qui di seguito sulla tipologia di microculture orientate a stabilità-cambiamento-empowerment: 1. le persone esprimono frequentemente microculture personali significativamente diverse in campi della vita diversi, quali: lavoro, affettività, orientamenti nel tempo libero, socializzazione; 2. nella stessa area della propria vita, le persone frequentemente esprimono microculture personali significativamente diverse in periodi temporali diversi della loro vita. Peraltro, focalizzata una tipologia omogenea di microculture (ed ammesso che essa sia completa), la persona è portatrice di tutti e tre i tipi: in quantità e con modalità e dinamiche diverse per ogni individuo. Dire che una persona è caratterizzata da microcultura personale empowerment oriented significa in realtà dire che quella persona è caratterizzata da maggiore tendenza e facilità e frequenza di espressione di quella microcultura rispetto alle altre due (stabilità e cambiamento). E peraltro è probabilmente più corretto dire che quella persona è caratterizzata da quella microcultura rispetto ad una specifica area della sua vita. 109


È altrettanto vero, come emerge dall’osservazione (in attesa di conoscenze maggiori e dati di ricerca rigorosa) che in parte sono in gioco fattori di personalità (quindi, in prima approssimazione, costanti nelle varie aree e nei vari periodi della vita). Probabilmente si può parlare di un “fattore P” (costante, generale, trasversale ad aree di applicazione ed a periodi della vita), che dipende dalla personalità e che spiega una maggiore probabilità e/o facilità di espressione di quel tipo di microcultura; ed un “fattore V”: variabile, che può essere influenzato, che può determinare differenze tra diversi campi e tempi di applicazione. Il fattore P risulterà probabilmente più interessante per la descrizione in senso di classificazione della persona e per applicazioni per esempio di selezione; il fattore V è quello che maggiormente ci interessa, importante perché permette applicazioni quali (come vedremo nel prossimo paragrafo) quella nella formazione, nella individuazione delle alleanze e dei gruppi microculturali trasversali, nelle culture organizzative, nell’educazione dei giovani, nel collegamento tra culture sociali e microculture personali “socializzate”. 2.4. Nella formazione Nella formazione degli adulti ed essere utili i concetti di microcultura personale empowerment oriented e di metodologia operativa del self empowerment in particolare come processo di possibilitazione aprono nuove prospettive utili per alcuni aspetti cruciali formativi: • formazione alle METACOMPETENZE. Lo sviluppo del self empowerment permea infatti lo sviluppo di alcune fondamentali metacompetenze, quali: la psicologia del sentimento di responsabilità, l’innovatività, la flessibilità, l’orientamento all’apprendimento, l’orientamento alla crescita continua, la motivazione sul lavoro e la sua rigenerazione, il pensiero positivo operativo, l’orientamento alla fiducia ed alla speranza. Inoltre lo sviluppo del self empowerment e della componente empowerment oriented della microcultura personale, risultano determinanti nella attualizzazione ed espressione del potenziale: il quale, ammesso che sia fissato e stabile in una persona, è però variabile e influenzabile nella sua attualizzazione ed espressione concreta, per esempio in ambito lavorativo e in una specifica organizzazione; • la microcultura empowerment oriented dei formatori e della formazione, incide su alcuni ASPETTI CRUCIALI per i processi ed i risultati formativi, quali: – la capacità di stimolare e sviluppare la motivazione delle persone alla crescita personale ed all’apprendimento; 110


– la possibilità e la metodologia di aggiramento dei problemi storici soggettivi di ciascuna persona, che altrimenti bloccherebbero il processo di apprendimento fin dal suo inizio o comunque alle prime difficoltà; – la concezione dell’obiettivo stesso dell’apprendimento in termini operativi: come apertura di nuova possibilità all’interno della persona; – la mobilitazione dell’energia extraordinaria (desiderante, non solo bisognosa e necessitata) per la tenuta nei processi di apprendimento, di crescita e di salto di qualità personal professionale: – il coinvolgimento della persona intera (e non solo del limitato spicchio professionale di ruolo) con tutte le sue risorse personal professionali, nel processo di apprendimento e crescita; • la FORMAZIONE AUTOSVILUPPO è quel tipo di formazione in cui alla persona è offerto un percorso formativo attraverso il quale ciascuno può dedicarsi a sviluppare quelle sue nuove possibilità, in particolare in termini di capacità personal professionali, che Lui/Lei percepisce come cruciali per la sua crescita e salto di qualità. Risultati eccellenti (per questo aspetto così come nello sviluppo di metacompetenze) si raggiungono con percorsi formativi relativamente semplici (due laboratori di tre giornate ciascuno, con un colloquio intermedio ed uno finale di counseling individuale): percorsi in cui la microcultura empowerment oriented ed il self empowerment inteso come nuova possibilitazione costituiscono sia l’obiettivo di apprendimento sia il metodo e la cultura del lavoro formativo. • L’ALLEANZA TRA LE PARTI PIÙ VITALI DELLE PERSONE NEL GRUPPO E NELL’ORGANIZZAZIONE La consapevolezza del concetto e costrutto di microcultura personale empowerment oriented, consente di concepire ed agire l’intervento formativo anche come intervento per lo sviluppo della alleanza tra le parti più vitali delle persone nell’organizzazione. La formazione empowerment oriented è infatti assai efficace nell’aiutare la convergenza, delle parti più vitali delle persone a tutti i livelli e della direzione, su un’alleanza psicologica innovativa e generativa. Anche il passaggio da gruppo a team, capace di generare risultati output nonché efficacia interna, è favorito dallo sviluppo di un patto di alleanza psicologica sulla possibilitazione reciproca individuale e collettiva e sulla convergenza delle componenti individuali di microcultura empowerment oriented. Si vuole qui sottolineare che il processo di apertura di possibilità è precedente (a volte di molto tempo, a volte di poco ma comunque precedente) al processo di cambiamento osservabile. Processo poco evidente e manifesto, ma decisivo e condizionante. 111


Da questo punto di vista ogni processo di cambiamento è soprattutto il frutto di un processo di apertura ed aumento di possibilità e cioè di un processo di aggiunta. 2.5. Cambiamento e persona È proposto qui un modello di lettura del processo di cambiamento della persona, che evidenzia una fase cruciale preliminare del processo di cambiamento: fase spesso difficilmente osservabile dall’esterno ove manchi un’attenzione specifica sulla persona, sul concetto di possibilitazione, sulla microcultura personale empowerment oriented. Ci riferiamo qui non solo al caso, più facile da osservare in questo senso, del cambiamento che matura prevalentemente dall’interno della persona, ma soprattutto al caso “più difficile” del cambiamento richiesto alla persona come conseguenza di cambiamenti esterni. La domanda è: cosa fa sì che la persona partecipi al cambiamento esterno con un cambiamento suo armonico, anticipativo e attivo, invece che una resistenza e non cambiamento e/o con un cambiamento passivo o traumatico? Il modello qui proposto (fig. 2) ipotizza che una persona cambia soltanto se “può” cambiare (ovviamente), e “può” cambiare soltanto se la direzione del cambiamento richiestogli coincide con una delle sue possibilità interne: possibilità che la persona aveva oppure che ha costruito recentemente, stimolato dalla richiesta esterna ma comunque col suo processo personale di possibilitazione. Fig. 2

Si vuole qui sottolineare che il processo di apertura di possibilità è precedente (a volte di molto tempo, a volte di poco ma comunque precedente) al processo di cambiamento osservabile. Processo poco evidente e manifesto, ma decisivo e condizionante. 112


Da questo punto di vista ogni processo di cambiamento è soprattutto il frutto di un processo di apertura ed aumento di possibilità e cioè di un processo di aggiunta. 2.6. L’ipotesi dei “gruppi microculturali trasversali” La microcultura personale è assolutamente individuale. Si può allora parlare, ed in che senso, di socializzazione della microcultura personale empowerment oriented? La risposta è, secondo chi scrive, positiva in almeno due sensi. Si propone qui di definire “gruppi microculturali trasversali empowerment oriented” quegli insiemi di persone che, pur appartenendo a gruppi culturali diversi (talvolta addirittura contrapposti), hanno una microcultura personale individuale empowerment oriented: persone che su questa base percepiscono tra loro similitudine e convergenza e su questa base percepiscono una sorta di alleanza psicologica possibile. Possiamo ipotizzare, per esempio che questo sia il fattore costitutivo della reale classe dirigente: insieme, di persone che percepiscono una alleanza trasversale, quindi gruppo, che cercano sempre una possibilità nuova a fronte di problemi nuovi anche quando sembrano insolubili. Persone che si riconoscono, sia pur su fronti spesso diversi, come vitali, costruttive, generative, che rifiutano i motivi di paralisi e cercano di risolverli o almeno aggirarli. Persone che cercano di dirimere le contraddizioni, in prima istanza a favore della propria parte, ma quindi poi portando la contraddizione a principio di generatività di interesse anche generale. Persone che comunque vivono fortemente il sentimento di responsabilità perché sono microculturalmente orientate a concentrarsi su ciò che si può fare piuttosto che non su ciò che non si può fare. Nel gruppo faccia a faccia, il concetto di “team” è segnato marcatamente proprio da questo tipo di patto. Il “team dei forti” è quello costituito da persone caratterizzate non tanto dall’essere oggettivamente ciascuno forte quanto da un’alleanza psicologica: basata su un “patto” secondo cui ciascuno stimola negli altri, e viceversa, l’espressione della microcultura personale empowerment oriented. Si ipotizza inoltre qui di poter definire come “microcultura sociale” empowerment oriented quella di un sistema sociale (per esempio un’organizzazione; per esempio una comunità sociale; per esempio una intera società) in cui ad ogni individuo arriva dalla società (ed in particolare da coloro che nella società esercitano leadership) la stimolazione e la facilitazione alla espressione e sviluppo della sua componente individuale di microcultura empowerment oriented. Microcultura “sociale” empowerment oriented è forse allora quella cultura sociale che stimola e facilita ciascun cittadino, nella sua personale 113


maniera di processare i propri e differenziati contenuti culturali, ad orientamenti quali: • vivere il sentimento di responsabilità, che deriva dall’investimento su ciò che può fare, da solo e con altri; • superare i motivi di blocco, esterni ed interni; • alimentare un clima collettivo desiderante e non solo bisognoso e necessitato; • tendere alla crescita individuale e collettiva ed al progresso, concepiti come aggiunta di possibilità: ed, in questi stessi termini, ad avere una tendenza positiva verso l’innovazione ed il cambiamento; • concepire lo scambio tra individuo e collettività come aiuto ad aumentare le possibilità, individuali come del sistema sociale complessivo; • nutrire fiducia e speranza, e non solo timore. Si tratterebbe, come si vede, di una cultura sociale di tipo “micro” culturale, che non riguarda tanto le grandi mète e i grandi valori (che dipendono dalle culture sociali vere e proprie) quanto gli orientamenti sui modi, i vissuti, i processi. Probabilmente è proprio su questo piano, della microcultura e dei “microvalori”, che si gioca l’essenza della corrispondenza valoriale tra individuo e sistema sociale: per esempio tra individuo e azienda e tra individuo e gruppo operativo di appartenenza. Soprattutto nell’epoca in cui la crisi delle ideologie, da una parte e la larga convergenza su alcuni principi evidenti di qualità della vita e della società dall’altra, hanno indebolito la forza delle appartenenze sociali culturali tradizionali vere e proprie. Forse nel futuro i gruppi sociali, di appartenenza e di riferimento, saranno sempre più definibili anche sulla base della microcultura delle persone.

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Lo spazio della formazione per le comunità di pratiche di Claudia Piccardo e Angelo Benozzo

1. Introduzione In un recente contributo dove sono analizzate numerose definizioni che restituiscono il dibattito dell’ultimo decennio in merito alle teorie della formazione, Quaglino (2005) delinea il profilo di tre approcci alla formazione e distingue: 1. la formazione per le competenze o per l’organizzazione, pensata in relazione a mestieri di riferimento, a curricula da apprendere e che pertanto delinea dettagliati profili di conoscenze, capacità e qualità su cui si costruiscono finalità e obiettivi di apprendimento, si modellano programmi formativi e si definiscono metodi didattici. Essa presenta un carattere prevalentemente addestrativo e istruttivo e si colloca in una prospettiva di sviluppo delle risorse umane o di qualifica professionale; 2. la formazione per il cambiamento o in organizzazione, progettata al fine di sostenere processi di sviluppo organizzativo, ossia concepita soprattutto come momento per il supporto del cambiamento culturale e strategico. Si tratta di una formazione il cui orizzonte temporale è il medio periodo e che si fa carico anche dell’elaborazione della relazione tra individuo e organizzazione, alla ricerca delle possibilità di crescita per entrambi; 3. la formazione per lo sviluppo personale o oltre l’organizzazione, il cui riferimento ultimo è il soggetto “verso un orizzonte di esistenza piena e autentica, per mutazione di istanze educative, per percorsi e traiettorie di lungo periodo al di là di contenuti e processi verso la riappropriazione dell’individualità del progetto di sé ovvero verso la coltivazione di sé, la conoscenza e la cura, in una prospettiva di continuità e autonomia” (p. 179). Questa tripartizione, a nostro parere, non rappresenta un resoconto esaustivo delle modalità con cui si possa intendere la formazione soprat115


tutto se essa ha come contesto di riferimento l’organizzazione. Sulla base del contributo di Maggi (1991) l’azione di “formare” coincide, dal nostro punto di vista, con processi di decisione e azione, messi in atto da tutti coloro che si prendono cura del benessere, della sopravvivenza e dello sviluppo di un’organizzazione. “Fare formazione” per noi oggi equivale ad agire organizzativamente perché: “sempre l’attività di formare è un’attività organizzata. Sempre è un sistema sociale, cioè un’organizzazione compresa in un più vasto complesso sistema sociale” (Maggi, 1991, p. 10). Sulla base di queste considerazioni preliminari proponiamo un quarto approccio che etichettiamo formazione con l’organizzazione, le cui caratteristiche sono così delineate: • la finalità è l’evoluzione, la crescita e il cambiamento contemporaneamente dell’organizzazione e del singolo, nell’ipotesti che sia possibile per quest’ultimo trovare un supporto al processo di individuazione anche all’interno di una realtà lavorativa; • gli obiettivi fanno riferimento all’acquisizione di consapevolezza circa i processi di costruzione culturale sedimentatisi nel tempo, i modelli agiti, le teorie sposate e le teorie in uso; • il contenuto è rappresentato dai processi di azione e di decisione, dalle attività lavorative dei soggetti e dai “mestieri” dei singoli inseriti in comunità di pratiche, presi in carico nel breve ma soprattutto nel lungo periodo; • il metodo richiede la co-costruzione di contesti per l’apprendimento, emancipanti e partecipati, frutto di processi di ricerca sociale e di un’alleanza profonda tra professionista della formazione e numerosi attori organizzativi, collocati ai diversi livelli di potere e in diverse funzioni. Si tratta di un modalità di concepire la formazione che, da un lato, ha riscoperto il contributo del pedagogista russo Vygotsky (Zucchermaglio, 2002), secondo il quale l’apprendimento, oltre che fenomeno cognitivo, è anche e soprattutto un fenomeno culturale che deve essere compreso all’interno di contesti sociali e, dall’altro, ha recuperato e valorizzato un concetto antico: quello di “prassi” o “pratica” (Gherardi 2000a,b). Nei paragrafi che seguono, approfondiremo i costrutti di comunità di pratiche, di partecipazione legittima e periferica1 (Lave, Wenger, 1991) e di curriculum situato, centrali nella teoria dell’apprendimento come processo sociale (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997; 1998). Grazie a questi richiami, entriamo nel vasto territorio delle teorie dell’apprendimento organizzativo, dove nell’ultimo decennio è apparso anche l’artefatto linguistico 1. Traduzione del costrutto legitimate peripheral participation (LPP) rivenibile nei contributi di Lave e Wenger (1991) e Wenger (1998).

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società della conoscenza, che sta a indicare come la società contemporanea sia globalizzata attraverso la conoscenza. Le considerazioni che seguono risulteranno utili al fine di esplicitare in maniera esaustiva l’idea di formazione con l’organizzazione. Con questi ancoraggi e alla luce della presentazione di un caso di formazione con l’organizzazione, nelle pagine conclusive rifletteremo sullo spazio della formazione per le comunità di pratiche e per la creazione e diffusione della conoscenza. 2. L’apprendimento come partecipazione legittima e periferica a una comunità di pratiche L’idea di formazione con l’organizzazione presuppone una teoria dell’apprendimento come processo sociale che introduce un punto di vista teorico e interpretativo relativamente nuovo: quello di comunità di pratiche. Tale costrutto, nato nell’ambito della psicologia sociale, si è rivelato promettente nell’analisi dei processi di apprendimento grazie a numerosi studi e ricerche (Brown, Duguid, 1991; Lave, Wenger, 1991; Orr, 1995; Wenger, 1998; Gherardi, 2000; Gherardi, Nicolini, 2004), la maggior parte dei quali si sono soffermati sui processi di socializzazione dei novizi. Una comunità di pratiche è una forma di socialità generata da attività pratiche (Gherardi, Nicolini, 2004), essa è un’aggregazione di soggetti che può assumere almeno due configurazioni. Nella prima la comunità coincide con un insieme di persone che lavorano nella medesima organizzazione e che svolgono alcune attività insieme. La seconda fa riferimento a un aggregato di individui che, pur operando in contesti diversi e appartenendo o non facendo parte del medesimo gruppo occupazionale, hanno condiviso esperienze di lavoro insieme. In sintesi una comunità di pratiche ha i tratti di un insieme di persone, le quali hanno costruito una rete di relazioni e definito, implicitamente o esplicitamente, anche le modalità attraverso le quali le persone lavorano, agiscono, interagiscono e interpretano gli eventi. Non necessariamente essa coinciderà con un gruppo che possiede una precisa collocazione formale all’interno di un’organizzazione2. Un medico appartiene a una comunità di pratiche non perché possiede alcune caratteristiche professionali o perché svolge la sua attività lavorativa in un luogo e spazio predefiniti (per esempio presso il laboratorio di un centro trasfu2. Si noti che Wenger, nel suo contributo del 1998, raramente impiega il termine gruppo per designare una comunità di pratiche e accade lo stesso nell’articolo fondativo di Brown e Duguid (1991). L’ipotesi di Zucchermaglio (2002), che noi condividiamo, è che comunità di pratiche si propone come alternativa semantica a gruppo, che risulta più connotato modernisticamente e positivisticamente.

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sionale di un ospedale), ma in quanto condivide con altri professionisti un impegno emotivo, una tensione rivolta alle “cose da fare” e indirizzata dall’impresa cui collabora. Il costrutto è in parte analogo a quello di cultura organizzativa (Barley, 1983; Van Maanen e Barley, 1984; Kunda, 1991). Ciò che li accomuna è la sottolineatura dell’importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri e l’idea di organizzazione come artefatto culturale, frutto di negoziazioni e costruzioni di significati. Tuttavia gli studiosi delle culture occupazionali, tendono a focalizzare l’attenzione soprattutto sui prodotti della cultura (valori, riti, miti, simboli, linguaggi), circoscrivendoli all’interno di un’unica organizzazione di cui concorrono a delimitare i confini. Semplificando, questi autori sono attenti soprattutto alle dimensioni comunitarie. Viceversa, i teorici della comunità di pratiche sottolineano maggiormente l’importanza delle attività “pratiche”, in primo luogo le attività lavorative, il cui significato è stato negoziato e condiviso3. Ciò che l’idea di “pratica” ha permesso di focalizzare è che le competenze degli individui si formano e si stabilizzano in virtù delle attività cui essi partecipano, dei lavori che esperiscono e della condivisione di esperienze. La “pratica” viene anche descritta nei termini di: 1) pratica come lavoro, per enfatizzare i processi di trasformazione; 2) pratica come linguaggio, onde cogliere gli elementi linguistici con un carattere specialistico che permettono l’interazione per lo svolgimento di un processo lavorativo; 3) pratica come moralità, al fine di sottolineare il potere dei diversi gruppi che concorrono alla realizzazione del processo (Ehen, 1988, citato da Gherardi, Nicolini, Odella, 1998, p. 89). A questa tripartizione aggiungiamo una quarta caratteristica che definiamo pratica come elaborazione affettiva, trascurata dai contributi che abbiamo visitato, e che fa riferimento alla dinamica affettiva che sempre accompagna e attraversa i soggetti nello svolgimento dell’attività lavorativa e nei processi di socializzazione. Far parte di una comunità di pratiche significa essere diventato esperto nell’utilizzo di una determinata tecnologia non come semplice meccanismo che trasforma un input in output, ma in quanto parte di un processo lavorativo che coinvolge altri attori: un processo partecipato. Attività, processi e competenze diventano il patrimonio della comunità e si traducono in usi e costumi di cui chi appartiene all’aggregazione risulta consapevole: in una semplice espressione “è divenuto un esperto”. L’apprendimento non è qui concepito come trasmissione di conoscenze depositate in testi affinché questi siano letti e, in virtù di un processo di memorizzazione, si 3. Un’altra differenza fa riferimento al fatto che “cultura organizzativa” talvolta può essere considerato un costrutto di portata più generale: una cultura può contenere una comunità di pratiche.

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accumulino nella mente e diventino patrimonio degli individui. L’apprendimento è un fenomeno socio-culturale e allo stesso tempo emotivo. Partecipare alle attività della comunità è il modo per acquisire conoscenza, per cambiare, per apprendere in situazioni in cui il sapere non è separato dal fare. Come hanno messo in evidenza Brown e Diguid (1991), apprendere non è un’attività disgiunta dal lavorare e dall’organizzare; l’apprendimento è connaturato al processo lavorativo stesso4. Proseguendo lungo queste riflessioni è apparsa anche un’altra ipotesi racchiusa nella dicitura learning-in-organizing che consolida l’idea che “organizzare sia apprendere e che nell’apprendere sia implicito l’organizzare […] [ossia] che la conoscenza scaturisca principalmente dall’azione e non dalla diffusione di informazioni o dall’insegnamento” (Gherardi, Nicolini, 2004, p. 42). I teorici che hanno sviluppato l’idea di apprendimento come fenomeno socio-culturale all’interno di una comunità di pratiche, hanno anche perfezionato un altro costrutto: l’idea di partecipazione legittima e periferica (Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998), che descrive i processi di socializzazione al lavoro dei novizi. In genere, i nuovi arrivati sono progressivamente messi in contatto con il lavoro, all’interno di relazioni intense con altri soggetti e con i problemi di negoziazione del compito da portare a termine. In particolare l’espressione partecipazione legittima e periferica si riferisce al fatto che il novizio, quando è familiarizzato a una comunità di pratiche: • prende parte ad attività lavorative svolgendo compiti dapprima molto semplici e via via più complessi che lo portano a confrontarsi con altre persone. Tale processo concorre a costruire la sua identità e parallelamente quella dell’aggregazione di individui grazie soprattutto alla costruzione e negoziazione di significati; • è consensualmente ammesso alla comunità. La sua presenza non viene messa in discussione, è accettata dalle strutture e dai meccanismi di potere esistenti. Egli possiede, cioè, una legittimità sociale; • partecipa a un percorso con gradi diversi di intenzionalità o discrezionalità. Questo il significato che vuole trasmettere il termine “periferico”. Il novizio arriva nel tempo e in maniera graduale a ricoprire ruoli centrali e più complessi, a partire da posizioni marginali (periferiche): passando così dalla condizione di novizio a quella di esperto, veterano; • viene in contatto con un linguaggio idiosincratico attraverso il quale comprende e apprende come eseguire il lavoro, quali sono i comportamenti ritenuti appropriati e con quale struttura sociale e di potere si deve rapportare. 4. Ma allo stesso tempo l’apprendimento è anche attraversato e percorso da forti tensioni emotive di cui la visione psicodinamica della vita organizzativa ha dato pienamente conto (Quaglino, 2004) e che questi autori a nostro parere trascurano.

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L’accesso del neofita sarà sempre generativo. È infatti probabile che, pur essendoci un percorso, un’architettura, una trama prestabilita o implicita, che indirizza l’entrata del novizio, l’inglobamento di nuovi membri, da un lato, non fa che perpetuare queste antiche strutture e, dall’altro, immette elementi di innovazione e casualità che modificano e modellano la comunità. In altre parole sembra che il novizio entri in contatto con un curriculum appreso nei termini di Lave e Wenger (1991) o un curriculum situato, secondo l’espressione proposta da Gherardi, Nicolini e Odella (1998), per tentare di rendere conto della peculiare circostanza in cui il neoarrivato si trova quando è immerso in situazioni lavorative nuove e sono a lui proposte alcune opportunità di apprendimento: dall’osservare il lavoro dei capi al portare a termine compiti semplici, dal comprendere il processo lavorativo in termini olistici fino all’esecuzione di attività all’apparenza banali (rispondere al telefono, consegnare la posta o fare delle fotocopie), che tuttavia veicolano la struttura sociale della comunità. L’idea di curriculum situato intende rappresentare esattamente questa fase della socializzazione organizzativa durante la quale ai novizi vengono offerte opportunità di apprendimento situate, cioè specifiche di quello spazio e di quel tempo. Nel momento in cui il neofita è divenuto esperto ma cambierà organizzazione, incontrerà un altro curriculum situato e si troverà in una nuova condizione di partecipazione legittima e periferica. Alla luce di questi riferimenti concettuali passiamo ora a illustrare un’iniziativa di progettazione della formazione, volta a ridisegnare il processo di apprendimento di un mestiere d’arte (Cook, Yanow, 1991; Colombo, 2002). Ci confrontiamo di seguito con l’incontro tra due comunità di pratiche, da un lato, quella degli specialisti della formazione e, dall’altro, quella dei “navigati del mestiere”, che lavorano insieme al fine di ridefinire l’architettura di un corso. L’attività condotta dalle due comunità, adottando la chiave di lettura appena illustrata, può essere interpretata come il tentativo di disegnare e migliorare un processo di socializzazione di “novizi”. 3. Pratiche formative: un intervento di progettazione della formazione Durante un intervento di formazione presso un teatro italiano siamo stati chiamati a confrontarci con un corso, realizzato all’interno della comunità di pratiche costituita dai costumisti dell’organizzazione in questione (Piccardo, Benozzo, 2004; Benozzo, Piccardo, 2005 in corso di pubblicazione). L’intervento ha preso le mosse dall’esigenza di riprogettare un percorso biennale nato nei lontani anni settanta e rivolto da un minimo di due a un massimo di cinque allievi. La finalità del corso, rinvenibile nei docu120


menti di presentazione dell’iniziativa, era quella di fornire ai partecipanti le competenze richieste ai costumisti teatrali. Costoro analizzano e interpretano i figurini proposti da un costumista ospite, in genere un professionista scelto da un regista e non appartenente alla struttura organizzativa. I costumisti del teatro si pongono al servizio del costumista esterno, preparano alcuni campioni di elaborazione del costume o decorazioni e successivamente collaborano alla realizzazione di quelle parti del costume che necessitano della particolare elaborazione scelta tra tutte quelle proposte, per esempio una particolare sfumatura di colore, una decorazione, un processo di invecchiamento. A costoro può anche essere richiesto di creare nuovi materiali (in genere prodotti grazie all’accostamento di tessuti di diverso tipo) o gioielli. Il processo di riprogettazione La riprogettazione è iniziata da una precisa sollecitazione espressa dai costumisti teatrali (e docenti del corso), i quali si ritenevano profondamente insoddisfatti circa il livello di apprendimento raggiunto dagli allievi. Ciò che essi avevano riscontrato al termine dei due anni di corso era che gli allievi si rivelavano lenti, non autonomi e poco esperti delle numerose tecniche artistiche di elaborazione del costume che nel tempo avevano avuto modo di osservare e sperimentare grazie all’esperienza formativa. Quest’ultima coincideva di fatto con due anni di apprendistato, un bagno nella pratica, che ai loro occhi rivelava numerosi limiti. La situazione, inoltre, aveva creato tensioni e un senso di frustrazione tra allievi e costumisti, cosicché per gli anni a venire essi erano arrivati a mettere in discussione il proseguimento dell’esperienza. A partire dalla presa di consapevolezza della situazione abbiamo iniziato a collaborare con la comunità di pratiche costituita dai cinque costumisti (e docenti) costruendo progressivamente un intervento i cui obiettivi miravano a: 1) analizzare la cultura della formazione, le pratiche del “fare formazione”, messe in atto consapevolmente o inconsapevolmente; 2) favorire un cambiamento culturale del modello di apprendimento del mestiere del costumista teatrale; 3) creare un’occasione di riflessione e di rispecchiamento per i costumisti ai quali stavamo chiedendo attenzione, impegno e coinvolgimento; 4) favorire, grazie al processo di riprogettazione ispirato dai principi della Participatory Action Research (Reason, Bradbury, 2001), l’empowerment dei nativi. Al fine di raggiungere questi obiettivi abbiamo intrapreso un processo di ricerca partecipata che ha utilizzato i seguenti metodi: 1) incontri con i costumisti paragonabili a focus group che avevano per oggetto di indagine il processo di lavoro del costumista. Il lavoro prodotto dalla comunità era poi regolarmente trascritto in verbali sempre commentati con le persone che prendevano parte alle riunioni; 2) analisi del contenuto dei documenti 121


che illustravano l’esperienza di formazione del corso per costumisti; 3) osservazione sul campo sia del tirocinio (lunghi intervalli temporali durante i quali gli allievi lavoravano all’interno del reparto costumi) sia delle seppur rare occasioni di formazione in aula; 4) interviste etnografiche a ex-partecipanti al corso e ai costumisti (e docenti) analizzate attraverso il metodo della Grounded Theory (Glaser e Strauss, 1967); 5) scrittura di un’autoetnografia (Ellis, Bockner, 2000) da parte dei professionisti della formazione restituita (letta e commentata) ai protagonisti della vicenda. Operando in questa direzione abbiamo ottenuto quattro risultati principali, illustrati di seguito, che allargano l’orizzonte della formazione e concorrono a delineare il profilo della formazione con l’organizzazione che intendiamo sostenere. I principali risultati dell’intervento Il primo risultato è relativo alla descrizione condivisa delle diverse attività (dalla consegna dei figurini all’andata in scena) che portano alla realizzazione di una specifica elaborazione realizzata su di un costume teatrale e delle relative competenze necessarie per espletare in maniera esperta ciascuna di esse. Insieme ai cinque costumisti abbiamo analizzato come, a partire da un disegno fatto a mano dal costumista esterno, si creano gli abiti che saranno poi indossati in palcoscenico e, concluse tutte le repliche di uno spettacolo, si procede con le tecniche di lavaggio e immagazzinamento. È stato ricostruito il processo produttivo che rappresenta la sequenza del lavoro e identificate dieci fasi che coinvolgono quella comunità di pratiche. Per ognuna di esse sono state anche esplicitate le attività principali, nonché gli attori coinvolti (gli altri professionisti dei reparti del teatro). Attraverso questo modo di procedere sono stati creati numerosi documenti (i materiali utilizzati nella riprogettazione, i tipici artefatti della formazione) impiegati negli incontri di progettazione successiva e i costumisti hanno rivelato che si è trattato di un percorso significativo innanzitutto per loro stessi. Infatti, sebbene tutti costoro avessero lavorato insieme per più di dieci anni, durante il lavoro con i professionisti della formazione si erano resi conto di possedere modi diversi di concepire, pensare e procedere nel lavoro e di relazionarsi con le altre figure professionali di riferimento. Alcuni, per esempio, nella fase di analisi dei figurini, si definivano “demistificatori anarchici” e altri, all’opposto, proponevano la metafora del “servitore fedele e muto”. Dopo questo primo momento di “lavoro sul lavoro” è stato chiesto ai cinque costumisti di compiere individualmente un ulteriore sforzo di riflessione per indicare le competenze (conoscenze, capacità e qualità) necessarie al fine di completare ciascuna delle dieci fasi del processo produttivo individuate. Abbiamo domandato loro di ripensare alla storia pro122


fessionale che li aveva segnati in questi anni, per comprendere che cosa fosse accaduto quando essi avevano imparato qualcosa di nuovo. L’interesse, cioè, era anche rivolto a esplorare quali fossero i modi per sostenere e facilitare l’apprendimento che avevano “funzionato in passato” e che potevano essere riproposti nel nuovo progetto del corso. Un secondo risultato di rilievo, raggiunto a valle dell’analisi che ha consentito di mettere a fuoco le competenze del costumista, è rappresentato dall’individuazione degli elementi caratteristici di un mestiere d’arte che richiede: 1) un processo di creazione e di progettazione; 2) l’uso di tecniche trasmissibili, istituzionalizzate ma non standardizzabili e impiegate in maniera virtuosistica; 3) la produzione di un artefatto che può essere commercializzato e che viene realizzato sulla base di precisi criteri estetici; 4) l’aver interiorizzato l’idea di essere al servizio di qualcun altro. Nel caso preso in esame, i clienti cui si rivolgevano i costumisti del teatro erano, a seconda delle fasi del processo lavorativo preso in esame, il costumista esterno che collaborava insieme al regista, il responsabile della sartoria o un artista (per esempio un attore, un cantante o un ballerino). Grazie a questa analisi e alla ricostruzione della storia del corso è stato poi possibile raggiungere un terzo risultato che fa riferimento al recupero delle radici storiche e alla descrizione del modello di apprendimento di questa comunità. Abbiamo compreso ed esplicitato ai nostri interlocutori che ciò che veniva raccontato dai lavoratori del teatro o dagli ex partecipanti del corso coincideva con il metodo di insegnamento delle corporazioni artigiane del Medio Evo e delle botteghe artigianali dell’età Rinascimentale. In quei tempi la trasmissione delle abilità avveniva all’interno dei muri di una bottega, dove il maestro mostrava direttamente le tecniche che dovevano essere usate, tenendo fede al motto discere laborando. La scuola coincideva con il lavoro, con la produzione in bottega e il giovane garzone cresceva osservando, imitando e spesso rubando i segreti del mestiere. Le persone che abbiamo ascoltato e osservato descrivevano e mettevano in atto un modello di apprendimento situato rivolto ai novizi (gli allievi), centrato sul vedere, provare e riprodurre ciò che qualcun altro aveva realizzato a titolo di esempio. Inoltre, si trattava di una modello di apprendimento che privilegiava l’estetica e la percezione visiva e olfattiva. Gli allievi erano immersi in un “labirinto di sensazioni” (Martin, 2002) uditive, visive, olfattive, tattili e sonore che erano fonte di apprendimento. Per esempio, durante un’intervista un costumista aveva affermato che egli imparava attraverso gli occhi. L’affermazione “io imparo con gli occhi” esprimeva il progressivo diventare esperto attraverso l’osservazione. Lo sguardo era costantemente concentrato e progressivamente si allenava a comprendere l’esito dell’utilizzo di una tecnica, il risultato estetico di una decisione che racchiudeva elementi tecnici e artistici. Guardare, vedere e comprendere che cosa accadeva in un laboratorio (di sartoria dove si decoravano i costumi) o sul palcoscenico (nelle innumerevoli prove) era vei123


colo di apprendimento. Queste premesse concorrevano a rafforzare una tipica credenza organizzativa in cui ci siamo spesso imbattuti: “per imparare occorre fare pratica!”, che giustificava anche il bisogno di queste persone di “voler sempre stare all’interno della comunità” per imparare, attribuendo valore minore all’apprendimento tradizionale che poteva avvenire durante percorsi di formazione in aula. Infine, il quarto risultato ottenuto attraverso il processo di riprogettazione è stata la definizione dell’architettura del nuovo corso per costumisti. Il progetto, che rappresentava anche il prodotto del lavoro della comunità di pratiche, era basato su un articolato profilo di competenze costruito grazie alla definizione condivisa del processo di produzione e trasmetteva l’idea che la formazione avrebbe dovuto essere centrata sull’apprendimento dei processi di lavoro che portano alla realizzazione del costume. Gli obiettivi formativi del corso concorrevano all’individuazione di cinque aree di apprendimento: storica, organizzativa, tecnico-artistica, sartoriale e del comportamento organizzativo. Si prevedevano spazi per sperimentare tutte le numerose tecniche artistiche utilizzate all’interno del laboratorio per l’elaborazione del costume: invecchiamento del costume, ricamo e finto ricamo, tintura, creazione di materie e tessuti. Il corso era diviso in momenti di formazione teorica e pratica, in esercitazioni e formazione direttamente sul posto di lavoro. In sintesi si era operato con l’intenzione, di fare evolvere il modello di apprendimento centrato sul motto discere laborando, tentando, parallelamente, di far evolvere la credenza “per imparare occorre fare pratica”. L’esperienza descritta può essere interpretata come una storia di apprendimento di una comunità di pratiche, che intreccia due processi: quello di partecipazione e reificazione (Wenger, 1998). L’occasione di ripensare il corso è stata un momento di partecipazione in quanto la comunità per la prima volta nella sua storia ha ripensato se stessa. Attraverso la ricostruzione del processo di lavoro ha individuato le competenze necessarie per ogni fase del processo e si è interrogata sulle modalità per apprendere a partire dalla riflessione sui propri modi di imparare. Anche i ricordi rievocati nel ricostruire le origini del corso narrano spesso di storie individuali, di singoli che hanno costruito spesso in solitudine la loro strada, come se in passato non ci siano mai stati momenti di condivisione e di partecipazione. La comunità di pratiche ha, inoltre, reificato il lavoro di progettazione, grazie alla produzione di un artefatto, il progetto del nuovo corso, che conteneva anche le “Attenzioni da prestare durante il percorso formativo”. Il nuovo progetto, nella sua materialità e oggettualità era il risultato tangibile di una storia di apprendimento. Si trattava di una storia che avrebbe potuto essere dimenticata o ricordata e in questo secondo caso forgiare il futuro. 124


Nel progettare la formazione si è operato quindi a quattro livelli distinti: 1. esplicitando il processo di lavoro dei soggetti. Dal nostro punto di vista, infatti, fare analisi dei bisogni e progettazione della formazione non significa solo andare a “vedere che cosa manca”, di che cosa i soggetti sono carenti e di conseguenza articolare obiettivi formativi. La progettazione comporta la comprensione in profondità di cosa si possiede, “quali sono i propri tesori”, e anche a che cosa si potrebbe rinunciare; 2. ricostruendo la storia dell’apprendimento condiviso all’interno della comunità di pratiche, attraverso una riflessione sull’esperienza lavorativa, sul lavoro attuale e passato, alla ricerca dei modi con cui questo lavoro era stato appreso. Le domande fondamentali poste ai cinque lavoratori erano: “quali sono stati i momenti in cui hai imparato? Che cosa è successo quando hai imparato e quali erano le condizioni che hanno permesso l’emergere di un episodio di apprendimento?”; 3. richiedendo un elevato grado di coinvolgimento unito alla voglia di spendersi in prima persona, di assumersi la responsabilità di quanto man mano si andava a costruire per il futuro. La presenza di soggetti esterni, i professionisti della formazione, che non appartenevano alla specifica comunità che si andava a studiare ha facilitato la ricostruzione dei processi di apprendimento; 4. proponendo di intervenire nella direzione di far evolvere questo modello, facendo intravedere nell’intreccio tra momenti di ‘bagno nella pratica’ (anche per non rinunciare alla credenza “per imparare occorre fare pratica”) e formazione tradizionale (lezioni ed esercitazioni) un nuovo modo di sostenere la crescita delle risorse. L’esperienza di ricostruzione del processo di produzione del costume teatrale, funzionale alla riprogettazione del corso, ha contribuito anche all’evoluzione dell’identità dei soggetti che appartenevano a questa comunità di pratiche. Se da un lato il lavoro di riflessione individuale e collettiva, di auto-osservazione e di condivisione, ha messo a fuoco e sostenuto l’identità del costumista, perché ha permesso di esplicitare, a se stesso e agli altri, quali erano i suoi compiti, con chi si relazionava, quali attività doveva portare a termine e con quali competenze operare, dall’altro lato, ha aperto la strada all’assunzione più consapevole di un’identità parzialmente diversa, quella del maestro, del docente, dell’insegnante. L’identità dei soggetti si è arricchita quando è iniziato il nuovo corso di formazione ed è venuto alla luce il tema dell’essere contemporaneamente lavoratore (costumista teatrale) e insegnante5. Per queste persone, l’identità più forte, 5. Il tema dell’identità di lavoratore del teatro e contemporaneamente maestro-docente è emerso dai risultati della ricerca condotta al termine della prima nuova edizione del corso per valutare l’apprendimento degli allievi.

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potremmo dire principale, era quella del costumista teatrale cui si intrecciava la più debole di insegnante. Il caso che abbiamo illustrato esemplifica l’idea di formazione con l’organizzazione, il cui compito non è quello del trasferimento del sapere attraverso l’aula, bensì di un intervento teso a interrogare i processi di costruzione sociale della realtà, in questo caso lavorativa, in cui si inserisce. Un intervento “volto a ‘ficcare il naso” nel corso della storia che ha portato il soggetto e la sua organizzazione a essere ciò che sono” (Converso, Piccardo, 2003, p. 141) e nel tessuto delle pratiche scoperte, apprese e tramandate, intorno alle quali si era costruita quella forma di socialità che chiamiamo comunità di pratica. Si tratta della formazione che intende favorire il processo di esternalizzazione della conoscenza (fig. 1), da tacita a esplicita, così descritto da Nonaka e Takeuchi (1995): “l’esternalizzazione è un processo di articolazione della conoscenza tacita in concetti espliciti. Essa è la quintessenza del processo di creazione della conoscenza attraverso il quale la conoscenza tacita diventa esplicita assumendo la forma di metafore, analogie, concetti e ipotesi o modelli. Quando cerchiamo di concettualizzare un’immagine, esprimiamo la sua essenza attraverso il linguaggio – La scrittura è un atto di conversione della conoscenza tacita in conoscenza articolata […]”6 (p. 64). Fig. 1 - Il processo di gestione della conoscenza CONOSCENZA TACITA CONOSCENZA TACITA

alla

CONOSCENZA ESPLICITA

Socializzazione

Esternalizzazione

Internalizzazione

Combinazione

dalla CONOSCENZA ESPLICITA

4. Riflessioni conclusive: la formazione con l’organizzazione per la promozione dell’apprendimento nelle comunità di pratiche Il richiamo ai riferimenti teorici della teoria dell’apprendimento situato e l’esperienza che abbiamo illustrato permettono ora di tornare al nostro punto di partenza, e approfondire il tema dello spazio per la formazione 6. Traduzione di chi scrive dell’originale inglese.

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delle comunità di pratiche. Immaginare uno spazio significa tracciare i confini del nostro oggetto e pertanto proveremo ora a meglio tracciare le caratteristiche dell’approccio chiamato formazione con l’organizzazione cui si è già accennato in apertura. Prima di procedere, ancora un’ultima considerazione. Fare formazione con l’organizzazione significa immaginare progetti che mettono sotto esame il lavoro, che interrogano le prassi. Essa sarà un lavoro sul lavoro, una pratica sulla pratica, un percorso di apprendimento (Lipari, 2002) declinato attraverso modalità flessibili tese a realizzare un’integrazione stretta, talvolta una coincidenza, tra formazione in aula ed esperienze dei soggetti. È in questo senso allora che la formazione si avvicina e talvolta coincide – paradossalmente stiamo ora invadendo un altro territorio – con progetti di Sviluppo Organizzativo, ossia con azioni pianificate tese a sostenere i processi di cambiamento. Nel caso illustrato abbiamo infatti agito sui processi di: 1) sviluppo delle risorse; 2) produzione; 3) costruzione identitaria. Se si concepisce e si assume come proposta di intervento l’idea di formazione con l’organizzazione, i rimanenti approcci (in e per l’organizzazione) risultano difficilmente separabili e distinguibili. In questa prospettiva, che intende utilizzare la formazione sia come leva per il cambiamento organizzativo (formazione per l’organizzazione) sia per lo sviluppo delle persone (formazione in organizzazione), formare, organizzare e imparare, si sovrappongono. Tale caratteristica tende anche a ridurre la distanza tra le classiche quattro fasi del processo formativo: analisi dei bisogni, progettazione, intervento e valutazione dei risultati. La ricerca sui bisogni dei processi produttivi, infatti, è allo stesso tempo momento di formazione, nel senso di elaborazione delle propria esperienza lavorativa, così come di progettazione, per imprimere un nuovo corso alle prassi. Contemporaneamente sarà anche valutazione dell’adeguatezza di quelle pratiche rispetto al contesto. La via che intravediamo non è certamente semplice. Auspichiamo che nuove ricerche possano fornire ulteriore materiale in merito ai processi di apprendimento. Gli studiosi delle comunità di pratiche hanno infatti posto l’accento soprattutto sulla partecipazione legittima e periferica, ovvero sull’addestramento dei novizi, analizzando grazie al metodo etnografico i processi di socializzazione al lavoro di guardiamarina (Hutchins, 1993), sarti e macellai (Lave e Wenger, 1991), riparatori di macchine fotocopiatrici (1996) e assistenti di cantiere (Gherardi, Nicolini, 2001). Ci sembrano ancora scarsamente indagate altre professioni che richiedono un elevato grado di specializzazione e qualificazione, cui si accede sempre attraverso pratiche di partecipazione legittima e periferica, per esempio quella di medico. Riteniamo anche che non sia ancora stata presa in considerazione con la dovuta attenzione la partecipazione legittima (ma non più periferica), ossia quella di coloro che da anni lavorano all’interno di una co127


munità, essendo per loro possibile (e auspicato) apprendere ancora. Quali processi di costruzione della conoscenza mettono in atto dopo aver imparato una professione e ricoprendo posizioni centrali all’interno della comunità? Come disapprendono? La proposta di formazione con l’organizzazione, descritta di seguito e declinata lungo un profilo di sei aggettivi, potrà forse sostenere nel rispondere a queste domande. Prossimale. Questa caratteristica si dipana lungo due fronti. Da un lato la formazione sarà segnata da un’azione per contatto (Korzybski, 1958, citato da Cooper e Law, 1995), da una vicinanza all’altro, ciò che può per esempio avvenire grazie alla promozione di esperienze di ricerca etnografica nei contesti di lavoro dei partecipanti (Piccardo, Benozzo, 1996). L’analisi dei processi di apprendimento situati, ossia dei modi con cui la conoscenza, il sapere, sono prodotti, trasmessi, conservati e trasformati in modi di operare e di agire, può essere utilmente svolta attraverso l’osservazione etnografica delle pratiche dei singoli. Tali ricerche forniranno elementi a sostegno del lavoro di progettazione della formazione e dell’indicazione di linee per il miglioramento dei processi di apprendimento. Dall’altro lato la formazione sarà contestuale all’attività lavorativa, ossia avverrà in ambienti spazialmente attigui, se non addirittura coincidenti con i luoghi di lavoro, non quindi nelle tradizionali aule, che nel loro essere neutre e asettiche comunicano estraneamento e astrattezza. Clinica. Ci riferiamo alla riscoperta dell’autentica tradizione lewiniana di cui troppo spesso nei contesti formativi constatiamo desolatamente l’assenza. Una formazione prossimale non può che essere vicina ai problemi e offrire una risposta di “trattamento” e “terapia”, da un lato, ma sarà anche disposta alla clemenza e all’ascolto, dall’altro. Nel richiamare il contributo di Lewin vogliamo anche sottolineare la necessità di una formazione che ricerca insieme alle (con le) persone, recuperando qui tutta la tradizione della ricerca azione attualizzata nelle sue diverse manifestazioni di participatory action research, piuttosto che di collaborative action research (Reason, Bradbury, 2001). Un processo di co-costruzione di conoscenza volto all’emancipazione e al coinvolgimento dei soggetti (tutti gli attori della formazione), teso a “validare” la conoscenza locale portata alla luce in base al fatto che le persone siano aiutate a dare un significato utile alla loro esperienza. Narrativa. L’aggettivo sottolinea due dimensioni. La prima ha un carattere metodologico, e il riferimento qui non può che essere alle storie, alla raccolta delle storie dei soggetti, quale modalità per lavorare con i partecipanti (Piccardo, 1998). La seconda si riferisce al contenuto delle storie, perché esse sono depositarie della saggezza così come del disturbo, delle offese, implicite o esplicite che costituiranno un oggetto su cui indagare e riflettere. La narrazione coincide con la possibilità di trovare 128


un senso, di dare un significato, di fare ordine nell’esperienza organizzativa dei soggetti. Riflessiva. La narrazione sarà la condizione della riflessività nelle sue diverse articolazioni di: 1) riflessione sull’azione, ossia pensiero retrospettivo separato dall’azione della formazione; 2) riflessione nell’azione, ovvero presa di coscienza critica e generativa di nuove possibilità d’azione contestualmente a essa; 3) riflessione critica o riflessività pratica secondo la definizione di Cunliffe e Easterby-Smith (2004), riferita alla comprensione dei modi con cui costruiamo la nostra identità e la realtà7. Fiduciosa. La fiducia sarà accordata ai soggetti perché a essi è attribuita la capacità di sapere e potere intervenire nei processi di lavoro. Fiduciosa ma anche credibile, nei confronti dei professionisti della formazione. Questo è l’elemento indispensabile per la costruzione di un terreno fecondo per il dialogo e il confronto. Riconoscente. E infine il richiamo è alla restituzione ricorsiva, tipica di una ricerca partecipata. Essa è il processo attraverso il quale i frammenti spesso sconnessi della vita organizzativa sono riportati e offerti (restituiti) in forma di interpretazioni, descrizioni, osservazioni al fine di attribuire un ordine, un significato nuovo all’esperienza. Se la restituzione è efficace, allora sarà in grado di mobilitare le energie e sostenere la riappropriazione del proprio stare nella comunità di pratiche e di contribuire a costruirla. Riferimenti bibliografici Barley S. (1983), “Semiotics and the study of occupational and organizational cultures”, Administrative Science Quarterly, 28, pp. 393-413. Barley S., Kunda G. (2004), Gurus, hired guns, and warm bodies. Itinerant experts in a knowledge economy, Princeton University Press, Priceton. Benozzo A., Piccardo C. (2005, in corso di pubblicazione), “Quelle recherche pour l’intervention? Potentialités et limites de l’intervention ethnoclinique”, in atti del XIIIème Congrès de Psychologie du Travail et des Organisation, Bologna, 26-29 agosto 2004, Università di Bologna. Brown J.S., Duguid P. (1991), “Organizational learning and community-of-practice: toward a unified view of working, learning and innovation”, Organization Science, 2, pp. 40-57. Colombo P. (2000), “Definire il mestiere d’arte”, in Colombo P. (a cura di), Genio e materia. Contributi per una definizione del mestiere d’arte, Vita e Pensiero, Milano. Converso D., Piccardo C. (2003), Il profitto dell’empowerment, Raffaello Cortina, Milano. 7. La riflessività critica può avvenire sia durante sia dopo l’azione ed è un processo squisitamente sociale (Cunliffe e Easterby-Smith, 2004).

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Accettazione e rifiuto dell’eLearning nelle organizzazioni: una mappa di Lorenzo Cantoni e Chiara Succi

1. Introduzione In generale, si può definire l’eLearning come l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nell’ambito formativo. Una definizione più circoscritta – ancorché non priva di problematicità, soprattutto per il fatto che integra elementi di tipo valutativo – è quella offerta dalla Comunità Economica Europea: “l’utilizzo delle nuove tecnologie multimediali e di Internet per migliorare la qualità dell’apprendimento agevolando l’accesso a risorse e servizi nonché gli scambi e la collaborazione a distanza” (CEC 2001: 2). Ricalcando invece la definizione di eGovernment proposta dall’OCSE (OECD 2003: 23), si può definire l’eLearning come 1) l’uso di Internet nella formazione; 2) l’uso delle ICT nella formazione; 3) l’assetto della formazione quale consegue all’impatto di 1) e 2). Se la definizione dell’eLearning presenta elementi problematici, altrettanto articolata – e per certi aspetti evanescente – è la comunità che si occupa di studiarlo (Cantoni & Rega, 2003 e 2004): vi s’incontrano infatti studiosi che l’indagano muovendo dalla filosofia, dalla pedagogia, dalla psicologia, dalle discipline tecnologiche, dalla sociologia, dalle scienze della comunicazione, dall’economia e così via. Se da un lato si può considerare l’eLearning come la più recente tra le tappe attraverso cui il mondo della formazione integra le nuove tecnologie della parola (Cantoni & Di Blas, 2002; Cantoni & Esposito, 2004), dall’altro esso può essere considerato come l’esito dell’impatto sulla formazione della knowledge economy. In un contesto in cui il vantaggio competitivo delle organizzazioni consiste sempre più nell’informazione, e in cui quest’ultima è digitalizzata e in continuo movimento, gli operatori – i knowledge worker – devono essere in grado di acquisire e integrare le informazioni con rapidità sempre crescente e nella modalità in cui esse so132


no primariamente prodotte, registrate e scambiate. Da questo punto di vista, l’eLearning viene a essere una dimensione della gestione della conoscenza (knowledge management) e diventa – tout court – il learning della e nella società della conoscenza. La capacità di acquisire contenuti disponibili in formato digitale – e attraverso strumenti tecnologici – diventa allora una delle condizioni fondamentali d’impiegabilità delle persone, chiamate a colmare continuamente il divario tra quanto sanno e sanno fare, e quanto è loro richiesto di sapere e di saper fare. Di qui lo stretto legame dell’eLearning con la formazione continua, che copre l’intero arco della vita, di qui il suo legame con l’alfabetizzazione informatica. Non si tratta – almeno dal punto di vista appena proposto – tanto di una rivoluzione dell’apprendimento/insegnamento, quanto piuttosto della sua evoluzione nel contesto delle ICT; all’eLearning possono essere quindi applicate le leggi della mediamorfosi proposte da Fidler (2000; cf anche Cantoni & Tardini, 2006): • Coevoluzione e coesistenza: diverse modalità formative – senza e con l’uso delle ICT si sviluppano e coesistono parallelamente. • Metamorfosi: l’eLearning si sviluppa a partire dalle tradizioni formative precedenti. • Propagazione: l’eLearning estende tratti delle tradizioni formative precedenti. • Sopravvivenza: le modalità formative che non facevano uso delle ICT tendono a evolvere e ad adattarsi per sopravvivere in un contesto mutato. • Opportunità e bisogno: l’eLearning si sviluppa nel contesto sociale ed economico della knowledge society, aiutando a rispondere a bisogni reali. • Adozione ritardata: la diffusione e la completa integrazione dell’eLearning richiede tempo, abitualmente quello di una generazione. L’ultimo aspetto della mediamorfosi chiama esplicitamente in causa il tema dell’adozione e dell’accettazione, presupposto peraltro anche dai precedenti. A quali condizioni insegnanti e apprendenti saranno disposti a integrare le ICT nella loro esperienza d’insegnamento/apprendimento? A quali condizioni scuole, università, aziende, istituzioni e altri contesti formativi diventeranno permeabili all’eLearning o suoi promotori? Si tratta, invero, di questioni che mal sopportano risposte univoche e definitive, e che coinvolgono l’assetto stesso del mondo della formazione e l’esperienza di tutte le persone chiamate ad apprendere e a promuovere l’apprendimento. Si tratta di domande che l’esperienza così frequente dei fallimenti nell’eLearning (dropouts) rende ancora più pressanti e urgenti. Questo testo intende contribuire a porre le domande sopra indicate in modo preciso, disegnando una mappa del territorio in cui andranno cerca133


te le risposte. Si tratta di una mappa cui contribuiscono le ricerche sulla diffusione delle innovazioni, sull’accettazione della tecnologie, e sull’accettazione dell’eLearning in particolare. Un contributo significativo sarà offerto anche dall’analisi semantica del termine “accettare” e da una riflessione sul contratto formativo. 2. Una mappa dell’accettazione dell’eLearning Tre approcci Il tema dell’accettazione dell’eLearning (ASTD & Masie Center 2001) è stato studiato in particolare da tre aree di ricerca (fig. 1): a) accettazione delle innovazioni: vi sono teorie sull’adozione e diffusione delle innovazioni applicate anche all’eLearning; b) accettazione delle tecnologie: sono stati sviluppati modelli per predire l’utilizzo delle tecnologie e questi sono stati estesi anche all’ambito delle nuove tecnologie per la formazione; c) accettazione della formazione: nel settore dell’educazione superiore e della formazione a distanza sono stati condotti studi per comprendere e prevedere le scelte degli apprendenti in aula, a distanza e online. Fig. 1 - Schema riassuntivo del quadro teorico Accettazione delle innovazioni

Accettazione delle tecnologie

Accettazione della formazione

ACCETTAZIONE DELL’ELEARNING

a) Accettazione delle innovazioni Le teorie della diffusione (Innovation Diffusion Theories - IDT) aiutano a spiegare il successo e il fallimento di ogni tipo di innovazione. Seguendo Everett Rogers (1995) possiamo descrivere il processo di adozione e le variabili che maggiormente lo influenzano come segue. Tale processo è costituito da cinque fasi in cui la persona e/o l’organizzazione 1) innanzitutto conosce l’innovazione, 2) si crea un’opinione su di essa, 3) decide se adottarla o rifiutarla, 4) mette in atto la sua decisione (utilizzo o rifiuto) e infine 5) conferma la scelta operata. Il corso degli eventi descritti può essere influenzato da alcune delle condizioni circostanti, dalle caratteristiche della persona e da cinque attributi percepiti delle innovazioni: vantaggio relativo, compatibilità, com134


plessità, “sperimentabilità” e osservabilità (Rogers, 1995). Surry e Farquhar (1996) hanno applicato queste teorie al settore dell’eLearning enfatizzando che una corretta analisi dell’accettazione dell’eLearning deve includere tra le variabili numerosi elementi del contesto circostante (cfr. anche Burkman, 1987; Stockdill & Morehouse, 1992; Ely, 1999). La tecnologia è una categoria di innovazioni che condivide con esse molte caratteristiche. Le sue peculiarità sono state approfondite, tra gli altri, dal modello di accettazione delle tecnologie (Technology Acceptance Model). b) Accettazione delle tecnologie Il modello di accettazione delle tecnologie (TAM) è stato sviluppato nell’ambito delle teorie che studiano i sistemi informativi e prende le mosse dalla teoria dell’“azione ragionata” (Theory of Reasoned Action) di Fishbein e Ajzen (1975). Il modello TAM suggerisce che vi sono numerosi fattori in gioco quando un utente deve decidere se e come utilizzare una tecnologia e che è possibile prevederli. Due fattori in modo particolare influenzano direttamente la predisposizione (attitude) e l’intenzione (intention) di un utente all’utilizzo (use) di una tecnologia: semplicità di utilizzo e utilità percepite (Davis et al., 1989). Nell’ultima decade è stata avviata una riflessione sul modello, che ha portato all’integrazione di nuove variabili (Szajna, 1996; Veiga et al., 2001) e a numerosi sviluppi (Venkatesh e Davis, 2000; Venkatesh, Morris, Davis & Davis, 2003). Vi sono alcune applicazione di TAM alle nuove tecnologie della formazione (Dunn, 2004; Gong & Yu, 2004; Wagner & Flannery, 2004). Diversi autori hanno riconosciuto che mentre in un primo momento la riflessione sull’eLearning si è concentrata su problemi di tipo puramente tecnico quali l’accesso, la qualità della connessione, il grado d’informatizzazione, successivamente si è spostata più verso l’apprendente e verso la sua accettazione e soddisfazione (Cantoni & Succi, 2002; Saadé & Bahli, 2005; Wolski & Jackson, 1999). Infatti valutare un’attività in eLearning come un’esperienza unicamente tecnologica rischia di tralasciare molteplici fattori legati alla sfera dell’apprendimento, che aiutano invece a interpretare le decisioni degli attori (Keller & Cernerud, 2002; Bürg & Mandl, 2005). c) Accettazione della formazione Il tema dell’accettazione e quello dell’abbandono della formazione (dropout) sono strettamente collegati (Frankola, 2001). Cinquant’anni di ricerche svolte nel settore della formazione superiore e della formazione a distanza sul tema del dropout hanno mostrato che le principali cause dell’abbandono dei programmi formativi sono radicate nella fase di accettazione. 135


La decisione degli apprendenti di persistere o di abbondare è un processo complesso, che coinvolge numerose variabili legate al tipo di programma formativo, alle caratteristiche degli apprendenti e agli elementi del contesto (Morgan & Tam, 1999). Il modello per l’integrazione degli studenti (Student Integration Model) sviluppato da Tinto (1975) spiega il problema del dropout legandolo al contesto istituzionale (institutional commitment) e all’impegno degli studenti (goal commitment). Il modello è stato applicato ai diversi ambiti della formazione e anche all’eLearning (Rovai, 2003; Sweet, 1986). Gli studi sul tema del dropout nell’eLearning hanno cercato d’individuare le cause del fenomeno e di proporre alcune soluzioni. Questi fattori riguardano molteplici aspetti che vanno dalle competenze degli studenti, alla qualità dei contenuti, all’usabilità degli strumenti tecnologici, al contesto organizzativo e istituzionale, e così via. Che cosa significa ‘accettare’ Si deve osservare che nella letteratura scientifica non è presente una definizione univoca, e che ci si riferisce al concetto di “accettazione” con diversi termini quali utilizzo (Davis, 1989), adozione (Rogers, 1995) o persistenza (Tinto, 1975). In accordo con l’analisi semantica (Rigotti & Cigada, 2004) di “accettare”, si possono identificare alcune componenti semiche rilevanti, in particolare la conoscenza e l’impegno, e tre passaggi fondamentali: preparazione, azione/inizio e persistenza, ritrovabili anche in ognuno dei tre approcci considerati nella letteratura. Una comune definizione di accettazione è “la risposta positiva a un’offerta”. Una persona può accettare un contratto o può accettare una proposta di matrimonio, e in entrambi i casi è importante prepararsi e conoscere bene le persone con cui si sta interagendo e le condizioni della proposta. Per rendere effettiva l’accettazione è necessaria un’azione, che può tradursi in una firma o in un’espressione verbale: “sì, lo voglio”. Questo tipo di azioni appartengono alla categorie degli “atti commissivi” (Austin, 1962) che implicano l’impegno di chi accetta e presuppongono quello di chi offre. La possibilità di raggiungere un obiettivo e la volontà di persistere nell’azione sono anch’esse implicate nell’accettazione. Inoltre, restando nel campo contrattuale, in ambito pedagogico si utilizza spesso il concetto di “contratto didattico” (Baruk, 1985; Brousseau, 1986; Filloux, 1973) per riferirsi alla negoziazione, esplicita o implicita, di obiettivi, metodi e strategie d’apprendimento che avviene all’inizio di ogni esperienza formativa tra i diversi attori (stakeholders): docenti, apprendenti, istituzioni ecc. 136


Il modello MeLA In questo articolo viene proposto il modello di accettazione dell’eLearning MeLa (Model of eLearning Acceptance) come quadro sintetico delle ricerche sul tema, come strumento per progettare la comunicazione e l’integrazione organizzativa d’interventi formativi in eLearning e come strumento d’interpretazione del fenomeno del dropout. Lo schema (fig. 2) presenta tre livelli, che sono le fasi del processo di accettazione dell’eLearning, le variabili rilevanti e le componenti fondamentali.

Fig. 2 - Modello di accettazione dell’eLearning (MeLA) CONOSCENZA IMPEGNO PREPARAZIONE

AZIONE/INIZIO

PERSISTENZA

ACCETTAZIONE DELL’ELEARNING

VARIABILI DEL CONTESTO

VARIABILI DELL’ELEARNER VARIABILI DELLO STRUMENTO

a) Le fasi del processo È possibile raggruppare le fasi e i passaggi dell’accettazione emersi nella letteratura con quelli rivelati dall’analisi semantica. • Preparazione: in cui i potenziali eLearner ricevono informazioni sull’attività formativa, sono invitati a parteciparvi, imparano (se non hanno già avuto esperienze precedenti) le peculiarità della formazione in eLearning, formano le loro aspettative, discutono con i colleghi dell’attività, … • Azione/inizio: gli eLearner cominciano l’attività formativa (se si tratta di una attività blended questo passaggio può anche avvenire in presenza). In questa fase affrontano tutti i problemi tecnici, possono chiedere assistenza, si familiarizzano con l’ambiente formativo, calibrano le aspettative, … 137


• Persistenza: la capacità di permanere nell’attività formativa dipende soprattutto da come gli eLearner giudicano l’esperienza che stanno vivendo. Si tratta di una decisione che valuta ripetutamente costi e benefici dell’attività. È stato verificato che un “sano impegno” creatosi in fase di preparazione facilita il raggiungimento degli obiettivi didattici. b) Le variabili rilevanti Molti autori suggeriscono spiegazioni per il fallimento o l’accettazione dell’eLearning. Le variabili sono usualmente proposte divise in varie categorie e possono essere raccolte in tre aree generali. • eLearner: molti studi sono stati condotti per identificare le attitudini, le conoscenze e le competenze che contraddistinguono un “bravo” eLearner. Nel settore formativo da lungo è aperto il dibattito se fattori esterni e oggettivi come l’età, il sesso o il contesto socio-economico determinino in larga parte o solo parzialmente i risultati dell’apprendimento. La capacità di gestire il tempo o la conoscenza informatica sono, invece, tra quelle competenze che possono essere acquisite e perfezionate nel tempo. Inoltre vi sono attitudini e inclinazioni personali che incidono sull’esperienza formativa; un bravo eLearner è spesso descritto con una personalità forte e indipendente. • Strumento: le ricerche nel settore dell’instructional design hanno individuato diversi parametri sulla qualità dei contenuti online, sull’organizzazione delle attività, sull’usabilità delle applicazioni per l’eLearning, che favoriscono la loro accettazione. Inoltre gli strumenti tecnici devono rispettare alcuni criteri, quali velocità e affidabilità, e soddisfare le condizioni indicate dalla teoria degli attributi percepiti. Le variabili legate ad uno strumento per l’eLearning variano dal tipo di colore utilizzato per lo sfondo di un corso online, all’accuratezza delle fonti bibliografiche, alle strategie di valutazione (test online, verifiche in presenza, …), all’organizzazione dei servizi da offrire agli apprendenti (chat, forum, whiteboard, instant messaging, …). • Contesto: è emerso che le condizioni del contesto organizzativo e istituzionale in cui si trovano gli eLearner influenzano notevolmente l’accettazione delle attività in eLearning. Un tema rilevante è la motivazione degli eLearner che può essere creata, per esempio, attraverso la condivisione di scopi e obiettivi delle attività in eLearning o attraverso un sistema di incentivazione. Inoltre, la loro preparazione e ciò che l’organizzazione può fare per supportare e promuovere le attività in eLearning sono degli aspetti molto significativi. Per esempio in un contesto aziendale, il tipo di assistenza fornita, gli spazi fisici a disposizione, il coinvolgimento del management o l’introduzione di policy ad hoc sono tra gli elementi presenti in questa categoria.

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c) Le componenti fondamentali La conoscenza e l’impegno sono due componenti fondamentali che accompagnano il processo di accettazione. • La conoscenza di un’attività in eLearning si forma all’inizio del processo. Le informazioni e le comunicazioni che gli eLearner ricevono contribuiscono al formarsi di opinioni e aspettative riguardo all’attività formativa. Grazie all’esperienza diretta che si vive all’inizio dell’attività, e successivamente, la conoscenza cresce e si approfondisce lungo tutto il processo. • L’impegno e il coinvolgimento degli eLearner si formano in fase di preparazione e si definiscono quando l’eLearner ha ottenuto sufficienti informazioni per costruirsi un’idea del tipo di attività che andrà a svolgere. Questo cresce lungo tutto il percorso e, se si decide di persistere, accompagna l’eLearner sino al raggiungimento degli obiettivi didattici. In particolare, conviene sottolineare come la comunicazione sia un fattore essenziale per promuovere conoscenza e impegno: di qui il ruolo fondamentale dell’invito nelle attività in eLearning. In fase di preparazione, infatti, tutte le informazioni arrivano agli studenti attraverso diversi canali comunicativi. Questi possono essere conversazioni con manager, tutor, docenti o colleghi, emails, messaggi sulla intranet, newsletter e altre comunicazioni formali o informali che hanno luogo in un contesto organizzativo. Alcune ricerche (Fuller, 2000; Masie, 2005) dimostrano che i migliori successi di programmi formativi si ottengono laddove gli apprendenti sono convocati da un manager e invitati personalmente a seguire un’attività formativa. La comunicazione ha un ruolo fondamentale quando l’organizzazione o l’istituzione interessata deve motivare, coinvolgere, incuriosire e preparare gli eLearner a partecipare nel migliore dei modi all’attività in eLearning. 3. Conclusioni Il mondo della formazione non è alieno da movimenti pendolari; si tratta di quella dinamica perversa legata al lato “oscuro” del ludus: dall’illusione – l’entrare in un gioco che è alternativa alla realtà – alla delusione – il rigetto di una realtà alternativa che si rivela costrittiva e incapace di sostituire la realtà. In effetti, la comunicazione dell’eLearning è stata spesso guidata da messaggi promozionali e da promesse incredibili di meravigliose sorti e progressive. Si pensi anche solo all’affascinante quanto abusato “learning whenever you want and wherever you want” che ha svelato presto una realtà assai meno poetica, fatta di studio notturno o mattutino, strappato 139


agli impegni di lavoro o al riposo del sabato/domenica, minacciato da continue distrazioni, che richiede determinazione e costanza grandissime. I dropout l’hanno spesso trasformato in “never and nowhere”, o rimosso in un domani che diventa semplice alibi per non cominciare mai (non drop-in)… O si pensi a strabilianti calcoli di risparmi e misurazioni del ROI tanto intriganti quanto inverosimili, che hanno lasciato spesso sul campo – alla prova dei fatti – costi e delusioni. La soluzione non va però cercata – ad avviso di chi scrive – in un movimento pendolare contrario, né nell’intonare precoci e consolatori canti funebri (“come tutti, sbagliammo, non capiterà più), quanto piuttosto nell’incontrare la realtà dell’eLearning in tutta la sua articolazione e complessità, e nel considerare con avvedutezza e consapevolezza metodologica – in particolare – la dimensione personale della sua accettazione, alla cui comprensione, speriamo, questo articolo ha dato un contributo. Riferimenti bibliografici ASTD & The Masie Center (2001), E-Learning: “If We Build It, Will They Come?”, ASTD, Alexandria, Va. Austin J.L. (1962), How to do things with words, Clarendon Press, Oxford. Baruk S. (1985), L’âge du capitain, Seuil, Paris. Brousseau G. (1986), “Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques”, Recherches en Didactique des Mathématiques, 7(2), 33-115. Bürg O., Mandl H. (2005), „Akzeptanz von E-Learning in Unternehmen“, Zeitschrift für Personalpsychologie, 4(2), 75-85. Burkman E. (1987), “Factors affecting utilization”, in Gagn R.M. (ed.), Instructional Technology: Foundations, Lawrence Erlbaum, Hillsdale, NJ. Cantoni L., di Blas N. (2002), Teoria e pratiche della comunicazione, con Introduzioni di Eddo Rigotti e Paolo Paolini, Apogeo, Milano. Cantoni L., Esposito A. (eds.) (2004), La qualità nella gestione dei progetti di eLearning nelle università italiane, Università degli Studi di Milano, Milano. Cantoni L., Rega I. (2003), “eLearning studies looking for fixed stars: a study on referenced literature in SITE 200”, in Cantoni L., Schulz P. (eds.), Studies in Communication Sciences. Special Issue: New Media in Education, Lugano, March 2003: 23-37. Cantoni L., Rega I. (2004), Looking for fixed stars in the eLearning community: a research on referenced literature in SITE Proceeding Books from 1994 to 2001, in Cantoni L., McLoughlin C. (eds.), Proceedings of ED-MEDIA 2004 World Conference On Educational Multimedia, Hypermedia & Telecommunications (June 21-26, 2004; Lugano, Switzerland), Association for the Advancement of Computing in Education (AACE), Norfolk (Va): 4697-4704. Cantoni L., Succi C. (2002), Swiss and EU Universities Facing the Issue of eLearning Quality. A qualitative and a quantitative research, Netlearning2002, Ronneby, Sweden. 140


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Parte seconda

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Self-empowerment: per non morire di lavoro di Barbara Bertagni

1. Sii performante! Viviamo in una società dove sviluppo è diventata la parola chiave, sviluppo a tutti i costi, crescita continua, crescita economica, crescita professionale, crescita nel potenziale d’acquisto. Riviste, rubriche, libri e manualistica – non solo da autogrill – sono sempre più orientati a definire il manager di successo come “uomo skillato”, elegante, in perfetta forma fisica, sempre in movimento e performante in ogni situazione: almeno 14 ore al giorno tra meetings, viaggi di lavoro, colloqui, telefonate, attività d’ufficio; 20 giorni di vacanza all’anno in località appealing dove, recitano le pubblicità, “divertirsi, rilassarsi e nel contempo rimettersi in forma”, pochi giorni l’anno dedicati alla propria formazione1. La funzione del manager all’interno delle organizzazioni appare sempre più complessa: operando in organizzazioni dove l’incertezza domina, dove la flessibilità è diventata una parola d’ordine, dove tutto è altamente instabile e turbolento, la leadership del manager viene spesso proposta come unica ricetta per gestire il caos. Dal manager ci si aspetta che sappia costruire attivamente il proprio ruolo modellandolo e adeguandolo giorno dopo giorno alle esigenze della propria organizzazione e alle turbolenze del mercato. Il tutto all’interno di realtà organizzative che lasciano poco spazio alle scelte personali, con un’agenda di impegni quotidiani che viene organizzata in gran parte da altri, con obiettivi da raggiungere non sempre comprensibili o condivisibili, 1. Formazione che ben difficilmente rinvia alle antropologie e alle poetiche della Bildung, intesa come formazione nel senso più profondo di costruzione e trasformazione/arricchimento umano (in proposito cfr. ad esempio Gennari, 2001), mentre per molti versi viene in mente l’attore ridotto a supermarionetta del teatro di Gordon Craig (1908, p. 5).

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con una serie di riti organizzativi che, pur contenendo le ansie, costringono ad un gioco delle parti spesso pesante da gestire. Parole d’ordine? Azione, velocità, piacere, successo, benessere, selfcontrol. Contenimento delle ansie, annullamento di ogni spazio di domanda, perché il quotidiano si nutre di ricerca di risposte ad esigenze immediate dove l’interrogarsi sul senso della domanda aprirebbe al traballamento e all’angoscia. Non c’è spazio per coltivare sogni, affetti e progetti che non siano allineati con le esigenze ed i ritmi dell’organizzazione. Non c’è tempo per proteggere la lentezza del profondo, né per nutrirsi della propria fragilità. Bisogna correre inseguendo la promozione, il successo di un progetto, l’acquisizione di una concorrente, l’acquisto della barca, l’accrescimento dei benefits. Nel frattempo il tempo scorre, “i mercati” cambiano, anche solo per restare nello stesso posto si deve correre più velocemente che si può, ma nel frattempo si inizia ad invecchiare e, in alcuni casi, l’irrompere di un’esperienza forte nella propria vita (nascita, lutto, separazione, innamoramento…) apre uno spiraglio di riflessione che fa intravedere come si sia diventati sempre più estranei a sé fino al punto di non conoscere/riconoscere se stessi. Il successo portato avanti in questi termini assume una dimensione di alienazione nella quale crescita professionale non corrisponde a crescita personale, anzi, spesso nei racconti dei manager arrivati ai vertici si ritrova l’impressione – o la consapevolezza – di aver vissuto una vita non scelta, di essere arrivati al successo con il pilota automatico, senza darsi reale spazio di scelta, presi dal vortice ascendente della carriera alla quale “come si può dire di no?”. 2. I rischi dell’empowerment Il manager, come soggetto post-moderno, si trova coinvolto in un tessuto di relazioni “più complesse e mobili che mai”2 ed immerso nel teatro del quotidiano tematizzato da Goffman3 dove i confini tra realtà e finzione, tra sincerità e cinismo sono estremamente labili e la propria identità è frutto di una continua rappresentazione sul palcoscenico della vita. Persona e ruolo si confondono, l’uomo si riduce al ruolo che ricopre, alimentandosi dei riti e dei miti delle organizzazioni nelle quali è inserito. 2. Lyotard (1998, p. 32). Sullo sviluppo della soggettività post-moderna cfr. Wood & Zurcher (1988). 3. Goffman (1969).

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Il soggetto di disagia nella simulazione”4, stando al gioco che i ruoli impongono e restandone immerso fino a “farsi giocare” vivendo costantemente in bilico con il rischio di essere travolto dallo stesso gioco che gli consente di esistere e rappresentarsi. È come se il manager recitasse la poesia di Laing: “Stanno giocando ad un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco”5. Arrivare al successo sembra, dunque, implicare che ci si rappresenti come persone di successo, in modo che lo sguardo altrui possa restituire il senso del proprio successo e questo possa generare la sensazione di essere davvero persone di successo. Proprio all’interno di una tale logica spesso viene richiesto un intervento di self-empowerment e molto spesso, all’interno della stessa logica, il consulente propone la propria azione e risponde alla richiesta. Ecco allora spuntare il consulente di direzione, il change agent, il coach, il tutor, il mentore, il counsellor impegnati nell’aiutare il manager a definire obiettivi ed azioni strategiche, a trovare soluzione ai suoi problemi, a potenziare le sue competenze. Troppo spesso, però, le logiche di azione di questi consulenti seguono la stessa logica di “sviluppo e crescita a tutti i costi” che dilaga in ogni settore della nostra società moderna. Percorsi brevissimi (perché il tempo è poco, si sa), spesso gestiti esclusivamente al telefono (perché non ha senso far lievitare costi e tempi per gli spostamenti) da professionisti “certificati” da una miriade di nuove associazioni, che verificano che lo schema di gestione dell’interazione comunicativa venga applicato e che non vengano violate le principali regole deontologiche caratteristiche di ogni relazione di aiuto. Competenze psicologiche? No, perché non è della psiche che si deve trattare. Competenze filosofiche? No, perché l’approccio è assolutamente concreto e operativo e non è il caso di perdere tempo in chiacchiere filosofiche. Non credo questo sia un approccio serio. Per il manager moderno molto spesso il tempo dedicato a sé è tempo di potenziamento di specifiche 4. Girard (1990, pp. 7ss.): “Simulazione non è sinonimo di dissimulazione. La differenza è importante perché la dissimulazione, come raggiro deliberato, nasconde un che di veritiero che la fonda: dissimulare implica di ammettere che una verità, anche se nascosta, c’è. Dissimulo nascondendo una verità che so che esiste. In questo caso, il dissimulatore è un soggetto forte, di coscienza. Non così il soggetto debole, simulatore. La simulazione, in questo contesto, è l’aria che si respira, il clima sociale che non lascia più spazio alla distinzione tra essenza e apparenza. Simula chi finge l’esistenza o il possesso di una verità di cui dubita”. In proposito cfr. anche Girard (1999 e 2001). 5. Laing (1991, p. 5).

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skills, di attività fisica, di ristoro edonistico dei sensi, quasi mai è tempo di riflessione. Quando il consulente collude con questa richiesta, senza aprire uno spazio di analisi della domanda, ma semplicemente lavorando sull’obiettivo dato per fornire una risposta consolatoria, siamo all’interno della stessa logica alienante e disciplinante che porta alla prevalenza del ruolo sulla persona. 3. Le strategie di self-empowerment È sicuramente una caratteristica della nostra società frenetica ed inquieta, interpretare la riflessione come non-azione, come perdita di tempo6. Eppure solo una profonda riflessione e uno spazio di autentico rapporto con se stessi può garantire al manager che la vita che vive sia davvero la sua vita e non la vita di qualcun altro7 e solo così possiamo auspicare di vivere una vita di eccellenza nella quale i ruoli che ricopriamo non diventino corazze che ci nascondono a noi stessi, ma dimensioni della nostra esperienza che ci consentono di esprimerci, potenziarci, realizzarci. Lavorare in ottica di empowerment significa lavorare con la persona nel ruolo: potenziando la sua auto-consapevolezza, promuovendo una riflessione sui suoi valori e obiettivi, garantendo uno spazio di elaborazione delle emozioni e delle esperienze. Si tratta di rimettere in discussione le risposte troppo note, provare a guardare da una diversa prospettiva a ciò che si fa, a ciò che si è, a ciò che si dice. Aiutando la persona a focalizzarsi su di sé: a riscoprire ed esplicitare i suoi valori; ad acquisire una maggiore consapevolezza del suo ruolo all’interno degli accadimenti, positivi o negativi, della sua vita. Quindi a rivalutare le priorità, a pianificare le fasi necessarie a raggiungere i propri obiettivi. A riflettere sulla propria esperienza, sulle proprie emozioni e sui propri atteggiamenti per arrivare a rielaborare le proprie modalità compor6. Come ha scritto Severino (1982, p. 263), “si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?”. 7. “La maggior parte delle persone, se alla fine guarderanno indietro, troveranno di aver vissuto per tutta la vita ad interim, e si meraviglieranno di vedere che proprio ciò che hanno lasciato passare senza considerarlo e senza goderlo è stato la loro vita, ed è stato proprio quello nell’attesa di cui hanno vissuto. È così infatti è di regola il corso della vita umana: l’uomo preso in giro dalla speranza finisce a passo di danza tra le braccia della morte” (Nozick, 1990, pp. 8ss.).

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tamentali. A trovare spazio, attraverso il confronto, per comprendere gli schemi comportamentali entro cui è abituato a lavorare. Tutto questo richiede al consulente di sapersi muovere a livello “meta” per accompagnare il manager nella riflessione sui propri paradigmi, per arrivare ad esplicitare il suo modo di guardare alle cose, al mondo e dunque a se stesso. Per esplicitare che cosa significa per lui successo, realizzazione di sé, felicità. Poi è necessaria la competenza psicologica, per creare l’alleanza di lavoro, supportare il manager in questo delicato percorso e favorire la messa in atto del cambiamento. Lavorare in ottica di empowerment significa guardare al futuro: il consulente nei colloqui non ricerca la verità storica fondata sulla corrispondenza del resoconto del manager ad un evento della sua bibliografia, consapevoli che noi diventiamo la narrazione che raccontiamo riappropriandoci in modo nuovo delle esperienze passate e inquadrando quelle attuali e future alla luce di una determinata prospettiva ulteriore. “Le cose accadono a coloro che le sanno raccontare”8. Il confronto si apre a partire dalle situazioni concrete e dagli obiettivi futuri, garantendo un rapporto alla pari tra consulente e manager finalizzato al confronto, al supporto e alla realizzazione di sé. Riferimenti bibliografici Gennari M. (2001), Filosofia della formazione dell’uomo, Bompiani, Milano. Girard G. (1999), Psicologia debole, Tirrenia Stampatori, Torino. Girard G. (1990), Simulazione e identità debole, Tirrenia Stampatori, Torino. Girard G. (2001), Tutto e niente, Tirrenia Stampatori, Torino. Goffman E. (1969), La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna. Gordon Craig (1908), “The actor and the Über-marionette”, Mask. Laing R.D. (1991), Nodi. Paradigmi di rapporti intrapsichici e interpersonali, Einaudi, Torino. James W. (1890), The principles of psychology, Dover Publications, New York. Lyotard J.F. (1998), La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano. Nozick R. (1990), La vita pensata. Che cosa conta veramente nella nostra esistenza?, Mondadori, Milano. Severino E. (1982), “Sul significato della ‘morte di Dio’”, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano. Wood M., Zurcher L. jr. (1998), The development of a post-modern self: a computer-assisted comparative analysis of personal documents, Greenwood, Westport. 8. James (1890).

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La leadership situazionale tra immaginario e realtà di Franco Nanetti

Non è perché le cose sono difficili, che non osiamo: ma sono difficili, perché non osiamo. Seneca

1. Leadership e cambiamento I profondi mutamenti in ambito socio-economico e politico-culturale, l’instabilità dei sistemi complessi e la vorticosa crescita del neocapitalismo cibernetico, il tentativo di deburocratizzazione delle Istituzioni Totali, impongono una crescente attenzione sull’emergenza di nuove figure di leader capaci di sostenere ulteriori e complesse sfide per il futuro, e di navigare la rotta di un cambiamento di cui sembra sempre più arduo identificarne il profilo e il destino. Si dice che oggi nulla più sia “eterno” e stabile. Se l’imprenditore del passato, accantonato il suo piccolo o grande capitale d’investimento, poteva in parte mettersi al riparo dai tumulti del mercato, le cose ai nostri giorni non stanno più così, tanto che è ormai vicenda risaputa che nel marasma generale di un’economia iperglobalizzata i “grandi leader”, anche se operano all’interno di aziende che prosperano, non si sentono più rassicurati dalla posizione raggiunta e si percepiscono, nonostante i lauti guadagni, in una condizione di perenne instabilità; Daniel Spencer (1994), a conferma di tale orientamento, in una recente ricerca, riferisce che più della metà delle chiamate che pervengono ad alcune società americane specializzate nell’individuazione di dirigenti altamente qualificati, è rappresentata da manager che, seppur all’apice della loro carriera, si preoccupano “anticipatamente”, nel timore di perdere il proprio lavoro, di garantirsene un’altro. Prosperità, fedeltà, dedizione, competenza nell’era della cornucopia tecnologica, non sono più una garanzia di lavoro e, come sostiene Paul Krugman, economista del MIT, “questo è il triste prezzo che occorre abbracciare in cambio di una economia dinamica, un’economia che schiaccia non soltanto i piccoli imprenditori ma che tende anche a mettere in pericolo il destino dei “grandi timonieri d’impresa”; si pensi che di recente Bill Ga150


tes, leader della Microsoft con un patrimonio di quaranta miliardi di dollari, ha dovuto rivedere in modo drastico le proprie scelte per far fronte alle nuove leggi dell’antitrust, leggi che in un modo o nell’altro avrebbero forse potuto farlo “scalzare di sella”. Se nell’impresa del passato o in un’organizzazione di stampo burocratico (Università, Scuola, Ospedale, ecc.), la struttura di tipo gerarchico del potere consentiva al leader, per il potere conferitogli, di poter sopravvivere senza troppi sforzi, ai nostri giorni la centralizzazione del controllo non è più un punto di forza; anzi, a dire il vero, sembra proprio che, in un contesto di “azioni manageriali” destinate all’innovazione, la presenza di un leader “capo” che vuole accentrare il potere su di sé, confidando eccessivamente sul ruolo acquisito o solo sulle proprie competenze tecniche, sia deleteria alla sopravvivenza dell’organizzazione stessa. 2. La competenza emotiva del leader Il ruolo dei nuovi leader non verte più sul mantenimento dello status quo, ma è proiettato sull’essere navigatori di un sempre possibile cambiamento, cambiamento che può essere perseguito solo attraverso una spiccata predisposizione alla “flessibilità” e alla capacità di rischiare. In questa direzione al nuovo leader non basta più il talento innato, o il semplice possesso di conoscenze su condotte di mercato, strategie di investimento od altro; il suo saper-fare, in termini tecnici, non è più sufficiente. Al nuovo leader si chiedono nuove competenze, più centrate sul saperessere o “essere-nel-sapere”, ossia competenze di tipo relazionale incentrate sulla capacità di mobilitare consenso, di gestire risorse umane, di rischiare nella ricerca di nuove prospettive e soluzioni inesplorate ai problemi e competenze di tipo esistenziale, come l’entusiasmo, la passione, la coerenza, l’empatia, l’indipendenza di pensiero, l’autenticità, la ricchezza morale, l’affidabilità. Come sostiene Daniel Goleman (1999), in un mondo del lavoro inquieto e proiettato all’innovazione e a criteri d’instabilità, il successo del nuovo leader non sta più nello sviluppo di una logica fredda ed astratta, ma nel potenziamento di un’intelligenza emotiva, che si rivela caratteristica fondamentale di quei leader che sanno negoziare con modalità assertive, che sanno, anche attraverso l’intuizione e la consapevolezza di sé, stabilire relazioni empatiche e perseguire un certo grado d’adattabilità senza conformismo e, al momento opportuno, un certo ottimismo fecondo e ricco di prospettive (Salovey, Mayer, 1990), pur senza inutili illusioni. La figura del nuovo leader non corrisponde più all’immagine del decisionista, del capo fermo ed autoritario, ma prevalentemente si definisce nel ruolo di chi sa emotivamente interagire con gli altri, per motivarli a diventare leader di se stessi. 151


La competenza emotiva del leader adattivo o situazionale si comprende nella capacità di riconoscere, esprimere e condividere sentimenti e stati d’animo, di persuadere e di comunicare con efficacia, di iniziare e dirigere cambiamenti, di gestire conflitti, di cooperare e costruire legami, di avere padronanza di sé e delle proprie risorse. 3. La formazione del leader Tale competenza emotiva è conseguenza di un processo di ampliamento della consapevolezza di sé,dei propri vissuti e delle proprie rappresentazioni, dei propri punti di forza e dei propri limiti. In questa direzione la formazione dei nuovi leader non passa più esclusivamente attraverso l’apprendimento di conoscenze ed abilità, ma attraverso un costante monitoraggio di dinamiche intrapsichiche ed interpersonali, funzionale a “formare” i nuovi leader alla consapevolezza di sé, al dialogo interiore, alla capacità di decidere e rischiare, e a quella competenza relazionale, intesa come potenzialità idonea a gestire risorse umane e ad ampliare la disponibilità al dialogo autentico, e come attitudine alla comprensione di sé e dell’altro all’interno dell’interazione comunicativa nel suo presentificarsi secondo modalità sia esplicite che implicite, intenzionali ed in intenzionali. Nell’ambito di un’analisi dei processi relazionali, il richiamare l’attenzione sull’implicito comunicativo è di fondamentale importanza, nel senso che ogni soggetto-in-relazione, leader compreso, agisce comportamenti comunicativi che non sempre sono intenzionali, ossia prodotti in modo consapevole secondo una precisa direzione. La conoscenza della dinamiche intrapsichiche, delle intenzioni sommerse, delle aspettative, delle convinzioni, delle rappresentazioni interne in relazione al ruolo assunto e alla spirale affettiva che lo sostiene, costituisce pertanto per il leader, una necessità sia al fine di una corretta individuazione della propria “vocazione”, sia al fine di promuovere azioni idonee ad arginare meccanismi di ipostasi e di rigidità dei propri schemi comunicativi. Non dimentichiamo d’altronde che molte virtù e molti vizi del “buon leader” non sono all’insegna del voler-essere, ma sono il prodotto di dinamiche inconsce, sono il riscatto di debolezze, o presunte tali, di conflitti interni mai totalmente elaborati, di angosce arcaiche mai dimenticate. Ogni “buon leader” di fatto è, come direbbe Kets de Vries (1994), una sorta di imbroglione, che, tramite un gioco di identificazioni e proiezioni agite, ri-vive e talvolta porta a parziale soluzione paure e difese dalla propria impotenza e solitudine, retaggio delle sue primitive esperienze infantili. 152


Da qui la necessità che il leader negoziale, come nuovo identikit della leadership assertiva, mantenga viva una certa dialettica con il proprio mondo interno. È, infatti, una adeguata consapevolezza di sé – delle proprie potenzialità e dei propri limiti, delle proprie risorse e delle proprie paure –, che da un lato rende capace il nuovo leader di modulare un potere non per sé ma attraverso di sé e di rischiare l’imprevisto, e dall’altro di passare da uno stile comunicativo coartato ad uno intenzionale, funzionale ad una corretta gestione delle risorse umane. 4. La fenomenologia del leader Le sorti di ogni leadership adattiva o situazionale non sono, quindi, solo influenzate dalle competenze tecniche e da scelte strategiche di intervento ma in particolare dal modo in cui ogni “buon leader” comunica e si relaziona. Non basta al “buon leader” avere competenze sui processi organizzativi, sulla programmazione delle azioni, sulle tecniche di progettazione, sulle logiche di mercato ed altro; occorre che egli abbia invece, e soprattutto, consapevolezza dei propri vissuti, del proprio modo di essere e porsi in relazione, per riuscire in ogni momento a controllare dinamiche transferali e controtransferali, e disoccultare i propri bisogni di potere, al fine di una diversa qualità del proprio modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Se la leadership adattiva o situazionale è costante metamorfosi di atti comunicativi causali e casuali, programmati ma anche imprevisti, bisogna che il leader, a partire da una riflessione sul proprio agire comunicativo, sappia cogliere quanto del suo mondo interno possa influenzare il processo interattivo dei messaggi implicati nelle dinamiche gestionali ed organizzative. La descrizione che qui di seguito riportiamo di alcune figure di leader, anche se parziale e pertanto non esaustiva, vuol offrire in tal senso un’occasione per analizzare le connessioni esistenti tra gli aspetti inconsci e gli stili comunicativi dei leader con le modalità di organizzazione in corso, allo scopo non solo di fornire al “buon leader” elementi di rappresentazione di sé con i quali confrontarsi, ma anche per avviare un preliminare percorso volto alla pratica di quel dialogo interiore senza il quale le sorti di una leadership “efficace” potrebbero essere compromesse. 5. Il leader narcisista o autarchico Il leader narcisista o autarchico presenta, a livello fenomenologico e psicodinamico, una struttura di personalità orientata all’affermazione di 153


sé, in termini di grandiosità ed onnipotenza, al fine di contrastare propri sentimenti di disistima e di paura di dipendenza affettiva. Il leader narcisista, coatto protagonista dell’eccellenza umana, del successo a tutti i costi, non può stabilire relazioni di carattere paritetico e orientate al confronto, ma solo relazioni attraverso le quali, nel costante tentativo di compensare in modo grandioso ed irrealistico l’esperienza di una svalutazione di sé e di vuoti affettivi, cerca di dimostrare l’illusione della propria superiorità. È, infatti, per il timore di incontrare la propria debolezza, che il leader narcisista fa di tutto per sovrainvestire narcisisticamente il proprio agire, per ottenere costante consenso ed ammirazione, negandosi ogni forma d’intesa e confronto con l’alterità. L’ideale del leader narcisista è l’autosufficienza di sé, è l’autarchia, è il tanto osannato self made man della nostra cultura dell’efficientismo e del successo a tutti i costi. Il suo profilo, secondo Kaes (1981), è emblematicamente rappresentato dal mito della fenice. La fenice, uccello raro e di nobili fattezze non ha genitori. Il paradiso delle sue origini è asessuato. “La fenice non nasce da una copula, ma dalle ceneri dove si è consumata in un ciclo perenne dove non c’è mai né inizio, né rottura. La sua creazione è un moto perpetuo di automutazione dove tutto è previsto e dove ogni altra presenza è esclusa”. Come la fenice, il leader narcisista ritiene di essere egli soltanto e nessun altro l’esclusivo maestro o genitore di se stesso. Ogni altro leader o maestro è da lui considerato una figura ostile che attacca e priva e che pertanto deve essere costantemente svalutato attraverso un’idealizzazione delle proprie azioni. Il leader narcisista, infatti, nell’esercizio delle sue funzioni difficilmente accetta un confronto di esperienze e si rende disponibile ad un dialogo dove sia possibile un incontro-scontro di saperi; egli solitamente, con abilità retoriche o aggressivamente, impone un monologo che chiede sempre un plauso acritico ed una resa incondizionata, una dedizione totale al suo mondo, alle sue idee, al suo pensiero. Spesso in ambito lavorativo, la tendenza del leader narcisista di dover essere sempre “eccezionale” si traduce in un attivismo frenetico, che con il passar del tempo conduce il leader narcisista a forme d’investimento talora impossibili ed insensate, al cimentarsi in sfide assurde e a stabilire relazioni di dominio scarsamente funzionali allo scambio nella reciprocità e alla collaborazione in termini professionali. Invischiato negli aspetti degenerati dell’archetipo del mago, nel tentativo di eccellere, di essere unico ed esclusivo, manipola e seduce per ottenere vantaggi, sposta di funzione manager nell’idea peregrina di dare plasmata realtà a cambiamenti impossibili, crea gruppi male assortiti, inizialmente coinvolge ed affascina per poi produrre marginalità e fuga delle “intelligenze”, impone strategie non comprensibili, detta regole e principi che lui stesso non rispetta, diventa in troppe circostanze imprevedibile ed inaffidabile. 154


Nel mondo scolastico od accademico il profilo del leader narcisista è prevalentemente incarnato dal Professore (con la P maiuscola) che, in virtù del proprio ruolo, seduce, affascina, esprime opinioni su qualsiasi ambito dello scibile umano (anche su aree di sua non competenza), dispensa consigli, anche non richiesti, allo scopo di sentirsi più “potente”, o produce materiale scientifico, di cui sovente è esclusivamente se stesso l’unico fruitore (Attena, 1995), attestandosi sempre su un piano di superiorità. Nell’ambito didattico/formativo il leader narcisista, infatti, tende a sovrainvestire narcisisticamente il proprio sé, imponendosi attraverso l’esercizio di un didatticismo-spettacolo, che esige in modo coatto e ripetitivo ammirazione e deferenza. Il formatore/docente narcisista difficilmente si preoccupa di che cosa i propri formandi/allievi possano apprendere, in quanto il destinatario della sua azione formativa non è l’altro, ma soltanto se stesso, nel proprio compulsivo bisogno di accrescere in autostima e sicurezza facendosi contemplare nella propria assoluta e delirante pseudoonniscienza. Tale tipo di formazione orientata in termini narcisistici verso una comunicazione di tipo egocentrico e seduttivo induce verso modalità di apprendimento per identificazione proiettiva (Klein, 1935) o per identificazione adesiva (Bion, 1971), centrate in modo fondamentale sulla riproduzione di saperi superficiali, acritici, mimetici e talora caricaturali. Nei processi di formazione per identificazione proiettiva ed adesiva, infatti, il soggettoin-formazione non mette in relazione quanto gli viene insegnato con i propri vissuti e le proprie personali valutazioni, ma si limita esclusivamente a copiare gli aspetti esteriori dell’altrui monologo, facendo propri dogmi e pregiudizi del formatore narcisista, e proibendo a se stesso di accedere ad una conoscenza autentica fondata su un’attività selettiva e interpretante di dati di realtà. Non c’è crescita verso l’autonomia nella relazione improntata alla dinamica narcisistica, come non c’è buon funzionamento dell’organizzazione se le figure di comando agiscono solo in funzione di una ricerca compulsiva di ammirazione e consenso. Una reazione tipica, infatti, di coloro che si rapportano con leader narcisisti, è quella della fuga nell’anaclitismo relazionale, modalità di reazione basata essenzialmente su un processo di oscillazione tra una tendenza ad aderire acriticamente al monologo del leader attraverso una perdita progressiva di una propria autonomia di pensieri e di creatività, ed una tendenza ad evitare la sua egemonia con forme di aperta ribellione o reazioni di isolamento. Ogni leader narcisista in un certo modo impedisce all’altro come a se stesso la possibilità d’intraprendere percorsi di cambiamento. Ogni fantasma di autogenerazione è sempre sotteso un fantasma di autodistruzione. In una novella di Ph. K. Dick (1970) un umanoide scopre 155


dopo un incidente la propria identità di robot. Decide così da solo di esplorare in se stesso i meccanismi del proprio funzionamento, ma ciò lo porta lentamente a disgregarsi e a distruggersi (Kaes, 1981). L’automutazione non è cambiamento, ma autodisgregazione e morte. Nell’autarchica contemplazione di se stessi, ogni cambiamento è bloccato, ogni vitale espressione di sé è sterile e ripetitiva. Non che la dimensione narcisistica debba essere esclusa dal mondo del lavoro come dalla vita; essa ha anche risvolti positivi. Ogni forma di creatività esige anche, da parte di chi la realizza, l’impegno di costruire un mondo per sé diverso da quello che pensano gli altri, e la spinta al successo è pertanto sempre influenzata da una forma di sano narcisismo. Il narcisismo, in quanto disposizione personale caratterizzata da senso di grandezza ed onnipotenza, ricerca di potere, prestigio e superiorità, costituisce un tratto di personalità peculiare di tutti quegli individui che ricoprono con successo ruoli di leadership. Ogni leader, infatti, cerca nel sogno dell’onnipotenza del proprio ruolo di consolare il bambino ferito che vive ancora dentro di lui, e spesso è proprio questo bambino ferito che lo porta a realizzare grandi mete. Come sostiene Kets de Vries (1980-1995), occorre distinguere un narcisismo reattivo, caratterizzato dall’incapacità di mantenere uno stabile senso dell’autostima e dal tentativo di reagirvi con comportamenti esibizionistici e sprezzanti, da un narcisismo costruttivo e gentile, tipico del soggetto che, anche se ipersensibile alle critiche, di fatto conserva una positiva fiducia verso gli altri e nell’intesa con essi, e che, facendo ricorso alle proprie ed altrui capacità, è in grado di raggiungere obiettivi elevati. Tale forma di narcisismo gentile è positivo nell’ambito della gestione delle risorse umane. Ma in altri casi, quando la costruzione di un mondo speciale diventa un bisogno coatto, quando il tentativo di tenersi distante da vissuti di sconfitta e di svalutazione di sé, implica la totale esclusione e disconferma dell’altro, e genera arroganza e desiderio di dominio, la leadership assume connotati assolutamente negativi, sia per quanto riguarda la qualità delle relazioni umane, sia per quanto concerne il funzionamento dell’organizzazione nel complesso delle sue manifestazioni. 6. Il leader divorante o salvatore Il leader divorante è colui che, per la paura di incontrare il proprio vuoto interiore, tende a rifugiarsi in un ruolo orientato alla manifestazione di comportamenti iperprotettivi e/o all’iperattività. Il fondamentale problema del leader divorante è rappresentato dal timore di non poter esistere per ciò che è ma solo per ciò che fa. Il suo ossessivo bisogno di fare e di strafare lo porta o a dedicarsi agli altri attra156


verso forme di dedizione ed abnegazione totalizzanti (dando sempre qualcosa in più rispetto a quello che gli viene chiesto), o ad un modo di lavorare incalzante e senza sosta. Secondo Kaes (1981), la fantasmatica sottesa all’azione del leader divorante è quella dell’identificazione ideale con “una figura femminile incinta ed onnipotente, del tutto incapace di liberarsi dei propri bambini incorporati, fatto salvo di riempirsi di altri bambini”. Si pensi a certi formatori ed insegnanti che appaiono “incinti” dei loro allievi; in ogni incontro parlano di loro, si prodigano per rispondere ad ogni loro richiesta, ritenendo di dover provvedere a tutti i bisogni che questi palesano (Kaes, 1981; Nanetti, 2000). Tali formatori/insegnanti/leader sono disposti in tutto e per tutto, e in qualsiasi momento, a sacrificarsi per i loro allievi/collaboratori, ma a condizione che questi siano e restino degli acquiescenti proseliti dell’unico modello di sapere che viene loro prefigurato (Kaes, 1981). Il formatore divorante è disposto a nutrire incessantemente di conoscenze i soggetti-in-formazione purché però restino come dei feti nella sua pancia (Kaes, 1981). Se questi ultimi invece, come si dovrebbe auspicare, giungono a manifestare una propria autonomia di pensiero, l’atteggiamento di pseudoamore divorante del leader/formatore si trasforma in un atteggiamento di rabbia e di rifiuto. L’azione divorante è quasi sempre compensatoria di uno stato depressivo sommerso e spesso invisibile. Il leader divorante, infatti, è di solito colui che, di fronte alla paura disperante di incontrare un proprio sé svuotato di emozioni e sentimenti, di prospettive e speranze, reagisce buttandosi dentro una vita fatta di incessanti impegni e sforzi destinati agli altri o al lavoro, dove ogni tempo da dedicare ad un proprio piacere o al soddisfacimento dei propri bisogni è negato. Il leader divorante o salvatore (in tale modo denominato da Karpman e identificato nell’enneatipo due) non aiuta gli altri perché è interessato al loro destino, ma solo per dare valore a se stesso. Quando il leader divorante o salvatore si impegna per una qualche attività non lo fa per passione di qualcosa, ma perché senza il suo fare compulsivo si “sentirebbe vuoto e disperato”; così come quando si occupa e pre-occupa in modo ossessivo dell’altro non lo fa in quanto vuole aiutarlo, anche se è questo ciò che dichiara, ma in quanto vuole possederlo e controllarlo. Il leader divorante, non potendo vivere rapporti all’insegna della fiducia, si prodiga per l’altro finché è necessario per tenerlo legato a sé, ma lo abbandona o perde interesse per lui appena questi si rende autonomo. Come si evince nell’archetipo dell’Amante, il leader salvatore è in ogni circostanza disponibile, prodigo ed attento, inizialmente trasmette al proprio collaboratore calore e simpatia, offre con sollecitudine il proprio 157


know-how, ma appena questi sbaglia si riprende l’onere di tutto, non per aiutarlo, ma, soccorrendolo inopportunamente, per renderlo dipendente. Così il leader salvatore si trova sempre più impegnato nel lavoro anche quando dovrebbe o desidererebbe riposarsi. Spesso, infatti, il leader divorante o salvatore pur di fare qualcosa non si limita a lavorare per vivere ma in talune circostanze arriva a vivere quasi esclusivamente per lavorare. In ambito lavorativo, la comunicazione orientata al “controllo” e al dominio tramite l’iperattivismo e l’oblatività coatta verso l’altro può produrre alcune reazioni difensive, quali: • la tendenza a subire i cambiamenti; il collaboratore di fronte ad un leader sempre sollecito a orientarlo, criticarlo e consigliarlo inopportunamente reagirà passivizzandosi, non facendo più affidamento alle proprie risorse ma restando in perenne attesa che qualcuno gli suggerisca cosa fare; • il rifiuto di collaborare; il collaboratore, per sottrarsi alle soffocanti attenzioni del leader divorante, si rifugia in uno stato di anoressia simbolica, dove ogni consiglio o suggerimento viene in modo esplicito od implicito rifiutato (Nanetti, 1994). • la reazione di pretesa; il collaboratore collude simmetricamente con la modalità di relazione divorante del proprio leader e tende a rapportarsi a lui con forme di richiesta centrate su un saccheggio ossessivo (Meltzer, 1958) del suo prodigarsi, attraverso inutili domande o pretese nella forma della manifestazione della rabbia o dell’autocommiserazione. Sovente gli aspetti divoranti del leader sono proiettati sui collaboratori stessi con l’effetto di farlo sentire frequentemente sfruttato da loro e quindi consumato e spremuto nel lavoro svolto (proiezione dell’avidità orale); certi leader infatti, esplicano il loro lavoro con grandi passione e competenza, si impegnano senza riserva con una disponibilità costante e totale, poi improvvisamente abbandonano “tutto”, dicendo che “non ce la fanno più”. Quando il lavoro diventa una forma di compensazione di un vuoto interiore, di un sogno che da piccoli abbiamo mortificato od eluso, quando la ricerca del potere o del successo diventa un bisogno ossessivo che sostituisce ogni altro bisogno, ossia diventa un’impalcatura per sopravvivere ad una scarsa stima di sé, la vita come vita si perde nell’inutilità e nell’insignificanza, e l’anima, spogliata di intenzioni, passioni e progetti, come scrive Umberto Galimberti,”si fa a brandelli”, come a brandelli diventa la loro vita affettiva, sempre più profondamente segnata da incomprensioni, abbandoni e solitudine.

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7. Il leader ossessivo o speculare Il leader ossessivo o speculare o perfezionista, eccellente rappresentante di vertice dell’organizzazione burocratica di stampo statale, è colui che cerca di controllare la propria paura di sentirsi debole e impotente mettendo in atto comportamenti comunicativi, sia in ambito familiare che professionale, tendenti, in modo più o meno manifesto, attraverso l’imposizione o il controllo, a “sottomettere” l’altro. Il leader ossessivo o perfezionista teme la propria debolezza, la paura di trovarsi davanti allo sconosciuto e all’inconsueto, la “morte simbolica”, la separazione e i cambiamenti, non tollera la “caducità delle cose”, per cui si comporta in modo tale da rendere tutto controllabile attraverso una tendenza a prevedere tutto in modo compulsivo, ad imporre rigide regole di comportamento e a fare sottostare ogni azione altrui alle proprie richieste. Il leader ossessivo, definito anche speculare (Nanetti, 1996) per la sua tendenza a volere plasmare gli altri a proprio piacimento, in modo in parte similare all’alessitimico, non rende mai apertamente visibile la propria debolezza, raramente manifesta i propri bisogni e i propri sentimenti, così come altrettanto raramente riesce a comprendere i sentimenti del proprio interlocutore. Nelle relazioni familiari ed amicali svolge il ruolo del pigmalione, ossia di colui che insistentemente ironizza, colpevolizza, chiede con insistenza, critica e svaluta nell’intento di incastrare l’altro in una condizione di dipendenza, passività e compiacenza (fusionalità passiva). Questo fa sì che tale leader speculare anche nell’ambito delle relazioni professionali in modo cognitivamente rigido tenda ad affidarsi ad opinioni, valori, principi inconfutabili e ad imporli ad altri, talora anche in modo arrogante e polemico. Le caratteristiche del leader ossessivo sono: forte accentramento del potere, diffidenza, freddezza, avarizia, razionalità, perfezionismo, eccessiva attenzione agli aspetti formali, rigidità, dominio dell’altro con forme oscillanti di gentilezza e crudeltà. La relazione speculare, che si realizza con procedure comunicative rigide ed opprimenti, è diretta, come abbiamo accennato, ad un modellamento e controllo costante dei modi di pensare, agire ed essere dell’altro, al fine di dominarlo e renderlo dipendente. Nell’ambito della formazione il leader ossessivo utilizza procedure comunicative rigide ed opprimenti, non orientate ad una crescita culturale del formando, ma ad un suo modellamento e controllo costante dei suoi modi di pensare, agire ed essere. Secondo Kaes (1981), tale stile relazionale invadente ed ossessivo è emblematicamente rispecchiato nella avvincente commedia di B. Shaw del titolo “My fair lady”, nella quale uno scapolo incallito, Higgins, cerca pigmalionicamente di trasformare un’incolta fioraia londinese, Lisa, in 159


una duchessa. Il progetto, a gloria di Higgins riesce, ma per la graziosa Lisa il salto sociale viene pagato al prezzo di una grande sofferenza. Higgins, infatti, “spoglia Lisa della sua crosta di sudiciume per erigerla ad oggetto sacro” non per amore di lei, ma soltanto per ottenere la sua passiva malleabilità e per affermare la sua sete di dominio. Così Lisa, pur aderendo a tutte le richieste del suo pigmalione, si trova sempre più sola e sfruttata. La relazione pigmalionica, descritta brillantemente dal commediografo inglese B. Shaw, la troviamo frequentemente riproposta in molteplici rapporti di coppia di stampo complementare dove uno dei due partner consiglia, guida, cerca di cambiare costantemente l’altro, il quale per contrasto si rende più passivo, plasmabile ed dipendente, fino giungere talora alla perdita totale di se stesso (Nanetti, 1994). La formazione pigmalionica è castrante e regressiva. In tale dinamica il soggetto plasmato può solo riprodurre il sapere del proprio formatore, giacché può attendersi da lui protezione e riconoscimento soltanto se si adegua alle sue richieste e resta al suo cospetto bisognoso ed impotente. Il tutto con l’effetto di un doppio esito negativo: in primo luogo la tendenza del soggetto-in-formazione, fatto salvo che al momento opportuno non sia riuscito ad affrancarsi dallo stato di dipendenza psicologica nei confronti del proprio formatore, a divenire sempre più passivo, debole, depresso; in secondo luogo la reiterazione dell’esperienza di abbandono. Spesso, infatti, il formatore pigmalionico, completata la propria opera, si spaventa della propria debolezza ritrovata nell’altro, cosicché l’altro, quasi inspiegabilmente viene a perdere d’interesse e per tale ragione viene poi ad essere rifiutato e abbandonato. Nell’ambito scolastico ed accademico il Dirigente o Docente ossessivo è colui che tende all’eccessiva burocratizzazione: firme e controfirme, riunioni e controriunioni, incontri con i colleghi per decidere qualcosa, anche se non viene mai deciso nulla di significativo, che nella sua illusione cambi il corso degli eventi. Il tempo nell’economia del suo quotidiano non si profila come risorsa da investire, ma come qualcosa da sprecare. Nell’azienda dove domina un leader speculare i rapporti sono rigidamente gerarchizzati in termini di dominio-sottomissione allo scopo di ridurre le incertezze, ogni dettaglio operativo è rigidamente pianificato, le procedure sono ripetutamente standardizzate, il cambiamento è visto con timori e preceduto da lunghi periodi di dubbio. L’eccessiva attenzione al formalismo e alle procedure burocratiche, e il perfezionismo, con una preoccupazione eccessiva per i dettagli insignificanti, sono sovente conseguenza della paura di rischiare ed una resistenza alla sperimentazione e alla ricerca del nuovo.

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8. Il leader paranoide o diffidente Il leader paranoide o diffidente (corrispondente all’enneatipo sei) è colui che, di fronte al timore di non sentirsi forte e potente, in presenza di un’angoscia latente di perdita di sicurezza in corrispondenza al sentimento di una perdita di potere, nel tentativo di evitare costantemente di essere ingannato, tradito e manipolato, assume un atteggiamento guardingo, di costante diffidenza e controllo, controllo che viene sovente esercitato anche attraverso un dominio sull’altro che deve essere costantemente mantenuto, al fine di non sprofondare nella propria profonda insicurezza. Da qui spesso la tendenza del leader paranoide di salvarsi attraverso un modo ossessivo e compulsivo di misurare e garantirsi l’affidabilità dell’altro con domande, prove, richieste ed imposizioni. Ma tutto ciò all’insegna del maggior danno. Il paranoide, cercando una sicurezza attraverso un esercizio di un potere senza amore, non potrà che sentirsi sempre più sospettoso nei confronti di chiunque si comporti in modo difforme da come lui si attende. Il leader paranoide, infatti, sia nei confronti di colleghi, che di amici e di partner, è sempre in guardia; non crede nella loro fidatezza e lealtà, ogni cosa detta o non detta, dimenticanza o altro, è motivo di laceranti sospetti, temendo ovunque, tradimenti, menzogne, sviamenti. Ostile, geloso, invidioso, sospettoso, irritabile, ipercritico e circospetto, con gli occhi sempre mobili e protesi a scrutare tutto ma mai se stesso, il paranoico non può stabilire rapporti d’amore, di intimità, di confidenza, ma solo di dominio e di superiorità. In lui illusioni di grandezza e di persecuzione procedono insieme associate a meccanismi arcaici di scissione (l’altro è totalmente buono o cattivo) e di proiezione (se io sono inaffidabile, vuol dire che lo è anche l’altro). Il suo atteggiamento è sarcastico e rancoroso, polemico ed arrogante, freddo ed anaffettivo, sempre pronto a cogliere inganni e pericoli in agguato, che difficilmente possono venire invalidati da ulteriori dati di esperienza. Il suo diffidare è sostenuto da inferenze (“tu non mi hai dato attenzione e quindi non sono importante per te”), ragionamenti emotivi (“dal momento che mi sento rifiutato, vuol dire che mi hai rifiutato”), errate valutazioni (“non si può collaborare con le persone che si nascondono”), credenze bloccanti (“chi non corrisponde alle mie aspettative è un egoista”). L’infanzia del leader paranoide è segnata da genitori intrusivi, controllanti, punitivi, solleciti alla critica e al dileggio, genitori che, per loro problemi di insicurezza e paura d’amare hanno alimentato nel bambino un sistema di credenze volto a fargli percepire il mondo esterno come pericoloso e soltanto affidabili i propri genitori uniche persone meritevoli di attenzione e dedizione (il paranoide nell’adolescenza, non ha amici con cui 161


confidarsi, ad eccezione di una mamma che continua a dare suggerimenti su tutto e su tutti). Nell’ambito professionale, il leader paranoide potendo stabilire relazioni solo orientate al potere e alla costante diffidenza, tenderà, a rifiutare qualsiasi forma di delega, sprecherà energie nel controllare informazioni e processi organizzativi, eventi esterni ed interni senza poter mai stabilire autentici rapporti di collaborazione. Impaurito da ogni innovazione, tenderà a mantenere lo status quo. Sempre insoddisfatto, circospetto ed invidioso, non potrà mai stabilire momenti di autentico confronto, non potrà mai esplicitare proprie opinioni e conoscenze “poiché gli altri sono malvagi e potrebbero depredarlo delle sue idee”. Essendo i suoi rapporti professionali del tipo domino/sottomissione (se gli altri lo scoprissero debole per lui sarebbe un’esperienza drammatica), tenderà in ogni circostanza di mettersi al riparo attraverso l’assunzione di ruoli di superiorità. E se tali ruoli dovessero sfuggirgli, tenderà a ripristinarli con la forza, attraverso atteggiamenti sarcastici, svalutativi ed aggressivi. Da qui la ragione per cui frequentemente i collaboratori e subalterni del leader paranoide tenderanno a commettere errori ad essere inclini ad incidenti, ad essere impauriti ed ostili, pronti ad ingannarlo e a rubargli il potere nei momenti in cui viene a trovarsi in una posizione di debolezza. I collaboratori, non percependo la sua fiducia, non potranno far altro che rifiutargli la fiducia che lui si attende, determinando quel circolo vizioso dove la diffidenza crea l’inganno e l’inganno crea la diffidenza. Il leader paranoide, così, prigioniero della propria stessa idea di malvagità, non potrà far altro che alimentare sfiducia e malessere, tutto ciò anche qualora riuscisse ad autoaffermarsi ed acquisire successo. Talora un atteggiamento dominante può portare ad essere vincenti nel lavoro, ma, senza la fiducia incondizionata nell’altro, senza la saggezza dell’innocenza (Osho, 1982), non si può essere vincenti nella vita. Si può essere solo vincenti se ci si affida con coraggio all’intimità e all’amore poiché solo nell’intimità e nell’amore è possibile sperimentare la gioia. L’unica salvezza del leader paranoide starebbe nell’aprirsi agli altri e nel dialogare con se stesso, per trovare in se stesso la propria ambivalenza, la propria ombra, il proprio male, ma finché il nemico viene cercato fuori, finché il suo sguardo è sempre all’esterno, non c’è proprio scampo, non c’è proprio nulla da fare. Alle estreme conseguenze il leader paranoide, assumendo alcuni tratti sadico-ossessivi e narcisistici, si trasforma in un tiranno dispotico, ed intransigente, che, nella degenerazione dell’archetipo del Re, controlla in prima persona tutto rinunciando ad ogni potenziale delega, che ponendosi sul piedistallo di “chi sa tutto ed è responsabile di tutto” non ascolta più nessuno se non persone subalterne che si dimostrano deferenti ed ossequiose, che pone al setaccio tutto e sadicamente inveisce umiliando al cospetto di ogni possibile errore ed omissione. 162


Quando si combinano tratti paranoidi, divoranti e narcisistici si determina la figura del cosiddetto workaholic, ossia di colui che ossessionato dal lavoro vive esclusivamente per lavorare, dedito in modo frenetico ad un fare compulsivo accentra su di sé ogni attività, emargina chi non si adegua a suoi ritmi o antepone la propria vita affettiva al lavoro, costringendo i collaboratori a lavorare anche quando dovrebbero riposarsi. 9. Il leader trasparente o compiacente Il leader trasparente o compiacente o anassertivo è colui che tende all’autosvalutazione e alla passività. Sempre spaventato dalle ipotetiche o reali richieste altrui, desideroso di essere in ogni circostanza protetto ed aiutato, il leader trasparente evita ogni responsabilità che per lui sarebbe fonte di eccessiva angoscia. Le caratteristiche del leader trasparente sono: mancanza di fiducia, incapacità di agire da solo un’immagine adeguata di sé, eccesso di modestia, comportamento servile, apatia diffusa, sensi di colpa, pessimismo, indecisione, distacco, aggressività inibita, mancanza di entusiasmo, isolamento affettivo ed emotivo, ricerca di una costante dipendenza da figure idealizzate. Il leader trasparente, essendo dominato da angosce depressive che lo portano ad essere preoccupato della perdita di protezione e di sicurezza circa la propria immagine, tende nella sua attività lavorativa a rifiutarsi di assumere il proprio specifico ruolo di leader secondo modalità che dovrebbero essere di necessità asimmetriche al ruolo dei propri dipendenti e/o collaboratori. Il leader con tendenze depressive si rende trasparente (Nanetti, 1996), ossia evita di assumere un ruolo attivo, in quanto, non stimandosi ed essendo per questo dominato dall’angoscia di perdere la protezione dell’altro, cerca attraverso comportamenti affiliativi e compiacenti, privi di una qualsiasi forma di aggressività apparente e di ferma assertività, di stabilire, sia in ambito familiare che professionale, modi di relazionarsi di stampo simpatetico-simbiotico (Nanetti, 1996), dove ogni espressione di conflitto, che potrebbe ingenerare instabilità ed ansia, è evitata. Il leader trasparente, non sentendosi o non volendosi sentire tanto forte, né per prendere iniziative né per opporsi, si adegua alle circostanze, si defila da ogni responsabilità, evita di esprimersi rispetto ciò che pensa, così come evita di dare suggerimenti e consigli nel tentativo di orientare e offrire sicurezza, mentre preferisce mantenere un ruolo passivo e delegante che lo disimpegna rispetto a qualsiasi ipotetica pretesa su di lui. Il problema centrale della leadership depressiva è la mancanza di assertività e il bisogno di dipendenza, bisogno che è sovente la conseguenza di 163


una mancata risoluzione di un rapporto simbiotico con la figura materna o di chi ne fa le veci. Spesso il leader trasparente, infatti, è stato nell’infanzia un bambino viziato, iperprotetto, privato della possibilità di rendersi autonomo e di scontrarsi con le difficoltà della vita. Da qui la tendenza ad evitare ogni forma di competizione, a compiacere, a non prendere decisioni, a non chiedere in modo esplicito, pur di non perdere la protezione degli altri, sostituti simbolici di quella figura materna, da cui non si è mai separato. Se il leader speculare cerca di fuggire il vuoto depressivo dominando con modalità di controllo ossessivo, il leader trasparente lo evita nascondendosi nella negazione di ogni differenza dall’alterità. Nel mondo scolastico od accademico tale profilo è soprattutto rappresentato dall’eterno allievo, ossia da colui che per eterna deferenza, si mostra sempre inadeguato al cospetto del Dirigente o del Docente, e sempre pronto a compiacerlo e anche a darsi ai più umili servigi, pur di gratificarlo (Attena, 1995). Nell’ambito della pratica formativa il leader trasparente induce la presenza di un clima ovattato di demotivazione, di letargo formativo, dove ogni confronto culturale è posto fuori gioco; il formatore trasparente, non sentendosi o non volendosi sentire tanto forte né per scontrarsi né per prendersi cura dei suoi allievi, si adegua alle circostanze, si defila da ogni responsabilità, evita di esprimersi rispetto ciò che pensa così come evita di dare suggerimenti e consigli nel tentativo di orientare e offrire sicurezza, privilegiando il mantenimento una relazione amicale e cameratistica, che lo disimpegna rispetto a qualsiasi ipotetica attesa o pretesa su di lui. Se il leader speculare cerca di fuggire il vuoto depressivo dominando con modalità di controllo ossessivo, il leader trasparente lo evita nascondendosi nella negazione di ogni differenza dall’alterità. Anche nelle organizzazioni dove domina un leader trasparente si riscontra un’atmosfera di estrema passività e demotivazione. Nell’organizzazione depressiva, infatti, tutto viene a svolgersi nella routine, nel rifiuto di ogni forma di competitività, tutto viene programmato anche quando la programmazione provoca inutili ritardi, ogni decisione è procrastinata e l’attenzione è completamente rivolta all’interno, al mantenimento dello status quo e ad una condizione di stagnazione organizzativa dove ogni cambiamento è evitato od escluso. Tra i leader trasparenti, quando si combinano i tratti depressivi con tratti ossessivi e del narcisismo covert, possiamo in talune condizioni fare rientrare i cosiddetti alessitimici, i pesci lessi, come li chiama, Kets de Vries (1991), gli analfabeti emotivi, ossia coloro che, incapaci di trovarsi nell’empatia, nella condivisione, nella “soddisfazione delle opere compiute” (Nanetti, 2000), vivono e agiscono “senza sangue nelle vene”. 164


L’alessitimia, secondo Kets de Vries (1991), si manifesta attraverso l’incapacità di distinguere e differenziare gli affetti, di trovare parole per descrivere i propri sentimenti, attraverso l’assenza di comportamenti empatici, la sterilità emotiva, l’estinzione di ogni passione, la monotonia di idee e la mancanza di rappresentazioni simboliche e di immaginazione, la ricerca fredda e distaccata di rapporti rassicuranti e controllabili, una dipendenza ossessiva dal proprio lavoro, una condizione di iperadattamento alla realtà esterna e l’espressione frequente di stati di noia ed irritazione. Il prototipo dell’alessitimico è “il Mago di Oz”, l’uomo di latta che non sa piangere, in quanto “teme che se avesse pianto, le proprie lacrime avrebbero fatto arrugginire le cerniere dei viso e delle giunture, e gli avrebbero così definitivamente impedito di parlare e camminare”. Il leader alessitimico, infatti, nella sua freddezza ed inquietudine, si rivela incapace di descrivere propri stati emotivi, di stabilire rapporti caldi ed affettuosi. L’alessitimico, scrive Kets de Vries (1991), “è sempre impegnato a fare anziché essere”, nega ogni conflitto intrapsichico, nella preoccupazione di realizzare solo obiettivi “concreti”, estranei alla sua realtà interna, forse con l’unico scopo di superare una condizione permanente di vuoto interiore. Il leader alessitimico non è in contatto con intenzioni e desideri che provengono da sé, ma con attese e richieste esterne, e pertanto si muove sempre nella direzione di un conformismo assoluto. Succube di un’oggettività priva di affettività, l’alessitimico tende a vivere relazioni familiari ed amicali “fredde”, “ostili” e “noiose”. Avaro nella manifestazione di sé, l’alessitimico, anziché esprimere ciò che sente in modo aperto e costruttivo, preferisce lasciarsi trascinare in pedanti e cavillose discussioni, più rispondenti al bisogno di scaricare un’aggressività arcaica e non integrata, che a trovare forme mature d’intesa e costruttivi compromessi. Ed è proprio a causa di questa aggressività arcaica e non integrata, e per la necessità di esercitare su questa un certo grado di vigilanza, che avviene questo processo di sopimento delle emozioni. Così con il passare del tempo l’alessitimico si spegne sempre di più, diventa sempre più impassibile, la sua voce si rende sempre più monotona nella sua perenne lamentazione e le sue posture sono sempre più rigide ed inespressive. Di solito l’alessitimico stabilisce relazioni di coppia con partner che sono complementari al suo modo di declinarsi. Se l’alessitimico, infatti, fa scomparire le sue emozioni, il suo partner le gonfia a dismisura, se l’alessitimico è ipercontrollato ed iperanalitico, il suo partner presenta modalità di relazione di tipo isterico nell’ordine della distonia, imprevedibilità, incapacità di gestire le proprie reazioni emotive, e di un’ aggressività che si manifesta quasi sempre in modo pungente, collerico ed inappropriato. 165


Così, entrambi i partner, attraverso i loro comportamenti comunicativi di stampo complementare, continuano nell’infelicità a cercarsi e a respingersi, senza per questo mai arrivare ad un momento di dialogo e possibile intesa. Spesso lo sfondo biografico dell’alessitimico è caratterizzato prevalentemente dalla relazione con una figura materna invadente e nello stesso tempo distanziante, ipomaniacale, tirannica e nello stesso tempo depressa, oblativa e nello stesso tempo incapace di mettersi in ascolto di bisogni profondi ed emotivi. Da qui la tendenza “drammatica” del leader alessitimico a “spegnersi”, a trovarsi privato di ogni entusiasmo e passione, a viversi nell’inutilità e nell’insignificanza. 10. Il leader infantile o innocente Un profilo di leader negativo, forse ulteriore surrogato del leader trasparente precedentemente descritto, è rappresentato dalla figura del leader infantile o innocente, ossia di quel soggetto inconcludente ed imprudente, che rifacendosi per alcuni aspetti all’archetipo dell’innocente, tende a fuggire da ogni vincolo, scelta e quindi responsabilità. La figura mitologica che più lo incarna è “Peter Pan”, l’eterno ragazzo che non vuole crescere, poiché desidera continuare a vivere nei suoi sogni, nell’illusione che è possibile fare “tutto ciò che gli piace fare”, poiché “tutto ciò di cui ha bisogno è a portata di mano, o per fortunata coincidenza, o perché gli altri debbono soddisfare ogni sua necessità”. Il leader “Peter Pan” è colui che vive una cultura dei diritti senza doveri, è colui che vorrebbe avere tutto ciò che gli piace in modo subitaneo, senza doversi per nulla impegnare in qualcosa, senza rinunciare a nulla. Senza la possibilità di sperimentarsi in avventurose esperienze, senza l’estasi della novità, il leader infantile si percepisce spento ed infelice. Questa è la ragione per cui sovente si trova come catapultato in un trasformismo affannoso dove il suo unico obiettivo sembra riferirsi alla disposizione a cercare sempre nuovi modi di agire, comportarsi, manifestarsi, apparire; e ciò non per raggiungere chissà quali obiettivi, ma semplicemente per non annoiarsi. Nell’ambito della formazione il “genitore, maestro,educatore” infantile porta all’evitamento di ogni attitudine al problem solving e ad apprendimenti per costruzione. Se il nostro “essere competenti”, infatti, è anche il riflesso della nostra volontà di affrontare problemi e di trovare nonostante una certa fatica risposte idonee alla situazione (almeno temporaneamente), la tendenza a rifuggire da ogni tensione ed impegno, non può nient’altro che essere causa di scarsa autostima, insofferenza, infelicità. 166


Resta a questo punto da chiedersi se una figura di formatore, oggi così diffusa, possa considerarsi tale, e quali ingredienti possa offrire al proprio allievo in funzione di una sua crescita verso il mondo dell’adultità. In altre parole un adulto-bambino può educare un bambino a divenire adulto? Se la formazione è prima di tutto un’offerta di se stessi, ritengo che ciò sia alquanto improbabile. Il formatore innocente stimola l’avventura, il gioco, la novità, ma se il tutto avviene per eccesso gli effetti non sono che deleteri. Nella storia mitologica, nessuna salvezza viene offerta agli adulti improduttivi ed infecondi e ai suoi seguaci; infatti, se gli autocontemplativi Adone e Narciso sono destinati alla morte, altri incorreggibili nullafacenti vengono collocati o nel limbo delle mostruosità innocue, come gnomi, nani di corte, saltimbanchi e perdigiorno, oppure delle mostruosità pericolose, come baccanti o amazzone, demoni o streghe. Il mentore può essere brutto come Socrate, bello e coraggioso come Ulisse, erudito o saggio, arcigno od affettuoso, esso è comunque una provocazione nel momento in cui si da come esempio; ma un mentore infantile risulta a buon giudizio inutile, e ad essere più severi dannoso. Se esistesse un prototipo di antimentore ritengo che questi non potrebbe essere altro che il formatore infantile, ossia colui che si è votato innocentemente ad essere eterno bambino al di la del bene e del male. L’angoscia sottesa ai comportamenti del leader infantile è caratterizzata in ogni momento dall’idea di essere privato della propria libertà; per il leader “Peter Pan” non vi è una libertà per, orientata alla scelta, ma solo una libertà da, tipica del bambino viziato che vuole affrancarsi da tutto ciò che provoca frustrazione per fare solo quello che desidera in quel preciso momento. Per effetto della sua intolleranza alla frustrazione il suo modo di comunicare risulta irruente e sbrigativo. Protesta o si arrabbia per la minima situazione di difficoltà. Messo di fronte alla necessità di ponderare una situazione o di risolvere un conflitto, egli tende ad evitare di “pensare il problema” per arrivare a rapide conclusioni, utili soltanto a sbarazzarsi della propria tensione, ma non per una migliore comprensione dei fatti, o in caso di confronto, dell’altrui punto di vista. Incapace di ascoltare, si attiene soltanto alla sua “concretezza”, dal momento che ogni altra prospettiva provoca in lui un’“inutile insofferenza”. Allorché il leader infantile viene invitato a riflettere sui propri errori, tende a reagire o sdrammatizzando o controattaccando violentemente. Se il nostro “essere competenti” è anche il riflesso della nostra volontà di affrontare problemi e di trovare, nonostante una certa fatica, risposte efficaci e soddisfacenti (almeno temporaneamente), la tendenza a rifuggire da ogni tensione ed impegno, non può nient’altro che essere causa di scarsa autostima, insofferenza, infelicità. 167


L’infanzia del leader “Peter Pan” è caratterizzata da esperienze educative caotiche ed incoerenti. Il futuro leader infantile è stato di solito un bambino inascoltato, sovente esposto alla vergogna, talora lasciato all’incuria e senza regole, oppure rimproverato per un nonnulla, spronato sempre a dover dimostrare di essere “bravo e buono” agli occhi degli altri. Per tale ragione il leader infantile è più proiettato all’apparenza che alla ricerca di valori, è arrogante, caotico ed imprevedibile, non valuta vincoli e risorse, si butta a capofitto in avventure impossibili, intraprende audaci speculazioni, mettendo sovente a repentaglio una cospicua parte del patrimonio aziendale. Il suo stile decisionale è impulsivo, irriflessivo ed alieno al confronto, le sue strategie hanno una notevole componente di imprevedibilità, le sue analisi sono superficiali e per tale ragioni i rischi d’impresa sono elevati. 11. Il leader assertivo o situazionale Oltre alle figure dei leader finora descritte ne avremmo potute indicare altre; il terreno della ricerca sulle connessioni tra rappresentazioni, vissuti e processi comunicativi è variegato, ampio e del tutto aperto ad ulteriori indagini. Le figure dei leader precedentemente delineate sono emblematiche, caratterizzano in modo peculiare una struttura, ma allo stato puro nel concreto agire quotidiano sono difficilmente identificabili. Un qualsiasi leader più che corrispondere in modo diretto ad una delle figure descritte può più facilmente riconoscersi in qualche suo particolare tratto o pluralità di tratti. Anzi potremmo paradossalmente dire che il “leader assertivo” è colui che riassume e gioca su di sé il maggior numero di caratteri di tutti i leader descritti, in altre parole è colui che consapevolmente, a seconda dei contesti e delle situazioni, sa affermarsi senza dominare, e in modo vario e flessibile sa essere “un po’ narcisista, un po’ divorante, un po’speculare, un po’ infantile e un po’ trasparente”. Se in alcuni casi, infatti, è opportuno rivitalizzare l’azienda o l’organizzazione o la propria vis formativa trovando modi di essere propulsivi tipici della leadership narcisistica o infantile, in altri invece è più utile recedere sullo sfondo, “farsi trasparenti”, per rifocalizzare in modo ponderato le strategie, mentre in altri, quando si deve riorganizzare le attività interne, è bene “ridisegnarsi un po’speculari”imponendo norme e regole di condotta. Niente di male se inizialmente il leader è un po’ “bastardo”, mentre in altri momenti è affettuoso e bonario, niente di male se in alcune circostanze è in un modo ed in altre è il suo opposto. La leadership disfunzionale si dà non per effetto di uno specifico comportamento, ma per mancanza di flessibilità, ossia per un’azione comunicativa inconsapevole, non contestualizzata, non situazionale, ma coatta ed esclusiva. 168


Quindi, anche se la didascalia proposta potrebbe apparire artificiosa, in quanto non rispondente alla realtà, di certo non rappresenta un vano esercizio intellettuale. Ogni leader “in carne ed ossa” può specchiarsi, a seconda delle circostanze, nei profili di leader precedentemente delineati e può utilizzare gli specifici comportamenti che ne caratterizzano la loro struttura come cartine di tornasole nelle quali di volta in volta riconoscersi per comprendere e migliorare il proprio agire comunicativo, quando talvolta questo risultasse un elemento di ostacolo alla gestione delle risorse umane. Ogni comportamento comunicativo è sempre sollecitato da una quantità rilevante di pensieri inconsci; per tale ragione ad ogni leader che intenda con serietà affrontare la complessità della sua azione, spetta soprattutto il dovere di analizzarsi nel suo modo di essere e di porsi in relazione, a partire da un dialogo col proprio mondo interno che gli consenta di liberare la propria vocazione da ogni velleità di potere sugli altri e di vincere la paura di provarsi e riprovarsi nella propria capacità di rischiare. La condotta del nostro ideale di leader non ricalca un modello, non si esprime su un canale comunicativo codificato, è imprevedibile ed incontrollabile; non si può decidere in anticipo “come essere” ma si può contestualmente essere diversi allorché sappiamo conquistarci una crescente consapevolezza di quei vissuti e pensieri sottesi al nostro agire comunicativo. Il leader assertivo quindi non è coartato in un ruolo, ma è situazionale, in quanto a seconda delle necessità organizzative, progettuali e di contesto, sa al momento opportuno agire la molteplicità delle proprie immagini interne, ossia sa, come abbiamo precedentemente riferito, quando le circostanze lo richiedono, essere un po’ narcisista, un po’ speculare, un po’ trasparente, un po’ infantile, esaltando la propria capacità di orientarsi nella dimensione della flessibilità, dell’autoaffermazione, del dialogo e dell’intesa negoziale. Il leader assertivo sa negoziare, ossia sa trovare con i propri interlocutori forme di accordo “generativo”, funzionali alla ricerca di possibili vantaggi per tutti gli attori che partecipano al patto negoziale. Chi negozia in modo assertivo non s’impone sull’altro, ma, attraverso un aperto confronto, pone le condizioni per raggiungere un accordo di reciproca soddisfazione. Il leader assertivo non è colui che vuole vincere sull’altro, ma è colui che vince con l’altro, poiché il suo scopo non è quello di dominare, bensì di raggiungere obiettivi che consentano ad entrambi un punto di arrivo superiore a quello di partenza, rischiando anche l’insuccesso od un possibile rifiuto. Il leader assertivo agisce nonostante la propria incompiutezza, accetta il rischio di sbagliare, si assume la responsabilità di fare richieste, di affermare le proprie convinzioni, di comunicare le proprie aspettative, anche 169


quando ritiene che gli altri lo ostacoleranno o quando le cose non sempre potranno andare come previsto. Rischiare è entrare nel mondo delle ipotesi possibili e della rinuncia. Ogni rischio comporta l’accettazione di un duplice lutto: dell’oggetto e del sé, dell’oggetto in quanto, rischiando la scelta di qualcosa abbandoniamo situazioni stabili ed omogenee che ci davano sicurezza, del sé in quanto con il cambiare di una situazione si determina, in corrispondenza della situazione mutata, anche un cambiamento del nostro abituale modo di essere. Ogni forma di rischio si attua per un processo di dis-identificazione e ri-identificazione secondo nuove procedure di attribuzione di senso. Provarsi nel rischio non significa tuttavia vagabondare verso chissà che cosa, ma avventurarsi verso nuove mete che, in corrispondenza dei nostri valori, ci consentiranno di “diventarne parte”. Secondo la prospettiva ologrammatica, infatti, ciò che vogliamo perseguire, ci consente di comprendere e nello stesso tempo di essere compresi nella meta “perseguita e raggiunta”. Per tale ragione occorre che il nostro coraggio di rischiare sia motivato da mete gravide di senso, ossia da mete che per noi siano significative e che corrispondano in modo pregnante alle nostre intenzioni più profonde. Le più comuni resistenze alla capacità di rischiare sono: • l’eccesso di emotività; quando vi è eccesso di emotività il soggetto è in ansia di fronte alla decisione che dovrà prendere; ciò lo porterà a tergiversare, a negare il problema, a mettere in atto comportamenti di evitamento, oppure a reagire con arroganza pur di nascondere la propria debolezza a chiunque gli stia vicino. Mentre il leader anassertivo si lascia dominare dalle proprie emozioni, il leader assertivo è capace di gestire emozioni ed impulsi in modo efficace, sa mantenere la propria attenzione focalizzata alla soluzione dei problemi anche in situazioni difficili ed in momenti di difficoltà; • la carenza di emotività; quando il soggetto rischia “qualcosa di nuovo” in uno stato di alesittimia, ossia in assenza di emozioni, ciò vuol dire che vi è in atto una reazione ipomaniacale tendente a negare in termini probabilistici le eventuali conseguenze delle proprie azioni. Il coraggio di rischiare porta con sé la legittima paura di rischiare. Quando il coraggio nega la paura, non si tratta più di coraggio ma di pericolosa temerarietà. Nella temerarietà ogni vincolo con la realtà è negato, ogni vissuto di morte, colpa ed impotenza è cancellato attraverso l’esperienza di un atto onnipotente che esalta l’Io nella dimensione illusoria del tutto possibile. Possiamo accrescere la nostra capacità di rischiare, non negando ciò che temiamo, ma soltanto se di fronte all’imprevisto rimaniamo in contatto con le nostre emozioni negative, con le nostre an170


sie, paure ed inquietudini, senza esercitare alcuna forma di occultamento od elusione; • l’eccesso di programmazione; chi vuole prevedere tutto, programmando tutto in termini razionali, si sta negando la possibilità di rischiare. Il modello razionale, come processo ottimizzante, usato dagli economicisti nella soluzione di problemi, è da tempo caduto in disuso, mentre in quest’ultimi decenni si sono imposti, modelli a razionalità limitata e di tipo incrementale (muddlihg through). Secondo Lindblom e Simon (1957) si è potuto osservare che il modello razionalistico, attraverso il quale viene scelta la soluzione migliore dopo aver ricercato tutte le alternative possibili, è irreale e funziona solo nella soluzione di compiti semplici. Di fatto di fronte a compiti complessi gli obiettivi sono conflittuali e difficilmente gerarchizzabili e non tutte le alternative sono conoscibili e controllabili, per cui è molto più efficace decidere in una situazione di parziale prevedibilità e dopo che si sono valutate le alternative una alla volta e man mano si è operata una scelta che in termini tattico-operativi si rivela soddisfacente. Tale evoluzione non sta a significare che debba essere svalutata la programmazione “razionale” degli obiettivi a lungo termine, in quanto di fatto ritengo che le due prospettive debbono integrarsi o alternarsi a seconda delle necessità e dei vincoli di contesto. Talora il voler decidere solo quando si è programmato tutto può portare ad un procrastinare disfunzionale alle esigenze di operatività, mentre sarebbe opportuno optare per una decisione al momento “sufficientemente buona ma non perfetta”; • l’iper-analisi è paralisi; la decisione va anche vista come un rapporto di negoziazione progressiva tra negoziatore e ambiente e di ricerca di nuove prospettive di senso. Irrigidirsi in un eccesso di razionalità può provocare impossibilità di cogliere elementi d’imprevedibilità o situazioni di disillusione conseguenti alla mancata realizzazione degli obiettivi previsti all’insegna di un eccessivo ottimismo; • la carenza di programmazione; l’eccesso di casualità è un modo per non rischiare. Agire senza prevedere nulla, affidarsi al caso, lasciarsi catapultare nell’indeterminazione e nell’ignoto, è una forma di negazione della capacità di rischiare (Nanetti, 1999). Rischiare non significa catapultarsi nell’impossibile, ma porsi nelle condizioni di raggiungere obiettivi concreti e realizzabili, evitando la tendenza a proiettarsi nell’attesa di raggiungere qualcosa di straordinario ed illusorio. La grandiosità è una forma di autoinganno al fine di sfuggire il proprio vuoto depressivo. Chi ha bisogno di raggiungere mete impossibili vuole cancellare la propria impotenza, allontanare da sé la paura del crollo della propria autostima. 171


Essere assertivi comporta un dialogare con la propria impotenza, comporta un’accettazione dei propri limiti e la ricerca di una risposta al proprio valore attraverso il raggiungimento di obiettivi concretamente realizzabili. Agire concretamente significa da un lato arrendersi “attivamente e costruttivamente” alle proprie contraddizioni e alle proprie inevitabili mancanze, e dall’altro ampliare la fiducia nelle proprie capacità e risorse. Il nuovo leader deve essere capace di accettare sfide rischiose ma non impossibili. Le azioni del leader assertivo-negoziale non sono guidate da un bisogno compulsivo né di avventura né di adattamento, ma dalla volontà di essere coerente con le proprie idee, le proprie convinzioni, le proprie passioni; il “buon leader” non cerca né il dominio né l’apparenza, ma soltanto il “mettere in gioco la propria anima”, poiché egli sa che, solo il proprio essere fedele a se stesso, la propria autenticità e il proprio entusiasmo, sono in grado di risvegliare negli altri l’antico ma mai sopito bisogno di percorrere l’utopia per ritrovare la speranza o la forza di raggiungere grandi mete. 12. Il leader è un visionario Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro – che purtroppo è privilegio di pochi – costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra; ma questa è una verità che non molti conoscono… (Primo Levi).

Il leader del cambiamento non si limita a risolvere problemi, ma costruisce nuove mappe per vedere il futuro, individua desideri irrealizzati, amplia lo spazio delle attese, nonostante i vincoli e le resistenze al cambiamento. Il leader assertivo è un visionario pragmatico e volitivo. Non è più sufficiente per il “buon leader” che agisce nell’imprevisto essere a rimorchio dell’esistente. Non basta programmare con competenza. La programmazione senza sogni, la programmazione orientata al potere e al controllo, è spesso perdita di tempo. Occorre che il leader abbracci, in relazione a specifici valori, principi e credenze, un quadro progettuale, un sogno, per il quale coinvolgere in modo motivato tutti i collaboratori. Il leader assertivo, non è autocratico, in quanto vuole che il potere sia, in relazione alle competenze di ciascuno, un potere per tutti, con l’intento di rendere i propri collaboratori partecipi del proprio sogno, delle proprie decisioni, fornendo loro coaching, feedback e schemi di comportamento che li aiuta a rafforzare la loro autostima; il leader assertivo, quindi, non impone decisioni, ma si confronta con umanità ed umiltà, sa agire in autonomia, ma senza contare autarchicamente su di sé, poiché sa chiedere, quan172


do è necessario, la collaborazione di tutti. Sapendo riconoscere propri limiti e possibilità, alla luce di una propria progettualità, cerca insieme agli altri, di raggiungere mete condivise. Non può mai mancare però al vero leader la consapevolezza che in certi momenti deve prendere decisioni difficili che necessitano una piena assunzione della propria solitudine esistenziale. In tal senso il leader assertivo pratica il coraggio ogniqualvolta decide di agire anche nei momenti in cui sarebbe più facile fermarsi. Il leader non cerca compromessi ma mediazioni; fiducioso nelle proprie capacità, è leale e responsabile; capace di dominare sentimenti impulsivi e reazioni inappropriate, sa far fronte con ottimismo a momenti difficili, sa sacrificarsi per il raggiungimento di grandi obiettivi attraverso la propria forza di volontà ed un lottare insieme, coinvolgendo e motivando i propri collaboratori, affinché ognuno possa riconoscersi nel proprio valore e nel rispetto della propria unicità e diversità. Scriveva Goethe: “Avere talento significa lavorare molto per migliorare ogni giorno. Un grande errore è di credersi più di ciò che si è e stimarsi meno di ciò che si vale”. Il leader che crede in se stesso, sa coinvolgere le persone che gli si avvicinano, sa sedurle senza manipolarle, poiché sa “con forza” riconoscersi nei valori dell’autenticità, dell’entusiasmo e dell’impegno, della passione e del metodo. La motivazione e l’entusiasmo esigono coerenza ed autenticità. Essere autentici significa trovare un accordo interiore tra emozioni, pensieri e comportamenti, non per cadere vittima dello spontaneismo, ma per perseguire un’intenzionalità che prende origine da desideri e convinzioni profondi. Il leader autentico è diretto nelle proprie manifestazioni, non cerca intrighi, non si vendica attraverso la calunnia, valuta in obiettività senza farsi condizionare da pregiudizi, maldicenze o presunte ritorsioni. L’autenticità traspare nelle parole e nel corpo. Ciò che ci spinge verso l’autenticità è il credere in se stessi e la passione in ciò che si compie. La passione non è istrionismo, felicità compulsiva, “barocca” e di facciata, ma è ardore e sicurezza, consapevolezza di essere protagonisti di propri cambiamenti, volontà ed impegno nell’essere intensamente in ciò che si fa, è credere nelle proprie idee nel tentativo di dare ad esse plasmata realtà. Se la pigrizia è dissipazione, la passione è vitalità. Con la passione il leader assertivo coinvolge i propri collaboratori in grandi progetti, valorizza le risorse migliori, crea destini umani. L’impegno e il metodo sostengono e seguono la passione. Con l’impegno il metodo, ogni promessa si trasforma in realtà. 173


Nulla può sostituire la perseveranza e l’impegno nel momento in cui si debbono superare difficoltà e raggiungere obiettivi importanti. Se il perdente dice: “è impossibile, è troppo difficile”, il vincente dice “è difficile ma è possibile”. Il metodo mi costringe a differire il piacere della gratificazione, per imparare a raggiungere “grandi” obiettivi, obiettivi lungimiranti, a lungo termine, anziché obiettivi a breve termine. Il successo è il prodotto di questa tenacia, della volontà di procedere nonostante le difficoltà e la fatica. Non si tratta ovviamente di cercare il successo a tutti i costi come affermazione sugli altri, ma di realizzare se stessi per divenire sempre più se stessi. L’idea di una leadership assertiva oltrepassa quindi la convinzione che il successo corrisponda ad un maggior potere sugli altri. Il nostro leader crede in se stesso, ma nello stesso professa l’umorismo e l’umiltà, sa mettersi ai margini del potere, non è succube di un delirio di espansione, ma cerca di raggiungere mete che per lui siano gravide di senso, non per apparire ma per essere sempre più profondamente se stesso. Ed è forse nell’umiltà che traspare la forza e la saggezza del leader. Nel Tao Tè Ching si legge: “Quando traspare attraverso le parole e le azioni che i capi non si sentono superiori a coloro che guidano, la gente s’identifica in essi e non si stanca mai di loro”. Non prendiamoci il potere, lasciamo che gli altri siano desiderosi di attribuircelo. Non lasciamoci trascinare dal fascino del potere, ma con umiltà e semplicità, valorizzando noi stessi e gli altri, conquistiamoci la fiducia di chiunque ci porge la sua attenzione e dedizione. Cosi Lao-Tzu, con straordinaria efficacia, apostrofa l’immagine e il percorso di chi sa esercitare l’arte del comando: Un leader è ottimo se la gente sa appena che esiste, meno buono se è obbedito e acclamato, pessimo se odiato. Mancate di rispetto alla gente e la gente mancherà di rispetto a voi; ma di un buon leader che parla poco, quando il suo lavoro è terminato e il traguardo raggiunto, diranno: “L’abbiamo fatto noi stessi”. Riferimenti bibliografici Attena F. (1995), Psicopatologia della carriera universitaria, R.O., Roma. Bernardini de Pace A. (2004), Calci nel cuore, Sperling & Kupfer, Milano. Giusti E., Giordani B. (2000), Il formatore di successo, Sovera, Roma. Granchi G., Gasparotto M. (2005), Teoria e pratica della leadership efficace, Sperling & Kupfer, Milano. 174


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Intangibles, processi di ricerca e innovazione di Roberto Panzarani

Possa Dio liberarci dalla visione semplice e dal sonno di Newton. William Blake

Otto delle dieci miglior università del mondo si trovano negli Stati Uniti ma gli studenti asiatici ed europei le disertano in un numero sempre crescente, attirati da atenei che nei rispettivi continenti offrono educazione a livelli molto competitivi e costi assai più bassi. Negli ultimi tempi il fronte asiatico sta minacciando fortemente il predominio statunitense. Se negli anni Novanta l’America si accorse che gli studenti asiatici una volta terminati gli studi a Stanford o Harvard tornavano in India o in Cina, ora si trova a fare i conti con il fatto che molti di loro sono diventati professionisti e docenti di razza, ingranaggi di un sistema educativo modellato su quello statunitense al fine di batterlo. Dopo essere riusciti a copiare automobili, registratori e lavapiatti, i più avanzati Paesi dell’Estremo Oriente sono in grado di offrire corsi di studio in ingegneria, medicina e letteratura molto competitivi ed accattivanti. Ma a differenza degli Stati Uniti le grandi nazioni asiatiche possono contare su un maggior numero di studenti e quindi su più consistenti profitti ed investimenti. La sfida sul terreno della cultura all’America è spinta fino a tentare di sedurre alcuni dei docenti più noti fino a varcare l’Oceano Pacifico in senso inverso, a trasferirsi a Shangai, Pechino o Seul. Alle università d’America spetta adesso studiare la strategia per difendere il proprio primato e sono in molti che scommettono che tenteranno di farlo adoperando il web, ovvero la possibilità di affidarsi ad internet per raggiungere gli studenti stranieri in casa loro. Senza obbligarli ad ottenere il visto e consentendogli di studiare nelle cattedrali del sapere a prezzi meno proibitivi. Oggi la formazione specialistica è scolastica e distante dalle reali esigenze di mercato. Il sistema formativo è incredibilmente frammentato, con competenze sovrapposte e fondi che transitano dall’Europa, dalle regioni, dalle associazioni, dal sindacato, dalle province. 176


Per recuperare l’enorme ricchezza del patrimonio dei nostri mestieri sarebbe necessario pensare a politiche di formazione diverse; da un lato più mirate a valorizzare le specificità e i talenti sul territorio; dall’altro realmente focalizzate sulle esigenze delle imprese e sul mercato internazionale. E le imprese del Made in Italy dovrebbero passare da un’innovazione caratterizzata da logiche di improvvisazione e occasionalità ad un processo più pianificato e strutturato, dove la diffusione di nuova conoscenza diventi uno stato mentale e sia allargata all’intera organizzazione. Le imprese migliori si stanno già muovendo in questa direzione: un miglior coordinamento interno (grazie alla creazione di team di innovazione interfunzionali) ed esterno (progetti di sviluppo congiunto) al fine di realizzare un processo di innovazione continua che si accompagna anche ad un miglioramento della centratura dell’offerta sui bisogni del mercato e del livello di servizio (sempre più importante per la grande distribuzione internazionale). L’Italia registra risultati deludenti in tema di innovazione industriale e, soprattutto, tecnologica. Basta pensare che mentre il 28% delle innovazioni (brevetti) prodotti dalla Finlandia – paese leader sul fronte dell’innovazione tecnologica – riguarda alte tecnologie, ovvero innovazione nei settori come software, industria farmaceutica, progettazione aerospaziale, biotecnologie ecc., appena il 13% dei brevetti italiani nasce da questi settori. Anche il numero di ricercatori e scienziati è tra i più bassi d’Europa (0,3% della forza lavoro, contro lo 1,1% della Finlandia); e mentre negli ultimi cinque anni tutti i paesi europei hanno visto crescere il numero di scienziati e ricercatori, il tasso di crescita di questa categoria in Italia è stata quasi pari a zero. Tradizionalmente politici, economisti e amministratori locali si sono per lo più occupati e preoccupati di quelle imprese che, incapaci di far fronte alla concorrenza economica dei competitori stranieri, decidono di chiudere o spostare i loro impianti produttivi altrove, mentre è stato trascurato il fenomeno delle imprese che decidono di spostare la parte più alta della loro attività, la testa pensante dell’azienda: quella che ricerca, crea, inventa, disegna il prodotto o il servizio. Eppure sono proprio questi tipi di attività creativa, unica ad alto valore innovativo, che l’Italia ha più bisogno di curare e coltivare. Tentare di abbassare i costi di produzione significa impegnarsi in una battaglia inutile. E non tanto perché è chiaramente sempre più difficile competere con i costi di alcuni paesi emergenti e in via di sviluppo, ma perché non è questa la strada che porterà l’Italia nel nuovo millennio. Non è questa la strada che le restituirà competitività in uno scenario in cui gli altri paesi percorrono già nuove vie ad altre velocità. Nonostante siano spesso proprio i talenti italiani a definire i più alti standard dell’industria creativa e del design, a livello complessivo l’Italia 177


è molto indietro nelle principali misurazioni da noi utilizzate per valutare lo stock di talenti attivi nel paese. È necessario investire in tecnologia, coltivare la creatività e valorizzare le numerosissime risorse esistenti. L’Italia ha moltissime risorse che potrebbero consentirle di competere nell’economia creativa. Le persone creative gravitano attorno a luoghi che sono ricchi di cultura e di molteplici occasioni di svago e divertimento che siano in qualche modo, unici e autentici. L’autenticità di un luogo deriva da molti aspetti della comunità: costruzioni e architettura, quartieri storici e caratteristici, una scena musicale ricca e varia. Sotto questo punto di vista, l’Italia ha un patrimonio enorme da riscoprire, utilizzare e aprire al mondo. Le nostre splendide città e anche i centri urbani più piccoli ricchi di storia, cultura artistica, ambientale ed alimentare possono divenire centri in grado di attrarre talenti creativi da tutto il mondo. Inoltre molte di queste città ospitano già da lungo tempo centri universitari che tradizionalmente attraggono giovani talenti da ogni parte d’ Italia. Città come Milano, Roma, Firenze, Napoli, Bologna e altre ancora, sono tutte potenziali candidate per divenire i prossimi centri creativi hot. Quello che queste città devono fare è da un lato riscoprire le loro radici e ciò che le rende uniche e speciali, e dall’altro aprirsi al futuro: ridare vita ai centri storici e recuperare le periferie, aprirsi a nuove culture ed influenze, e divenire i luoghi dove i giovani, i talenti e i creativi di ogni provenienza possano sentirsi stimolati ed incoraggiati. Se dovessimo riassumere i concetti legati alla tematica degli intangibles potremmo dire che la riduzione della dimensione dei chip (legge di Moore) e la miniaturizzazione della componentistica elettronica sono ormai all’ordine del giorno nell’industria dell’alta tecnologia. Ma alla base di questa rivoluzione c’è una grande idea, la cui portata non è stata ancora compresa: la materia sta diventando meno importante. Sempre più spesso osserviamo che ciò che dà valore a un prodotto non sono più soltanto le caratteristiche fisiche, come le dimensioni e il peso, bensì gli elementi intangibili che “ruotano” attorno al prodotto stesso, quali la conoscenza, le informazioni, i servizi, il software e l’intrattenimento. Ecco che quindi il valore di un’azienda può essere ricondotto a tre componenti fondamentali: gli asset fisici, varie forme di capitale finanziario ed infine gli asset intangibili, ovvero il capitale intellettuale. L’intangibilità del capitale intellettuale, non fa riferimento alla sua immaterialità, bensì al fatto che esso, a differenza di tutti gli altri asset di un’impresa non risulta facilmente traducibile in termini finanziari. Per un edificio o per i titoli di credito di un’azienda, esistono criteri standard che consentono di tradurne il valore in termini di valuta corrente. Invece le componenti intangibili di un’organizzazione, cioè quegli elementi che fanno principalmente riferimento al capitale umano: i valori, la cultura, la co178


noscenza, le competenze, lo stile, le strategie, il brand, sono grandezze non traducibili in termini monetari attraverso il riferimento a criteri standard di misurazione. Si sanno valutare dettagliatamente gli asset finanziari di un’impresa, mentre i metodi di valutazione quantitativa, in moneta o attraverso altre unità di misura, del suo capitale intellettuale sono ancora rudimentali, confusi e spesso fraintesi. Valori intangibili quali i brand, la qualità del rapporto con il cliente, la capacità del management o l’eccellenza organizzativa, non compaiono nei resoconti contabili, pur rappresentando elementi essenziali del valore di un’impresa. L’iscrizione di tali asset intangibili in un bilancio determina una duplice opportunità: da un lato conferisce maggiore trasparenza nei confronti del mercato e degli investitori, che sono messi a conoscenza di caratteristiche che possono determinare un loro investimento a medio/lungo termine, limitando ad esempio la volatilità di società neo quotate della new economy, dall’altro determinano la necessità aziendale di investire in un “Capitale Umano” in grado non solo di predire il futuro, bensì di costruirlo governando le discontinuità e creando nuove opportunità di crescita e di sviluppo individuale e di sistema. Infatti nell’attuale dinamica competitiva, caratterizzata dall’affermazione della globalizzazione dei mercati, la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda dipendono da quelle capacità distintive, rispetto alla concorrenza, che le consentono di avere una posizione di vantaggio competitivo, conservabile nel tempo. La dinamicità dei mercati richiede in maniera crescente prodotti con maggiori valori tecnologici incorporati, strutture operative altamente versatili verso l’innovazione, capacità organizzative orientate verso la formazione e la valorizzazione delle risorse umane, competenze professionali, design dei prodotti, risorse fondate su valori intangibili. Ed è proprio la componente immateriale, perché difficilmente imitabile, a differenza di quella materiale, che garantisce un maggiore differenziale competitivo, permettendo al sistema aziendale di accrescere in maniera duratura il suo valore economico e di prolungare la sua permanenza sul mercato. La relazione tra tangibile e intangibile nell’organizzazione è stata per lungo tempo ben caratterizzata ed univoca, nel senso che il primo decorava il secondo, senza mutarne la natura. Il luogo di un’organizzazione era una porzione di spazio fisico (un edificio o una sua parte) decorato di senso: gli oggetti e le macchine avevano una funzione; gli uomini e le donne avevano un ruolo; i documenti avevano un significato. In tale ottica il tangibile è semplicemente apparenza nello spazio-tempo, priva di qualunque connotato di senso. L’intangibile appare, invece, come l’arricchimento metaforico dello spazio-tempo in cui viviamo e in cui lavoriamo. Inoltre esso è ciò che trasforma, nello spazio-tempo, un 179


gruppo generico di persone in un’organizzazione, in una comunità. L’irruzione delle ICT (Information and Communication Technologies) nella vita delle organizzazioni, ha reso più flessibile la relazione tra la dimensione spazio-temporale e l’intangibile. Le ICT possono infatti essere usate per produrre una virtualizzazione del tangibile o, al contrario, per attuare una trasformazione del tangibile. Le categorie del tempo e dello spazio, cioè le due categorie ancestrali in base alle quali noi viviamo, risultano dunque modificate. La realtà virtuale, ad esempio, evoca la simulazione, l’emulazione dello spazio-tempo fisico su un supporto digitale, avendo come obiettivo quello di riprodurre ciò che è alla base del nostro percepito. Nei nuovi mondi virtuali è inoltre possibile agire e intervenire e ciò muta profondamente le relazioni umane all’interno e all’esterno dell’organizzazione: le figure professionali si trasformano, la mobilità si accelera, compaiono telelavoro, esternalizzazione e internazionalizzazione dei cicli produttivi, necessità di cost-reduction, processi di spin off. Si assiste a un forte ridimensionamento del ruolo della fabbrica come fattore di organizzazione della società e all’avvento di forme organizzative condizionate dalle reti virtuali. La vita di ogni organizzazione è quindi caratterizzata dal nuovo, delicato rapporto che si instaura tra tangibile e intangibile. La relazione creativa tra queste due dimensioni determinerà la capacità delle aziende di produrre valore. Inoltre il peso degli intangibiles prevarrà sempre più rispetto a quello dei tangibiles, determinando il passaggio da un’economia basata sull’industria e sui servizi a una fondata sulla conoscenza. Ed è per questa ragione che gli investimenti in conoscenza, in ricerca e sviluppo, in innovazione tecnologica e formazione, hanno ed avranno, per l’azienda, ritorni di entità superiore rispetto agli investimenti in beni tangibili. Accelerare il processo di unificazione istituzionale, fino a realizzare una vera unità politica è il primo passo da cui può discendere un progetto valido per il futuro e soprattutto un programma coerente di riforme economiche e sociali che possano contribuire ad un rilancio complessivo. Contro il rischio del declino bisogna fare sistema, investendo in settori strategici dalla ricerca di base alle alte tecnologie, dal potenziamento delle infrastrutture alla formazione del capitale umano, alla riorganizzazione del credito. Le persone nelle organizzazioni con le loro competenze e relazioni siano divenute l’asset strategico per generare valore. La forza motrice dell’impresa moderna è la conoscenza, che rappresenta il “vantaggio invisibile”. È sugli asset intangibili che si costruisce il vantaggio competitivo. Il valore della triangolazione ricerca, innovazione, formazione, è il fondamento da cui partire, un paradigma fatto di tre poli interdipendenti. Negli anni che hanno preceduto la grande euforia tecnologica, grazie anche ad una certa stabilità di mercato, le grandi società non avevano avvertito il 180


bisogno di praticare attività di formazione di tipo avanzato, collegata ai laboratori di ricerca ed ai centri di sperimentazione. Oggi l’attività d’aula, i corsi di addestramento, i percorsi di studio devono essere il prodotto finale di un processo che non deve mai rimanere avulso dalla catena del valore dell’ innovazione. Intangibilità significa emozione, capacità di ideazione, fantasia, una serie di elementi sicuramente importanti anche prima, ma che oggi destano particolare attenzione e devo dire anche preoccupazione. Da questa preoccupazione nasce l’attenzione per il capitale umano. Quest’ultimo è un concetto che assume un’importanza assolutamente di primo piano in questo momento anche perché l’economia di oggi ha la forma della rete, di un network che mette in connessione fra di loro anzitutto un insieme di persone, di intelligenze, di cervelli. Riferimenti bibliografici Bateson G. (1997), Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano. Florida R. (2003), L’ ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano. Low J., Cohen K. (2003), Il vantaggio invisibile. Perché sono gli asset intangibili a guidare la performance delle imprese, FrancoAngeli, Milano. Panzarani R. (a cura di) (2004), Gestione e Sviluppo del Capitale Umano, FrancoAngeli, Milano. Panzarani R., Il viaggio delle idee: per una governance dell’innovazione, in corso di pubblicazione. Panzarani R. (2000), “New Economy e Capitale Umano”, Ingenium, 27 luglio 2000. Pine J., Gilmore J. (2000), L’ economia delle esperienze. Oltre il servizio, Etas, Milano. Rifkin J. (2004), Il sogno Europeo, Mondadori, Milano. Rifkin J. (2002), La fine del lavoro, Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Mondadori, Milano. Toffler A. (1990), L’ azienda flessibile, Sperling & Kupfer, Milano.

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Gestione della conoscenza e nuovi paradigmi formativi: i risultati di un’indagine1 di Paolo Minguzzi

1. Formazione continua e gestione della conoscenza La frammentazione e la complessificazione delle modalità di organizzazione del lavoro, caratteristiche del postfordismo, hanno contribuito a ridefinire profondamente logiche e significati della formazione in azienda. Il ritorno del sapere e della conoscenza nel modo di pensare e di agire del singolo lavoratore, unito alla necessità di “attivare” tali conoscenze in quanto unico vero asset strategico (Rullani, 2004), richiede una formazione che non solo tenga ben presenti queste trasformazioni, ma sappia anche adattarsi alle caratteristiche peculiari della conoscenza, in modo da favorirne al massimo l’arricchimento, l’aggiornamento e la trasmissibilità. Questo significa che la formazione diviene tanto più efficace quanto meno è “imposta” o “introdotta” nell’impresa dall’esterno, e quanto più invece riesce a spingere il lavoratore o il collettivo ad autoattivare la conoscenza al proprio interno: si potrebbe parlare del passaggio da una formazione di tipo “esogeno” a una formazione “endogena”, che porta ciascuno ad attivarsi per far crescere e maturare il proprio sapere, secondo una logica di coerenza con gli obiettivi strategici dell’organizzazione. Ne consegue che il concetto di formazione si intreccia con quello di apprendimento: è opinione corrente tra gli studiosi che l’attività formativa non possa più risolversi nella trasmissione di saperi precostituiti, ma debba essere in grado di animare processi di apprendimento individuali e collettivi (Oliverio, 1999). Diviene quindi fondamentale trasmettere in primo luogo la capacità di apprendere e quella, di natura riflessiva, di apprendere ad apprendere (Bateson, 1976; Argyris e Schoen, 1998; Isfol, 2001). 1. Questo saggio si basa su una rielaborazione di alcune tematiche trattate nel mio volume La gestione della conoscenza nelle organizzazioni, FrancoAngeli, Milano, 2006.

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Tale passaggio sta portando l’attività di formazione a riorientare il proprio modus operandi lungo una serie di direttrici tra loro strettamente correlate (Cedefop, 1995): il riconoscimento dei saperi interni, informali e spesso taciti, riportati alla luce dopo l’esproprio taylor-fordista; il riconoscimento dei cosiddetti saperi extra-lavorativi, quali la capacità di comunicazione, di relazione, di reattività, di scelta e decisione (Rullani, 1999a); l’estensione dei saperi attraverso pratiche quali il job enrichment e la ricomposizione delle mansioni; infine, l’incentivo alla produzione di nuovi saperi attraverso l’arricchimento, l’aggiornamento e la combinazione di saperi taciti ed espliciti (Nonaka e Takeuchi, 1997). Si tratta quindi di percorsi che non solo puntano ad arricchire il patrimonio di conoscenze a livello individuale e collettivo, ma cercano anche (e soprattutto) di far introiettare strumenti e metodi per ricercare, produrre e diffondere nuove conoscenze strategiche per l’impresa (apprendimento organizzativo). Secondo Queirolo Palmas (1996), tale evoluzione nelle linee-guida dei processi formativi è riconducibile a due macro-orientamenti tra loro complementari: da un lato si cerca di progettare intenzionalmente la formazione tacita, in modo da strutturare, in una logica proattiva, risorse attitudinali e relazionali autonomamente dispiegate nel processo lavorativo; dall’altro lato, il campo classico della formazione prescrittiva, d’aula, si destruttura parzialmente, si allarga ad un bacino d’utenza più ampio e, soprattutto, si rielabora in termini cooperativi, in cui la co-produzione di saperi, norme, valori e attitudini intende affiancarsi alla semplice trasmissione di conoscenze e competenze. Perché ciò avvenga, la stessa figura del formatore è chiamata ad assumere un ruolo di animatore di processi individuali e collettivi di apprendimento, indirizzandosi su “un profilo di progettista, promotore, facilitatore dei processi di apprendimento, per costruire sul campo occasioni continue di sistematizzazione, capitalizzazione e diffusione delle competenze in costante divenire, azioni e comportamenti organizzativi che ci portano verso […] la learning organization” (Auteri, 1999, p. 165). La formazione post-fordista rappresenta un ritorno, dopo la separazione taylor-fordista tra progettazione ed esecuzione, ad una produzione di saperi che coincide con la loro messa in atto (non più, quindi, disgiunta dal contesto organizzativo): la differenza rispetto al craft system sta nell’intenzio-nalità della progettazione dei processi formativi, che nei contesti artigianali e pre-tayloristi erano invece impliciti e connaturati alla stessa attività lavorativa. La formazione esplicita, dal canto suo, non scompare, ma perde parte del proprio carattere prescrittivo e unidirezionale in favore di una dimensione collettiva, estesa ad una pluralità di figure professionali. Un approccio realmente orientato allo sviluppo e alla valorizzazione delle conoscenze, nell’accogliere e recepire questo nuovo paradigma alla base dei processi formativi, consente tuttavia anche di far luce su due ri183


schi, connaturati alle pratiche correnti di formazione in azienda, che è bene non trascurare e che andremo sinteticamente ad esporre. Il primo motivo di attenzione nasce dal fatto che, proprio in seguito al superamento del concetto di “formazione come nozione” in favore di quello di “formazione come apprendere ad apprendere”, emerge con grande forza la “nuova responsabilità dell’auto-formazione, come consapevolezza e impegno dei soggetti operanti nell’organizzazione verso la propria formazione continua” (ibidem). Ora, questo impulso verso l’autoformazione trova una prima realizzazione proprio nelle attività concrete quotidiane, ove la conoscenza viene prodotta, trasformata e scambiata attraverso pratiche sociali nelle quali tutti i lavoratori, nessuno escluso, si impegnano nel loro quotidiano operato. “La conoscenza dunque non pre-esiste in attesa di essere svelata, né esiste indipendentemente dal soggetto conoscente, bensì soggetto ed oggetto di conoscenza si definiscono (e si costruiscono) a vicenda entro le pratiche lavorative quotidiane. […] La conoscenza è dunque intrinsecamente sociale ed è mediata dalle relazioni sociali entro le pratiche della produzione, circolazione e riproduzione del sapere necessario a svolgere quel lavoro” (Gherardi, 2003, pp. 6-7). Riemerge qui con estrema rilevanza il concetto di “comunità di pratiche” (Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998; 2000), ossia dei luoghi di produzione, spesso spontanea e non formalizzata, di conoscenze pratiche e orientate all’azione, ma anche di norme, valori, culture e significati che consentono di dare all’attività lavorativa un’interpretazione comune. Ora, secondo numerosi autori, tale autoformazione che si crea nell’ambiente lavorativo, attraverso esperienze come le comunità di pratiche, può pesare a lungo termine non solo più della formazione iniziale, ma finanche più della formazione esplicita, codificata ed eterodiretta. Ebbene, secondo gli stessi autori, lo studio di tali processi è in realtà spesso rimasto ai margini del discorso sul nuovo compito della formazione, quando invece potrebbe costituire un caposaldo nella direzione di una autentica “formazione tacita progettata”. Il knowledge management insegna – o, meglio, dovrebbe insegnare – che, se davvero il management di un’impresa intende puntare sulla formazione continua, e sul lifelong learning, non deve mai dimenticarsi che la formazione comincia innanzitutto nell’attività quotidiana dell’impresa (Rullani, 1999b): di conseguenza, diviene inutile e dannoso insistere unicamente sugli aspetti formalizzati (e quindi controllabili e rendicontabili) dei percorsi formativi, mettendo in secondo piano – o addirittura pretendendo di reprimere – i percorsi spontanei, taciti ed informali di apprendimento. Se ci si rende conto che la formazione esplicita è talvolta troppo “passiva”, unidirezionale, poco motivante, incapace di “fluidificare” la dinamica delle conoscenze (anche in un’ottica non limitata al breve-medio periodo), si deve tuttavia essere pronti ad agire di conseguenza, sostenendo le comunità che producono i “saperi esperti” e 184


favorendo lo sviluppo delle comunità che tali pratiche implementano e padroneggiano (Gherardi, 2003). Questo implica l’abbandono di una separazione tra luoghi e tempi dedicati al lavoro e tempi e luoghi dell’attività formativa, in direzione di un apprendimento in azione, con una forte componente relazionale e di “rete” unita ad una maggiore personalizzazione e flessibilità dei momenti formativi. L’autoformazione (sia quella assistita da formatori e tutor, sia anche quella svolta autonomamente) può in tal modo divenire un momento chiave in cui il sapere tratto dall’esperienza viene razionalizzato, concettualizzato, socializzato e integrato con altre forme di sapere. Il secondo punto su cui riflettere fa riferimento alla dimensione cooperativa dei percorsi di formazione, in una relazione ricorsiva tra l’individuo e l’organizzazione nel suo complesso. Ci riferiamo al fatto che, in un modello culturale improntato alla condivisione quale è quello sotteso al knowledge management, e di fronte ai mutamenti sempre più incalzanti dello scenario economico, produttivo e organizzativo, diventa vieppiù pressante da un lato l’urgenza di una formazione a sua volta realmente “condivisa”, ossia rivolta – per quanto possibile – a tutto il personale; dall’altro, l’attiva-zione di politiche che rendono la formazione veramente “continua”. Spieghiamo meglio queste due puntualizzazioni. Sul fronte del bacino d’utenza, del target di individui da formare, non è un mistero che ancora oggi siano ravvisabili forti disparità nell’offerta formativa, sia tra i lavoratori più giovani e quelli più anziani, i cosiddetti senior (Zarifian, 1990), sia tra i lavoratori assunti in pianta stabile e i sempre più numerosi “atipici” (Oecd, 1999). La formazione per i senior è spesso ancora vista come un costo eccessivo, cui farebbe da contraltare un ritorno insoddisfacente in termini di produttività e redditività. D’altro canto, la già citata flessibilizzazione e dicotomizzazione del mercato del lavoro avrebbe già causato a sua volta una cesura nell’attività di formazione, prevalentemente rivolta a un nucleo stabile di lavoratori cui destinare i maggiori sforzi progettuali, mentre per i contingent workers i momenti di formazione e apprendimento si diraderebbero anziché intensificarsi2, in una logica neo-taylorista di intercambiabilità che comprime le condizioni minime di sostenibilità economica del processo formativo (Zaramella, 2002). Si tratta di una disparità di trattamento che può avere pesanti ripercussioni anche sull’altro fronte “caldo” nell’attuale dibattito sulla formazione, vale a dire fino a che punto si può davvero ragionare di “formazione continua” e di lifelong learning. In effetti, in occasione di cambiamenti orga2. Non è un mistero che in molte imprese l’attività formativa sia offerta in misura proporzionalmente assai minore (tra il 20 e il 40%) ai lavoratori “atipici” rispetto a chi ha un contratto full-time a tempo indeterminato (Oecd, 1999).

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nizzativi di grandi dimensioni, si giustificano strategie quali i prepensionamenti sostenendo che le competenze dei seniors coinvolti sono obsolete, o comunque non in linea con il nuovo assetto strutturale e le strategie future dell’impresa. Ebbene, si tratta di una motivazione che spesso tende a nascondere come l’indiziato numero uno per tale obsolescenza sia proprio il management della stessa organizzazione, il quale non ha provveduto, in situazioni ambientali più favorevoli, ad attuare politiche che consentissero un aggiornamento delle conoscenze continuo, oltre che paritario (Entreprise Formation, 2001). Se è vero che una scarsa e squilibrata attività formativa, specialmente se in periodi cruciali per l’azienda, può causare un grave decadimento quanti-qualitativo delle conoscenze, compito della formazione è prevenire tale scenario, facendo leva sulla necessità di un’attualizzazione non solo delle conoscenze in sé, ma anche di come conoscere (apprendimento organizzativo), lungo le direttrici dell’allargamento del target di riferimento (si potrebbe parlare di una formazione più “democratica”) e di una effettiva – e non solo teorica o programmatica – continuità nei percorsi formativi. Una formazione più “democratica” consentirebbe, previa certificazione delle competenze acquisite, anche a soggetti più “mobili” e “flessibili” di costruirsi un proprio portfolio di competenze che permetta loro non già di “ricominciare daccapo” ad ogni nuovo incarico, con rischi tangibili di precarizzazione ed esclusione sociale (Gallino, 2001), bensì di costruirsi un percorso autonomo di professionalizzazione e, se possibile, di carriera. Se i responsabili di alcune aziende obiettano che si rischia, così facendo, di formare persone che in futuro potrebbero mettere le proprie competenze al servizio di un’impresa concorrente, occorre rispondere che tale scenario è destinato a divenire sempre più comune (specie in assenza di adeguate politiche di motivazione e fidelizzazione in seno all’impresa) e che questo, comunque, non può e non deve pregiudicare lo sviluppo di una formazione diffusa e qualificante. Quanto alla continuità dell’apprendere, occorre ribadire che diradare la formazione a chi si prepara a lasciare – volontariamente o meno – un’orga-nizzazione, non solo è il modo migliore per creare una nuova fascia debole a rischio di precarizzazione (Regione Emilia-Romagna, 2002), ma significa anche non tener conto che i senior, con i loro anni di esperienza, di apprendimento formale ed informale, sono depositari di un sapere prezioso per l’organizzazione, un sapere che va incentivato e sfruttato, per non dovere in seguito fare i conti con situazioni di corporate amnesia: in fin dei conti, a ben vedere, gli stessi “lavoratori anziani”, gli stessi “esperti”, sono a loro volta formatori, e possono veicolare e trasmettere in modo informale il know-how maturato e accresciuto nella propria attività (Bagarini e Stacchini, 2004). Ben vengano quindi gli sforzi nella direzione di una vera e propria formazione continua: l’importante è evitare marginaliz186


zazioni e, soprattutto, essere consapevoli che l’apprendimento comincia dentro l’or-ganizzazione (Gherardi e Nicolini, 2004). Compito del formatore nel knowledge management è dunque quello di arricchire, ma anche di fluidificare e facilitare l’apprendimento, i flussi di conoscenze, il knowhow unito al know-what e al know-why, così da accelerare il processo – sia individuale sia collettivo – di acquisizione e circolazione delle conoscenze, in direzione di una “intelligenza collettiva” (Entreprise Formation, 2002) che non conosca battute d’arresto, né lasci indietro alcuno. 2. Formazione e knowledge management: i risultati di una indagine empirica Confermiamo le nostre ipotesi di fondo con la presentazione dei risultati di una ricerca, da noi condotta tramite studi di caso su un campione di nove organizzazioni (quattro imprese francesi e quattro italiane di grandi dimensioni3, più un’associazione culturale di diritto privato italiana), sul rapporto esistente tra politiche di gestione della conoscenza e attività di formazione, aggiornamento e sviluppo professionale. L’approfondimento sulle connessioni tra knowledge management e politiche per la formazione è stato di tipo bidirezionale, ossia ha puntato ad evidenziare sia fino a che punto la formazione, in quanto sviluppo dell’apprendimento organizzativo, abbia contribuito alla nascita e all’arricchimento delle conoscenze dell’impresa, sia in che modo queste ultime abbiano inciso sulla predisposizione e sulle finalità delle attività formative. Innanzitutto, va segnalato che in tutte le imprese da noi considerate è presente un’ampia e differenziata attività formativa. La formazione individuale non si limita in genere a far acquisire nuovi saperi ai dipendenti, ma prevede anche l’insegnamento di strategie per mettere in atto tali nuove conoscenze, favorendo quindi lo sviluppo di percorsi personalizzati di apprendimento (fondamentali per costituire la memoria professionale dell’individuo). Alcune imprese predispongono un piano strutturato di sviluppo di competenze, facendo leva su quella che potremmo definire una crescita professionale consapevole, non eterodiretta, ma anzi ragionata e “su 3. La scelta di grandi imprese multinazionali, che ha introdotto distorsioni nella rappresentatività del campione (in particolare per i casi italiani) è stata in un certo senso “costretta” dalla maggiore difficoltà nel reperire casi di studio (percorsi strutturati e già in corso d’opera di knowledge management) presso imprese di piccole e medie dimensioni. Del resto, sono state proprio alcune grandi imprese le prime ad accorgersi della necessità di improntare le proprie strategie di gestione e sviluppo delle risorse umane alla valorizzazione del sapere professionale, pena il rischio di gravi e costose situazioni di corporate amnesia (Davenport e Prusak, 2000; Sorge, 2000).

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misura”: un percorso che prevede il graduale sviluppo di determinati know-how e know-what, sulla base di un confronto tra quelli presenti e quelli potenziali o attesi, con momenti di autovalutazione delle prestazioni. Nella stessa direzione si muove il forte impulso che alcune imprese (forse più quelle francesi di quelle italiane) danno all’autoformazione, ossia alla capacità, da parte di ogni dipendente, di cogliere occasioni per ampliare e allargare il proprio range di conoscenze: uno stimolo che richiede una forte condivisione di valori quali la delega, la fiducia e la condivisione, ossia la propensione a non tenere per sé i frutti dell’attività di apprendimento. Inoltre, in quelle aziende più consapevoli dell’importanza strategica dei senior e della loro esperienza, si moltiplicano i momenti di formazione on the job, direttamente a contatto con luoghi e strumenti in cui le conoscenze si creano giorno dopo giorno. I dipendenti esperti divengono allora protagonisti di percorsi di affiancamento e di mentoring, differenti per grado di formalizzazione e modalità attuative, ma comunque utili per garantire la “pérennisation” di conoscenze anche tacite – oltre che in genere ben accetti dagli stessi seniors, i quali si sentono più motivati e responsabilizzati. Anche sul fronte della formazione collettiva, se pure è vero che i momenti più “tradizionali”, rappresentati dalla formazione “d’aula”, continuano a giocare un ruolo pressoché insostituibile, in alcuni casi si cerca però di rendere queste occasioni veri e propri momenti di apprendimento organizzativo, in cui all’assimilazione di concetti fanno seguito la loro interiorizzazione, problematizzazione e condivisione, attraverso un’interazio-ne sia tra i partecipanti, sia tra questi e gli stessi formatori (evitando quindi un percorso unidirezionale). In definitiva, si può dire che l’attenzione rivolta alla formazione e all’apprendimento, già esistente nelle varie imprese al momento dell’implementazione dei progetti di gestione delle conoscenze, abbia favorito l’instaurarsi di questi ultimi in un contesto “aperto” e ricettivo. In due dei nostri casi di studio, tuttavia, sono emerse lacune pregresse nelle attività di formazione che hanno, in modi differenti, condizionato la messa in opera del knowledge management: in un caso francese hanno provocato difficoltà e reticenze nell’esplicitazione delle conoscenze da parte dei dipendenti esperti, mentre in un altro (italiano) hanno in un certo senso “costretto” il progetto nella sua interezza a privilegiare le conoscenze di tipo storico, a discapito di quelle operative e correnti. Sul versante degli effetti del knowledge management su tali politiche formative, il discorso si fa più complesso, nel senso che non sempre questo approccio sembra avere inciso sul modo di “fare formazione”. Là dove ciò è avvenuto, si ha comunque l’impressione che esso sia servito soprattutto per consolidare il ruolo giocato nei processi formativi dalle componenti esplicite del sapere, piuttosto che per far “metabolizzare” ed interiorizzare le dimensioni tacite dell’apprendimento. Il management della co188


noscenza ha sicuramente giocato un ruolo di ulteriore stimolo ed incentivo, ma più per lo sviluppo di una “formazione esplicita cooperativa” che per il consolidamento di una “formazione tacita progettata”. Questo è con ogni probabilità dovuto alla più facile emersione delle componenti esplicite del sapere nel corso dei vari progetti: e la conoscenza esplicita, si sa, è più agevole da formalizzare e trasformare in pratiche, cosa che ne ha favorito del resto una amplissima diffusione e una sorta di “supremazia” nei confronti delle conoscenze tacite (Lundvall e Borras, 1999). Sembrerebbe quindi confermata la tesi di Tomassini (2003), secondo il quale, mentre si propongono con sempre maggiore frequenza nuovi e più efficaci prodotti per la diffusione delle conoscenze formalizzate, minore attenzione viene invece dedicata alle metodologie rivolte alla conoscenza tacita che sostiene la crescita professionale delle persone e lo sviluppo delle organizzazioni. Ciò non significa, si badi bene, che il knowledge management non si sia rivelato efficace per far prendere cognizione del ruolo delle conoscenze ta-cite e della pregnanza di una loro gestione ottimale: basti pensare agli sforzi compiuti da una delle imprese francesi studiate per favorire l’apprendimento on the job, in cui senior ed esperti sono divenuti a loro volta formatori4, o alla complessa ridefinizione dell’attività formativa in corso in quasi tutte le imprese (sia italiane sia francesi) esaminate, o ancora a quella sorta di “obbligo morale” alla formazione e all’autoformazione che guida i componenti della piccola associazione da noi studiata5. La nostra riflessione vuole semplicemente sottolineare l’esistenza – presente anche in molte altre imprese, e certo non direttamente imputabile al knowledge management – di un divario tra la formazione esplicita, “irrobustita” dalla necessità di mettere a frutto il know-how messo a nudo dai vari progetti, e la formazione che punta invece ad interiorizzare il know-how esplicito, trasformandolo in una sorta di “attitudine” all’apprendimento e all’aggior4. Nell’azienda in questione i dipendenti ultracinquantenni, previo audit conoscitivo, possono, sulla base delle expertises meglio padroneggiate, trasformarsi in veri e propri formatori, intraprendendo azioni di coaching e di mentoring nei confronti dei loro colleghi con minore anzianità di servizio (una percentuale molto consistente). L’obiettivo è far sì che si realizzi un vero e proprio cambiamento organizzativo, in cui il ruolo dei lavoratori maggiormente esperti, coloro che sanno “leggere” meglio l’azienda e le sue trasformazioni, sia decisamente rivalutato, in modo da conservare il sapere professionale estendendolo ai lavoratori più “giovani” attraverso percorsi strutturati di apprendimento. 5. Benché l’attività formativa rimanga affidata alla libera scelta del singolo collaboratore, la logica dell’associazione prevede che questi sia costantemente motivato a formarsi: l’attività di apprendimento è vista quindi come un elemento imprescindibile per la valorizzazione del soggetto. L’associazione incentiva tale attività attraverso percorsi di formazione collettiva, previsti per tutto lo staff (interni o esterni, senza distinzioni), che puntano, al di là dell’acquisizione di nuovo sapere, ad accrescere l’identità organizzativa e a creare un punto di vista comune su determinati aspetti.

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namento continuo. La natura in progress di alcuni progetti potrebbe tuttavia, fra qualche tempo, portare ad una revisione di tali percezioni. Si può parlare allora, nei casi in questione, di “organizzazioni che apprendono”? La risposta può essere comunque affermativa, con la sola eccezione di un’impresa italiana, il cui declino è stato in parte dovuto anche all’incapacità di offrire risposte adeguate per formare personale motivato ad arricchire, conservare e tramandare il proprio “bagaglio” di conoscenze. In tutti gli altri casi, sia pure attraverso strade tra loro anche assai diverse, le imprese del nostro campione stanno ponendo in essere uno shift di cultura e mentalità, finalizzato ad interiorizzare l’interesse all’apprendimento continuo, il diritto a formarsi a qualsiasi età e il consolidamento di competenze specifiche, senza però scadere in una iper-specializzazione che limiterebbe gli scambi di natura informativa. Questa attitudine, già acquisita in linea generale per le conoscenze esplicite, potrebbe trasformarsi in una metacompetenza per facilitare anche quei processi, come la socializzazione e l’interiorizzazione, in cui entrano in gioco le componenti tacite del sapere. Il knowledge management ha inoltre facilitato, sempre sul versante dell’apprendimento organizzativo, la formazione, se non di vere “comunità di pratiche”, quantomeno di gruppi di interesse, confronto e discussione in determinati campi del sapere (communities): per esempio, gli esperti altofornisti interpellati nel corso del progetto condotto da una delle imprese francesi, hanno vissuto un’occasione di dialogo ormai irripetibile6, che ha portato alla definizione di un vero e proprio “stato dell’arte” di questo mestiere, finalizzato allo sviluppo di un sistema esperto per la gestione degli altiforni tuttora in uso a dieci anni dalla sua introduzione. Ugualmente, i dipendenti delle due società confluite in una società di asset management italiana nata da un merger hanno sperimentato un percorso di knowledge management finalizzato proprio alla creazione di nuove ed omogenee comunità di pratiche. Gli stessi focus groups, utilizzati in più casi, hanno portato alla costituzione di proficue, sia pur temporanee, communities in cui il confronto tra saperi anche eterogenei ha spinto i partecipanti alla ricerca di un “terreno comune”, con evidenti benefici sul versante formativo. In uno dei casi francesi, i dipendenti della rete commerciale costituivano una comunità di pratica che è pervenuta ad un’ottimale condivisione e fruizione della propria expertise. L’associazione da noi studiata costituisce un caso a sé stante, in quanto l’interiorizzazione, da parte di tutti, dell’importanza vitale attribuita al modo in cui ogni tipo di know-how viene conservato e diffuso, ha creato 6. Data la sua estrema pericolosità, questa mansione è stata ormai completamente automatizzata.

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una sola grande comunità di pratiche, che coincide con l’intera organizzazio-ne7: forse è proprio questo l’unico caso, favorito in questo dalle ridotte dimensioni (appena 4 dipendenti) e dal meno pressante orientamento al profitto, in cui la formazione ha coinciso fin da subito con la piena atti-vazione di saperi taciti, di pari passo con quelli espliciti. Questo orien-tamento favorisce tra l’altro il ritorno anche in tempi brevi degli investimenti in formazione; tempi che invece si allungano nella maggior parte delle imprese, fino al caso estremo (purtroppo frequente) in cui si interrompe l’attività formativa poiché ritenuta un costo eccessivo per l’azienda, con un ritorno incerto e comunque sempre nel lungo periodo. Ma i casi da noi esaminati dimostrano che, come senza una capitalizzazione del savoir-faire un’impresa “perde la bussola” sul dove e come formare i propri dipendenti, viceversa, senza una adeguata attività formativa, rivolta a tutti e capace di intercettare i fabbisogni formativi emergenti con un approccio proattivo, la memoria dell’organizzazione si appanna, diviene obsoleta e, in ultima istanza, può generare perdite ben maggiori del costo di un progetto formativo. Riferimenti bibliografici Auteri E. (1999), Management delle risorse umane, Guerini e Associati, Milano. Bagarini A., Stacchini C. (a cura di) (2004), Attività di indagine per i lavoratori over 45, working paper, Nuova Didactica - Fondazione Aldini Valeriani, Bologna. Baroncini P. (2002), “Le politiche di gestione delle risorse umane”, L’impresa al plurale - Quaderni della partecipazione, 9, pp. 161-173. Bateson G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano. Bolognini B. (2003), Il governo delle risorse umane, Carocci, Roma. Boltanski L., Chiapello E. (1999), Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris. Boltanski L., Chiapello E. (2002), “Esclusione e sfruttamento: il ruolo della mobilità nella produzione delle disuguaglianze sociali”, in Borghi V. (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, FrancoAngeli, Milano, pp. 105-142. Butera F. (1998), “La transizione dal fordismo ad una economia basata sulle organizzazioni e sul lavoro della conoscenza”, Sociologia del Lavoro, 65, pp. 3175. Cedefop (1995), Le rôle de l’entreprise dans la production des qualifications: effets formateurs de l’organisation du travail, Rapporto di sintesi, Berlino. Cocozza A. (1995), La sfida della partecipazione, FrancoAngeli, Milano.

7. Il direttore dell’associazione da noi studiata sostiene che la formazione contribuisce a rendere l’organizzazione un “organismo olistico”, in cui il tutto supera la somma delle singole parti: “il surplus è dato dall’integrazione tra i vari saperi che la formazione mette in atto”.

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Competenze senza incubi: i National Occupational Standards di Trevor Boutall

È ormai da una generazione che il sistema di formazione professionale in Inghilterra si basa sui National Occupational Standards1. Negli anni ottanta, all’apice del potere della signora Thatcher, esistevano quattro motivi fondamentali per un cambiamento radicale dei processi di formazione professionale. Al primo posto c’era la competitività, la necessità di essere più efficienti e produttivi nei confronti dei concorrenti internazionali, sia tradizionali come Germania, Francia, Stati Uniti e Giappone che nuovi come Taiwan, India e Indonesia. Il secondo motivo era la qualità. Il pubblico inglese non accettava più prodotti e servizi di qualità scadente, che venivano allora offerti dalla British Leyland Motors (ormai estinta) e da tanti servizi pubblici; richiedeva invece prodotti di alta qualità che si trovavano nelle società automobilistiche tedesche o nelle catene di alberghi francesi. Un terzo driver era la sicurezza. Una serie di disastri sulle ferrovie, sulle piattaforme petrolifere nel mare del nord, nel sistema sanitario e nei servizi sociali – tutti dovuti in ultima analisi ad errori umani – dimostrava la necessità di formare e supervisionare tutti i lavoratori e assicurare la loro competenza professionale. Il quarto motivo era il forte cambiamento economico, da un’economia industriale basata su carbone, acciaio e petrolio ad un nuovo paradigma post-industriale che premiava la conoscenza, l’innovazione e il servizio al cliente. Rimanere impiegabili in questo nuovo mondo richiedeva, e richiede ancora oggi, flessibilità, trasparenza e un sistema di formazione lungo la vita2. È certo che il sistema dei National Occupational Standards non ha risolto tutti i problemi del Regno Unito. Ci sono ancora molti problemi di sicurezza – incidenti ferroviari, scandali nella sanità e nei servizi sociali, 1. National Occupational Standards http://www.themsc.org/standards/nos.html. 2. Council for Excellence in Management and Leadership http://www.management andleadershipcouncil.org.

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pratiche non etiche nelle banche e società assicuratrici – dovuti in parte almeno alla liberalizzazione del mercato, alla privatizzazione degli enti statali e alla pressione di produrre profitto per gli azionisti, una pressione che mette a rischio la qualità del servizio nel medio-lungo termine e sopratutto compromette la sicurezza. Sul lato positivo però, la qualità dei servizi pubblici e anche privati è migliorata parecchio, la posizione competitiva del Regno Unito sul mercato globale è rimasta intatta nonostante i progressi delle nuove economie e il tasso di disoccupazione britannica è fra i più bassi in Europa. L’impatto più notevole del nuovo sistema di formazione professionale inglese si nota in un approccio più flessibile sia da parte dei datori del lavoro che dei loro dipendenti. Il mercato – il contesto esterno – cambia in continuazione, e bisogna rispondere – o meglio prevenire – tempestivamente, cambiando gli obiettivi aziendali, i processi di lavoro e i comportamenti e rinnovando le conoscenze e le capacità di tutta la forza lavoro3. L’obiettivo del sistema dei National Occupational Standards è di rendere tutti i lavoratori a tutti i livelli competenti nello svolgere i loro ruoli e autonomi nel prendere le decisioni entro i limiti delle loro responsabilità. Questo obiettivo richiede però un’analisi rigorosa, dettagliata e condivisa per definire cos’è una performance competente in un ruolo specifico. Questa analisi funzionale normalmente viene fatta a livello settoriale – per la sanità, l’agricoltura, la finanza, la vendita al dettaglio ecc. – o per fasce professionali – per esempio, i manager, i venditori, i ragionieri, gli amministrativi. L’analisi si basa su un obiettivo chiave per il settore o la fascia professionale. L’obiettivo chiave è una frase sintetica e comprensiva che definisce il perché del settore o fascia professionale. Prendiamo l’esempio dell’analisi funzionale di Management and Leadership4. Perché abbiamo dei manager/leader? L’obiettivo chiave è to provide direction, gain commitment, facilitate change and achieve results through the efficient, effective and responsible use of resources, una frase molto ricca che esprime l’essenza del compito di un manager/leader a qualsiasi livello in qualsiasi settore operativo. Una caratteristica importante dell’obiettivo chiave è che descrive sia le attività principali di un manager/leader (indicare la direzione strategica, attrarre l’impegno degli altri, facilitare il cambiamento e raggiungere i risultati) che i vincoli che deve rispettare (attraverso l’uso delle risorse efficiente, efficace e responsabile). Descrive anche un modello di management e leadership condiviso tra i vari stakeholder (il governo inglese, i datori di lavoro, le associazioni di manager ecc.) che si basa su dei valori comuni. 3. Sector Skills Development Agency http://www.ssda.org.uk. 4. Management and Leadership Standards http://www.management-standards.org.

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L’analisi funzionale cerca di definire, a diversi livelli di dettaglio, che cosa deve succedere per raggiungere l’obiettivo chiave. Nell’esempio dell’analisi funzionale di Management and Leadership ci sono sei aree chiave – ampie aree di azione – al primo livello di analisi. Queste aree sono: • provide direction (indicare la direzione strategica); • facilitate change (facilitare il cambiamento); • achieve results (raggiungere i risultati); • work with people (lavorare insieme ad altri); • use resources (utilizzare le risorse); • manage self and personal skills (gestire se stessi e le capacità personali). La metodologia dell’analisi funzionale richiede ulteriori livelli di analisi per definire, in modo concreto, le varie attività che i manager/leader devono svolgere e le competenze necessarie per ottenere dei risultati soddisfacenti. L’area chiave Facilitate change, per esempio si divide in quattro attività: • encourage innovation (promuovere l’innovazione); • lead change (promuovere il cambiamento); • plan change (pianificare il cambiamento); • implement change (realizzare il cambiamento). Non tutti i manager/leader svolgono tutte queste attività; dipende sia dal contesto che dal livello gerarchico del manager/leader. In quasi tutti i contesti moderni, ci si aspetta che i manager/leader promuovano l’innovazione, però c’è chi promuove il cambiamento nell’organizzazione, chi lo pianifica e chi deve assicurare la sua realizzazione. In una grande azienda gerarchica, queste figure possono essere tre persone diverse; in una PMI, probabilmente tutte queste attività fanno parte delle responsabilità dell’imprenditore. L’analisi funzionale ha questi due grandi vantaggi: 1. identifica tutte le attività che devono essere svolte per raggiungere l’obiettivo chiave (tradotto in termini aziendali, la “mission” o gli “obiettivi strategici”); 2. permette una delega, chiara e trasparente, ad individui delle responsabilità e dei compiti. Nel metodico sistema inglese, tutte queste attività sono specificate precisamente in unità di National Occupational Standards. Le unità descrivono la qualità della performance richiesta da chi svolge un’attività particolare; definiscono anche le conoscenze, le capacità e le qualità personali (in termini di comportamenti) che sono necessarie per sostenere una performance competente. Nell’unità Lead change, per esempio, ci sono otto criteri di prestazione che si possono utilizzare sia per pianificare l’attività che per valutare se l’attività è stata svolta in modo competente: 1. communicate your vision of the future, the reasons for the change and associated benefits to everyone involved (comunica la tua visione del 196


futuro, i motivi del cambiamento e i benefici derivanti a tutte le persone coinvolte); 2. encourage everyone to welcome change as an opportunity (incoraggia tutti ad accettare il cambiamento e percepirlo come un’opportunità); 3. make sure the people responsible for planning and implementing change understand their responsibilities and have the necessary influence and power (assicurati che le persone responsabili per la pianificazione e la realizzazione del cambiamento comprendano le loro responsabilità e abbiano l’influenza e il potere necessari); 4. set and prioritise objectives for change (stabilisci gli obiettivi del cambiamento e il loro ordine di priorità); 5. identify strategies for achieving the vision and communicate them clearly to everyone involved (identifica delle strategie per realizzare la tua visione e comunicarle in modo chiaro a tutte le persone coinvolte); 6. support people through the change process (sostieni le persone durante il processo di cambiamento); 7. communicate progress to everyone involved and celebrate achievement (tieni informate le persone coinvolte sull’andamento del cambiamento e riconosci i successi); 8. identify and deal with obstacles to change (identifica e supera gli ostacoli al cambiamento). Questa qualità di performance è solo raggiungibile da chi possiede le necessarie conoscenze (modelli di leadership, principi e metodi di valutazione del rischio, tecniche di soluzione dei problemi ecc.), capacità (comunicazione, persuasione, delega ecc.) e qualità personali (assertività, coraggio, sensibilità nei confronti degli altri ecc.). Tutte queste conoscenze, capacità e qualità personali sono descritte in dettaglio in ogni unità dei National Occupational Standards5. Questo livello di dettaglio negli standard inglesi facilita un processo molto chiaro e trasparente di gestione delle performance. Un capo può condividere in modo chiaro con un suo collaboratore lo scopo del suo ruolo, l’ampiezza delle sue responsabilità, le attività che il collaboratore deve svolgere e la qualità delle prestazioni desiderata. Può assicurasi che il collaboratore possieda le conoscenze, le capacità e le qualità personali necessarie per raggiungere il livello di performance condiviso o disporre interventi di formazione, supervisione, coaching ecc. per colmare eventuali lacune. Gli standard rappresentano uno strumento obiettivo per valutare se la performance del collaboratore è soddisfacente, diagnosticare eventuali problemi e fornire feedback specifico per aiuta5. Bancadati dei National Occupational Standards http://www.ukstandards.co.uk.

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re il collaboratore a cambiare i suoi comportamenti e migliorare la sua performance6. Gli standard facilitano anche tutti i processi di formazione. Il repertorio delle conoscenze, capacità e qualità personali rappresenta il programma e gli obiettivi di apprendimento per preparare i nuovi inseriti alla padronanza del loro ruolo. Però, bisogna anche riconoscere che una persona che si candida per un nuovo ruolo possiede già un’esperienza di lavoro, nonché di vita, che le ha già fornito un bacino personale di conoscenze, capacità e qualità personali. Gli standard servono come strumento per fare un’analisi accurata dei punti di forza delle persone e i loro fabbisogni di apprendimento. I risultati di questo tipo di analisi dei fabbisogni permettono la costruzione di un piano personale di sviluppo focalizzato sui veri bisogni e sulle priorità individuali e privo delle materie già studiate e apprese. Questa focalizzazione rende l’individuo consapevole dell’importanza del suo sviluppo professionale e rinforza la sua motivazione all’apprendimento. Naturalmente, l’apprendimento può svolgersi attraverso varie modalità, dalla tradizionale formazione in aula, alla ricerca e lettura mirata, dalla formazione a distanza al project work e all’action learning. Gli standard servono anche per la valutazione sia dell’efficienza che dell’efficacia dell’apprendimento. Le definizioni delle conoscenze e delle capacità permettono la valutazione dell’efficienza dell’apprendimento: lo studente ha appreso questi fatti, sa utilizzare questi strumenti e tecniche, dimostra le capacità al livello richiesto? I criteri di performance degli standard permettono la valutazione dell’efficacia dell’apprendimento (il ritorno sull’investimento): il collaboratore applica le nuove conoscenze e capacità in modo tale che riesce a raggiungere i risultati e i comportamenti attesi? I National Occupational Standards hanno stimolato un nuovo mercato di formazione nel Regno Unito. Le grandi case editrici pubblicano libri di testo strutturati in linea con le unità degli standard. Corsi di apprendimento a distanza e di e-learning sono diventati modulari per rispondere meglio all’esigenza dell’individuo di avere pacchetti di formazione concisi, mirati ed efficaci. Le università e le società private di formazione usano gli standard come punto di partenza nella pianificazione e nella preparazione di nuovi corsi per il mercato del lavoro. Ci sono anche National Vocational Qualifications (NVQs)7, certificati a vari livelli che non misurano quanto uno studente ha appreso, ma valutano se un lavoratore è competente, letteralmente se svolge il suo lavoro sempre in linea con gli standard. I NVQ non prevedono corsi di formazione prescritti, ma permettono a ogni stu6. Come usare i National Occupational Standards http://www.themsc.org/services/ implementation.html. 7. National Vocational Qualifications http://www.qca.org.uk/610.html.

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dente di apprendere le sue conoscenze e capacità e sviluppare le sue competenze secondo il proprio piano personale di sviluppo. Un lavoratore certificato NVQ dovrebbe essere in grado di agire autonomamente (senza stretta supervisione), garantendo la qualità del suo lavoro e la sicurezza delle sue azioni. Dovrebbe anche assumersi la responsabilità di aggiornarsi continuamente ed essere proattivo nei confronti delle contingenze e dei cambiamenti. È da più di dieci anni che i ministeri, le aziende, gli enti pubblici, le associazioni professionali e di categoria e le scuole in Italia stanno studiando il sistema inglese senza, però, risultati diffusi finora, forse perché spaventati dell’enormità dell’impresa. Le unità capitalizzabili (UC)8 rappresentano un tentativo da sviluppare un sistema simile in Italia; le UC, però, si basano su quello che lo studente ha appreso, non su quello che un lavoratore può fare – una differenza critica. Sono pochi i casi pionieristici italiani sull’uso dell’approccio National Occupational Standards, ma questi pochi casi possono già evidenziare dei benefici significativi. SCOA9, School of Coaching, è nata a Milano nel 2002 con l’ambizione di formare persone che possiedono già un’ampia esperienza in azienda o nella formazione per esercitare la professione di executive coach. SCOA offre un corso di Master in Executive Coaching con la durata di due anni, il primo anno in aula per imparare i principi e le tecniche di coaching e il secondo anno di attività pratica supervisionata per applicare le conoscenze e le capacità acquisite in aula e raggiungere il richiesto livello di competenza. In tal modo SCOA è anche in grado di decidere se fornire ai partecipanti la Certificazione dell’effettivo possesso di tutte le competenze stabilite. Per dare una solida struttura ai contenuti del corso e garantire la qualità dei suoi diplomati, SCOA ha deciso di adottare la metodologia dei National Occupational Standards. Quella dell’Executive coaching è una nuova professione, non solo in Italia ma anche nel mondo, e quindi era molto importante definire chiaramente l’obiettivo chiave e le attività dell’executive coach. Dopo una ricerca approfondita delle migliori pratiche internazionali e un’attenta riflessione sui valori SCOA, il comitato scientifico ha stabilito che l’obiettivo chiave era di aiutare i protagonisti aziendali o i propri collaboratori in una relazione one-to-one a focalizzare i propri obiettivi e le proprie risorse in vista delle opportunità e richieste del contesto organizzativo e sviluppare le proprie competenze e le strategie di comportamento per massimizzarne l’efficacia. Con l’analisi funzionale so8. Unità Capitalizzabili http://www.isfol.it/BASIS/web/prod/document/DDD/new metodo.htm. 9. School of Coaching http://www.schoolofcoaching.it.

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no state definite tre aree chiave: A Gestire se stesso; B Gestire le relazioni connesse con il lavoro di Executive Coaching; C Facilitare lo sviluppo delle competenze e strategie di comportamento del cliente. Alla fine dell’analisi sono state specificate sette attività: A1 Gestire e sviluppare le tue risorse di coach. B1 Gestire le relazioni con i committenti. B2 Stabilire, sviluppare e concludere i rapporti con i clienti. C1 Aiutare il cliente a identificare i propri valori, obiettivi e risorse rispetto alle opportunità e richieste dell’ambiente di lavoro. C2 Aiutare il cliente a decidere le proprie priorità di sviluppo e a progettare un percorso. C3 Aiutare il cliente a sviluppare le proprie risorse e strategie di comportamento. C4 Aiutare il cliente a verificare i risultati del percorso di sviluppo e cambiamento. Seguendo la metodologia dei National Occupational Standards, per ogni attività è stato elaborato un elenco di criteri di prestazioni per valutare se l’attività fosse stata svolta in modo competente e un repertorio di conoscenze, capacità e qualità personali essenziali per sostenere una performance competente. Questo repertorio di conoscenze, capacità e qualità personali permetteva una valida definizione dei contenuti del corso di formazione del primo anno del Master in Executive Coaching. All’inizio del corso, gli studenti si sottopongono ad un assessment centre per valutare i loro punti di forza e i loro fabbisogni di apprendimento. Venendo da esperienze e contesti diversi, ogni studente ha un profilo unico; ha delle esperienze utilissime che può condividere con i suoi compagni durante il corso e ha delle lacune da colmare, con il supporto dei docenti SCOA e anche degli altri partecipanti. Mentre ogni partecipante ha il proprio piano di sviluppo, tutti percorrono il viaggio di apprendimento insieme, imparando dai successi, e soprattutto dagli insuccessi propri e dei compagni, guidati in tutti i momenti dai docenti. Gli Standard dell’Executive Coach rappresentano uno strumento di riflessione da utilizzare in qualsiasi momento durante il corso e il metro con cui misurare i progressi dei partecipanti. Alla fine del primo anno, questi svolgono un’autovalutazione, in cui giudicano dove hanno già raggiunto il livello di performance richiesto e dove devono concentrarsi durante l’anno seguente. Vengono sottoposti ad una prova realistica in cui conducono una sessione di coaching con un compagno e ricevono dei feedback dagli altri studenti, dai docenti e da un valutatore esterno. Questi feedback li aiutano a tarare le loro autovalutazioni e definire meglio i loro piani di sviluppo per il secondo anno. Nel secondo anno praticano la professione di executive coach con clienti veri e portano le loro esperienze al200


le sessioni periodiche di supervisione per discuterle, sempre usando gli standard come punto di riferimento. Alla fine del secondo anno affrontano una seconda prova realistica, ma questa volta con un cliente vero; questo è il momento decisivo in cui i docenti e il valutatore esterno decidono se lo studente ha raggiunto il livello di performance richiesto dagli standard o se deve fare ancora pratica supervisionata. Per SCOA, quindi, gli standard forniscono la struttura del corso, gli strumenti di riflessione e valutazione e garantiscono che i diplomati SCOA siano davvero professionisti competenti. Un’altra realtà italiana con un paio di anni di esperienza con la metodologia dei National Occcupational Standards è Confcommercio10, la confederazione generale italiana del commercio, del turismo, dei servizi delle professioni e delle PMI. Con più di duecento associazioni provinciali e di categoria confederate, la sfida è di condividere una visione, stabilire un linguaggio comune, imparare dagli altri e soprattutto rendere le migliori pratiche e i fattori di successo patrimonio di tutti nel sistema. La creazione di una mappa funzionale e di un repertorio di unità di competenze ha facilitato questa condivisione di visione e linguaggio e, dopo un test pilota con un numero limitato di Associazioni dei Commercianti (ASCOM) provinciali, il patrimonio di know-how tacito – finora chiuso a chiave dentro le teste dei direttori, dirigenti e quadri con una certa esperienza – diventa esplicito, al servizio di tutti. L’obiettivo chiave delle strutture del sistema Confcommercio è di aiutare gli associati a raggiungere i loro obiettivi, tutelandone e rappresentandone gli interessi e fornendo servizi qualitativamente e quantitativamente adeguati alle loro esigenze. Quattro sono le aree chiave: a) assistere gli organi politici nella definizione e nella realizzazione degli obiettivi strategici; b) acquisire e mantenere soci e clienti e fornire loro servizi; c) tutelare gli interessi dei settori rappresentati; d) gestire i processi e le risorse per il funzionamento della struttura. Sono state identificate più di 50 attività nel sistema complesso di Confcommercio, ognuna delle quali è stata elaborata con criteri di performance, conoscenze, capacità e qualità personali, secondo la metodologia inglese, ma rispettando le esigenze del contesto italiano. Ci sono due progetti per l’applicazione degli standard Confcommercio: la Guida dei Direttori e il Bilancio delle Competenze. La Guida dei Direttori è un manuale di supporto sia allo sviluppo professionale dei direttori delle associazioni che alla pianificazione delle attività e alla risoluzione dei problemi quotidiani. Presentata in un raccoglito10. Confcommercio http://www.confcommercio.it/home.

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re, la Guida contiene gli standard pertinenti ai direttori e una serie di strumenti per la valutazione, prioritizzazione e pianificazione degli interventi di formazione/sviluppo professionale. Confcommercio ha programmato una serie di workshop regionali per introdurre la Guida e il suo corretto uso. Il primo esercizio del workshop è la creazione del cosiddetto profilo di ruolo ovvero l’insieme delle unità pertinenti al ruolo del singolo direttore. Mentre ci sono delle unità “essenziali” per qualsiasi direttore, ci sono altre unità che sono “opzionali”. Il profilo di ruolo di un direttore di un ASCOM di una piccola provincia sarà molto diverso dal profilo di ruolo di un direttore in una grossa città o dal profilo di ruolo di un direttore di un sindacato nazionale. Questo esercizio facilita la consapevolezza degli aspetti comuni dei ruoli e di quanto i ruoli sono diversi, richiedendo una base di competenze ma valori comuni e anche una diversità significativa. I direttori danno priorità alle unità secondo la loro importanza per il ruolo e completano un’autovalutazione delle loro conoscenze, capacità e competenze per individuare i fabbisogni di formazione. In partnership con il Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT), Confcommercio offre anche un programma di formazione che risponde ai fabbisogni più sentiti dai direttori. I direttori sono anche incoraggiati a partecipare ad un percorso di Action Learning dove affrontano i loro problemi veri e usano gli standard per pianificare e attuare le risposte, imparando sia dagli insuccessi che dai successi. Il Bilancio delle Competenze è un progetto che estende l’uso delle unità di competenza a tutti i direttori, dirigenti e quadri del sistema Confcommercio. Utilizzando il software inglese Performer – creato appositamente per lo sviluppo e la gestione delle competenze – i direttori, dirigenti e quadri possono accedere al loro e-portfolio via Internet in qualsiasi momento. Attraverso un questionario preliminare definiscono il loro profilo di ruolo, scegliendo le unità coperte dal loro ruolo. In seguito ad un semplice processo per dare priorità alle unità, utilizzano altri questionari per valutare la loro performance nelle unità prioritarie e il livello delle loro conoscenze, capacità e qualità personali. Sempre attraverso il software in rete, possono chiedere feedback sulle loro performance ai loro capi, colleghi, collaboratori e clienti, e fare un confronto tra la propria percezione e le percezioni di terzi. Individuando così le criticità, aggiungono i fabbisogni di apprendimento al loro piano personale di sviluppo on-line e cercano nella banca dati delle risorse per l’apprendimento, materiali rilevanti, corsi di e-learning o workshop mirati, preparati dalla Confederazione o da altri enti di formazione professionale. Il Bilancio delle Competenze è un processo ciclico e continuo; dopo la formazione, gli utenti tornano ai loro e-portfolio per effettuare un’ulteriore valutazione ai fini di verificare se sono riusciti a colmare le lacune di conoscenze e capacità (l’efficienza dell’apprendimento) e quelle di performance (l’efficacia) e quindi pia202


nificare il loro sviluppo professionale per il periodo successivo. Ancora in fase sperimentale, il Bilancio delle Competenze si dimostra utile per chiarire i ruoli dei direttori, dirigenti e quadri, per identificare dei fabbisogni comuni e per preparare interventi formativi mirati alle criticità identificate. La Guida Virtuale, uno strumento incorporato nel software Performer, permette anche l’uso degli standard in qualsiasi momento per affrontare i problemi quotidiani di chi lavora nel sistema Confcommercio, seguendo le migliori pratiche. Un terzo caso italiano dell’uso degli standard, sempre in fase sperimentale, è di una banca in nord Italia11. Come tante banche, la sfida più significativa per il direttore delle risorse umane è di identificare e preparare persone per coprire il ruolo di Capo Filiale. La metodologia dell’analisi delle funzioni ha permesso alla banca di chiarire le responsabilità di questa figura, stabilire i criteri che distinguono una performance soddisfacente e definire i requisiti in termini di know-how, skill e comportamenti. Il profilo del capo filiale facilita l’individuazione di persone con la potenzialità di coprire questo ruolo. I potenziali capi filiale sono formati attraverso tre giorni di workshop per conoscere la cassetta degli attrezzi che devono applicare nel loro nuovo ruolo e due giorni di development centre per riconoscere gli skill e i comportamenti posseduti e identificare quelli da sviluppare durante un periodo preparatorio di circa tre mesi. Workshop mirati e coaching individuale sono gli strumenti utilizzati per sviluppare questi skill e comportamenti e per sperimentare l’applicazione degli attrezzi specifici della banca. I criteri di prestazione indicano chiaramente ai neo capi filiale che cosa ci si aspetta da loro, e, in futuro, diventeranno uno degli strumenti con cui il capo area può monitorare e valutare le performance dei suoi capi filiale. L’interesse negli standard inglesi da parte delle società ed enti pubblici italiani sta aumentando rapidamente. Uno dei comuni più grandi di Italia sta valutando il sistema per gestire la formazione e lo sviluppo professionale dei suoi oltre 15.000 dipendenti. Una società assicuratrice vuole utilizzare degli standard per formare i suoi 3.000 agenti e assicurasi che abbiano un comportamento in linea con le procedure aziendali e i requisiti di Basilea 2. Un’azienda sanitaria propone l’uso degli standard per formare i primari e i capi sala e supportarli nel cambiamento da un ruolo strettamente tecnico ad uno manageriale. Un nuovo movimento democratico sta sperimentando l’approccio inglese per aiutare i propri giovani a sviluppare le capacità di comunicazione, persuasione, negoziazione, lobby e lavoro di squadra. Due progetti europei di sviluppo territoriale, uno in Calabria e l’altro in Campania, stanno già utilizzando i principi degli standard per 11. EXEO Consulting http://www.exeoconsulting.com.

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sviluppare le competenze di project manager, learning facilitator e business adviser12. Nei prossimi anni ci si può aspettare un incremento significativo nell’uso di processi di gestione e sviluppo delle risorse umane basati sul sistema National Occupational Standards inglesi, naturalmente adattati al contesto locale. Il pregio del sistema inglese è che è molto strutturato, dettagliato e mirato al raggiungimento degli obiettivi. Nel passato il livello di dettaglio era un ostacolo all’uso del sistema; si rischiava di annegare nel volume dei dati prodotti. La tecnologia informatica mitiga questo rischio e permette ai responsabili delle risorse umane e ai formatori di domare questi dati, utilizzandoli per una migliore gestione dell’impresa. Un’azienda che ha fatto accuratamente la sua analisi funzionale e che sviluppa continuamente le sue risorse per acquisire le competenze richieste si trova in una posizione competitiva veramente forte. La qualità e la sicurezza sono garantite. Il responsabile delle risorse umane può dormire tranquillamente di notte.

12. The Management Standards Consultancy http://www.themsc.org.

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Oltre la formazione apparente: dalle comunità di apprendimento alle comunità di pratica di Lauro Mattalucci e Elena Sarati

1. La “storia” (in breve) del concetto di Comunità di Pratica L’attenzione alle di Comunità di Pratica (CdP) fa il suo ingresso nel campo degli studi organizzativi a partire dalle osservazioni, nel 1980, sul comportamento dei dipendenti della Xerox Corporation1. A seguito di tali studi, Brown e Gray (1995) definiscono i tratti salienti delle CdP, già distinti da team operazionali o task force: [sono] piccoli gruppi di persone che lavorano insieme per un certo tempo… svolgono la medesima funzione… e collaborano allo sviluppo di un lavoro comune. Operano alla pari e li lega la percezione condivisa che ciascuno ha necessità di sapere quello che conoscono gli altri.

La novità da un punto di vista organizzativo sta proprio nell’accento sulla comprensione della “pratica del lavoro” (“ciò che viene concretamente fatto nell’eseguire un dato lavoro”) che si deve integrare alla mera conoscenza formale dei processi di lavoro (Brown, Duguid, 2000). Da un punto di vista sociologico, il concetto di CdP si colloca nel filone che riconosce all’apprendimento una natura attiva, esperienziale e soprattutto una dimensione sociale: l’apprendimento è un’attività che si svolge in comune e coinvolge la costruzione sociale della conoscenza; apprendimento e appartenenza ad una “comunità basata sulla pratica” risultano in tal modo indissolubilmente connessi.

1. Si tratta di studi effettuati dall’Institute for Research on Learning (IRL) in collaborazione con lo Xerox Palo Alto Research Center (PARC), orientati a rilevare le modalità effettive con cui i dipendenti della Xerox svolgevano il proprio lavoro. Per una più esaustiva trattazione si veda Orr (1990, 1996).

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L’impegno in una pratica sociale – afferma suggestivamente Wenger (1996) – è il processo fondamentale attraverso il quale noi apprendiamo e in tal modo diveniamo chi siamo2.

La fortuna del concetto – in cui sono legati evocativamente tra loro due termini, la “comunità e la “pratica”, che la nostra cultura connota in modo positivo – è stata immediata; la sua diffusione si è ulteriormente accentuata da quando Wenger ha esplicitamente collegato il tema delle CdP con quello delle politiche aziendali di Knowledge Management (K.M.). Parallelamente all’ampia diffusione del termine, si è palesata l’esigenza di chiarificazione del concetto che, per il fatto di potersi riferire a realtà sociali molto diverse tra loro appare, per certi versi, prigioniero di una debole capacità denotativa. La connotazione concettuale che oggi viene più frequentemente utilizzata è quella proposta da Wenger (Wenger, 2004): Communities of practice are groups of people who share a passion for something that they know how to do, and who interact regularly in order to learn how to do it better.

Essa chiama in causa tre componenti costitutive, il “dominio”, la “comunità”, la “pratica” (Wenger, 2004).

Dominio. L’area di conoscenza che tiene assieme la comunità, gli conferisce identità e definisce i temi chiave che i membri debbono sviluppare. Una CdP non è solo un network personale; essa riguarda un contenuto. La sua identità non è definita solo da un compito (task), come nel caso di un team, ma da un’area di conoscenza che deve essere esplorata e sviluppata. Comunità. Riguarda il gruppo di persone per le quali il dominio è rilevante, la qualità delle relazioni tra i membri e la definizione dei confini tra dentro e fuori. Una CdP non è solo un sito web o una libreria; essa coinvolge “persone che interagiscono e apprendono insieme, sviluppando un senso di appartenenza e mutuo impegno” che le rendono capaci di affrontare i problemi e di condividere le conoscenze. Pratica. Il corpo di conoscenze, metodi, strumenti, storie, cose, documenti che i membri condividono e sviluppano assieme. Una CdP non è solo una comunità di interesse. Essa raggruppa lavoratori professionali (practitioners) che sono coinvolti nel “fare” qualcosa. In questo senso il termine “pratica” 2. Wenger sottolinea sin dai primi studi (Lave, Wenger, 1991, dove per la prima volta viene usato il termine CdP) l’importanza del contesto d’azione e la dimensione sociale della conoscenza (poi approfondita in Wenger, 1998a). Si veda su questo aspetto anche Brown, Duguid (1991).

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fa riferimento non solo a un prodotto collettivo, ma anche a modalità definite socialmente di “fare”, a uno stile di pensiero e di comportamento, a valori comuni3. Con il tempo i practitioner accumulano una conoscenza pratica nel loro dominio, che fa la differenza nella loro abilità ad agire come individui o come collettività.

Nonostante la preoccupazione di differenziare le CdP da altri tipi di gruppi formalmente definiti all’interno delle aziende (project team, task force, ecc.) o spontaneamente cresciuti (network informali legati da un comune interesse), il concetto continua pur sempre a poter essere applicato ad un ampio spettro di situazioni socio organizzative (dalle corporazioni medievali alle attuali associazioni professionali; dai gruppi operai nelle catene di montaggio ai progettisti di software che lavorano interagendo in rete, ecc.)4. Si deve ancora sottolineare, come punto focale della storia del concetto, il passaggio da una dimensione descrittiva, nella quale il termine serve a dar conto del funzionamento reale delle organizzazioni, ad una dimensione “prestazionale” nella quale le CdP sono prese in esame per migliorare l’organizzazione. È avvenuta la stessa cosa con il concetto di “cultura organizzativa”. Il testo di Wenger, Mc Dermott, Snyder Cultivating Communities of Practice (2002) costituisce forse il maggior contributo alla sistematizzazione della dimensione prestazionale: le CdP da coltivare diventano il cardine della politica aziendale di K.M.5. L’attenzione si sposta dunque dalle CdP che si auto organizzano e crescono al di fuori delle strutture formali di una azienda alle comunità che sono “sponsorizzate” (nutrite e coltivate) dall’organizzazione perché ci si attende da esse tangibili risultati in termini di sviluppo di know how spendibile per migliorare le performance aziendali. 2. Le riserve critiche rispetto al passaggio dalla dimensione descrittiva a quella prestazionale La riserva di fondo6 è data dalla convinzione che le CdP abbiano bisogno di auto-determinarsi, che siano parte dell’“organizzazione reale” e 3. Su questo aspetto si veda Wenger, Mc Dermott, Snyder, 2002, pp. 39. 4. Si rimanda a questo proposito alle osservazioni di Gourlay (1999). 5. La dimensione prestazionale arriva ad assume una connotazione quasi di tipo ingegneristico in Wenger (2004), ove si suggerisce un percorso per collegare la strategia aziendale con le politiche di K.M. 6. Che coltivare le comunità di pratica sia un “paradosso manageriale”, è lo stesso Wenger (Wenger, Snyder, 2001a, pp. 3-4) ad ammetterlo, quando afferma “The organic, spon-

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non di quella formale7, e che a voler loro riconoscere un ruolo importante nella strategia aziendale si finisca inevitabilmente per snaturarle, riportandole alla logica imperante del rispetto delle responsabilità formali e dei risultati di breve termine. Le ragioni di scarto tra organizzazione formale ed organizzazione reale sono state spiegate chiamando in causa il timore – da parte del gruppo di management di una impresa – di perdita di controllo sulla organizzazione, un timore che fa premio sulla constatazione di come il “sapere pratico” (Vino, 2001) depositato nei microsistemi sociali di cui è costellata l’organizzazione reale possa costituire una risorsa preziosa per migliorare le performance organizzative. Il prevalere nelle prassi manageriali di ottiche di breve termine amplifica tale discrasia8. Si pone così sul banco degli imputati, nell’ambito delle riflessioni critiche sulle prassi manageriali, la tradizionale “filosofia di gestione” delle organizzazioni che – a dispetto delle dichiarazioni di facciata sull’importanza del “capitale umano” – sembra assai poco attenta ai temi del K.M.9. Sul versante opposto, di chi pare orientato a difendere i capisaldi di una diffusa cultura manageriale che pretende certezze organizzative, si mette in dubbio – anche avvalendosi di case history – che l’arte di “coltivare le CdP” possa portare – stante la “natura capricciosa” di tali comunità – a risultati certi che siano veramente significativi ai fini del business (Kimble, Hildreth, 2004). Le difficoltà legate alla scarsa propensione manageriale a distaccarsi dai paradigmi gestionali dominanti ovvero alla possibilità che le CdP imbocchino strade che portano a logiche difensive e particolaristiche, sono ampiamente prese in esame da Wenger, Mc Dermott, Snyder (2002). In tal taneous, and informal nature of communities of practice makes them resistent to supervision and interference”, e aggiunge, a proposito di quello che definisce appunto “a mangerial paradox”: “Although communities of practice are fundamentally informal and self-organizing, they benefits from cultivation” (p. 10). Altri autori si mostrano più scettici: Stewart (1997, p. 174) sostiene che la gestione delle CdP equivarrebbe ad ucciderle (“Indeed, managing [them] call kill them”), mentre Stamps (1997, p. 39) più decisamente sostiene: “… communities of practice cannot be created out of the blue by management fiat”. 7. La distinzione tra organizzazione formale, informale (la quale si determina attorno finalità “difensive” e particolaristiche) e reale (che si basa su forme di “cooperazione autoregolata”) è stata introdotta ben prima dell’avvio della riflessioni sulle CdP. Ricordiamo in questa sede solo che essa è presente – con riferimento alle aziende industriali – in numerosi scritti di Butera (ad es. 1977, pp. 51-53; 1979). 8. Si veda su questo ad es. Wilson (2002). 9. Negli approcci critici al tema dei modelli di management, viene in fondo riproposta – spostandola nei contesti aziendali – la contraddizione marxiana tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, per argomentare come si sacrifichino spesso, sull’altare dell’ordine burocratico e delle logiche degli status, le potenzialità di valorizzazione del sapere che nasce dalla prassi lavorativa.

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modo si pone il management aziendale di fronte al problema del cambiamento culturale insito nel voler fondare le politiche di K.M. sullo sviluppo delle CdP. Il tema della legittimazione, o meglio del “riconoscimento reciproco” – tra la comunità ed il management – diventa dunque altrettanto rilevante dei concetti di dominio/comunità/pratica per descrivere la natura di una CdP. Pur non volendo minimizzare i problemi di compatibilità tra la cultura manageriale dominante e l’approccio al K.M. basato sullo sviluppo delle CdP (Mattalucci, 2003) – ed evitando pertanto di aderire alle suggestioni di approcci consulenziali che offrono guide operative sull’arte di coltivare le CdP senza porsi il problema della cultura aziendale esistente all’interno di una data azienda10 – va detto che la letteratura sullo sviluppo delle CdP ci offre oggi numerosi casi di successo11. L’arte di coltivare le CdP può ormai riferirsi ad un sapere pratico che si alimenta con il crescere delle aziende che accettano di confrontarsi con tale sfida12. Per quanto tale arte possa applicarsi senza necessariamente chiamare in causa le tecnologie di rete, è evidente che esse diventano un decisivo fattore abilitante; quando poi la comunità non condivida lo stesso luogo di lavoro, la rete diventa una conditio sine qua non. Possiamo allora sforzarci di comprendere quali piattaforme di workgroup o di K.M. posseggano le funzionalità più utili per facilitare la crescita delle CdP (Wenger, 2001b). Diventano centrali, da questo punto di vista, i temi dell’efficacia del lavoro collaborativo e della costruzione di valori condivisi, di identità e di impegno comune attraverso le dinamiche psico-sociali che si svolgono in rete. Ci si interroga, in altri termini, sul tema dell’“on line community building”. 10. Un esempio di tali guide è reperibile al sito http://www.educause.edu/ir/library/ pdf/NLI0531.pdf. 11. Tra le altre, la Xerox (Brown, Gray, 1995) decise di sostenere i ruoli tecnici rafforzando i legami interni alla comunità dei tecnici attraverso una serie di supporti. In particolare il progetto “Eureka” mirava a creare una base dati di utili conoscenze che venivano fatte circolare ad ampio raggio, superando le ristrette cerchie di gruppi locali: il DB attingeva direttamente alle intuizioni dei tecnici e alle loro idee circa i propri bisogni. Si pensa che lo strumento abbia fatto risparmiare all’impresa fino a 100 milioni di dollari all’anno sui costi di assistenza, e sia stato un modo per dare valore alle conoscenze dei tecnici e alle modalità attraverso le quali venivano sviluppate. Si veda anche sull’esperienza Xerox e la sua evoluzione Storck, Hill (2000), in cui gli autori descrivono una “CdP strategica” costituita da IT managers Xerox. Per una rassegna di casi aziendali in cui si sono sviluppate CdP con esiti diversi in termini di contributi alle performance aziendali rimandiamo, tra gli altri, a Lesser, Storck (2001). 12. Un approccio più “soft”, attento alle comunità già esistenti e basate sull’analisi dei reali bisogni e interessi dei partecipanti, è quello di Denning (2000) che, come Wenger, si sforza comunque di individuare le azioni utili a sostenere il “lancio” di una CdP.

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3. Lo scarso spazio riservato alla formazione nell’arte di coltivare le CdP Il tema dell’apprendimento, com’è noto, è strettamente legato alle caratteristiche delle CdP (Wenger, 1998a, 2000)13, dal momento che una CDP costruisce la propria identità su un percorso di apprendimento collaborativo fondato sulla co-generazione di significati (Zucchermaglio, 2000, 2005). Tuttavia, nell’ambito delle strategie di community building che Wenger e altri autori suggeriscono, non sembra avere una rilevanza così centrale la formazione come progetto, formalmente definito nell’ambito di una organizzazione14. L’impressione che si ricava è che il riconoscimento alle CdP della natura di “sistemi sociali di apprendimento” porti a guardare con sospetto i progetti formativi messi in atto dalle aziende, quasi che essi dovessero necessariamente legarsi a logiche di intervento direttive, in contrasto con le strade attraverso le quali le comunità elaborano il loro sapere pratico e con le modalità negoziali mediante le quali si debbono coltivare le CdP. Cercando di chiarire come le diverse funzioni aziendali possono contribuire allo sviluppo delle CdP, Wenger (1998b) afferma: Training departments must move the focus from training initiatives that extract knowledge out of practice to learning initiatives that leverage the learning potential inherent in practice.

Orbene, il paradigma formativo dell’action learning (Revans, 1982) muove proprio dal riconoscimento che l’apprendimento si basa sulla soluzione di problemi reali ed avviene attraverso attività di mutual questioning tra le persone coinvolte nella soluzione dei problemi; esso sembra pertanto massimamente idoneo a sviluppare l’apprendimento potenziale inerente alla pratica. Tuttavia è significativo il fatto che in Cultivating Communities of Practice (Wenger, Mc Dermott, Snyder, 2002) tale paradigma non venga neppur menzionato. Si può forse intravedere in ciò sorta di idiosincrasia per qualsiasi percorso di apprendimento formalmente organizzato. Ancor più significativamente Brown e Duguid (1991, pp. 51), parlando di come promuovere l’apprendimento nelle organizzazioni, affermano che: 13. Wenger (1998a) riassume in quattro punti le caratteristiche che fondano l’apprendimento in una CdP: l’apprendimento è un fatto sociale: si apprende all’interno di una trama di relazioni sociali; l’apprendimento si struttura rispetto ad obiettivi che hanno un valore per il singolo ed è legato ad un contesto di azione; l’apprendimento dipende dall’impegno e dal coinvolgimento del singolo in pratiche che caratterizzano l’identità della comunità; l’apprendimento è legato alla capacità di produrre significati attraverso l’esperienza del “fare”. 14. In Wenger (2002, pp. 210-211) la formazione è vista come un utile strumento per diffondere la cultura delle CDP nelle organizzazioni e per sostenere le competenze manageriali del coordinatore di una CdP, ma non sembra avere un ruolo chiave né sulla generazione di domini né sul processo di costruzione della comunità.

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[…] The ability of people to learn in situ suggests that, as a fundamental principle for supporting learning, attempts to strip away context should be examined with caution. […] Learning is fostered by fostering access to and membership of the target community-of-practice, not explicating abstractions of individual practice.

Se, partendo da un questo punto di vista, l’attenzione per il paradigma dell’action learning risulta limitato, non sorprende che nessun spazio venga riservato a modalità formative di tipo trasmissivo. La ormai imperante contrapposizione tra apprendimento come trasferimento o come partecipazione sembra impedire il riconoscimento di una possibile complementarietà tra i due paradigmi15. 4. Il concetto di Comunità di Pratica nella prassi formativa Stanti le cose dette sullo scarso rilievo che le attività formative ricevono nell’arte di coltivare le CdP, sembrerebbe che il riferimento a tali comunità sia destinato a rimanere sostanzialmente estraneo alla pratica professionale dei formatori aziendali; ma non è così. Nel mondo della formazione supportata dalle TIC, si è assistito negli ultimi anni ad un improvviso e crescente interesse per il concetto di CdP, da quando si è ritenuto di dover attivare, nell’ambito delle politiche aziendali di e-learning, progetti basati sulla così detta blended learning strategy16. Com’è noto, all’illusione di una formazione in rete incentrata sulla fruizione guidata di learning object, si è andata sostituendo l’idea di un apprendimento fondato su una pluralità di “setting formativi” – in presenza ed in rete – secondo una modalità che, sposando l’idea dell’apprendimento come “costruzione sociale”, assegna un ruolo forte al lavoro cooperativo svolto in rete dai learner. Una siffatta impostazione è vista da molti come il ponte che collega in maniera diretta il tema dell’e-learning con quello del K.M.17 e porta il formatore ad utilizzare (per lo più senza troppe distinzioni) il concetto di CdP e quello di Comunità di Apprendimento (CdA). In questa accezione, la “pratica” che lega la comunità in rete è quella connessa al percorso di apprendimento collaborativo; essa può sfruttare 15. Approcci più attenti a modalità di tipo trasmissivo si possono trovare, ad es., in Sfard (1998). Su questo punto si veda anche Mattalucci (1966). 16. Si veda su questo Fantacone (2002). 17. Il tema dei rapporti tra e-learning e K.M. ha dato luogo ad una pubblicistica sterminata. Sviluppatosi all’inizio nel mondo dei vendor di LMS e di “piattaforme di K.M.”, il dibattito si è poi più utilmente orientato verso i temi dell’apprendimento nelle organizzazioni, sottolineando assieme alle differenze tra politiche di e-learning e di K.M., anche i punti di possibile sinergia (Allee, 2000).

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diversi setting formativi sia in presenza sia “mediati” da un web site costruito per lo svolgimento del progetto. Le piattaforme cui si accede attraverso il web site del progetto prevedono “strumenti di community” sempre più sofisticati (di tipo sincrono ed asincrono, digitale ed analogico). Sull’onda dell’entusiasmo per la nuova prassi formativa, si arriva spesso ad ipotizzare disinvoltamente, a dispetto delle prove al contrario, che – essendosi realizzato l’incontro sulla piattaforma della comunità dei learner – tale comunità di apprendimento possa, grazie alla rete, continuare a stare in vita anche dopo la fine del progetto formativo. È noto come il formatore che si occupi di blended learning strategy debba cimentarsi con la non facile sfida del far crescere le CdA in rete, in termini di quantità e di qualità delle interazioni (Trentin, 2000; Biolghini, 2001). L’idea che, una volta vinta tale sfida, la comunità possa continuare proficuamente ad incontrarsi in rete gli può sembrare il corollario naturale del percorso: ma si tratta quasi sempre di un wishful thinking che tiene il formatore al riparo dalle preoccupazioni relative alle strategie attraverso le quali coltivare una effettiva CdP che prolunghi, dentro l’organizzazione, la vita alla CdA cresciuta nello spazio formativo. Come meglio si vedrà nel seguito, questo – del passaggio da CdA e CdP – è un tema tutt’altro che semplice, e tuttavia cruciale rispetto al ritorno dell’investimento formativo. 5. La esigenza di distinguere tra Comunità di Apprendimento e Comunità di Pratica Per quanto ovvio, conviene ricordare che CdA e CdP non sono sinonimi. Il “dominio” di una CdA (vale a dire l’insieme dei “contenuti” del percorso formativo) usualmente non coincide – se non quando si parli di training on the job – con una prassi lavorativa, ma fa invece riferimento a conoscenze o a metodiche che l’organizzazione18 intende far applicare, a nuovi orientamenti comportamentali che mira a promuovere, a nuovi ruoli che intende attivare, ed altro ancora. Non si può allora parlare di una comune esperienza che si è formata nella quotidianità della prassi lavorativa e neppure si può parlare, all’avvio 18. Meglio sarebbe, anziché parlare in astratto della organizzazione, parlare del gruppo di management o dei dirigenti che sponsorizzano il progetto formativo; questo per “restituire” agli attori sociali la responsabilità delle decisioni assunte. Non si può non notare come Wenger, Mc Dermott, Snyder (2002), parlando di ciò che può non funzionare nello sviluppo delle CdP, preferiscano affermare in modo impersonale come talvolta “organizations can seriously hinder community development”, cosa che rende più complesso analizzare i processi di cambiamento nell’ottica dell’implementation game.

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del percorso, di una identità condivisa della learning community, visto che i partecipanti al progetto formativo possono anche non conoscersi inizialmente tra loro e comunque si incontrano per la prima volta per ragionare su temi nuovi, dovendo attribuire ad essi un senso legato alla propria diversa storia professionale e ai modi in cui si vivono le situazioni formative che il progetto propone loro. Tuttavia capita, talvolta, nella comunità dei formatori, di vedere impropriamente utilizzati come sinonimi i termini CdA e CdP, pensando alla “pratica” come allo svolgimento delle attività didattiche connesse ai vari contesti formativi, soprattutto quando essi implichino forme di lavoro cooperativo. La tabella seguente – riprendendo le categorie proposte da Wenger19 – mette a confronto i due termini e ne sottolinea le differenze.

CdA

CdP Dominio

Area di conoscenza costruita socialmente dalla comunità e da essa costantemente rinegoziata e sviluppata; elemento identitario che unisce la comunità attraverso l’esperienza del “fare”

Area di contenuto definita sulla base di una precisa strategia di intervento; oggetto di apprendimento intorno al quale si fonda la partecipazione comune

Comunità

Fondata su interazione regolare e volontaria di persone che apprendono insieme e sviluppano un senso di appartenenza e mutuo impegno, che li spinge a condividere pratiche e conoscenze

Limitata a persone che si incontrano in un’occasione specifica (quella del progetto formativo) e non necessariamente sviluppano senso di appartenenza: sono tenute insieme dalla circostanza e dallo spazio del progetto

Pratica

Prodotto collettivo ma anche modalità definita socialmente di “fare”, dunque stile di pensiero e comportamento che i membri della comunità assumono e che favorisce lo sviluppo di sapere pratico

Esperienza guidata, variabile a seconda dei contesti e delle prassi formative, prodotto circoscritto non ancora fondante uno stile di pensiero e un modus operandi che diventino sapere pratico

Legittimazione

Fondata su un riconoscimento reciproco tra comunità e management aziendale e sulla negoziazione di ambiti di azione e livelli di autonomia/adeguamento agli obiettivi aziendali

È garantita dalla organizzazione. È tanto più elevata quanto più alto è il commitment che gli sponsor del progetto ottengono dal management aziendale. Fonda il “patto formativo”

19. Alle categorie di “dominio”, “comunità” e “pratica” esplicitamente citate da Wenger è opportuno aggiungere, per i motivi sopra indicati, anche quella di “legittimazione”.

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Il senso di appartenenza ad una CdA si costruisce (quando ciò avviene) durante il percorso formativo; esso risulta tanto più forte quanto più “calde” sono le interazioni tra i partecipanti, quanto più efficace è percepito il lavoro cooperativo e quanto più arricchente è giudicata l’esperienza fatta assieme20. Il tema di come costruire una effettiva CdA in rete ha trovato un ampio spazio di trattazione tra gli studi sulle politiche di e-learning21. Secondo la nostra esperienza, costituiscono fattori facilitanti i seguenti aspetti: • la presenza di un insieme di ruoli capaci di presidiare le dinamiche psico-sociali in rete e i processi di lavoro cooperativo (Calvani, Rotta, 1999); • la promozione di forme “calde” di utilizzo degli strumenti di community che il web site di progetto deve mettere a disposizione; • l’attivazione di momenti mirati di incontro in presenza; • l’incoraggiamento alla costruzione della “storia della comunità”. Non vogliamo tuttavia qui addentrarci in questo complesso tema, ormai entrato con forza nella sfera professionale dei formatori che si occupano di net-learning. Basterà osservare che esiste una evidente correlazione tra l’arte di “coltivare” le CdP, per come essa viene ricondotta da Wenger, Mc Dermott, Snyder (2002) a indicazioni operative22, e quella del far crescere le CdA. Anche le riflessioni relative alle figure professionali utili per sviluppare le CdP (Nickols, 2003) possono valere per l’arte di sostenere, in sede formativa, le CdA. Ci concentreremo invece sul tema della trasformazione di una learning community, cresciuta in un contesto formativo, in una CdP che possa avere persistenza all’interno dell’organizzazione.

20. Una “classe” può diventare anche molto coesa e solidale, quando si decida di contestare assieme il percorso formativo o quando si utilizzi lo spazio formativo per sostenere specifiche rivendicazioni nei confronti dell’azienda; ma, in tali casi, sarebbe improprio parlare di CdA. 21. Vedasi ad es. Palloff, Pratt (1999); Biolghini (2001). 22. Secondo tali autori, l’arte di coltivare le CdP è riassumibile nei seguenti principi (Wenger, Mc Dermott, Snyder, 2002): 1. Design for evolution. 2. Open a dialogue between inside and outside perspectives. 3. Invite different levels of participation. 4. Develop both public and private community spaces. 5. Focus on value. 6. Combine familiarity and excitement. 7. Create a rhythm for the community.

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6. Come favorire la trasformazione di una Comunità di Apprendimento in una Comunità di Pratica Il tema del passaggio dalla CdA (sia essa nata o meno in rete) a quello della CdP, costituisce la strada più diretta per affrontare il superamento della “formazione apparente”, in modo di avere garanzie del ritorno dell’investimento formativo. Pensiamo – per fare un esempio – di aver realizzato un progetto formativo sulle modalità di project management: il successo dell’iniziativa dipende dal fatto che, a partire dalla applicazione di tali modalità, il gruppo continui ad apprendere nella prassi lavorativa. Se attorno ai contenuti dell’intervento formativo si riesce a coltivare la crescita di una CdP (con almeno un nucleo di persone che hanno partecipato al progetto formativo che assumano il ruolo di core member della comunità) vi è una ragionevole certezza che i contenuti appresi entreranno in circolo all’interno dell’organizzazione, che altre persone, anche se non sono state direttamente coinvolte nel progetto formativo, si pongano nella condizione di “partecipazione periferica” alla comunità. In tal modo si possono strutturare modalità con cui dar corso agli apprendimenti successivi, individuare forme di partecipazione e di coordinamento, definire – dentro la comunità – processi di memoria organizzativa, ecc. Una siffatta prospettiva di lavoro non è estranea ad un formatore abituato a confrontarsi con i temi del cambiamento organizzativo e culturale; un formatore che sa di non poter far conto su una idea forte di progettabilità organizzativa, ma, al contrario, movendosi nelle logiche dell’implementation game, sia convinto della necessità di un “approccio politico” al cambiamento (Bardach, 1977). Solo in tal modo l’arte – anch’essa legata ad un approccio politico- di coltivare le CdP entra a pieno titolo nella prassi professionale del formatore e, reciprocamente, si rendono maggiormente visibili i contributi che la formazione può dare a tale arte. 7. Alcune esperienze e riflessioni sulla trasformazione delle Comunità di Apprendimento in Comunità di Pratica Gli autori di queste note hanno avuto la possibilità di gestire e/o di riflettere con formatori loro colleghi su un buon numero di progetti nei quali il tema della costruzione della CdA e poi quello della sua trasformazione in una CdP si è posto esplicitamente. Alcuni di questi progetti possono considerarsi “casi di successo” rispetto alla trasformazione di CdA in CdP. Altri sono più problematici. 215


Cominciando dai primi, è forse interessante citare – per i problemi attuativi che essi pongono – un paio di progetti formativi connessi all’introduzione di nuovi sistemi informativi.

Progetti formativi a supporto dell’introduzione di un sistema di ERP in due grandi realtà industriali23 La implementazione di sistemi ERP, com’è noto, comporta un ridisegno dei processi lavorativi ed, in qualche misura, una ridefinizione delle attività in capo a diversi ruoli, ponendo in primo piano il problema del cambiamento organizzativo. La strategia formativa da adottare verso gli utenti finali del sistema non è riconducibile al semplice addestramento sui moduli informatici, magari abbinato ad una qualche sensibilizzazione sulle implicazioni delle logiche di gestione integrata dei dati. Nei progetti di formazione ai quali facciamo qui riferimento – relativi a due realtà industriali di grandi dimensioni – la strategia di formazione adottata è stata parte integrante della più generale strategia di change management concordata con la committenza. Senza qui entrare nel merito di tutti gli aspetti di tale strategia, va richiamata l’attenzione su un punto focale di essa: la formazione dei così detti key user. Si è, sin dall’inizio, partiti dall’idea che i key user – opportunamente selezionati nelle varie funzioni aziendali coinvolte – dovessero far parte delle “strutture di implementazione” (e non fossero semplici attori di un processo di formazione a cascata) e che il percorso di cambiamento dovesse, a tutti gli effetti, considerarsi anche un processo di apprendimento organizzativo. Da tali premesse è discesa l’esigenza di creare una comunità di key user formata da persone che potessero agire come: • esperti dei moduli informatici da attivare nelle funzioni aziendali di appartenenza; • interlocutori del team di progetto per quanto attiene la ridefinizione operativa di processi e di ruoli; • agenti di cambiamento nel confronti del fronte vasto degli utenti finali. L’investimento formativo ha comportato – nella fase delle applicazioni pilota, prima del go live del sistema – l’adozione di un modello blended, incentrato in parte su logiche di tipo trasmissivo (l’apprendimento dei moduli informatici attraverso learning object fruibili attraverso un Learning Management System, con esercitazioni che simulavano l’ambiente applicativo), in parte su logiche di scoperta e di apprendimento collaborativo (l’analisi svol-

23. Vengono denominati sistemi ERP, Enterprise Resource Planning, software gestionali integrati che potenzialmente coprono ogni processo aziendale, grazie ad unico data base e ad un sistema di moduli informatici specifici per le diverse funzioni aziendali, ma tra loro strettamente interconnessi.

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ta in piccoli gruppi sulle implicazioni organizzative e la acquisizione di un comune orientamento ad agire come mentor dei gruppi di utenti finali nella fase di training on the job a ridosso dell’avvio effettivo del nuovo sistema). L’elevato commitment manageriale nei confronti del buon esito del progetto e la forte continuità tra apprendimento ed impiego, nella pratica, delle competenze apprese hanno garantito una “quasi naturale” trasformazione della CdA in CdP. Si tenga infatti conto di come la comunità dei key user sia andata affinando sempre più le proprie competenze nella fase di training on the job, in linea con il noto aforisma secondo il quale il modo migliore di imparare è dover insegnare agli altri (“learning by teaching”). Parallelamente è cresciuta anche l’autorevolezza dei key user come “agenti di cambiamento”. Riflessioni possibili Nei casi citati l’idea del passaggio, per i key user, dalla CdA alla CdP, era presente sin dall’inizio del progetto formativo. I fattori che hanno facilitato il successo di tali progetti sono riconducibili a: • la presenza di ad un dominio ben definito (i moduli del sistema ERP e le modalità attraverso cui la loro adozione comportava un ridisegno dei processi); • la possibilità per il gruppo di sperimentare l’utilizzo dell’ambiente applicativo per tutta la durata del “pilota”, cosa che, per molti versi, riconduceva lo sviluppo della pratica al modello del training on the job; • la possibilità, mediante l’attività di mentoring, svolta da esperti esterni, di consolidare progressivamente il guadagno formativo attraverso la comune riflessione sulle difficoltà via via incontrate; • la forte pressione manageriale per il buon esito del progetto ed in particolare per arrivare alla operatività dei nuovi sistemi nel rispetto dei tempi pianificati. Come si vede, si tratta di fattori facilitanti connessi alla specificità dei progetti e dei contesti aziendali che li hanno realizzati, e, come tali, non facilmente riproducibili in altri progetti ed in altri contesti.

L’implementazione di sistemi ERP secondo una prospettiva incentrata sull’apprendimento organizzativo (Huang, Newell, Pen, Poulson, 2001) e l’adozione di una strategia formativa che chiama in causa i key user come CdP, è diventata – con diverse modulazioni – una prassi diffusa, che per molti versi può considerarsi paradigmatica di come la formazione possa produttivamente connettersi allo sviluppo di CdP. È forse tuttavia più interessante in questa sede analizzare altri progetti formativi meno lineari, in cui la trasformazione di una CdA in una risorsa per il cambiamento organizzativo assume connotazioni più impegnative e problematiche. 217


Con questo spirito, esamineremo qui di seguito – proponendo al lettore un livello di sintesi forse anche eccessivo – un’esperienza in cui non si può dire che si sia realizzata una effettiva la transizione da CdA a CdP ed un paio di progetti in corso di attuazione nei quali si sta ragionando con le organizzazioni committenti proprio sul tema della transizione. Ogni progetto formativo ha una sua specificità e sollecita una riflessione su come si è riusciti o meno a creare – in termini di senso del noi, di valori comuni – la CdA, ed ancor più la sollecita in merito ai problemi che possono emergere nel tentativo di trasformare tale CdA in CdP. Cercheremo dall’esame dei tre casi esposti di seguito di giungere ad alcune provvisorie conclusioni.

Un ente locale Sintesi del progetto L’intervento formativo in questione era indirizzato a legittimare la nascita di un nuovo ruolo – quello che il Contratto Nazionale di Lavoro degli EE.LL. chiama “Posizioni Organizzative” – che deve affiancarsi alla dirigenza nel sistema di governo dell’Ente con un proprio ruolo gestionale ed un proprio status riconosciuto. Si è già dato conto dell’andamento di questo progetto in un precedente articolo (Mattalucci, 2003, pp. 96-98), sottolineando quali sono stati i positivi risultati in termini di “community building”. Senza ripetere qui quanto a suo tempo detto, ricordiamo solo che la creazione del senso del “noi” nella CdA, composta da circa 150 persone, ha comportato un’efficace azione di “marketing interno” del progetto, il coinvolgimento in sede formativa della dirigenza, nonché la disponibilità di un web site di progetto dotato di opportuni “strumenti di community”. Nella consapevolezza di dover andare oltre la formazione apparente, ci si è interrogati, prima ancora che il progetto formativo avesse termine, sui modi per garantire l’inserimento effettivo delle P.O. nel modello di governance dell’Ente, condividendo l’idea che il cambiamento potesse essere sostenuto dai diretti interessati, motivati ad agire come comunità impegnata a tradurre nella prassi (andando oltre i project work svolti in sede formativa) le competenze apprese, ed ancor più a riflettere sui problemi e sulle resistenze incontrate nell’assunzione del nuovo ruolo. Le linee guida che si erano ipotizzate per sostenere il passaggio verso una effettiva CdP che potesse diventare struttura di implementazione del processo di cambiamento erano legate alla idea di uno spazio di autonomia da assicurare alla CdA e ad azioni di stimolo affinché tale spazio venisse proficuamente occupato. In quest’ottica si era ipotizzato un percorso per aiutare la comunità ad assumere progressivamente: • autonomia nella gestione del proprio web site;

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• autonomia di conduzione dei forum di discussione incentrati sulla pratica di ruolo; • autonomia di ulteriore proposta formativa. Diciamo subito che un insieme di circostanze hanno impedito l’attuazione di tali ipotesi di intervento. Si deve pertanto dire che, al successo nella creazione della CdA, non è seguito un successo nella sua trasformazione in CdP. Riflessioni possibili Cosa non ha funzionato? Al di là delle pur importanti restrizioni del budget per la formazione (o meglio della emergenza di altre priorità formative che rendevano stringenti i vincoli di spesa), possiamo interrogarci sugli altri fattori che hanno ostacolato il passaggio da CdA a CdP. Ci pare di poter sintetizzare nel modo seguente le difficoltà implementative incontrate, e che di fatto non hanno consentito di passare alla fase 2 del progetto P.O.: • l’attenuazione del commitment dei vertici organizzativi, connessa al turnover di precedenti sponsor; • la convinzione diffusa tra la dirigenza (politica ed amministrativa) che fosse preferibile una strategia di “cambiamento strisciante”, una strategia che faceva conto su adattamenti che potessero intervenire motu proprio senza tensioni e con intensità diversa nei diversi comparti aziendali24. Va sottolineato anche come abbia giocato un ruolo ostativo l’idea “democratica” che la formazione sia un diritto di tutto il personale e che, conseguentemente, anche il personale dell’area direttiva (la c.d. “fascia D”) che non aveva superato la selezione per diventare P.O. dovesse essere coinvolto in una attività formativa analoga (seppur ridotta) a quella svolta in favore delle P.O. Tale nuova iniziativa ha finito per ridurre il significato simbolico che la partecipazione al corso aveva avuto per le P.O. attenuando quindi, indirettamente, il senso di appartenenza alla comunità che attorno ad esso si era creata.

Una società di assicurazioni Sintesi del progetto Nel caso della società in questione – un’azienda assicurativa di medie dimensioni, parte di un gruppo internazionale – la finalità implicita nell’avvio del percorso formativo era il cambiamento delle forme di partecipazione ai progetti finalizzati ai traguardi di business ed alla attuazione della mission aziendale, anche attraverso un diverso modello di raccordo tra prime e se-

24. In effetti tale strategia ha funzionato in alcuni settori organizzativi ed in altri no; ma di fatto ha disperso i legami che avevano fatto crescere la CdA.

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conde linee aziendali. Correlato a tale finalità era il bisogno, più esplicitamente dichiarato, da un lato di potenziare la capacità propositiva dei soggetti in un contesto in forte cambiamento, e dall’altro di diffondere modalità di partecipazione ai processi di sviluppo organizzativo (e ai momenti decisionali) fondate sull’utilizzo di adeguati strumenti di analisi e valutazione (“tecniche” di problem solving e decision making), che fossero condivisi da prime e seconde linee e professional, per poi divenire patrimonio diffuso dell’intera organizzazione. Si decide di puntare su un intervento formativo centrato sulle tecniche di problem solving/decision making, costruendo intorno a tale “dominio” una CdA trasversale rispetto alle strutture aziendali, comprensiva di tutti i ruoli direttivi e tutti i professional. Viene quindi proposta un’attività di coaching e di training on the job effettuata dai consulenti/formatori insieme a piccoli gruppi di corsisti, in cui si sviluppano progetti di miglioramento fondati su un corretto utilizzo delle “tecniche” e degli strumenti appresi. Il piano formativo coinvolge anche il Gruppo di Management (GdM) che, parallelamente, intraprende un percorso di riflessione sui processi decisionali che lo riguardano, stante il modello di governance aziendale. La costruzione delle CdA ha successo: il programma formativo viene apprezzato dai partecipanti, si crea un sito di progetto sulla intranet nel quale vengono messi a disposizione materiali didattici ed una guida all’uso delle “tecniche” e degli strumenti sui quali si è già prodotto uno sforzo di rielaborazione autonomo. Le ragioni della riuscita del progetto si ricollegano innanzitutto ad una forte attribuzione simbolica di valore all’uso delle “tecniche” e degli strumenti proposti, voluta espressamente dall’Amministratore Delegato. L’utilizzo di tali tecniche è considerato elemento visibile di una cultura focalizzata sul miglioramento delle performance. Inoltre, emerge nel corso del progetto un reale bisogno, ad ogni livello, di partecipare fattivamente ai processi di sviluppo organizzativo e di riflettere nello stesso tempo sulle modalità di partecipazione, con particolare riferimento alle dimensione collegiale. Tuttavia, nonostante il successo del programma formativo, rimane problematica la capillare diffusione di una reale, condivisa cultura della partecipazione e l’uso delle tecniche nella prassi dei diversi settori aziendali. Il risultato ottenuto induce quindi a riflettere su un possibile passaggio da CdA a CdP vere e proprie, come elemento chiave per lo sviluppo di processi di apprendimento organizzativo incentrati sulla capacità collettiva di riconoscere ed affrontare i problemi e di valorizzare i feed-back delle decisioni assunte. Riflessioni possibili La finalità generale del progetto pone appunto sul tappeto la esigenza di radicare gli apprendimenti alle prassi organizzative che segnano i momenti di collegialità e di partecipazione alle decisioni organizzative. L’esigenza del

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passaggio da CdA25 a CdP è emersa già nella fase conclusiva del percorso formativo con lo spostamento del focus dal compito (cosa che caratterizza i team operazionali) al dominio (knowledge), caratteristica propria delle CdP, attraverso la riflessione (sostenuta dal percorso di coaching e di training on the job e dall’implementazione del web site di progetto) sugli ambiti di applicazione delle tecniche decisionali e di problem solving e sulla loro valenza in termini di gestione dei momenti di collegialità: è cominciata a consolidarsi l’idea che o si cresce collegialmente o non si cresce affatto. La strategia (in questa sede descritta per sommi capi) che si intende adottare per rendere effettivo il passaggio da CdA a CdP gioca su due livelli sostanziali: • da un lato, forti proprio dell’esperienza effettuata con le CdA, verranno proposte azioni volte a sviluppare nuove comunità di practitioner nate intorno alla possibilità di applicare le “tecniche” ad altre problematiche organizzative: i passi necessari saranno l’individuazione di “domini” trasversali alla struttura che possano attirare potenziali practitioner, la loro visibilità (p. es. potenziando il web site di progetto in modo da prevedere anche strumenti di community), l’individuazione di figure di collegamento (sorta di “sponsor”) che garantiscano il dialogo tra comunità e management aziendale e quindi la loro legittimazione; • dall’altro, si intende proseguire la riflessione sui processi decisionali e sulla partecipazione ai progetti strategici con il GdM – quasi fosse esso stesso una sorta di CdP – chiamando i soggetti a riflettere sulle prassi attuali e su una possibile revisione/sviluppo. La logica che lega questa duplice strategia di intervento si fonda innanzitutto sul recupero dei risultati dell’esperienza formativa come “primo passo” verso la creazione di CdP, proseguendo lungo un percorso che ha attivato un forte investimento da parte dei partecipanti, soprattutto nella fase di coaching e di training on the job, e ha fatto crescere l’esigenza di una cultura della partecipazione e della collegialità. Inoltre si intende far leva sulla disponibilità del management a mettersi in discussione e a sviluppare la dialettica tra le diverse funzioni e ruoli aziendali. È infatti proprio tale disponibilità che diviene centrale nello sviluppo di una cultura dell’apprendimento organizzativo in cui può avere un ruolo preciso la valorizzazione delle CdP e del bagaglio di saperi di cui esse sono portatrici. Tuttavia la realizzazione del processo di apprendimento organizzativo sopra delineato impatta sulla persistenza residua di logiche di status, di barriere organizzative, di ottiche monodisciplinari, che devono essere messe in discussione: al di là delle intenzioni dei soggetti, la transizione verso una cultura “learning oriented” porta inevitabilmente con sé squilibri e tensioni che rischiano a volte di “sospendere” la propensione al dialogo e al confronto.

25. Va detto – nella trattazione del caso – come vi sia un senso ancor debole della comunità, legato ad una idea di “modernizzazione” dei processi decisionali che è fortemente sostenuta dai vertici aziendali e verso la quale si è tutti quanti chiamati a dare un contributo.

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Positivo appare, in questa prospettiva, l’aver voluto da parte dell’AD che la riflessione sulle modalità di presa delle decisioni coinvolgesse innanzi tutto le prime linee aziendali. Tale riflessione ha portato – attraverso opportuni workshop supportati dalla consulenza esterna – all’elaborazione di linee di miglioramento che riguardano non solo le modalità di svolgimento delle riunioni del GdM, ma anche cambiamenti da adottare nella gestione dei progetti strategici e la revisione di aspetti relativi al modello di governance aziendale. La possibilità di procedere in parallelo, lungo la direttrice delle CdP che si devono sviluppare tra le seconde linee ed i professional e lungo quella della revisione delle modalità di presa di decisione nel GdM, appare come elemento essenziale per un effettivo passaggio verso un’organizzazione che sia maggiormente learned oriented.

Un grande Comune Sintesi del progetto Il progetto, in fase avanzata di attuazione, è finalizzato a sperimentare i modelli ed a creare le risorse professionali per rendere possibili ulteriori sviluppi della politica di e-learning nell’ambito della formazione continua del personale dell’Amministrazione. I capisaldi metodologici della politica formativa che il Comune intende realizzare sono connessi a: • l’adozione di una “blended learning strategy” in cui giochi un ruolo importante l’apprendimento cooperativo in rete; • il coinvolgimento del personale dell’Amministrazione nella produzione dei contenuti delle “proposte formative” da fruire in rete; • l’affinamento progressivo delle proposte formative, realizzato sempre a cura del personale interno, in connessione con l’ampliamento delle esperienze lavorative acquisite dentro l’Amministrazione. Al fine di sostenere tale politica il progetto formativo si è proposto di: • creare una rete di circa 60 tutor on line da utilizzare come facilitatori dei processi di apprendimento collaborativo nei progetti futuri di e-learning (rete fatta di persone appartenenti alle diverse strutture organizzative dell’Ente, ed operanti, quando necessario, su indicazioni derivanti dalla Direzione Organizzazione e Sviluppo); • sperimentare in 27 “laboratori tematici” il percorso di produzione cooperativa di proposte formative (coinvolgendo complessivamente oltre 300 persone opportunamente selezionate nell’assunzione di un ruolo – quello di produttore dei contenuti di una proposta formativa – che si è ritenuto di denominare “editor”). Coerentemente con i capisaldi metodologici, si è adottato, per ciascun percorso formativo, una blended learning strategy. I tutor hanno iniziato con

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un iter ad hoc (incentrato sulle competenze di ruolo), seguito da una fase di formazione sul campo nell’ambito della formazione degli editor. Ciascun percorso riservato agli editor (i così detti laboratori tematici) affronta una specifica area di know-how legata a competenze di tipo “trasversale” e si svolge prevalentemente in rete, con pochi e ben mirati momenti in presenza, su un arco temporale di circa sette settimane (con un impegno part time). Le persone coinvolte percorrono, in relazione all’area tematica loro affidata, un iter che li vede all’inizio impegnati come learner, per poi entrare nella logica del ruolo di editor, attraverso la elaborazione di una proposta formativa destinata ad essere rilasciata sulla piattaforma di e-learning del Comune. Senza entrare qui compiutamente nel merito della strutturazione del progetto e dei suoi laboratori tematici26, diciamo soltanto che i risultati ottenuti sono stati superiori alle attese, sia in termini di qualità dei “prodotti” realizzati, sia per la capacità di autogestione dimostrata dalle classi al fine di rendere produttivo il lavoro collaborativo. Ciascuno dei laboratori che si sono conclusi si è trasformato in una microcomunità di apprendimento motivata e coesa; inoltre – grazie alle comunicazioni istituzionali che hanno accompagnato la nascita del progetto ed anche alla rete di comunicazioni informali tra le diverse classi – ciascuna micro-comunità è confluita nella più ampia comunità dei partecipanti27. Il “senso del noi” nella CdA si è alimentato non solo della comune esperienza formativa, ma anche dei valori relativi alla produttività del lavoro collaborativo. Nelle riflessioni sugli sviluppi del progetto e sulla possibilità di ricaduta organizzativa di quanto appreso emerge con frequenza il tema della distonia tra le modalità di lavoro sperimentate nei laboratori e quello delle tradizionali modalità di svolgimento delle attività burocratico amministrative. Il gruppo che coordina il progetto (formato da risorse della Direzione Organizzazione e Sviluppo e da consulenti esterni) aveva presente, sin dall’inizio, le sfide poste dalla creazione di una CdA e poi dalla sua trasformazione in CdP. In questa fase, in cui si sta andando con successo verso la conclusione dei laboratori tematici, il gruppo si sente impegnato nell’implementazione della CdP, dovendo affrontare i vincoli che l’attuazione di una reale politica di formazione continua, realizzata attraverso un modello innovativo e sfidante, fa inevitabilmente emergere. Lezioni apprese Tralasciando per brevità di parlare delle lezioni relative alla costruzione della CdA (Ghizzi et al., 2005), si vuole qui concentrare l’attenzione sulla fase

26. Una più ampia presentazione del progetto è contenuta in Gizzi, Del Mastro, Mattalucci, Chiaese, Cinti (2005). 27. A rigore, si dovrebbe parlare di due CdA, quella dei tutor e quella degli editor, ma il senso di appartenenza è così vivo che i partecipanti si percepiscono come una sola comunità, attenuando le distinzioni di ruolo.

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in corso, in cui la posta in gioco è la trasformazione degli editor28 in una CdP impegnata nel dar seguito alla politica di e-learning del Comune. È piuttosto evidente che, in questo caso, la posta in gioco è la capacità di costruire quel ponte tra e-learning e K.M. che è poi la cifra dell’intero progetto preso qui in esame. Anche in questo caso – come già per il progetto di formazione delle P.O. in un’altra amministrazione che abbiamo esaminato in precedenza – il primo vincolo che si incontra è legato al budget29. Al di là delle note difficoltà che le finanze degli Enti Locali incontrano oggi in Italia, si deve osservare come sia quasi sempre problematico conciliare i tempi (brevi) indotti dall’esigenza di trasformazione di una CdA in una CdP – da realizzare mentre è vivo l’entusiasmo per l’esperienza formativa effettuata – con i tempi inesorabilmente lunghi della definizione delle dotazioni di budget (ed ancor più della ricerca di risorse aggiuntive attraverso i finanziamenti comunitari od altre possibili fonti). Il problema implementativo più difficile da affrontare appare tuttavia non già di natura economica ma culturale. Esso si lega direttamente alla esigenza di poter contare su un più elevato livello di commitment da parte della dirigenza (politica ed amministrativa) dell’Ente. Se è facile, in linea generale, condividere l’esigenza della formazione continua e della valorizzazione del “capitale umano”, diventa più problematico per la dirigenza sostenere un’iniziativa per la quale non si può ragionare in termini di ritorni di brevissimo termine, immediatamente visibili dai cittadini utenti; tanto più che va messo in conto il disagio del tempo che la formazione inevitabilmente sottrae alla attività quotidiana e le tensioni nei confronti delle persone che non sono per ora toccate dal progetto. È dunque la difficile percezione di un nuovo modo di vedere il rapporto tra processi lavorativi in essere, apprendimento ed innovazione30 che rende in questa fase particolarmente delicato il raggiungimento di un commitment più elevato, coerente con la sfida culturale che il progetto sta facendo emergere e che induce ad elaborare una nuova strategia del consenso.

28. Parliamo solo degli editor, poiché il tema relativo della implementazione della comunità dei tutor appare più semplice: almeno in parte essa si sta già traducendo in piani di attività, in relazione anche ad altri progetti che l’Amministrazione ha in animo di avviare. 29. Si tratta di un ostacolo al “gioco di implementazione” che Bardach (1977) chiama “The Resource Diversion game”. 30. Su questo punto vedasi Brown, Duguid (1991).

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8. Conclusioni Al di là delle “riflessioni possibili” svolte per ciascuno dei casi esaminati, possiamo in sede conclusiva sottolineare ulteriormente come il passaggio da una CdA ad una CdP risulti cruciale rispetto alla esigenza di andare oltre la “formazione apparente”. La preoccupazione sul ritorno dell’investimento formativo fa infatti emergere con evidenza – come i casi esaminati testimoniano – il tema del passaggio dall’apprendimento individuale a quello collettivo e, per tale via, pone le riflessioni sulle CdP in una prospettiva immediatamente utile per coloro che si occupano di formazione aziendale. La trasformazione di una CdA in una CdP mette in luce problemi che vanno al di là dei confini stretti del progetto formativo ed hanno a che vedere con il cambiamento culturale. Essi pongono il formatore di fronte alla esigenza di entrare nella logica dell’implementation game, vale a dire dell’approccio “politico” al cambiamento. Nell’ambito di tale logica diventa essenziale interrogarsi su aspetti che collocano il progetto formativo in una prospettiva di change management più o meno chiara e più o meno condivisa dai principali stakeholder. Il formatore si trova a dovere mediare tra la dirigenza che ha voce in capitolo per approvare o meno lo sviluppo del progetto in tale direzione e la CdA che può apparire motivata o meno rispetto a tale prospettiva. La possibilità del passaggio alla CdP pone il gruppo di management di fronte alla esigenza di effettuare un bilancio preventivo dell’utilità di una siffatta iniziativa progettuale. Se in taluni casi – come quelli dell’adozione di sistemi ERP – non vi sono incertezze al riguardo, in numerosi altri casi la riflessione è più problematica e può mettere a nudo le possibili incoerenze tra “teorie dichiarate” (l’esigenza di nuovi sistemi di governance, la modernizzazione della cultura manageriale, l’investimento in capitale umano, ecc.) e le “teorie in uso”. Il riconoscimento delle CdP da parte del management appare la premessa fondamentale perché le CdP diventino un reale agente di cambiamento e di sviluppo organizzativo, in un contesto che non è quello delle presunte certezze dell’ingegneria organizzativa, ma di apertura alla dialettica e al confronto che fanno assumere al percorso di cambiamento l’aspetto di un processo, non lineare e prevedibile, di apprendimento organizzativo. Una cultura che si incentri sulla logica degli status, che porti a considerare positivamente solo risultati a breve (magari spendibili in termini di immagine esterna), o che – in particolar modo – faccia da ostacolo all’apprendimento, alla riflessione ed alla condivisione della conoscenza, tende a frapporre alla trasformazione di una CdA in CdP ostacoli organizzativi difficili da superare. 225


Anche sull’altro versante, quello della CdA, si debbono considerare i possibili fattori critici di successo. Una CdA scarsamente coesa, incerta sulla convinzione di dover presidiare un dominio di conoscenza, più disposta a sostenere rivendicazioni formali che a guadagnarsi una legittimazione sul campo, denuncia una situazione in cui parlare di transizione verso una CdP diventa velleitario (o mistificatorio), con un troppo elevato rischio di insuccesso. La crescita, in sede formativa, di una CdA con una identità fortemente orientata a tradurre le competenze apprese in una risorsa spesa a vantaggio dell’organizzazione rappresenta dunque un tema che il formatore deve considerare sin dalla fase iniziale di progettazione formativa. Il tema del community building porta infatti a disegnare attentamente la configurazione dei setting formativi, siano essi in presenza o in rete, in modo che essi contribuiscano al formarsi di una siffatta identità. A fronte delle difficoltà testé accennate si deve tuttavia considerare l’importanza della posta in gioco in termini di ROI della formazione. Va inoltre detto come, a nostro avviso, la possibilità di far crescere, attraverso la leva della formazione, determinate CdA per poi far sì che esse si radichino nell’organizzazione indica – nella prospettiva di una politica di K.M. fondata sullo sviluppo delle CdP – un percorso che può essere fruttuoso e che porta a vede l’attività formativa come una delle carte importanti da far valere. Riferimenti bibliografici Allee V. (2000), “eLearning is not Knowledge Management”, Line Zine, Fall 2000. Reperibile al sito http://www.linezine.com/2.1/features/vaenkm.htm. Argyris C., Schön D.A. (1996), Organizational Learning II. Theory, Method anf Practice, Reading Mass, Addison Wesley (tr. it. Apprendimento Organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998). Bardach E. (1977), The implementation game: What happens after a bill becomes law, MIT Press, Cambridge, MA. Biolghini D. (2001), Comunità in rete e net learning, Etas, Milano. Brown J.S., Gray E.S. (1995) After reengineering: the people are the company. Fast Company, Premiere issue, 78-81. Brown J.S., Duguid P. (1991), “Organizational learning and communities of practice: Towards a Unified View of Working, Learning and Innovation”, Organization Science, 2(1), pp. 40-57. Brown J.S., Duguid P. (2000) The social life of information, Harvard Business School press, Boston (tr. it. La vita sociale dell’informazione, Etas libri, Milano, 2001). Butera F. (1977), “Per una ridefinizione del concetto di cambiamento organizzativo”, Studi Organizzativi, pp. 43-78. Butera F. (1979), Lavoro umano e prodotto tecnico, Einaudi, Torino. 226


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La forma e il movimento. La formazione… vero cambiamento per le persone e le organizzazioni di Laura Tucci

Perché la formazione spesso, per le aziende, continua ad essere solo un costo? Perché i progetti di cambiamento organizzativo, di cui tanto si sente il bisogno, elaborati da prestigiose società di consulenza, difficilmente riescono ad essere applicati? La risposta è legata al fatto che le aziende vivono al proprio interno una distanza tra i processi e le persone, tra i disegni organizzativi e gli individui che a questi disegni devono “dar vita”, in modo poi sempre più convulso. Molto opportunamente oggi si lega la competitività delle imprese italiane a maggiori investimenti nella ricerca ma siamo poi convinti che siano prevalentemente le conoscenze tecniche a mancare? Credo, infatti, che l’osservazione si ampli se pensiamo a quante persone vivano nelle aziende, come “outsiders”, con la propria mente parzialmente da un’altra parte perché l’ambiente, dato soprattutto dalle competenze comportamentali di chi lo abita, è sentito con reciproca ostilità o indifferenza. Si parla di “capitale umano” e di bilancio delle competenze ma dal mio punto di vista sarebbe più opportuno riuscire a redigere il “bilancio delle competenze realmente usate” e non di quelle “possedute” dalla persone, considerando che sono due dimensioni molto diverse. In questo senso anche i processi formativi (mi riferirò soprattutto a dimensioni comportamentali) possono essere “ri-visti” e cioè devono essere guardati con nuovi occhi, trasformandosi da singoli “interventi” a “processi “che riescono a promuovere in modo sincronico ed armonico l’evoluzione delle persone e quella delle organizzazioni. Noi non conosciamo lo spazio, non lo vediamo, non lo ascoltiamo, non lo percepiamo. Siamo in mezzo ad esso, ne facciamo parte ma non ne sappiamo nulla (Escher). 229


E così il disegnatore olandese, partendo da questa sua profonda sensazione, iniziò ad osservare il mondo con occhi nuovi, a giocare con le prospettive, con le figure, con le luci e con le ombre, scoprendo così che tutto può diventare trasformazione. Esploriamo anche noi i processi di formazione e, pensando alle diverse forme che possono assumere, arriviamo a cogliere le sfumature che consentono alla formazione di diventare vero scambio tra la crescita dell’individuo e la trasformazione delle organizzazioni, opportunità per le persone ed anche per le aziende.

Escher, Cielo e acqua, 1938

Nel nostro percorso inizieremo con il disegnare i contorni di una formazione che riesce prima di tutto a favorire l’evoluzione e la crescita delle persone. Arriveremo poi a riflettere sui motivi per cui questa crescita, qualora riesca ad avvenire, non riesce comunque a diventare un cambiamento, proprio per le aziende che lo suggeriscono e lo desiderano, almeno nel loro dichiarato. E così cosa succede a quel “pesce” che stava riuscendo a trasformarsi in un “uccello”? O la sua forma si cristallizza in uno stato non pienamente definito o decide di spiccare il suo volo da qualche altra parte oppure regredisce, per230


dendo in più anche la sua motivazione e la sicurezza di poterci riuscire di nuovo. Ci sono però situazioni in cui la crescita delle persone si accompagna ad una positiva trasformazione delle organizzazioni che poi continuano a sostenere l’evoluzione stessa delle persone. Il mare diventa cielo e gli uccelli possono veramente riuscire a volare. Credo che siano proprio queste le situazioni in cui la formazione assume uno spessore diverso ed aumenta così la profondità del suo significato ed il senso della sua efficacia. 1. L’evoluzione e la crescita delle persone Nella mia visione e nella mia esperienza, i confini di una formazione che riesce in questo obiettivo sono disegnati in un modo particolare ed assumono in un tempo successivo, e non sempre lineare, la forma della scoperta, della rinuncia e della successiva conquista. La scoperta Nel mondo immobile e buio in cui vivevo non c’era alcun sentimento forte né alcuna tenerezza… Mi portò il cappello e seppi che stavo per uscire nella calda luce del sole. Questo pensiero, se una sensazione priva di parola può essere definita pensiero, mi fece saltare dal piacere… qualcuno stava versando dell’acqua e la mia maestra mi mise la mano sotto il getto. Mentre la fresca corrente scorreva su una mano lei mi compitava sull’altra la parola acqua, prima lentamente e poi rapidamente. Rimasi immobile con tutta la mia attenzione fissa sul movimento delle sue dita. Improvvisamente provai una coscienza indistinta, qualcosa di dimenticato, un brivido di un pensiero che ritornava e in un certo modo mi fu rivelato il mistero del linguaggio. Seppi che acqua significava il meraviglioso qualcosa di freddo che scorreva sulla mia mano. Quella parola mi risvegliò la mia anima, le diede luce, speranza, gioia, la liberò. C’erano ancora delle barriere, è vero ma barriere che a loro volta potevano essere spazzate via… Tutto aveva un nome e ciascun nome dava vita a un nuovo pensiero. Mentre tornavo a casa ogni oggetto che toccavo sembrava palpitare di vita. Questo perché vedevo tutto con la nuova strana vista che mi era venuta. Sarebbe stato difficile trovare una bambina più felice di quanto lo ero io mentre giacevo nel mio lettino al termine di quella giornata memorabile e rivivevo le gioie che mi aveva portato e per la prima volta desideravo l’arrivo di un nuovo giorno (Helen Keller).

La scoperta dovrebbe essere l’inizio di ogni processo di formazione. È il momento in cui qualcuno ci fa accorgere di una realtà che esiste indipendentemente da noi ma che solo nel momento in cui la vediamo, la no231


miniamo ed iniziamo a conoscerla, acquista per noi un significato ed è in grado di arricchirci. Ma l’adulto non è più così pronto a scoprire e quindi per portarlo a voler veramente vivere la scoperta occorre sempre ripartire dalla sua realtà, ovviamente dagli aspetti positivi che questa possiede ma anche dai limiti che questa presenta. E così la scoperta diventa motivante perché la persona si convince che, grazie al nuovo apprendimento, sarà in grado di superare i confini della propria realtà, del proprio modo di essere e di lavorare. Ho partecipato ormai a tantissimi corsi di formazione, a tanti ho solo assistito ma l’emozione iniziale più diffusa molto spesso è sempre la stessa. “L’obiettivo del nostro percorso formativo è condividere un nuovo modello del marketing relazionale…” dice ad es. il docente-formatore e le persone si guardano, guardano il relatore e sfugge il senso ed il perché di questa condivisione. Molto più efficaci sono quei percorsi che partono ad es. da come realmente le persone fanno marketing e gestiscono la vendita dei propri prodotti e servizi e dai limiti o mancate opportunità di questa modalità; occorre anche osservare, lavorare insieme a loro oppure creare nei processi formativi un momento iniziale in cui la realtà viene riprodotta per poi metterne a fuoco i limiti che potrebbero essere superati. Le immagini-pensiero di Escher presentano principi costruttivi sistematici che sembrano avere ben poco a che fare con le leggi dell’estetica… le sue immagini manifestano una pervicace ostinazione ad indagare la vera realtà spazio-temporale che però ci pone di fronte ai limiti dei nostri sensi ed in particolare ai limiti dei nostri occhi (J.-L. Loacher, Direttore del Gemenntmuseum, L’Aia).

Ed allora il nuovo modello che si presenta non è un contenuto da aggiungere a quanti già ce ne vengono sempre proposti ma la scoperta di una soluzione che amplia i confini delle nostre azioni, rendendole comunque più efficaci. La rinuncia È questo il secondo passo di una formazione efficace. È il momento in cui ognuno verifica cosa deve lasciare del proprio modo di essere precedente per diventare qualcosa di nuovo e di diverso. È evidente, infatti, che l’apprendimento per l’adulto richiede sempre un nuovo modo di essere semplicemente perché prima non poteva esserci stato il vuoto ma un qualcosa a cui non assomigliare più. Ed allora, non potendo essere tante forme, per il rischio poi di non esserne nessuna, occorre nuovamente definirsi e questa trasformazione, soli232


tamente, porta con sé una rinuncia che ha il fascino o la paura di una verifica, per ognuno diversa. È questa una fase che bisogna saper guidare all’interno di un percorso formativo perché le resistenze sono molte: la più facile da comprendere è la paura, la più difficile credo che sia la mancanza di “consapevolezza di sé” che caratterizza oggi molte persone, essendo per lo più tutti focalizzati su tendenze di estroversione e di apparenza che sacrificano l’intimità e la riflessione su se stessi. Molto spesso questa riflessione e questa verifica sulla rinuncia è lasciata all’individuo, ad un momento che è fuori dai percorsi formativi quando, secondo me, dovrebbe farne parte anche perché per l’adulto diventa realtà ciò che egli stesso riesce a concettualizzare e ad esplicitare a qualcun altro in modo chiaro. Il linguaggio, infatti attribuisce un ordine alle rappresentazioni concettuali, alle emozioni, ai sentimenti istintivi e spontanei e diventa esso stesso forma di conoscenza (Mario De Pasquale).

Credo che poi anche la leggerezza e l’ironia siano il vero segreto di questa rinuncia e forse è per questo che alcune organizzazioni stanno scoprendo la formazione-teatro anche ironico e satirico: niente è più bello per noi adulti che riuscire a vivere la rinuncia non come il pesante senso del distacco o sella sconfitta ma come la contentezza di chi sa ironizzare anche sui propri limiti ed essere contento delle sue nuove possibilità.

La conquista È il momento in cui ogni persona riesce ad elaborare l’apprendimento ed a trasformarlo in un nuovo modo di essere, di pensare e di comunicare. Acquisire un nuovo modello di “Project Management” modifica il nostro modo di strutturare i dati e le informazioni ed influisce sulla nostra gestione della realtà. Scoprire i segreti della comunicazione non verbale ci rende più ricettivi ed anche più espressivi. La scoperta del modello della “leadership trasformazionale” mobilita le nostre energie e ci stimola a diventare capi che sanno attivare i cambiamenti e valorizzare i talenti. Queste trasformazioni non sono mai solo un aspetto esteriore, non cambia solo “il cosa” si sa fare, “in quanto tempo”, in quali contesti; evolve tutto il sistema individuo con le proprie convinzioni, le proprie motivazioni ed il proprio modo di rappresentare se stesso e la realtà. 233


È un percorso per ognuno diverso che comporta un passo avanti rispetto a ciò che di nuovo si è imparato ed un’evoluzione personale verso il pensare, lo sperimentare ed il ricreare. E così la vera formazione è quella che lascia nelle persone il desiderio di una continua scoperta che ha conosciuto un metodo ed i confini per diventare vera crescita e vera conquista. La mia soddisfazione più grande è quando oggi, a distanza ormai di 7 anni da un percorso formativo sulla comunicazione, che ho gestito, un partecipante mi chiama per continuare a condividere con me i suoi studi sulla comunicazione e soprattutto i diversi modi di applicarla, dato che ora si è dedicato alla docenza universitaria. La formazione è quindi far si che la conoscenza prenda la forma singolare di chi la riceve e continui a ricevere da questa persona nuove forme e nuovi contenuti perché le persone hanno attinto dalla formazione la capacità e la voglia di continuare a seguire gli sviluppi e le evoluzioni del proprio nuovo sapere. La conquista allora non è semplicemente un nuovo contenuto ma il sapere valorizzare la parte più curiosa di sé per progredire nel conoscere e nel trasformarsi. L’importanza del tempo Il tempo diventa il grande regista di una formazione che voglia produrre veramente dei risultati. Svolgendo anche l’attività di consulente e di formatrice, mi sorprendo ogni qual volta ricevo una richiesta di un corso di 3 gg, e per lo più di seguito, sulla comunicazione, sulla leadership… Ovviamente se l’obiettivo è meramente informativo potrebbe anche andare bene, ma se l’obiettivo, come spesso succede è “vogliamo persone più professionali nel gestire il rapporto con il cliente, vogliamo capi che sappiano gestire meglio le persone”, dobbiamo considerare che il cambiamento ha bisogno del suo tempo e dato che è l’adulto il protagonista di questi processi, credo che è con i suoi tempi che dovremo confrontarci, avendo sempre la capacità di ottimizzarli ma non di ignorarli. È un tempo che serve a chi non fa dell’apprendimento il suo unico mestiere, dedicato com’è a cercare di far corrispondere le proprie esigenze e motivazioni con quelle dell’azienda in cui lavora. È anche il tempo di chi spesso non sceglie la formazione a cui partecipare ma si trova “convocato” ed impiega molta parte del suo tempo e delle sue energie soprattutto a capire il “perché” ed il “dove si voglia arrivare”. Se è, infatti, vero che il tempo, come dimensione soggettiva, ha un suo procedere diverso allora un’ora di formazione non è soggettivamente tale per chi, dentro di sé, sta dedicando il suo tempo a qualcos’altro. 234


Un efficace percorso formativo ha, quindi, bisogno del suo tempo che è quello della trasformazione di un adulto che riesce ad imparare solo se fa veramente suoi i vantaggi del suo sforzo, se riesce ad armonizzare l’apprendimento con le sue conoscenze e con il suo vissuto, se gli si concede anche il tempo del rifiuto. Anche il rifiuto è un processo assolutamente normale che molto spesso ho vissuto per prima dentro di me: la formazione è conflitto, la prima e istintiva reazione è distruggere il contenuto del nuovo apprendimento per riuscire così a circoscrivere e ridurre l’ansia, per nutrire il proprio concetto di sé, poco bisognoso del nuovo, per scaricare la rabbia, anche accumulata in altre situazioni in cui ci si è sentiti inadeguati, per sottovalutare e denigrare ciò che qualcun altro è riuscito a creare al nostro posto, per un processo di inaridimento della curiosità intellettuale che silenziosamente si sta impadronendo di noi. Ed allora occorre contemplare anche il tempo del conflitto, sapere anche che è il caso di sollecitarlo, attraverso metodi specifici di indagine e discussione, perché sicuramente un apprendimento degli adulti che non ha in se stesso una sfumatura legata al rifiuto o anche solo alla critica è sicuramente poco significativo. Sarà un conflitto silenzioso, soffocato, negato ma comunque esistente e se non presente è spesso l’altro volto dell’indifferenza. Un altro tempo importante da considerare è quello dell’elaborazione individuale, di cui l’adulto ha bisogno. È la riflessione interna che può essere fatta solo in un tempo di “ri-osservazione riflessiva”, quando, al di là di ciò che si vuole apparire, si confronta ciò che si sta apprendendo con il proprio sé (esperienze, vissuti, aspirazioni), decodificando la conoscenza in un modo costruttivo. E la vera arte è saper inserire questi diversi tempi all’interno della trama di un percorso formativo. Quanto spesso sento ripetere “all’inizio di un corso occorre far sfogare le persone, occorre che le persone tirino fuori tutte le loro critiche nei confronti dell’azienda” e così le aule si trasformano sempre più spesso in “centri di ascolto”, spesso estenuanti. Non può esserci a mio parere un tempo prescritto in cui ad es. “criticare” ma il tempo deve seguire naturalmente l’evolversi del processo e deve saper trovare in modo sapiente i suoi spazi. Ma, ponendo anche che riesca a realizzarsi un processo formativo che arrivi a promuovere una crescita positiva delle persone, cosa succede nella realtà? Riescono poi le persone a vivere il loro cambiamento ed a diffonderlo all’interno delle organizzazioni? La risposta è sin troppo evidente ma inutile porla se non si vogliono comprendere le cause di questo fallimento. Entriamo allora nelle contraddizioni che caratterizzano oggi la formazione e forse più nel complesso le aziende. 235


2. Le difficoltà del cambiamento Il contesto Purtroppo anche nelle aziende non si è esenti dalle mode e così oggi la moda sono “le competenze” e tutto deve ruotare attorno ad esse. Si perpetuano così percorsi formativi centrati sulla competenza manageriale, sulla competenza relazionale; peccato che poi le persone partecipano ad es, ad un corso sulla leadership mentre i sistemi gestionali sono assolutamente inadeguati: la valutazione delle prestazioni non viene discussa tra capo e collaboratori, il sistema degli obiettivi quantitativi è svincolato dalle strategie e dai valori aziendali, il sistema di incentivazione non è strutturato su criteri di autoremunerazione… Può la leadership riuscire ad esprimersi in un simile contesto? È un principio fondamentale dell’apprendimento la necessità del rinforzo positivo da parte dell’ambiente esterno. Non ci può essere quindi una competenza senza un contesto coerente in cui questa possa essere esplicitata, mantenuta e sviluppata. Tutta la letteratura sulle competenze insiste, inoltre, sul fatto che la competenza, come evoluzione dell’attitudine, è tale perché riesce ad esternarsi in un risultato. La competenza ha quindi in sé la dimensione dell’estrinsecazione, della visibilità, dell’oggettivazione perché produce qualcosa di tangibile e proprio in questo processo produttivo continua a crescere ed a rafforzarsi. Il principio dell’esternalizzazione ha, infatti, in sé anche la conseguenza del feedback che l’ambiente rimanda e nell’elaborazione del feedback risiede la fonte della creatività, dell’innovazione, del problem solving e del miglioramento continuo. Ma quali risultati possiamo pretendere di vedere in contesti che sembrano progettati indipendentemente dalle competenze che poi, in un modo un po’ schizofrenico, si vogliono sviluppare? Il cambiamento “a strati” E così quello che sta diventando un altro assunto è quello delle famiglie professionali (la famiglia dei capi, la famiglia dei project manager, la famiglia dei commerciali). È una tipologia di aggregazione delle persone oggi molto diffusa e sulla base della quale si impiantano processi di comunicazione, comunità virtuali ed anche percorsi formativi. Trovo che mantenere questo unico presupposto sia assolutamente irrealistico. 236


Nella realtà, nel lavoro quotidiano, all’interno dei diversi settori aziendali, dei progetti, delle funzioni o dei processi (dipende ovviamente dal tipo di struttura che l’organizzazione ha scelto) non si lavora per famiglie professionali ma in squadra, ognuno nel proprio ruolo, e le competenze acquisite in un percorso formativo tra “simili” diventano poi difficilmente applicabili e le difficoltà sono di diversa natura: gli altri non riescono a comprendere, ognuno cerca di affermare le “sue” competenze che diventano le “sue” ragioni, i metodi, così convincenti in teoria, nella pratica diventano un vincolo. Ed allora quella delle famiglie professionali mi sembra una visione unilaterale della formazione che è molto diversa dalla visione poliedrica che la realtà ci presenta. Qual è poi la direzione? Nell’indagine della personalità intesa come unità e come sistema piuttosto che come somma di parti separate, sono soprattutto importanti, secondo Rotter, le mete, le aspettative, le direzioni delle condotte, rispetto alle quali il principio esplicativo della riduzione del bisogno appare del tutto inadeguato. È soltanto un sistema di mete e di aspettative che può rendere ragione di una varietà di condotte irriducibili alla semplice ricerca del piacere e alla semplice eliminazione del dispiacere in connessione con specifici bisogni (G.V. Caprara, A. Gennaro).

Ed ecco che emerge un elemento molto importante rispetto alla motivazione dell’adulto che è quello della progettualità e della direzionalità. Ogni comportamento per l’adulto è stimolante se diventa l’avvicinarsi ad una sua meta. Ma perché applicare quanto appreso durante la formazione? Qual è la meta? E soprattutto chi è che deve deciderla? Sarebbe possibile per le persone che partecipano alla formazione e che si sono “messe in gioco” nel cambiamento dare anche un contributo nel definire alcuni obiettivi? Purtroppo continua a persistere nella realizzazione degli interventi formativi un processo caratterizzato da una committenza (che spesso è costituita dai capi dei partecipanti) da un ente organizzatore (che spesso è la Direzione del Personale) e da un partecipante che continua ad essere l’oggetto di un processo senza mai riuscire a diventarne il vero soggetto. E così si perpetua quello strano meccanismo per cui le organizzazioni chiedono giustamente alle persone comportamenti adulti e maturi mentre li gestiscono secondo schemi relazionali che rispecchiano modalità infantili e deresponsabilizzanti, dato che prescrivono in modo unilaterale obiettivi se non a volte compiti, rafforzando comportamenti che portano poi a scarsa autonomia, conformismo e gregarismo. 237


E così mentre i fornitori di formazione si sbizzariscono (coaching, counselling, mentoring, action learning, outdoor training) le persone continuano ad essere coinvolte in interventi formativi che spesso non sono poi inseriti in un progetto, ma fanno parte di un obiettivo che ha la durata dello stesso anno del budget da cui si attingono le risorse economiche per finanziarlo. È del tutto evidente che, quando oggi parliamo di progettualità non stiamo pensando ai piani di carriera, dato che la profondità del cambiamento attuale rende anche estremamente mutevoli i ruoli ed i loro contenuti. Parliamo però di progettualità legata alla possibilità che le competenze sviluppate nella formazione siano collegate ad un risultato che possa svilupparsi nel tempo ed impegnare le energie delle persone in una direzione che sia remunerativa delle energie investite nel cambiare. La diffusione di facili alibi Fin quando si continueranno a creare percorsi formativi che tagliano orizzontalmente le organizzazioni (corso per i capi, corso per gli addetti call center…) ci sarà sempre poi un grande alibi per non attuare i cambiamenti che la formazione è riuscita a promuovere “chi mi gestisce non si comporta così come mi è stato insegnato”. C’è sempre così un “terzo” assente chiamato in causa senza potersi esprimere a cui facilmente imputare colpe e responsabilità, per passivizzare e neutralizzare qualunque sforzo nell’applicare il cambiamento. Ed allora tutta la formazione si trasforma in discorsi sulla proattività, sull’essere i primi fautori del cambiamento ma realisticamente può essere probabile che un adulto si attivi nel cambiare se stesso se ha già razionalizzato che chi dovrebbe cambiare è prima qualcun altro? Certo poi c’è sempre una domanda che spesso mi pongo di fronte alla formazione comportamentale: ma di quale crescita stiamo parlando, cosa può veramente evolversi? Non ho mai creduto, infatti, in una formazione che riesca a cambiare le persone; credo piuttosto in una formazione che riesca a “cambiare” le persone nella direzione delle proprie attitudini e delle proprie competenze, accrescendo le capacità che sono il “cosa” le persone realizzano, il “come” ed il “quando” riescono ad usare in modo visibile le proprie competenze. La competenza è, però, una caratteristica profonda dell’individuo collegata a caratteristiche emotive, di simbolizzazione, di intenzionalità, di motivazione e di inclinazione personale. Allora trovo un po’ contraddittorio che a volte le aziende deleghino alla formazione la riparazione di alcune decisioni sbagliate, il cambiamento di 238


alcuni capi che comunque non sono dei leader o di alcuni venditori che comunque non sono dei commerciali. Credo che le capacità possano essere oggetto di apprendimento ma non di certo le competenze e per di più in modo indotto ed eterodiretto. Le capacità, infatti, si possono affinare, può crescere il terreno della loro applicazione, la complessità della loro efficacia, la diversità del proprio ambito di applicazione. Le competenze legate appunto agli atteggiamenti, sono invece fonte di identità degli individui e probabilmente è nella fase della selezione (o in tutte le fasi di valutazione del potenziale) che le aziende dovrebbero sviluppare maggiore coscienza e competenza nel saper scegliere le persone. Questa è comunque una riflessione a monte del processo formativo che ha più la veste di un inciso di riflessione sul fatto che spesso è proprio l’impianto del sistema di formazione che tende a vacillare. Continuiamo comunque nella nostra analisi condividendo che potremmo ancora continuare a lungo nel focalizzare i limiti che impediscono alle persone di metter in atto i processi di crescita attivati grazie alla formazione stessa. Non è, comunque, su questi limiti che vogliamo soffermarci se non per evidenziare che questa analisi critica ci stimola a trovare una forma più efficace di formazione che abbia in sé potenzialità di evoluzione sia per gli individui che per le organizzazioni. A tal fine occorre però ampliare la prospettiva e per certi aspetti capovolgerla perché non si tratta più di far sì che “scolasticamente” le organizzazioni formino gli individui a nuovi e diversi modi di essere ma che gli individui contribuiscano con le proprie risorse a formare nuove organizzazioni. Lo stimolo non è più nel cercare nuove metodologie di formazione ma nel disegnare nuovi confini che siano coerenti con i risultati che le organizzazioni vogliono raggiungere e nello stesso tempo convochino gli individui a partecipare a processi di apprendimento e trasformazione in modo responsabile e coinvolgente. 3. La forma in movimento Poteva sembrare un contesto formativo simile a tanti altri ma le persone coinvolte erano dal Vice Direttore Generale agli impiegati. Non era il corso sulla gestione delle risorse umane, non era il corso sulla leadership, l’obiettivo era più ambizioso ma anche più coinvolgente: il nuovo sistema di gestione e valutazione delle persone in azienda. E così, insieme, noi consulenti davamo il metodo e le persone indicavano la direzione, la propria direzione. 239


Le tappe progressive e non semplicemente lineari si arricchivano dalla condivisione dei valori e delle strategie dell’azienda all’identificazione delle competenze chiave e da qui alla traduzione in comportamenti che potessero diventare annualmente la base della valutazione delle prestazioni. Ovviamente questo era stata la progettazione del sistema che però poi ha richiesto la condivisione di alcuni comportamenti per poter essere efficace e da qui il lavorare insieme, sempre i capi con i collaboratori, sulle modalità di oggettivare le valutazioni, su come comunicarle, su come impostare poi i piani di sviluppo individuali. Guide e manuali scritti insieme, competenze sviluppate insieme, provando e riprovando anche tramite simulazioni e poi aggiustamenti del sistema sempre progressivi e pensati dalle stesse persone che lo utilizzavano. Un grande fermento ed una grande energia ha mosso le persone, le ha motivate ed ha continuato a far emergere ulteriori approfondimenti: ogni anno l’analisi ed il confronto tra le valutazioni nelle diverse aree aziendali, la progettazione di un sistema di incentivazione coerente con la metodologia di valutazione. E poi successivamente si è fatto un passo ancora avanti, il confronto tra le valutazioni all’interno delle aree è diventato un sistema di valutazione reciproca tra le diverse aree aziendali in termini di servizio al cliente interno e tutto questo ha richiesto anche l’impostazione di un processo di comunicazione interno articolato che ha previsto uno scambio tra tutto il personale ed il vertice aziendale attraverso la creazione di specifiche figure chiamate facilitatori. E così qual è poi il confine ed il limite del miglioramento? I suoi segni sono inconfondibili e la sua possibilità è legata principalmente all’energia che è in grado di attivare. Ma l’energia ha delle sue specifiche fonti nell’individuo che non sono costituite da facili euforismi collettivi, a cui recentemente la formazione si è concessa, ma sono legate a tre dimensioni: la possibilità di creare qualcosa, la possibilità di incidere nella propria realtà, la possibilità di vivere il movimento e la trasformazione continua, spontanea e positiva di se stessi e del contesto. Questa formazione, che attiva reale energia, supera, quindi, i limiti di quella più diffusa.

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1 Obiettivo autodefinito 2 Percorso di sviluppo autogenerato

Coinvolgimento traversale

4 Evoluzione sincronica di competenze, sistemi e processi 3

Il contesto è favorevole Il contesto è favorevole perché il coinvolgimento è a tutti i livelli. Può essere un nuovo sistema di gestione e valutazione del personale o può essere la nuova organizzazione di un Contact Management, le competenze che si sviluppano sono esattamente quelle dei nuovi processi perché tutti gli attori vengono coinvolti nel definire la nuova forma organizzativa o il nuovo processo e attraverso la formazione rafforzano le competenze per poter lavorare all’interno del nuovo contesto. In modo dinamico, non c’è un prima e un dopo ma, attraverso una regia molto esperta, le due azioni diventano contemporanee. Il cambiamento è della squadra Si supera la logica di un cambiamento a strati o per famiglie professionali. È la squadra così come è nella realtà ad essere coinvolta tutta insieme. Non c’è un luogo dell’apprendimento tra simili e un momento successivo in cui mettere in pratica le competenze acquisite, scontrandosi con quelle degli altri. Si impara, si costruisce insieme, giocando da subito i rispettivi ruoli. Ovviamente si possono prevedere specifici approfondimenti che, come in un sistema ipertestuale, vengono messi a disposizione di alcuni, ma tutto il percorso è condiviso.

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La direzione è chiara La direzione e l’obiettivo non vengono definiti da chi “sta fuori”. È vero, infatti, che a volte la visione corretta è solo di alcuni e per questo occupano posizioni manageriali ma è pur vero che i manager non possono fare formazione sempre da un’altra parte. La direzione diventa chiara perché diventa condivisa ed in alcuni casi oggetto stesso della formazione. Questa è anche una responsabilità maggiore per tutti ma sicuramente più coerente con un contesto di adulti che apprendono anche attraverso la difficoltà e devono essere convocati ad un ruolo di protagonisti anche della propria formazione e del proprio miglioramento. Gli alibi diventano difficili Scompare una misteriosa e lontana presenza che non ci consente di “fare bene”. Ho sempre percepito molta paura nelle aziende a mettere insieme in contesti di apprendimento persone di livello diverso, i capi ed i collaboratori. Ma non sarà che la legittimazione di alcuni ruoli è talmente tanto fragile da sentirsi esposta al minimo confronto? Trovo che il vantaggio di questo tipo di formazione sarebbe enorme anche per le organizzazioni Si ridurrebbe, infatti, l’implementazione di sistemi progettati dall’esterno che poi non riescono mai a funzionare. Si eviterebbe di impostare piani formativi su mere competenze. I sistemi ed i processi sarebbero necessariamente efficaci perché verrebbero disegnati a “misura” delle persone che li vivono. Si sfuggirebbe a facili mode sia di metodo (come ad es. l’outdoor training) che di contenuto (come ad es, la PNL) che spesso sono divertenti più per i formatori che per i partecipanti. Si uscirebbe da una formazione impostata per corsi che poi ha in sé la complicatissima problematica di riuscire a valutare se stessa per riuscire a legittimarsi: il gradimento, la performance degli individui, sempre risultati limitati rispetto alla possibilità di diventare agente di vera trasformazione. Ed ora, di fronte a questa possibilità, un’altra trasformazione necessaria è proprio quella delle Direzioni del Personale che tanto lavorano per volere migliorare quelle degli altri. La competenza da sviluppare è la visione, è saper diventare colleghi dei propri colleghi, è essere nella linea (di prodotto o si servizio), è sapersi 242


porre come un interlocutore esperto non solo di processo ma anche di contenuti. È un tipo di ruolo che rivendica energia, coraggio e tenacia, capacità di creare senza riprodurre facili schemi, rigore nel governare interventi e processi. Ovviamente il cambiamento non è solo per noi che ci occupiamo di risorse umane. Si tratta di una nuova visione della formazione, di cambiare appunto prospettiva all’interno delle aziende. La formazione non è più uno strumento per sviluppare le competenze delle persone avvicinandole ad un contesto che qualcun altro ha deciso ma il luogo in cui le persone opportunamente aggregate costruiscono il loro microcontesto o un aspetto del macrocontesto dell’azienda, formando se stessi e trasformando l’ambiente. È evidente che questa concezione della formazione porta all’interno delle aziende un nuovo dialogo tra la Direzione del Personale e le altre funzioni aziendali in cui la visione sistemica e sincronica del cambiamento supera quella processuale e lineare. Non c’è un prima e un dopo, non c’è un prima in cui si decide in merito a sistemi, processi, progetti, definizione di ruoli ed un poi in cui si commissiona il cambiamento delle persone ma esiste una contemporaneità consapevole ed armonica. Troppo difficile? A chi continua a replicare con questi facili alibi e ad averli resi anche inconsciamente la propria forma mentale non smetto di citare Paul Bourget “a furia di non vivere come si pensa, si finisce per pensare come si vive”. Riferimenti bibliografici Caprara G.V., Accursio A. (1994), Psicologia della personalità, il Mulino, Bologna. Castello d’Antonio A. (2001), Psicopatologia del management, FrancoAngeli, Milano. Thé E. (a cura di) (2003), Le magiche visioni di Escher, progetto di Erik Thé, Taschen.

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La valutazione quantitativa della formazione aziendale. Dalle misure economico-finanziarie agli indicatori bilanciati di Emilio Rago

1. Il valore della formazione aziendale Per valutazione s’intende il processo di determinazione del valore materiale o immateriale (simbolico, morale) di un oggetto. Tale processo può essere formalmente determinato, seguendo una serie esplicita di fasi logiche e fisiche, o informalmente realizzato, attraverso un implicito e soggettivo riconoscimento di valore. La valutazione della formazione, quindi, rappresenta quel processo, più o meno formalizzato, che concorre a riconoscere ed attribuire valore agli interventi formativi. In particolare, si farà riferimento agli investimenti in formazione aziendale, intendendo per tale la facilitazione intenzionale dell’apprendimento organizzativo realizzato mediante la creazione di eventi, percorsi ed iniziative che, nel contesto lavorativo, siano in grado di sviluppare le competenze richieste per lo svolgimento di determinati compiti. Per valutare la formazione aziendale, pertanto, occorre far riferimento al concetto di valore aziendale e dei relativi processi di analisi e determinazione (value analysis). Nel concetto di valore dei processi aziendali si comprende l’insieme dei benefici materiali e immateriali generati a favore di tutti coloro che fruiscono direttamente o indirettamente delle attività organizzative. La riformulazione del concetto di valore allarga e definisce la categoria degli attori formativi, mutuando il significato di stakeholder della formazione, ossia di tutti quei soggetti (istituzionali e non) influenzati positivamente o negativamente dalle attività formative. La centratura del valore formativo sui soggetti diretti e indiretti della formazione amplifica l’interpretazione soggettiva del valore delle attività formative, spostando l’attenzione dal concetto di valore a quello di valenza, ossia alla capacità delle attività formative di “combinarsi” efficacemente sui bisogni reali e sui significati personali del singolo soggetto. 244


Un’attività formativa ha valore se tende a massimizzare le valenze soggettive degli individui che direttamente o indirettamente ne partecipano. Sotto questo punto di vista, il valore viene a svincolarsi dalle caratteristiche estrinseche del prodotto/servizio (qualità, economicità, tempestività), dei processi che lo hanno generato (efficienza, equità, produttività) o del valore dei fattori produttivi che sono stati impiegati (lavoro, relazioni, capitali, beni fisici o immateriali), andando a relativizzarsi sulle necessità soggettive e contingenti, sull’effettiva utilità e utilizzabilità, sulla responsabilità sociale che promuove, sulla trasformazione individuale che facilita e sulle relazioni di lungo termine che produce (capitale di mercato, fedeltà dei clienti, integrazione dei processi, …). Ancora oggi, purtroppo, siamo di fronte alla trappola della percezione del valore, ossia che qualcosa ha valore se viene percepita come tale. Essere diventati consapevoli dell’importanza della percezione nell’orientamento del processo di acquisto del consumatore ha spostato cinicamente l’attenzione dall’utilità reale all’utilità apparente, dalle capacità di lavoro a quelle di rappresentazione e ristrutturazione dei significati. Anche nelle attività formative si assiste, talvolta, a processi di pushing formativo, di marketing della formazione, nell’accezione più manipolativa possibile. Se si è in grado di modificare il sistema di significati del potenziale cliente, se siamo in grado di creargli una condizione di bisogno rispetto alla nostra offerta, se siamo in grado di potenziare le nostre capacità di comunicazione e di vendita potremmo affermare il nostro prodotto/servizio formativo, differenziandoci dai nostri concorrenti. Valutare la formazione vuol dire anche restituirle il valore che le pertiene1. Affinché la formazione sia considerata un bene per il soggetto che la riceve occorre che risponda in modo utile ad un suo preciso bisogno presente o futuro. Bisogna, cioè, andare al di là della percezione di valore alla ricerca del reale valore per il soggetto delle attività formative. La soddisfazione del cliente della formazione si produce quando riusciamo a svincolare le attività formative dalla domanda e orientarle sul bisogno effettivo, ossia quando gli diamo nel modo migliore quello che chiede se gli è effettivamente utile, ossia se oltre al prodotto/servizio siamo in grado di aiutarlo nel suo processo di ricerca e di crescita. Per orientarsi sapientemente verso un siffatto modello di valore formativo occorre leggere prospetticamente le relazioni organizzative e di mercato. Se un’azienda nasce con l’obiettivo di sopravvivere ai suoi fondatori e di permanere nel lungo termine nel mercato è opportuno (oltre che mo-

1. Si ringrazia U. Capucci (Past Presidente AIF) per le riflessioni più volte testimoniate sul valore della formazione nei convegni associativi e negli incontri organizzati dall’Osservatorio Permanente della Formazione Manageriale della SDA Bocconi.

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rale!) generare un valore reale e non illusorio, fittizio per i diversi stakeholder. La generazione del valore, infatti, la si apprezza o si misura completamente solo integrando un approccio di breve termine, necessariamente più tangibile e concreto con una dimensione invisibile, intangibile di lungo termine. Valutare la formazione aziendale, pertanto, significa: (a) osservare, analizzare, stimare e misurare costi e benefici materiali e immateriali; (b) integrare approcci di breve termine con valutazione di lungo periodo; (c) esplorare la dimensione soggettiva non trascurando le basi oggettive di valore. Le dimensioni oggettive del valore delle attività formative si possono ricondurre alle aree chiave delle prestazioni dei processi organizzativi (key performance areas): costi, tempi e qualità. Valutare la formazione si traduce, quindi, nell’analisi dell’efficienza formativa (ottenere il massimo risultato formativo con il minimo sforzo organizzativo), dell’efficacia formativa (realizzare gli obiettivi di apprendimento pianificati e programmati massimizzando la qualità dei processi formativi) e di economicità formativa (contenimento e minimizzazione dei costi formativi a parità di risultati). A queste dimensioni valutative si è aggiunta, ultimamente, anche le considerazioni sull’etica delle attività formative. In questa sede verranno approfondite le metodologie quantitative per la misurazione del valore economico-finanziario degli investimenti formativi o per la valutazione bilanciata dei risultati e dell’efficacia del processo. 2. La valutazione economico-finanziaria degli investimenti formativi: il benefit-cost ratio (BCR) ed il return on training investment (ROTI) La cultura intorno alla formazione è ancora gravata dall’aurea del “costo”, della spesa ineluttabile senza recupero economico. Questa considerazione si è riversata anche sulla domanda di formazione, divenuta sempre più attenta ed esigente, soprattutto nel richiedere un’estrema personalizzazione degli interventi di formazione, rispetto alle proprie esigenze e finalità organizzative. Nonostante il consenso sulla strategicità delle risorse umane, spesso si assiste alla contrazione dell’investimento formativo, delle risorse destinate alla formazione delle persone all’interno dell’azienda. In una visione di breve periodo e cost-oriented le risorse umane sono percepite come costo, gli impegni formativi, soprattutto quelli di lunga durata e multiaziendali, vengono ridotti a favore di quelli su misura e focalizzati a specifici obiettivi di sviluppo organizzativo. Si assiste a una dinamica paradossale del mercato della formazione: ad una presunta importanza attribuita allo sviluppo dell’organizzazione e del 246


personale corrisponde una minimizzazione degli investimenti formativi con aumento della pressione sui risultati. La presunta non misurabilità dei ritorni formativi per decenni ha destinato le spese formative tra i centri di costo e non di profitto, pur chiamandoli investimenti. Oramai, la riconosciuta natura di “investimento aziendale”, strategico per l’impatto sul capitale umano, introduce la necessità di valutare non solo la qualità del processo formativo, l’apprendimento o l’impatto sulla prestazione, ma anche il miglioramento dei risultati aziendali, misurandoli mediante indicatori economici di tempi, costi e qualità. L’introduzione delle metodologie contabili per la misurazione della redditività degli investimenti in formazione è stata indotta da una serie di fattori concomitanti che hanno richiesto ai responsabili della formazione un maggiore pragmatismo manageriale nella gestione e nella valutazione delle attività formative. In contesti statunitensi e nordeuropei le forze che hanno indotto la misurazione del return on training investment (o ROTI) nelle grandi aziende o nelle corporate university si possono così riassumere: a) l’accresciuta attenzione alla misurazione delle performance di processo stimolata dal Total Quality Management (TQM), dal Continuous Process Improvement (CPI) e dagli interventi di Business Process Reengineering (BPR). Se si considera la formazione come un processo organizzativo, strutturato per fasi e attività, anche la formazione può essere misurata e valutata nei suoi Key Performance Indicators (KPI) del tempo, del costo e della qualità; b) i numerosi interventi di reingegnerizzazione e di ristrutturazione organizzativa, con la conseguente minaccia di outsourcing della funzione formativa. La necessità di sopravvivere all’esternalizzazione ha indotto i responsabili della formazione a misurare quantitativamente l’efficienza dei processi formativi e la loro ricaduta in termini economici, portando al bivio le prassi valutative: misurazione vs. esternalizzazione. La misurazione, in questo modo, ha avvicinato maggiormente la formazione alla cultura, al linguaggio del management; c) l’evoluzione della struttura mentale del management delle risorse umane, che pone sempre più enfasi sulle metriche, sulle valutazioni finanziarie degli investimenti in capitale umano, anche per rafforzare e difendere internamente la propria immagine e la propria funzione organizzativa; d) il bisogno di esprimere quantitativamente l’apporto delle funzioni di staff ai risultati organizzativi, ponendo in risalto che anche gli investimenti in capitale umano possono essere valutati mediante indicatori di redditività. 247


In sostanza, l’attività di controllo manageriale degli investimenti in formazione ha acquisito importanza sempre maggiore per via della precarietà congiunturale che la domanda di formazione ha sviluppato nel tempo. Infatti, gli investimenti formativi, di fronte ad una caduta di redditività di breve periodo, sono i primi a contrarsi, la formazione essendo tradizionalmente considerata come una spesa residuale nella gestione aziendale. Occorre, pertanto, recuperare la dimensione numeraria e finanziaria di tale investimento e considerarlo alla stessa stregua di altri investimenti aziendali. Le decisioni sull’organizzazione e la gestione della formazione aziendale possono essere valutate mediante una misurazione sintetica della performance degli investimenti formativi. Generalmente, si utilizzano due indicatori di performance formativa: 1. il benefit-cost ratio, o BCR; 2. il return on training investment, o ROTI. Entrambi gli indici presuppongono un’accurata analisi dei costi totali e dei benefici totali degli interventi di formazione realizzati in azienda. Costi e benefici vengono poi confrontati in modi diversi. In particolare, il BCR esprime il rapporto tra il valore economico totale dei benefici prodotti dalla formazione fratto il totale dei costi sostenuti. Totale Benefici Formativi BCR = _____________________ Totale Costi Formativi

Se, ad esempio, il BCR è pari a 3,7, vuol dire che ogni euro investito in formazione produce 3,7 € di benefici. Diversamente, il ROTI esprime il rapporto tra il valore netto dei benefici realizzati dagli investimenti formativi (totale valore benefici formativi – totale costi formativi) fratto il totale dei costi formativi. (Tot. Valore Benefici Formativi – Tot. Costi Formativi) ROTI = ____________________________________________ × 100 Totale Costi Formativi

L’indice, in questo caso, esprime il beneficio netto, ossia dopo la copertura dei costi formativi, di ogni euro investito in attività di formazione. Tale misura serve, così, a confrontare le decisioni sugli investimenti aziendali e il responsabile della formazione ha una base oggettiva di negoziazione interna delle risorse. Il ROI della formazione aziendale valorizza in modo quantificabile e oggettivo il contributo degli organi di staff alla produttività e alla redditività aziendale, consentendo un confronto numerario anche sulle decisioni di sourcing dei processi formativi. 248


Il ROTI è un indice di performance e, in quanto tale, esprime in modo estremamente sintetico le logiche di efficacia e di efficienza che risiedono alla base delle decisioni sulla formazione aziendale. Aumentare o diminuire il ROTI vuol dire agire con maggiore o minore incisività sull’organizzazione e sulla gestione degli interventi formativi, in quanto da queste derivano i costi e i benefici valorizzati dall’indice. Il ROTI esprime l’economicità e la finanziabilità delle scelte relative a ciascuna fase dei diversi processi formativi, indicando quali decisioni formative massimizzano i benefici e quali tendono a minimizzare i costi della formazione. 3. Il return on training investment (ROTI): la metodologia La misurabilità delle decisioni formative rende giustizia all’importanza economica e organizzativa degli investimenti in capitale umano. La metodologia di calcolo del ROTI assume come base di partenza il quarto livello di valutazione della formazione, previsto nel modello di Kirkpatrick e relativo ai risultati individuali e organizzativi degli interventi formativi. Dal confronto tra i risultati globali, tangibili e intangibili, ottenuti con gli interventi formativi e il totale dei costi della formazione si risale all’indice del ROTI. In questo caso, il punto di partenza dell’analisi non è dato dal gradimento (livello I di Kirkpatrick) delle attività formative, bensì dalla valutazione della prestazione (livello III) nel periodo successivo all’erogazione formativa. In sostanza, quello che interessa maggiormente in questa “catena degli effetti” della formazione è il miglioramento delle prestazioni lavorative. Infatti, valutare il miglioramento della prestazione, isolando gli effetti della formazione dalle altre possibili cause, implica che le persone abbiano effettivamente acquisito o sviluppato le competenze di cui avevano bisogno (livello II), segno che il processo formativo abbia funzionato con un minimo di efficacia (livello I). Contestualmente, dal miglioramento della prestazione si può dedurre con un certo grado di affidabilità che il management abbia facilitato o non ostacolato l’applicazione al contesto lavorativo delle competenze formate. Allo stesso modo il miglioramento dei risultati di business (livello IV) dipende dall’applicazione al contesto lavorativo (livello III) delle competenze acquisite (livello II) e dalla misurabilità degli effetti sulla prestazione. I livelli, tra loro, non sono necessariamente dei predittori dei rispettivi gradi di efficacia o di efficienza, pur essendo implicitamente correlati. Pertanto, per comprendere l’impatto sul business degli interventi formativi occorre aver valutato i livelli precedenti. 249


L’introduzione di un quinto livello, il livello del ROTI, esprime, quindi, il valore numerario netto dei risultati formativi (fig. 1). Fig. 1 - I livelli della valutazione dei risultati delle attività formative Reazione

Competenze

Prestazione

Risultati

ROTI

I primi livelli della valutazione interessano per lo più i ruoli dell’analista della formazione, del progettista dei percorsi di apprendimento, del formatore d’aula, del consulente alla prestazione; gli altri livelli, relativi al miglioramento dei risultati di business e della misurazione del ROTI interessano maggiormente il responsabile della formazione aziendale ed il management, ossia chi è organizzativamente preposto alla valutazione dei risultati della formazione aziendale. La metodologia di costruzione del ROTI può essere sintetizzata in alcune fasi principali (fig. 2): a) Analisi dei Costi2 della formazione aziendale. b) Analisi dei Benefici della formazione aziendale. c) Valorizzazione economico-finanziaria dei Benefici. d) Costruzione dell’indicatore di performance economico-finanziaria. Fig. 2 - La costruzione del ROTI Analisi Costi

Analisi Benefici

Valore Benefici

ROTI

Prima di procedere alla misurazione del ROTI, occorre precisare che, essendo tale modalità di valutazione costosa e difficoltosa, bisogna innanzitutto scegliere i prodotti/servizi formativi da valutare. In questo può venirci in aiuto l’orientamento al confronto, grazie al quale è possibile sce2. Sui costi è possibile condurre diverse tipologie di analisi: analisi costi-benefici, analisi costi-efficacia, analisi costi-utilità, analisi costi-opportunità e analisi costi-fattibilità; in questa sede e per la metodologia del ROTI che verrà presentata si condurrà l’analisi costibenefici (CBA, cost-benefit analysis).

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gliere quei prodotti/servizi formativi che sono maggiormente strategici o critici per la funzione formativa. Altri modelli di scelta dei prodotti formativi da valutare evidenziano ulteriori criteri decisionali, quali: 1. la dimensione del programma, si valutano economicamente solo i programmi formativi che coinvolgono più persone, più funzioni aziendali; 2. il valore dell’impegno economico-finanziario, ossia si valutano i programmi formativi che costano di più all’azienda, secondo le metodologie di calcolo del full costing; 3. la complessità del programma formativo, si valutano economicamente i programmi che risultano organizzativamente più impegnativi per l’azienda; 4. il tempo di durata dell’intervento formativo, per cui si analizzeranno i programmi formativi che consumano più tempo organizzativo; 5. la criticità organizzativa del committente formativo, ossia si valutano più attentamente i programmi formativi sostenuti da clienti indiretti con il maggior peso politico all’interno dell’organizzazione. Sostanzialmente, non occorre valutare tutti i programmi formativi con la metodologia del ROTI, ma ve ne possono essere alcuni che richiedono un’attenzione valutativa maggiore, realizzata attraverso la creazione di misure, indicatori di performance in grado di esplicitare più precisamente il grado di contribuzione delle attività formative ai risultati aziendali economico-finanziari. È importante ricordare che la metodologia valutativa del ROTI presuppone uno sforzo iniziale di avviamento culturale e organizzativo non indifferente, in quanto, le competenze per calcolare il ROTI spesso non sono residenti in senso specifico nella funzione del personale. Inoltre, occorre un forte grado di collaborazione interfunzionale per avere le basi di dati necessari ad impiantare un vero e proprio sistema informativo della formazione aziendale. A questi fattori va, infine, aggiunta la resistenza psicologica al cambiamento delle metodiche valutative da parte di chi organizzativamente è preposto a questa funzione, con tutti i dubbi e le paure del caso. 4. Analisi dei costi della formazione aziendale La metodologia del ROTI prevede, come già anticipato, innanzitutto l’analisi dei costi della formazione. Nell’analisi dei costi della formazione aziendale occorre adottare la metodologia contabile del full costing (costo pieno) di formazione, valorizzando i costi diretti e indiretti prodotti dalle attività formative. Alcuni costi della formazione sono facilmente rinvenibili durante il processo di valutazione, essendo direttamente e indirettamente correlati alla formazione; per tale motivo vengono detti “visibili”. 251


Sono costi visibili della formazione aziendale: a) i salari e gli stipendi del personale, interno ed esterno (collaboratori e consulenti), che si occupa di formazione: analista di formazione, progettista, formatore, coordinatore, tutor, responsabile del programma, responsabile della formazione aziendale; b) i costi di progettazione, produzione e pubblicazione dei materiali didattici (compresi i diritti di autore); c) il trasporto, il vitto e l’alloggio dei partecipanti; e) i prezzi di acquisto dei prodotti (ad esempio: partecipazioni a corsi, seminari, conferenze, workshop) e dei servizi della formazione (ad esempio: interventi di coaching, mentoring, orienteering) acquistati sul mercato; f) l’ammortamento o il noleggio dei macchinari e degli impianti destinati alla formazione (ad esempio: sala riunioni, video-beam, lavagna a fogli mobili). Un’altra parte consistente di costi viene spesso trascurata da chi valuta la formazione e sono i cosiddetti costi “nascosti”, ossia quei costi che non emergono direttamente all’attenzione del valutatore. Sono considerati costi nascosti: a) i salari e gli stipendi dei partecipanti ai programmi formativi; b) i costi della mancata produzione aziendale; c) il costo della “poor quality” della formazione: scarsa efficacia dell’analisi del fabbisogno formativo; bassa qualità nella progettazione didattica; inefficacia nella selezione dei partecipanti; errori nei tempi, nei modi e nelle metodologie dell’erogazione formativa; scarse capacità di implementazione della formazione al contesto lavorativo; d) i costi di transazione e cambiamento nella scelta, nella gestione e nel controllo delle relazioni con i fornitori di prodotti e servizi formativi; e) i costi opportunità: per i clienti non tempestivamente soddisfatti; la redistribuzione del carico di lavoro dei partecipanti ai colleghi e collaboratori rimasti al lavoro; le opportunità perdute per le transazioni non portate avanti o ritardate o non sfruttate in tempo dai partecipanti ai corsi; eventuale minor efficienza ed efficacia a causa dell’assenza delle persone e, quindi, delle competenze richieste nello svolgimento delle attività aziendali (fig. 3). Fig. 3 - L’iceberg dei costi della formazione aziendale Costi Visibili

Costi Nascosti

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Nell’analisi dei costi occorre tener presente anche il criterio di imputazione dei costi alle attività formative, valutando, ad esempio, se i costi sono per partecipante, per edizione del programma, una tantum per l’intero periodo di riferimento. Dalla ricerca “Organizzare e gestire la formazione aziendale” che l’Osservatorio Permanente sulla Formazione Manageriale dell’Area Organizzazione e Personale della SDA Bocconi ha condotto negli anni 20002002, i costi della formazione del personale dipendente a tempo indeterminato nell’anno 2000 per le 88 aziende rispondenti – distinte per classi di addetti – si sono così ripartiti (tab. 1):

Costi Formazione Dipendenti Costo del “non lavoro” Spese viaggio/soggiorno Costo personale dedicato Costo materiali didattici Costo attrezzature didattiche Costo infrastrutture Prezzi acquisto mercato formativo Prezzi collaborazioni esterne Sovvenzioni finanziarie Costo Totale Netto

100-499

500-999

> 1000

Media

46,8% 4,6% 13,9% 2,3% 2,5% 3,5% 23,6% 2,8% 1,1% 98,9%

84,2% 1,7% 3,2% 0,6% 0,8% 1,4% 6,7% 1,4% 1,6% 98,4%

59,0% 3,5% 12,2% 1,4% 1,6% 6,4% 10,5% 5,3% 0,8% 99,2%

63,3% 3,3% 9,8% 1,4% 1,6% 3,8% 13,6% 3,2% 1,2% 98,8%

Nell’elaborazione dei risultati della ricerca si sono aggregate le diverse tipologie di costo indagate in quattro categorie di analisi: i) i costi diretti: spese di viaggio e di soggiorno per formazione residenziale; costo dei materiali didattici (fotocopie, libri, penne, videotape, licenze software, …); costo attrezzature didattiche (proiettori, flip charts, computers, pennarelli, …); costo delle infrastrutture (noleggio di aule, costi di gestione del centro di formazione, quote di ammortamento delle infrastrutture dedicate in relazione al loro utilizzo per scopi formativi); ii) i costi di acquisto esterno: prezzi di acquisto sul mercato delle iniziative di formazione (corsi, seminari, conferenze, master, …); prezzi di acquisto delle collaborazioni esterne (progettisti, formatori, tutor, coach esterni, …); iii) i costi del “non lavoro”: costo del lavoro del personale per le ore impiegate in attività formative (ore di formazione x stipendio orario medio × n. partecipanti); 253


iv) i costi del lavoro: costo del lavoro del personale dedicato alle attività formative, in relazione al tempo effettivamente impiegato per la formazione (progettisti, formatori, tutor, coordinatori, responsabili della formazione, …). L’analisi dei dati per classi di addetti mostra che per le aziende di minori dimensioni (100-499 addetti) il peso economico dell’acquisto di prodotti e di competenze di formazione sul mercato determina una buona parte (26,4%) dei costi formativi (fig. 4). Fig. 4 - I costi della formazione aziendale per il campione nell’anno 2000 (analisi per categorie di costi e per classi di addetti)

Nelle imprese di medie dimensioni (500-999 addetti), invece, il peso del costo del “non lavoro”, della mancata produttività rappresenta essere la quasi totalità del costo formativo (84,2%). Le informazioni sui pesi delle diverse categorie di costo per le aziende indagate esprimono le aree di criticità che il responsabile della formazione, se presente, deve presidiare. Ad esempio, con riferimento a quest’ultimo dato, poiché il costo del “non lavoro” per le imprese di medie dimensioni rappresenta l’84,2% dei costi formativi, il responsabile della formazione dovrebbe curare al massimo la scelta delle persone da formare, in quanto il loro costo orario per la mancata produttività risulta essere critico per l’azienda. Così come chi decide della formazione nelle aziende con addetti compresi tra 100 e 499 dovrebbe ponderare bene il peso economico del personale impiegato nella formazione (13,9%), analizzandone il carico di lavoro, la produttività e la necessità organizzativa di simili posizioni. D’altro canto, il peso del 23,6% (sul totale del costo di formazione, tab. 1) per l’acquisto di eventi formativi sul mercato dovrebbe spingere il responsabile della formazione aziendale ad analizzare i volumi acquistati ed i prezzi medi: il maggior costo è dovuto al maggior numero di ore di formazione 254


acquistate all’esterno oppure da un’inefficiente politica degli acquisti e delle negoziazioni con gli enti di formazione? Per quanto riguarda le imprese con più di 1000 addetti, si può riflettere circa il peso del 6,4% del costo delle infrastrutture (tab. 1) sul costo totale della formazione (più del doppio della media dei pesi per le altre classi di addetti). Tale costo è dato dalla presenza di centri di formazione dedicati? Oppure l’affitto di sale convegni e seminari presso alberghi dotati di attrezzature didattiche risulta essere particolarmente oneroso? L’azienda, in questi termini, è adeguatamente dimensionata rispetto ai volumi di formazione interna che eroga alla popolazione organizzativa? La maggiore incidenza di questa categoria di costo indurrebbe l’apertura dei corsi di formazione all’esterno, magari a clienti e fornitori? È il caso di progettare e sviluppare una vera e propria corporate university? Dalla media generale delle dimensioni aziendali per classi di addetti (fig. 5) emerge che il costo del “non lavoro” rappresenta comunque il peso maggiore dei costi di formazione (63,3%). Il tempo impiegato nell’attività formativa è, pertanto, la variabile critica dell’organizzazione e della gestione della formazione aziendale. Tuttavia, la minimizzazione dei costi (nel rispetto dei criteri di economicità ed efficienza della formazione aziendale) passa per una serie di domande che il responsabile della formazione deve porsi nella supervisione dei processi formativi. Ad esempio, si sono scelte le persone con il fabbisogno formativo allineato con l’offerta di formazione? Il grado di approfondimento delle competenze rispetta la preparazione di partenza delle persone? I capi diretti e i supervisori dei partecipanti hanno convenuto la partecipazione al corso e le modalità per implementarlo una volta terminato? Le aule composte posseggono quel giusto grado di omogeneità che rende più efficace il processo formativo? Solo rispondendo a queste e altre domande, il responsabile della formazione potrà intervenire sui costi, ripensando e riprogettando i diversi processi formativi. Fig. 5 - I costi della formazione aziendale (anno 2000, media generale) Costi diretti 10,1%

Prezzo acquisto 16,8% Costo lavoro 9,8%

Costo del non lavoro 63,3%

255


5. Analisi dei benefici della formazione aziendale Mediante l’analisi dei benefici si individuano ed isolano i benefici ottenuti come risultato del trasferimento dell’apprendimento individuale al contesto organizzativo. Tra i benefici è possibile distinguere quelli più oggettivi, “facilmente” rilevabili e trasformabili in valori monetari (per questo detti anche benefici hard), misurati dai tradizionali indicatori della prestazione organizzativa, e benefici “difficilmente” misurabili e convertibili in risparmi monetari, attinenti per lo più a dimensioni soggettive, comportamentali e astratte (detti anche benefici soft). Tra i benefici hard è possibile distinguere i benefici/risparmi ottenibili in: 1. output: n. delle quantità prodotte, n. elementi assemblati, n. ordini evasi, n. delle informazioni trattate, tutti nell’unità di tempo considerata; 2. qualità: n. errori/incidenti, n. scarti, n. prodotti difettosi, n. resi, n. di reclami, n. rilavorazioni, nell’unità di tempo o sul totale prodotto; 3. tempo: tempo di formazione, tempo di attrezzaggio, tempo di ciclo, tempo di processo, tempo di supervisione, risparmi in gestione del tempo; 4. costi: costi accidentali, risorse impegnate, eliminazione attività operative, costi legali e assicurativi, costi variabili. Tra i benefici soft è possibile distinguere i benefici/risparmi ottenibili per cambiamenti in: 1. abitudini lavorative: percentuale di assenteismo, ritardi lavorativi, richieste di permessi, scioperi aziendali, turnover occupazionale, n. di vertenze sindacali, violazioni delle norme di sicurezza; 2. atteggiamenti: equità/lealtà, senso di responsabilità, commitment, soddisfazione sul lavoro, …; 3. capacità: n. di decisioni prese, n. problemi risolti, n. conflitti evitati, frequenza d’uso delle nuove capacità, …; 4. sviluppo: n. di promozioni, n. aumenti di stipendio, n. richieste di trasferimento, n. di programmi di formazione frequentati, …; 5. iniziativa: n. di suggerimenti proposti, n. di nuovi progetti, maggiore frequenza del goal setting. La criticità della metodologia del ROTI risiede proprio nella valorizzazione monetaria dei benefici soft che richiedono l’uso di metriche complesse non facilmente costruibili senza profonde competenze specifiche e senza una totale trasparenza e condivisione informativa. Per questo, nella prassi aziendale si tende a valorizzare tipicamente i benefici hard, esprimendo in termini qualitativi o quantitativi non monetari i benefici soft. Prima di procedere con la valorizzazione dei benefici ottenuti dagli investimenti formativi occorre isolare gli effetti della formazione dalle altre possibili cause organizzative o ambientali. Infatti, molto spesso la forma256


zione è associata ad una riorganizzazione, all’acquisto di un’attrezzatura o di un software, all’introduzione di un nuovo prodotto o servizi, all’entrata o all’uscita dell’azienda da un settore, per esempio. Esistono quasi sempre, cioè, altri fattori, che possono condizionare il livello di prestazione delle persone che vengono formate. Per lo stesso motivo, è necessario stimare anche quanto possano durare i benefici e gli effetti positivi della formazione sul business (ossia il periodo di pay-off). Allo scopo di isolare gli effetti della formazione sul miglioramento delle prestazioni, è possibile mettere in campo alcuni correttivi metodologici, quali: a) la sperimentazione formativa con gruppi di controllo: si prendono due o più gruppi separati, casuali, con condizioni di partenze simili per composizione demografica, ed esposti alle stesse condizioni ambientali (si può anche effettuare una valutazione della prestazione lavorativa prima dell’esperimento). Al termine della formazione si procede con la misurazione della prestazione. La differenza può essere ricondotta con una buona approssimazione direttamente alla formazione. È consigliabile non comunicare la condizione di gruppo di controllo, in quanto si potrebbero sentire come cavie e per questo avere effetti demotivanti o ipermotivanti, falsando comunque l’esperimento; b) l’utilizzo di modelli di previsione matematica, ossia si costruisce un’equazione lineare in cui il miglioramento della prestazione viene indotto esclusivamente da una variabile. In casi contrari, cioè quando più variabili concorrono al miglioramento della prestazione, è necessario applicare modelli statistici sofisticati e i dati devono essere stati accuratamente raccolti ed elaborati; c) l’utilizzo della stima dei partecipanti, tramite domanda diretta ai partecipanti si chiede loro quanto del miglioramento della prestazione sia dipeso dalla formazione e quanto no. È abbastanza credibile in quanto essi sono stati i soggetti della formazione e della prestazione; essi intraprendono direttamente le azioni organizzative e, quindi, possono dire quanto è migliorato grazie alla formazione. Domande tipiche potrebbero essere: – quale percentuale del miglioramento lavorativo può essere attribuita all’applicazione di capacità, tecniche, conoscenze acquisite nella formazione? – su quali basi operate la vostra stima? – quale grado di fiducia avete nella vostra stima? – quali altre persone o gruppi possono fare una stima del vostro lavoro? – quali altri fattori hanno contribuito od ostacolato il miglioramento della vostra prestazione? Tale metodo si basa su stime, percezioni, opinioni e, quindi, non è pienamente affidabile, in quanto a volte si possono non conoscere tutti i 257


d)

e)

f)

g)

h)

fattori che abbiano contribuito al salto di performance. È un metodo poco costoso, di facile comprensione, con dati che derivano da fonti credibili anche se, purtroppo, si apre a fenomeni di opportunismo organizzativo; l’utilizzo della stima dei supervisori, in sostituzione o in aggiunta a quelle dei partecipanti. Molto spesso i supervisori sono più familiari con gli altri fattori che non la formazione, per giudicare i miglioramenti della prestazione. È consigliabile effettuare anche ai supervisori le stesse domande fatte ai partecipanti. Un approccio conservativo tende a prendere in considerazione l’effetto minore delle due stime ed includere una spiegazione dettagliata. In alternativa, si potrebbe operare una media delle due stime. Anche quest’approccio correttivo presenta degli svantaggi collegati alla soggettività e alla riluttanza a partecipare; l’utilizzo della stima del management, chiedendo loro quanta percentuale di miglioramento della prestazione sia dovuta alla formazione o meno. I committenti decidono i fondi quindi è anche abbastanza credibile come meccanismo valutativo, considerata l’attenzione e la sensibilità che devono avere per giustificare l’allocazione e l’impiego delle risorse scarse. In genere, il top management ha la supervisione di tutti i cambiamenti che possono intervenire nei processi, nelle procedure e nella tecnologia, per cui può esprimere una valutazione attendibile dei fattori non formativi del miglioramento della prestazione; l’utilizzo della stima degli esperti, consulenti indipendenti o fonti di settore, che possiedono la necessaria competenza per giudicar quanto del miglioramento di processo sia dovuto alla formazione. Seppure costantemente ricercata come benchmarking, la stima degli esperti esterni non è molto credibile perché spesso i programmi sono diversi e perché la fonte è esterna. Avrebbe maggior valore se operata da un esperto interno, un best performer o da un consulente esterno che conosca bene la cultura e le dinamiche interne all’organizzazione; la valutazione da parte dei clienti, che spesso sono gli utenti finali della formazione delle persone. La formazione dovrebbe migliorare la qualità, i tempi e i costi della prestazione e una migliore prestazione dovrebbe rendere un servizio ed un prodotto migliore al cliente finale. Quindi, è il cliente stesso che può giudicare quanto la formazione sia, poi, risultata in miglioramento lavorativo: ad esempio il miglioramento della customer satisfaction del 5% potrebbe essere un indicatore molto utile nella valutazione della formazione al servizio (ad esempio: sul front office di una banca). Una simile valutazione è un po’ più difficile da realizzare sui clienti finali di prodotti fisici; la valutazione da parte dei collaboratori subordinati e/o dei propri pari, che in alcune situazioni possono fornire dati molto attendibili sia sulla formazione ricevuta dai loro supervisori o dai loro colleghi che 258


sull’implementazione al contesto lavorativo delle capacità comportamentali sviluppate. Da parte loro è possibile ricevere numerosi input sul cambiamento del comportamento organizzativo o della competenza tecnica del loro supervisore/collega, esplicitando anche se, secondo la loro opinione, altri fattori possano aver contribuito. Per ottenere simili informazioni valutative è possibile effettuare delle indagini, delle analisi di clima o delle interviste individuali o collettive; i) la valutazione dei fattori esterni, che in alcuni casi è più semplice da effettuare rispetto agli altri fattori, determinando l’impatto sulla formazione in modo residuale. È utilizzabile quando i dati sui fattori extraformativi sono più facili da reperire e da misurare. Ad esempio: nel caso di aumento generalizzato dei prestiti dopo la formazione di un impiegato addetto ai prestiti, si potrebbero valutare le variazioni del tasso di interesse prima e dopo l’intervento formativo. L’utilizzo delle stime nel calcolo di un indice di rendimento come il ROTI non deve stupire, se si pensa che nei princìpi della contabilità generale è da circa un secolo che si utilizzano, oltre ai valori numerari certi, anche quelli assimilati o presunti, costruiti intorno a stime o congetture (si pensi, ad esempio, ai fondi rischi, ai fondi oscillazione titoli o cambi, alle perdite presunte su titoli) seppur orientate da un principio di prudenza contabile. Del resto, il differente grado di certezza dei valori numerari di bilancio non ha mai impedito di arrivare ad una definizione aziendalmente condivisa di utile. Si potrebbe, allo stesso modo, accettare pacificamente una certa stima prudenziale dei benefici (hard e soft) ottenuti grazie agli investimenti formativi. Una volta individuati e isolati gli effetti positivi della formazione sulla prestazione e sui risultati aziendali si procede con la valorizzazione dei benefici, ossia con la traduzione in valori monetari dei benefici rilevati, allo scopo di comparare i benefici ai costi e costruire l’indice del ROTI. La metodologia di conversione avviene separando, innanzitutto, le classi di benefici (quantità, qualità, tempi e costi). Per ognuna di queste classi si prendono i singoli indicatori di miglioramento (ad esempio, n. di quantità prodotte) e si determina il valore unitario di ogni singola dimensione analizzata (ad esempio, il costo di produzione di un’unità). Si determina il cambiamento di performance attribuibile direttamente alla formazione (ad esempio, da 10 a 12 unità prodotte = + 2 unità per giorno di produzione); si quantifica l’ammontare annuale del miglioramento della prestazione (ad esempio, 2 × 200 gg di produzione = 400 unità in più). Si determina, infine, il beneficio di produzione dovuto alla formazione moltiplicando il costo di produzione unitario per l’ammontare annuo della quantità. Tuttavia, occorre precisare che per la conversione in valori economici dei dati di performance, è opportuno far corrispondere a particolari classi di dati specifici metodi di valorizzazione. Ad esempio, per i cambiamenti 259


nella quantità prodotta, si valuta l’efficienza produttiva, ossia: quante unità di input hanno prodotto quante unità di output? La rilevazione di questi dati dipende dalla natura e dalla struttura del sistema informativo aziendale. Se l’output non dovesse essere rilevato, si potrebbe guardare al costo marginale o all’analisi della sensitività. Per la valutazione della qualità, in regime di “zero difetti” il valore del miglioramento può essere misurato con l’eliminazione del costo associato alla riparazione o alla sostituzione del pezzo. Per quanto attiene la valorizzazione del risparmio di tempo dei dipendenti, ad esempio per effetto di un percorso formativo di time management, è opportuno calcolare quante ore siano state risparmiate moltiplicandole per il costo orario del lavoro aziendale, in media se si parla di aula. Ma il risparmio di lavoro può anche essere valorizzato tenendo presente che per ogni persona occorrono un ufficio, delle forniture, un telefono, un computer, alcuni accessori, il tempo del supporto amministrativo. In questo si valorizza il risparmio di tempo se e solo se non comporta una perdita della qualità del servizio, ossia un costo nascosto, della natura di costo-efficacia o costo-opportunità. Per quanto riguarda la valorizzazione di benefici soft, come ad esempio il minor assenteismo sul posto di lavoro, la sicurezza, il turnover, si possono considerare i costi derivanti da fonti e studi esterni purché appartengano alla stessa industria e rispettino le medesime condizioni. Dalla misurazione del ROTI di un intervento formativo efficace, su competenze critiche, possono emergere indici di rendimento finanziario molto elevati (ben oltre il 100% dell’investimento formativo). Il risultato elevato non è necessariamente sintomo di scorrettezza metodologica. Anzi, molte volte dalla valorizzazione dei soli benefici hard si può ottenere un risultato economico quantitativamente rilevante. Anche nell’ipotesi prudenziale di voler notevolmente sottostimare tutte le valutazioni basate su congetture contabili, limitandoci sempre ai benefici quantitativamente misurabili, si ottiene un rendimento generalmente più elevato di una speculazione azionaria. Questo, in effetti, dovrebbe far riflettere maggiormente sull’utilizzo delle misure per valutare gli investimenti in capitale umano. Quando i dati soft non riescono ad essere credibilmente tradotti in valori monetari (come ad esempio per un miglioramento del clima organizzativo), occorre presentare i dati come benefici intangibili, descrivendo la diminuzione dei comportamenti negativi o l’aumento di comportamenti positivi (ad esempio, diminuzione dal 5,3% al 4% di assenteismo). Esistono, per questo, degli accorgimenti di metodo che aumentano, di fatto, la attendibilità e la credibilità delle stime e delle misurazioni del ROTI. Tra questi: 1. adottare un approccio conservativo quando si fanno stime e congetture; 2. utilizzare le fonti più credibili e affidabili per fare le stime; 3. spiegare gli approcci e gli assunti utilizzati nella conversione; 260


4. quando i risultati appaiano sovrastimati, considerare se ribassare i numeri per raggiungere valori prudenzialmente realistici; 5. utilizzare dati hard quando è possibile. Generalmente il ROTI è una cifra elevata, anche quando sono stati isolati gli altri fattori. Ma bisogna considerare che essa non è perfettamente precisa, pur rimanendo un’ottima stima economica-quantitativa dei risultati formativi. Tuttavia, i meccanismi ferraginosi della metodologia ROTI hanno, in qualche modo, decretato un forte rallentamento ed una profonda limitazione nella sua adozione. Vediamo di capire perché. 6. Perché non si applica il ROTI Nella valutazione degli investimenti formativi con la metodologia del ROTI esistono alcune barriere che si possono ricondurre in parte a miti negativi, in parte a difficoltà operative concrete. • Per valutare la formazione con una metodologia economico-finanziaria occorre implementare ed alimentare continuamente un database del personale, dei piani di analisi, delle politiche di valutazione e misurazione, la costruzione di indicatori e di schede di valutazione. È vero, ma è un costo di avviamento che spesso non supera il 5-10% del budget formativo di un’impresa di medie dimensioni. È elevato, per lo più, il costo culturale del cambiamento di politiche e relazioni aziendali. • Il management non comunica esplicitamente l’esigenza di valutare i risultati formativi in termini economico-monetari. È vero, ma questo dipende dal fatto che molto spesso ci si nasconde nell’alibi dell’impossibilità di farlo o della presunta non misurabilità di tutti i benefici. È necessario, invece, ai giorni d’oggi legittimare anche in termini finanziari l’allocazione delle risorse agli investimenti in capitale umano e capitale sociale, sia per sviluppare meglio la competitività aziendale, sia per restituire valore alla formazione all’interno delle organizzazioni aziendali. • Per valutare il ROTI occorre essere estremamente preparati. È parzialmente vero. Ma questa difficoltà si può facilmente superarla attivando un sistema di apertura e collaborazione funzionale, con programmi di formazione degli specialisti della Direzione Risorse Umane, sostenuti da interventi iniziali di consulenza esterna. Rispetto ai benefici attendibili i costi sarebbero inferiori. • Il meccanismo valutativo del ROTI è estremamente complesso. Falso, in quanto un controller o un impiegato amministrativo del personale gestiscono già, con gli stessi principi contabili, indici e riclassificazioni di alcune voci bilancio. Il ROTI non è nient’altro che un indicatore sintetico di performance, ossia il ROI tradizionale applicato agli investimenti 261


formativi. È, quindi, facile trasferire tutte le conoscenze finanziarie anche a questa categoria di investimenti. La difficoltà maggiore è il superamento della barriera culturale e la paura di essere valutati concretamente dal management, subendone le conseguenze. Nel dubbio, si preferisce rimanere nell’ombra. • Le misurazioni dei ritorni formativi sono possibili solo per i dati quantitativi dei benefici hard e non sulla formazione comportamentale. È solo parzialmente vero, in quanto spesso la formazione sui comportamenti influenza e produce risultati valutabili con indicatori di quantità, qualità, di costi e tempi. Pensiamo, ad esempio, alla formazione alla gestione delle riunioni: se la formazione produce un risparmio medio di tempo di riunione unitamente ad una maggiore efficacia, il tempo di riunione può essere valorizzato sulla base dello stipendio medio dei riuniti. Il problema principale è, invece, relativo alla valutazione delle prestazioni, alla determinazione del tempo di ritorno dell’investimento (periodo di pay-off) ed all’alimentazione continua del sistema informativo. Allo stato attuale, la metodologia del ROTI è prevalentemente orientata al passato, a misure storiche, a consuntivi, a risultati e non si sono sviluppati gli standard internazionali di applicazione. Tuttavia, questo non deve pregiudizialmente negare la sperimentazione, pur ristretta e semplificata, di un metodo che, in definitiva, presenta diversi vantaggi valutativi per gli investimenti formativi3. 7. Un approccio quali-quantitativo: la balanced scorecard della formazione4 La valutazione della formazione aziendale, in questi ultimi anni, si è spostata da una prospettiva positivista, fondata per lo più su una concezione oggettivista della formazione ad una prospettiva critico-interpretativista, in cui la realtà è socialmente costruita e l’organizzazione viene concepita come un insieme di azioni e decisioni prese dai diversi attori organizzativi. 3. Recentemente la metodologia del ROTI è stata corretta da riflessioni economico-finanziarie che hanno integrato, nella costruzione dell’indice, il costo del capitale utilizzato per realizzare gli investimenti formativi. L’EVA (economic value added), infatti, risulta un indicatore più attendibile della profittabilità dell’investimento in capitale umano. 4. Si ringraziano S. Primus e O. Tortora (rispettivamente Amministratore Delegato e Responsabile HR di ENI Corporate University) per le testimonianze offerte e organizzate sulla valutazione della formazione e sull’applicazione della balanced scorecard alle corporate university. Si ringraziano, altresì, il prof. D. Boldizzoni (IULM) ed il prof. V. Perrone (Università Bocconi) per le riflessioni e le testimonianze sugli indicatori di balanced scorecard e sulle corporate university cui si ispirano le riflessioni di questo paragrafo.

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Dalla prevalenza di metodologie quantitative si è passati ad un sostanziale equilibrio di metodologie quali-quantitative, in cui anche la valutazione etnografica ha assunto un’importanza rilevante per la valutazione dei processi di apprendimento. L’adozione della balanced scorecard nei processi di valutazione della formazione aziendale consente di realizzare adeguatamente questo bilanciamento metodologico, in quanto la costruzione degli indicatori di valutazione, fatta sui diversi obiettivi strategici, va a misurare dimensioni economico-finanziarie ma anche l’efficacia dei processi di apprendimento e sviluppo. Tuttavia, prima di addentrarci nelle riflessioni relative alla balanced scorecard applicata alla formazione, occorre spiegarne il funzionamento in generale. Le aree chiave del controllo strategico aziendale si possono ricondurre essenzialmente a: a) la creazione di valore economico per gli azionisti e per sociale l’ambiente; b) il continuo orientamento dell’azienda al mercato e all’ambiente esterno; c) l’efficacia dell’organizzazione del lavoro; d) il coinvolgimento e lo sviluppo delle risorse umane. La balanced scorecard è un modello per la realizzazione di un processo integrato e dinamico di controllo strategico. Essa, concretamente, esprime una sintesi di movimenti e di studi precedenti, tra cui: • il TQM (total quality management), che ha creato l’abitudine alla misura ed al miglioramento; • l’ABC (activity based costing) e l’EVA (economic added value), che hanno dato enfasi alla produzione di valore in azienda; • il BPR (business process reengineering) e l’ERP (enterprise resources planning) che hanno richiamato l’attenzione sulle basi di dati e sui processi. Il processo che sottende l’introduzione in azienda della balanced scorecard (d’ora in avanti BSC) influenza simultaneamente la qualità delle decisioni strategiche e della loro implementazione organizzativa. Infatti, se da un lato i decisori aziendali possono disporre di informazioni aggiornate e bilanciate (con dati interni e esterni) su cui poter effettuare anche delle simulazioni, con un orientamento al futuro e un’attenzione ai risultati e ai driver della performance, dall’altro, (nell’implementazione della strategia) si stabilisce un collegamento diretto tra gli obiettivi strategico-aziendali e quelli di prestazione individuale (goal deployment). Questo maggior allineamento tra obiettivi, azioni ed incentivi riduce i tempi di risposta, garantendo una maggiore integrazione interfunzionale ed una maggiore trasparenza e condivisione delle informazioni di base. 263


La balanced scorecard è efficace nel colmare il gap tra formulazione e implementazione della strategia aziendale in quanto: 1. esprime chiaramente vision e mission aziendali, declinandole in strategie perseguibili concretamente; 2. ogni strategia si traduce in obiettivi strategici da perseguire e questi sono ulteriormente disaggregati in obiettivi di performance manageriale ed operativa (nei casi di una profonda adozione della BSC); 3. l’attribuzione degli obiettivi organizzativi viene seguita da una congruente allocazione di risorse; 4. sono previsti numerosi momenti informativi, sistemi di reporting e di feedback strategico e tattico. La balanced scorecard è, pertanto, sia un sistema di management aziendale che un processo di attivazione e gestione del cambiamento, in quanto gli obiettivi e le misure che essa prevede funzionano sia come lead indicator, nell’indirizzare e guidare la prestazione verso i risultati desiderati, che come lag indicator, ossia misure dei risultati indicati. Alcune condizioni risultano essere critiche per l’adozione di una BSC, tra queste sicuramente: 1) avere una buona familiarità con le tecnologie informatiche; 2) alimentare e gestire continuamente le basi di dati; 3) essere orientati al controllo strategico delle attività aziendali, riconoscendo, però, la criticità delle risorse umane nella creazione del vantaggio competitivo anche attraverso sistemi integrati di incentivazione del personale. Secondo Kaplan e Norton, è possibile riassumere l’obiettivo della BSC nella capacità di tradurre la missione e le strategie aziendali in “un insieme comprensibile di misure della prestazione”, utili per la verifica dell’efficienza e l’efficacia dell’azione manageriale. Le ragioni che spingono un dipartimento di formazione a promuovere un sistema di misurazione delle performance formative si riassumono nel fatto che la BSC governa in modo bilanciato prospettive strategiche diverse (fig. 6), consentendo un’efficace integrazione delle misure quali-quantitative, interne ed esterne all’azienda, a superamento della dicotomia tra i metodi eccessivamente quantitativi e quelli del tutto privi di indicatori quantitativi. Non a caso, le prime applicazioni della BSC alle prestazioni dei processi formativi sono avvenute nelle corporate university, ossia in aziende che hanno come motore produttivo proprio i processi formativi. Il processo di adozione della BSC nei dipartimenti formativi parte, quindi, con la chiara definizione della missione della formazione. È possibile elaborare enunciati come: a) presidiare e valorizzare il patrimonio delle competenze chiave; b) allineare prodotti e servizi formativi alle esigenze strategiche dell’azienda, facilitando i processi di cambiamento; c) supportare con un adeguato sviluppo delle competenze specialistiche e manageriali i processi organizzativi che garantiscono il funziona264


Fig. 6 - Le prospettive strategiche della BSC Finanza

Cliente

Visione e Strategia

Processi Interni

Apprendimento e Sviluppo

mento aziendale; d) generare, con le attività formative, valore aziendale nel breve e nel lungo periodo; e) migliorare continuamente la qualità dei servizi, dei materiali e dei supporti didattici utilizzati nei percorsi di apprendimento. Il secondo passo è relativo alla formulazione delle strategie necessarie per realizzare la missione formativa. Tra queste, alcune potrebbero essere: 1. la progettazione e la programmazione di iniziative formative innovative nei contenuti e nelle tecnologie istruzionali; 2. la progettazione e la programmazione di percorsi di apprendimento legati in modo coerente con gli obiettivi strategici e con le prospettive future di mercato; 3. la valutazione e la revisione continua dei processi formativi, allo scopo di ottimizzare le risorse in essi impiegate; 4. allargare l’offerta del dipartimento formativo, sia rivolgendo le proprie attività formative al mercato esterno oltre che al bacino captive, sia arricchendo i servizi formativi con attività di consulenza alla prestazione individuale; 5. attivare e mantenere programmi di qualità formativa, migliorando l’orientamento alle diverse classi di cliente formativo, presente e potenziale. Ognuna di queste strategie, a sua volta, può essere operazionalizzata in obiettivi strategici. Ad esempio, per ottimizzare l’impiego delle risorse nei processi formativi si potrebbe decidere di migliorare l’efficienza dei processi di analisi del fabbisogno formativo del 10%; oppure: aumentare del 30% l’utilizzo delle tecnologie informatiche digitalizzando i materiali didattici; oppure: arrivare al rapporto del 75% tra costi e ricavi. La strategia di allargamento dell’offerta del dipartimento formativo potrebbe tradursi nell’aumento del 10% del catalogo di offerta formativa in265


terna, come pure nel raggiungimento del 30% del fatturato globale nei successivi tre anni da parte dei nuovi servizi consulenziali. La programmazione e la manutenzione del sistema di qualità formativa si potrebbe tradurre nell’obiettivo strategico di arrivare al 100% di clienti soddisfatti con una valutazione di fine corso nella zona di “alta soddisfazione”, oppure con l’azzeramento delle fasi di rilavorazione, di riprogettazione dei percorsi formativi. La progettazione e la programmazione di iniziative formative innovative nei contenuti e nelle tecnologie istruzionali potrebbero essere tradotte nell’obiettivo di realizzare almeno il 20% della formazione comportamentale attraverso metafore formative esperienziali (teatro d’azienda, musicoformazione, improvvisazione circense, e così via). Oppure: nel cambiamento e nell’innovazione ogni anno di almeno il 15% delle iniziative a catalogo. Ogni obiettivo strategico, infine, sarà monitorato grazie alla costruzione di speciali indicatori di prestazione formativa che avranno il compito di assistere il responsabile della formazione e tutto il management formativo dell’implementazione tattico-operativa della strategia pianificata. Ad esempio, l’obiettivo di migliorare il processo di analisi del fabbisogno formativo del 10% potrebbe essere osservato attraverso indicatori quali: • n. ore impiegate per l’analisi / n. ore totali del corso; • gag annue di analisi / n. di analisti; • n. di analisti / n. corsi; • n. di analisti / n. specialisti della formazione; • costo interno totale di un analista / costo di acquisto di una consulenza esterna. Allo stesso modo, il maggior utilizzo nell’ordine del 30% delle nuove tecnologie informatiche nei processi formativi potrebbe essere monitorato, misurando: • n. materiali didattici digitalizzati / n. totale di materiali didattici; • n. di percorsi blended / n. totale di corsi; • n. di computer / n. annuo di utenti; • n. gg di formazione alle nuove tecnologie / n. prodotti erogabili via web. L’aumento del 10% dell’offerta formativa interna potrebbe essere misurato mediante: • gg formazione professionale / gg formazione manageriale; • n. utenti formati / organico dipendenti; • n. utenti formati / n. totale dei dirigenti / quadri / impiegati; • gg / n. visite spese per analisi del fabbisogno. L’obiettivo strategico di realizzare il 20% della formazione comportamentale attraverso metafore formative esperienziali sarebbe monitorato da indicatori quali: • partecipanti programmi innovativi / partecipanti programmi tradizionali; • gg impegnate per innovazione / gg di formazione totali; 266


• gg di formazione dedicate allo sviluppo delle competenze interne; • n. di formatori e testimoni esterni esperti / n. di formatori interni. Insomma, per ogni strategia è possibile definire un obiettivo strategico. Per ogni obiettivo strategico è possibile costruire una serie di indicatori che nel cruscotto della BSC riescono a dare il senso dell’andamento delle qualità e delle quantità degli investimenti formativi, monitorando costantemente il livello di efficacia e di efficienza. Nella tabella 2 vengono presentati alcuni possibili indicatori per ciascuna prospettiva strategica. L’adozione della BSC per la gestione delle attività formative aiuta a recuperare legittimità e credibilità al tema della valutazione degli investimenti formativi, recentemente depresso dalle numerose difficoltà operative che gli approcci fortemente quantitativi hanno prodotto. La BSC, inoltre, rappresenta un ottimo sistema di governo dei dipartimenti formativi come pure delle corporate university, a condizioni che vi siano dei prerequisiti organizzativi e culturali in grado di far funzionare correttamente il modello. Infine, utilizzare la BSC nella formazione è di aiuto anche per attivare e gestire il cambiamento nelle prassi formative, innestando processi virtuosi, allineati con il business.

Tab. 2 - Possibili indicatori della balanced scorecard formativa Prospettive Strategiche BSC Possibili Indicatori Formativi Prospettiva Finanziaria

Investimenti in nuove tecnologie Investimenti in attività di ricerca Investimenti in tecnologie informatiche / Investimenti totali Ricavi da nuovi programmi / Totale ricavi Investimenti per sviluppo di nuovi programmi Finanziamenti comunitari / Investimenti totali Totale ricavi esterni / Totali ricavi Ricavi attività formative / Ricavi totali attività Ricavi attività consulenziali / Ricavi totali attività Valore medio delle offerte al mercato esterno / Valore totale

Prospettiva Processi

Corpo docente / Personale amministrativo Docenti esterni / Totale docenti Docenti interni / Totale docenti Giornate docenti interni / Totale giornate Giornate in strutture interne / Totale giornate N. partecipanti per edizione Gg di analisi / Totale giornate Gg di progettazione / gg di erogazione Tempo di sviluppo nuovi programmi Programmi proposti / Totale programmi

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Tab. 2 - segue Prospettive Strategiche BSC Possibili Indicatori Formativi Pr. Apprendimento/Crescita

Gg di formazione interna Gg di testimonianze interna / Totale giornate Gg in attività di ricerca / Totale giornate formative Gg in codocenza / Totale giornate N. verifiche di competenza / Anno N. di nuovi programmi / Totale programmi Gg di scrittura / Totale gg docenza N. partnership con altri enti formativi Gg di collaborazione con università N. prodotti in partnership / N. totale di prodotti

Prospettiva Cliente

Gg formazione dirigenti / Totale gg formazione Gg seminari e focus group per quadri / Totale gg seminari, … N. interventi formativi / Totale interventi N. partecipanti iniziative esterne / Totale partecipanti N. abbandoni / Totale partecipanti N. partecipanti a programmi innovativi / Totale partecipanti Gg di formazione / gg di consulenza Gg formazione monoaziendale / Totale giornate formazione N. partecipanti altamente soddisfatti / Totale partecipanti N. programmi strategici / Totale iniziative formative

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Summaries

Claudia Montedoro, Dunia Pepe e Francesca Serra Training and education today: role and outlook Technologies development and globalization contribute to characterize the society as a knowledge society. Learning is very important as economic and social complexity requires an acquisition of new information as well as an ability to produce and to develop a new knowledge. Lifelong learning becomes a right to an active citizenship and it is very important for individual and human resources development. Knowledge becomes “meta-conoscenza o meta-competenza”, a flexible and strategic tool used by men and women in learning to learn in everyday life. Learning concept takes the shape of a “metacompetenza”, the ability to adapt and orient in a dynamical professional system, and be able to be competitive in the labor market. A further and essential phenomenon having an enormous impact on the training concerns the progressive decline of the traditional training, and the proliferation of new methods, already emerged in the last years. Among these methods those linked to the challenge of the new technologies, Internet and E-learning are the more remarkable. The concepts of knowledge and skills vanish in the implications of the e-learning dynamics; the whole training path is redefined in a complex path, both real and virtual, integrating different nature tools. In this context e-learning is an essential feature of work as well as of e-learning. Ulderico Capucci Training in the knowledge society In the society of knowledge, in knowledge arrangement, the organizational learning is more important than individual one. In the web structure society and 271


in the processual organization, all the remarkable achievements do not result from a single subject but from the integrative relations. In the society of knowledge the training process, even if with all the relevance we want and we must assign, plays a modest role within the wider range of studies, tools and paths, with which the organizations learn. The training contributes to the creation of collective and individual competencies, both within and among the corporations, inasmuch as it operates together with real concrete “professional families” or communities. It stands to reason that training itself is not enough. If the training wants to contribute to the knowledge arrangement, it must enlarge the perimeter of its intervention, exit the “classroom”, contribute to govern the “knowledge management” process in its different steps and its multiple applications and tools, undertaking the role of process “supporter”. Michele La Rosa Talking about metacompetencies concerning training: how and why The article describes transformations happened at specific professions level concerning new working method characterized by the consequences of the introduction of new technologies. It’s not about personalities and professionalisms rather than competencies. In this mutation of perspectives, the essay develops the increasingly important role undertaken by the general and transversal competencies, therefore called “metacompetencies”. Metacompetencies themselves are able to ensure both mobility (among corporation and within the same company) and a long life learning process for the subjects. Fernando Salvetti Knowledge governance and surroundings: managerial work forthcoming future How can we manage knowledge, human and intellectual resources, cognitive and behavioral dynamics at their best within the corporations? Why are there always more managers encouraging and promoting not only activities like knowledge mapping, but also organizational dialogs and narrations? How do we create and manage, in a flexible and dynamic way, corporation knowledge and specific resources? In other words, is it possible to plan a corporation able to be flexible, elastic and creative as well as a well-trained human mind? The main challenge is to use the missing knowledge, often incomplete and contradictory, owned by a single man and globally not available to anyone. Nowadays, successful corporations generally are the ones that are able to perform with more effectiveness than others gathering, storing, distribution and use of information. We know that technology unassisted cannot grant the best use of human and intellectual resources and that the main key factor for a full knowledge and abilities employment is the strengthening of an organizational culture, useful to promote and support the knowledge and competencies sharing. 272


The knowledge economy asks for flexible organizational functioning models, always customer and quality control oriented, founded on an intense use of knowledge. The oncoming managerial work will increasingly imply the human and intellectual resources development: the creation of an organizational knowledge, abilities, competencies and knowledge development and management in order to spread them inside/outside the corporations and translate them into products, services and systems. The article is a critical reflection on “pratique gouvernementale”, in favor of the minimal governance, as a functioning principle of knowledge governance within corporations investing on training, competencies development, human resources development management system and tools, knowledge management and surroundings. The knowledge driven corporation is a cognitive and social dimension qualified by continuously evolving processes, where “to know” doesn’t mean “recognize”, being it learning something given that is “outside us”, but rather cover the multiple ways of worldmaking which allow to create and build not only new products, but new ways of acting and thinking, therefore, new horizons and awareness possibility – within limits and shapes granted by the organizational structure in which we are working. Gian Piero Quaglino A people-oriented training The article intends to delineate and suggest a training plan able to look beyond the corporation. A training being able to lead towards full and authentic existence horizons and towards the regaining of the self-construction plan individuality, in order to promote the personal development first of all, and then the organizational system one. The ten fundamental key-words quoted by the author are: training, adult, experience, reflection, interpretation, narration, criticism, clinical, to learn, change. This approach to the training process is more persuasive than others for it tries to return the training to its original purpose, to its most pure target: the subject itself, or, in other words, its supreme vocation that expresses itself in the subject, being it the image of oneself. Massimo Bruscaglioni Empowerment oriented personal microculture Feeling as the main character of your own life: this is, at synthetic and intuitive level, the most incisive definition of the self empowerment status of the person. A modern description of the person must not be limited to objective or objectivable parameters, but it must consider personal subjective and socially relevant behaviors. You reach therefore an individualization process in which the person is the carrier of his own integrity, achieving also a an examination of his self-empowerment in its double meaning of status and process. 273


The empowerment oriented personal microculture is a gathering of correlated orientation concerning the individual bygone of the people founded on their subjectivity and their inner dynamics. A complete analysis of the factors related to the process of the possibilities and empowerment includes various orientations focalized on the stability – change – empowerment axis and on the microculture subtending them. The peculiarities of the microculture are summed in the procedural character, in the trasversality e in the absolute individuality. The applicative ambits of the concept of microculture are in the individual and group training field, implementing the processes of possibility and competencies development. Claudia Piccardo e Angelo Benozzo The place of training for the development of communities of practice This paper explores the place of training for the development of communities of practice. In particular, it focuses on an approach we labelled management learning with the organization and some theoretical concepts of learning as community of practice participation. We then present a training intervention inspired by the idea of management learning with the organization. In conclusion we describe a profile of this approach useful in order to design training actions able to create, spread and transmit knowledge and meet communities of practice in an authentically critical and clinical way. Lorenzo Cantoni e Chiara Succi eLearning acceptance and rejection into corporations: a map The article presents the eLearning acceptance and rejection theme placing it in the wider context of theories of innovation diffusion and technologies acceptance. In the light of these theoretical contributions, as well as those newer dedicated expressively to eLearning and its failures (dropouts), an eLearning Acceptance interpretative model is proposed (MeLA: Model of eLearning Acceptance) which distinguishes different factors, steps and variables. Key words: eLearning, training, innovation acceptance, theories of diffusion. Barbara Bertagni Self-empowerment: how to survive your job In our society “development” became one of the keywords: development at all costs, continuous growth, economic growth, professional development, purchasing power growth. In particular, concerning the most prevalent managers’ representations, the main keywords are action, pleasure, success, wellness, selfcontrol. It would though be suitable to add a little less “noble” word: anxiety containment effort and annulment of any space for questions, as the everyday life 274


searches for answers towards prompt needs and ponders about the meaning of questions that might bring staggering and anguish access. Managers are expected to actively build their role, shaping and adjusting it day after day on their own company needs and on market upheaval. This process occurs within company realities that not leave little or no space to personal choices, together with an agenda full of daily appointments often built by others, with targets to reach not always understandable and sharable, during a series of organizational rituals that, even if useful in order to keep anxiety down, requiring a role-playing game sometimes heavy to manage. There’s no space for the rise of dreams, affections and projects not aligned with the company needs and rhythm. There’s no time to protect the inner slowness, neither to feed ourselves with our fragility. We have to run to chase the promotion, the project success, the competitor company buyout, the purchase of the yacht, the benefit improvement. Meanwhile as time flows, we start to get old and, sometimes, a strong experience breaks into our life (birth, mourning, break up, love…) and opens a reflection glimmer letting us notice how much we become stranger to ourselves, until we know/recognize ourselves no more. Success accomplished at this level becomes a weird dimension in which the professional growth doesn’t match with a personal development but often in top managers’ stories we find the feeling – or the awareness – about a life lived but not chosen, lead with the automatic pilot, without a real space for choices, captured by an ascending career vortex toward which they “can’t say no”. Inside this logic a self-empowerment is frequently required and really often the consultant acts inside the same logic, proposing his action and answering the request. Too often the acting logics follow the same “development at all cost” logic spreading in almost every sector of our society. When the adviser agrees to this request without opening a space to analyze the question, but simply working on the given target in order to supply the comforting answer, he acts inside the same weird and directive logic leading to the prevalence of the role on the person. Working through an effective empowerment perspective means working together with the person in the role: improving his self-awareness, promoting a reflection on targets and values, ensuring an elaboration space for emotions and experiences. The aim is to bring into question the answers taken for granted, trying to look from a different perspective what we do, what we are, what we say. We must help the person to focus on himself, rediscovering and bringing to light his values; leaving him to gain a better awareness over his role inside the negative and positive events of his life; revaluating the priorities; planning the needed steps to reach his own objectives; pondering on his experience, emotion and conduct in order to revise his own behavioral modalities; finding space through the comparison in order to comprehend the behavioral schemes inside which he’s used to work.

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Franco Nanetti The situational leadership between imaginary and reality The deep mutations within the social-economic and political-cultural ambits, the instability of the complex system and vortical development of the cybernetic neocapitalism, the attempt to deburocratize the Total Institutions, impose a growing attention over the emergency of new leaders able to sustain other complex challenges for the future, as well as sailing the route of change of which the identification of the profile and its destiny is becoming more and more difficult. The role of the new leaders don’t rely anymore on the conservation of the status quo, but it’s projected on being sailors of an always possible change, that can be achieved only through a remarkable predisposition to “flexibility” and the ability to risk. In this perspective the new leader innate talent isn’t enough anymore, as it’s not enough the simple mastery of knowledge concerning market behavior, investment strategies or others. His Know-how in technical terminology isn’t enough anymore. The new leader is asked for new competencies, based on the knowledge of being or “being-in-the-knowledge”, being them relational competencies centered on the ability to marshal agreement, managing human resources, to risk in the research of new and unexplored perspectives and solutions to problems and ontological competencies such as enthusiasm, passion, coherence, empathy, thought independence, authenticity, moral richness, reliability. Roberto Panzarani Intangibles, research and innovation processes Competences and social networks had become the strategic assets to produce value in organization. The moving engine of the modern enterprise is knowledge, which represents the “visible advantage”. But is on the intangibles assets that firms build a sustainable advantage. It is necessary to start form the triangulation between research, training and innovation. This is a paradigm based on three interdependent areas. During the years that have anticipated the great technological euphoria, also thanks to certain market stability, multinational companies felt the need to engage in advanced training activities, connected with research laboratories and experimentation centres. Today training activities and study curriculum should never be excluded by the innovation value chain. Emotions are intangibles; creativity and ingenuity are intangibles too. These elements were important in the past, but today they are attracting a lot of attention and concern. This concern starts from the new focus on human capital. This last metaphor has its importance in a networked world in which the connection among people, intelligences and brains is the key. Organizational life is characterized by a new and delicate relationship among tangibles and intangibles. The creative relationship between this two dimensions will determine firm capabilities to produce value. Secondly the intangibles weigh 276


will always be greater that the tangibles forcing the passage from the production based economy to a service base economy. For this reasons knowledge investments, research & development, technological innovation have and will have higher returns than those on material assets. Paolo Minguzzi Knowledge management and new paradigms in training: some empirical evidences This essay moves from an empirical research on corporate knowledge management projects in nine multinationals in France and Italy. The aim was to verify if the growing emphasis on “human capital” and a knowledge-based approach in HRM were able to create new paradigms in lifelong training. Our results do show changes towards more shared and “democratic” training strategies, even if explicit knowledge is much more frequently mobilised than tacit knowledge, and HR policies still seem to enhance organisational learning by sharing explicit competencies rather than by creating an “attitude to know” based on self-training and socialisation of tacit knowledge. Trevor Boutall No fear for competencies: the National Occupational Standards Since a generation the professional training system in England is based on the National Occupational Standards. The target of the National Occupational Standards systems is to render workers at all levels able to carry out their roles and independent in taking decisions within the limits of their responsibilities. For sure this system hasn’t solved all the problems of the United Kingdom. There are yet a lot of safety problems – railway accidents, scandals in social security services and in the medical assistance program, non ethical habits in banks and insurance companies – due in part to the market liberalization, the state agency privatization and the shareholders’ pressure to increase profit, an insistence that endangers the medium-long range service quality, especially compromising safety. On the bright side however the quality of public and private service has consistently increased, the competitive role of the United Kingdom on the global market has been left untouched despite the progresses of the new economies and the unemployment rate is one of the lowest in Europe. The most remarkable impact of the new english training system can be noticed in a more flexible approach both by the employer and its employees. The market – the external context – is constantly changing, and there is the need to promptly respond – or better prevent – changing the companies targets, the work processes and the behaviors, renewing the knowledge and the skills of all the human resources.

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Lauro Mattalucci e Elena Sarati Beyond the seeming training: from the learning communities to communities of practices This paper describes the evolution from Learning Communities to Communities of Practice seen as a fundamental point to obtain ROI in training programs, and debates the role of training in knowledge management policies based on Communities of Practice. At the beginning the paper analyses the concept of Community of Practice, its characteristics, some theoretical implications and, particularly, the negligible role that the “art” of cultivating Communities of Practice seems to assign to training projects. Furthermore, focusing on training programs aimed to achieve specific organizational change, the paper investigates – by means of some training experiences – the problem of transforming Training Communities into Communities of Practice, and emphasizes opportunities and difficulties in such a changing process. Laura Tucci Form and transformation. Training… real change for people and organisational structures Why is the training often perceived from the companies only as a cost? Why do change management projects, designed by prestigious consultants and with huge change expectations, fail so often? We have to observe the world with new eyes, play with different perspectives, with figures, with lights and shadows as Escher did and discover that everything can transform oneself. For this purpose we have to widen the frame of the training and for some topics completely reverse the situation, because it’s not a matter to make happen that companies train people to become different, nevertheless people have to contribute with own resources to build new organisations. Emilio Rago Evaluating companies training. Value, orientations and methodologies comparison Speaking about evaluation means pointing out the definition process of both material and immaterial value of an object. The training evaluation represents that process, more or less formalized, concurring to the value recognition and attribution concerning training intervention. Unfortunately, the value perception trap isn’t yet totally overcome, often we face a situation in which something has value only if it has been perceived as it is. Training must profitably respond to an exact present or future subject need in order to be considered a benefit. In other words, we must look beyond the value 278


perception and search for the real training activities value gained by the subject. Training evaluation can’t be one of the trainer (or trainer overseer) roles. It is a specialized profession: the evaluator, expert in training. Wisdom, practice, humility, listening skill, devotion and wish to exceed oneself are required.

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