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Olistico vs specialistico Il tutto vale piu’ della somma delle singole parti?

SCIENZA • David Bohm • Newton, Goethe e la teoria dei colori

ECONOMIA • Il lato olistico dei moderni sistemi economici

INDUSTRIA • Verso la terza rivoluzione industriale • Sistemi di produzione a confronto: multinazionali vs artigianato

SOCIETÀ • Siamo troppo social • Il “villaggio globale”

SOSTENIBILITÀ • Buckminster Fuller AGRICOLTURA • Biodinamica

URBANISTICA • Dal terreno al cielo, una visione olistica della città I L

M A G A Z I N E

P E R

U N A

V I T A

LINGUAGGIO • Parole nella rete del linguaggio • Polisemia DESIGN • Il design che ti apre un mondo

MEDICINA • Classica, alternativa o complementare? PUBBLICITÀ • La forza delle idee non cambia mai MUSICA • Quando la musica dà i numeri D I

Q U A L I T À

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S I C U R E Z Z A


Direttore Responsabile Giancarlo Zappa Capo redattore Roberta Gramatica Progetto grafico Fortarezza & Harvey Impaginazione Corberi e Sapori Editori Hanno collaborato Piero Babudro Claudia Bonsi Federico Cerrato Eliana De Giacomi Pierini Ursula Dobrovic Velia Ivaldi Pier Lodigiani Alice Martini Walter Molino Paolo Subioli Direzione, Redazione, Amministrazione IMQ, Istituto Italiano del Marchio di Qualità Via Quintiliano 43 20138 Milano tel. 0250731 - fax 0250991500 mkt@imq.it - www.imq.it STAMPATO SU CARTA CERTIFICATA

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EDITORIALE

APPROCCIO

OLISTICO o SPECIALISTICO? È questa la domanda a cui abbiamo voluto provare a dare una risposta attraverso gli articoli contenuti nel nuovo numero di IMQ Notizie. Ma rileggendo a posteriori il risultato, l’impressione che se ne ricava è che non ci siamo riusciti. Per un semplice motivo: perché ci siamo accorti che oggi tale distinzione non è più possibile. Dalle interviste condotte è infatti emerso come l’approccio olistico sia possibile solo grazie a un trascorso specialistico e, viceversa, quello specialistico non possa prescindere da una visione olistica e che le due modalità siano così interconnesse l’una con l’altra che diventa impresa ardua scorporarle. Ribaltare dunque il numero e ricominciare da capo? No di certo, perché lo svilupparsi delle tematiche trattate, nato da un dualismo, ma realizzatosi poi con una complementare contraddittorietà, è diventato esso stesso dimostrazione dell’ossimoro - e paradosso - al quale ci siamo trovati di fronte, ovvero quello di un olismo specialistico o, se preferite, di una specializzazione olistica. Prendiamo uno dei casi vicini alla nostra realtà, il mondo degli elettrodomestici. Oggi un frigorifero è un prodotto che potremmo definire “specializzato”, caratterizzato da una tecnologia sofisticata in grado di raffreddare, conservare, congelare; e per i nuovi modelli più evoluti anche in grado di agire secondo usi e abitudini del suo utilizzatore, comunicando i prodotti in scadenza, gli ingredienti più idonei per il suo regime alimentare. Nello stesso tempo però è un prodotto che può sfruttare al massimo le sue capacità solo se inserito in un contesto generale di impiantistica intelligente, aperta e predisposta per dialogare con altri prodotti specializzati, ma anch’essi significativi solo se inseriti in un contesto generale. Significativo, passando a tutt’altro ambito, anche il contesto dei social network: realtà che hanno permesso una globalizzazione dei contatti ma che nello stesso tempo hanno portato a una alienazione degli individui. Per non parlare di un altro ossimoro, quello del “villaggio-globale” proposto da McLuhan in tempi ben lontani dalla generazione Web eppure così attuale per certe forme di “riflusso” generazionale gradualmente espresse dai nativi digitali. Ossimori che abbiamo riscontrato nel mondo della gestione del personale, della musica, della comunicazione, del linguaggio, dell’urbanistica, della medicina e anche del turismo. Ossimori che vi invitiamo a scoprire nelle pagine che seguono. Buona lettura Giancarlo Zappa

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SOMMARIO

SOMMARIO PRIMO PIANO: APPROCCIO OLISTICO O SPECIALISTICO? 4

IL TUTTO VALE DI PIÙ DELLA SOMMA DELLE SINGOLE PARTI? Olismo e specializzazione a confronto.

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OLISMO E SCIENZA David Bohm, il padre dell’olismo scientifico.

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NEWTON, GOETHE E LA TEORIA DEI COLORI

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OLISMO E INDUSTRIA: È IN ARRIVO LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Grazie a strumenti come la stampante 3D, i processi produttivi, così come quelli economici e sociali, stanno per conoscere un futuristico ritorno al passato.

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SISTEMI DI PRODUZIONE A CONFRONTO: I GIGANTI DELLE MULTINAZIONALI VERSUS LE BOTTEGHE DEGLI ARTIGIANI Intervista a Francesco Ciampini, operation manager di Artemide S.p.A. e a Piero Dri, artigiano de “Il forcolaio matto”

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IL LATO OLISTICO DEI MODERNI SISTEMI ECONOMICI Capire come gli interessi economici dei singoli stati possano convivere in una società sempre più interdipendente è la sfida moderna di un approccio olistico alla finanza. Intervista a Ernesto Screpanti, professore di Economia della Globalizzazione e di Storia dell’Economia Politica - Università degli Studi di Siena

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BUCKMINSTER FULLER Dal padre della cupola geodetica, una visione sistemica e la teorizzazione del “fare di più con meno”.

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LA FATTORIA CHE SEGUE LE ORME DI MADRE NATURA Un modo per tornare a coltivare la terra in armonia con le meraviglie del creato esiste e risponde al nome di agricoltura biodinamica. Intervista a Marco Serventi, Associazione per l’Agricoltura Biodinamica

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MEDICINA: CLASSICA, ALTERNATIVA O COMPLEMENTARE?

SIAMO TROPPO SOCIAL Rischi e pericoli provocati dall’abuso delle tecnologie, dal multitasking e dalla sovraesposizione nei social media.

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MARSHALL MCLUAHN E IL VILLAGGIO GLOBALE

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DAL TERRENO AL CIELO: UNA VISIONE OLISTICA DELLA CITTÀ La città periodicamente si rivolta contro il suo creatore, trasformandosi in un mostro. Ma ora serve un nuovo salto di qualità, con l’innesto urgente di almeno 3 sistemi capillari. Intervista a Stefano Panunzi, architetto e Prof. Associato Università del Molise

QUANDO LA MUSICA DÀ I NUMERI La musica crea dei ponti imprevisti e inaspettati con diverse discipline tra cui la fisica e la matematica. Questo connubio di note e numeri dà così vita a un inimmaginabile approccio olistico alla realtà. Intervista a Corrado Greco, pianista di fama internazionale e professore al Conservatorio di Milano


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STORIE DI QUALITÀ

PAROLE NELLA RETE DEL

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IL PROGETTO CHE “FA LUCE” SULLA NATURA: COELUX Avreste mai pensato di poter avere cielo e sole sempre a portata di mano? è quello che ha fatto un gruppo di scienziati, il cui intento era ricostruire il fenomeno della luce naturale per favorire il benessere dell’individuo negli spazi bui. Intervista al Prof. Paolo Di Trapani, fondatore e CEO di CoeLux

linguaggio

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QUALITÀ DELLA VITA Una parola non è solo una parola ma la finestra che dà su un giardino ben più ampio, ricco di molteplici significati e contenuti. Intervista a Cesare Cozzo, docente di Filosofia - Università La Sapienza di Roma

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LA POLISEMIA: QUANDO GIOCARE CON LE PAROLE DIVENTA UN’ARTE

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“EHI RAGA, TUTTO REGO?” Intervista a Mirko Volpi, filologo e storico della lingua italiana

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IL DESIGN CHE TI APRE UN MONDO Il vero design si svincola sempre più dalle correnti artistiche per assumere le sembianze di oggetti d’uso quotidiano ed entrare così nelle case della gente. Intervista ad Alberto Bassi, storico del design e docente allo IUAV di Venezia

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LA FORZA DELLE IDEE NON CAMBIA MAI Da Carosello a oggi, scopriamo come è cambiata la pubblicità nel nostro Paese. Intervista a Silvio Dolci e Marco Benadì, Presidente e Amministratore Generale di Dolci Advertising

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STILE DI VITA

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SALUTE LA DIETA PERFETTA? È scritta nel tuo DNA. Intervista a Paolo Gasparini, Professore di Genetica Medica dell’Università di Trieste e Primario dell’omonimo servizio dell’Ospedale infantile IRCCS Burlo Garofolo

GIOCARE CON LA SCIENZA Toccare, esplorare, riprodurre fenomeni naturali, ritrovare l’incanto davanti alla bellezza della natura, sperimentare divertendosi per vivere il piacere della ricerca e ripercorrere l'avventura della scienza. È questa l’offerta de “L’immaginario scientifico”. Intervista a Fabio Carniello, Direttore de “L’Immaginario Scientifico” VIAGGI C’È “TU”RISMO E “TOUR”ISMO Il viaggio nell’era del Web 2.0 è sempre più fai-da-te e si racconta sui social network.

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SPORT SGUARDO SUL KUNG FU: TRA MEDICINA, ARTI MARZIALI, BENESSERE Intervista al Maestro Mario Mandrà

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HOBBY FOTOGRAFIA: UN OBIETTIVO OLISTICO Scopriamo come, nell’era di Instagram, non abbia senso parlare di “fotografia” in generale e come le nuove tecnologie abbiano cambiato radicalmente il ruolo del fotografo. Intervista a Roberto Tomesani, Coordinatore Generale dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual

RUBRICHE 88

Panorama News

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Brevi IMQ

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PRIMO PIANO: BREVE EXCURSUS TRA APPROCCIO OLISTICO E SPECIALISTICO

IL TUTTO VALE DI PIÙ DELLA SOMMA DELLE SINGOLE PARTI? IN GRECIA, LA CULLA DELLA NOSTRA CIVILTÀ, L’INDIVIDUO TROVAVA LA PROPRIA IDENTITÀ SOLO COME PARTE DELLA SOCIETÀ NEL SUO INSIEME: AL DI FUORI DELLA COMUNITÀ, DELLA POLIS, LA PROPRIA ESISTENZA NON AVEVA ALCUN SIGNIFICATO. POI, PERÒ, DALLA STORIA ABBIAMO RICEVUTO IN EREDITÀ UNA RADICATA TENDENZA ALLA DIVISIONE, ALLA PARCELLIZZAZIONE ANCHE METODOLOGICA IN OGNI CAMPO DELLA CONOSCENZA E DELL’AGIRE, CHE CI HA ALLONTANATI SEMPRE DI PIÙ DA UNA VISIONE D’INSIEME. COSA È SUCCESSO? BREVE EXCURSUS TRA OLISMO E SPECIALIZZAZIONE NELLE DIVERSE DISCIPLINE.

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er i melanesiani, ma anche per altri abitanti indigeni dell’Oceania, un singolo individuo, se isolato, è del tutto indeterminato, senza forma né caratteristiche distintive, finché non trova la sua posizione specifica all’interno del mondo naturale e sociale nel quale è inserito. La persona in quanto tale dunque non esiste, perché trova una sua giustificazione solo quale parte di un insieme organico, che unisce senza distinzione cultura e natura. È una visione agli antipodi, non solo geografici, rispetto a quella individualistica che continua ad avere tanto seguito tra noi occidentali moderni. La separazione, la divisione in parti, è un tratto profondamente radicato del nostro pensiero: separazione tra interessi individuali e collettivi, tra cittadino e Stato, tra famiglia e società, tra genere umano e altre specie, tra ambiente artificiale e naturale, tra discipline di studio, e così via. Un’attitudine a separare che abbiamo sempre perseguito e al tempo stesso stigmatizzato, come testimonia l’etimologia della parola “diavolo”, dal greco Διάβολος, diábolos, che significa "colui che divide". Persino nell’antica Grecia - la civiltà dalla quale ha origine il nostro sistema di pensiero - l’individuo trovava la propria identità solo come parte della società nel suo insieme: al di fuori della comunità, della polis, la propria esistenza non aveva alcun significato. Né tanto meno si può trovare alcun elemento di separatezza o divisione nelle diverse filosofie orientali. Significativa in questo senso è la metafora della rete di Indra, specifica del pensiero buddhista, per la quale l'universo è come un’enorme rete che si estende all'infinito in ogni direzione. Al punto di intersezione di ogni rete c'è come una gemma che ne riflette ogni altra, all'infinito. Dunque non ci sarebbe niente nell’universo che non contenga anche tutto il resto. Una visione molto diversa, eppure altrettanto “olistica”, è quella tramandataci dalla tradizione giudaica della cabala, per la quale il mondo non è altro che un’emanazione parziale e riduttiva dell’esistenza onnipotente e senza fine che esiste a prescindere, al di là del tempo e dello spazio.

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LA PERDITA DI UNA VISIONE UNITARIA Nonostante queste premesse, abbiamo ricevuto in eredità dalla Storia una radicata tendenza alla divisione, alla parcellizzazione anche metodologica in ogni campo della conoscenza e dell’agire, che ci ha portato ad allontanare sempre di più una visione d’insieme. La secolarizzazione della società ha accentuato ancora di più questa perdita, che fino a qualche decennio fa era almeno parzialmente compensata dalle religioni, portatrici di un punto di vista assoluto, unificante. Le grandi religioni monoteiste - giudaismo, cristianesimo e islamismo avevano avuto fortuna quali equivalenti spirituali delle società monarchiche, nelle quali la figura del Re ha sempre svolto un ruolo unificante. Con il diffondersi delle democrazie

tutti i sistemi totalizzanti sono entrati gradualmente in crisi, ma con essi si è cominciata anche a perdere la capacità di vedere le cose in una prospettiva in qualche modo unitaria. Il successo del metodo scientifico - attribuito a Galileo Galilei - separando il mestiere di scienziato da quello di filosofo, ha fatto il resto. Siamo riusciti a raggiungere livelli di conoscenza sempre più raffinati, con ricadute preziose per il nostro benessere, ma al prezzo di una parcellizzazione sempre più spinta del sapere. Il disastro ambientale dei cambiamenti climatici è paradigmatico in questo senso: ognuno insegue un progetto che contribuisce a renderci sempre più ricchi e a farci stare meglio, mentre nessuno si occupa del declino del quadro generale. 5


PRIMO PIANO: BREVE EXCURSUS TRA APPROCCIO OLISTICO E SPECIALISTICO

La consapevolezza dei limiti di un approccio troppo parziale alla conoscenza ha fatto emergere il cosiddetto approccio olistico alla scienza, che si è espresso con varie e molto eterogenee accezioni, tutte accomunate comunque da una contrapposizione nei confronti del riduzionismo. Quest’ultimo è un criterio metodologico per il quale la conoscenza del tutto si ottiene dalla somma di diverse conoscenze parziali, ma molto analitiche e puntuali. Esso trova la sua giustificazione nella casualità di gran parte dei fenomeni, che rende arduo ricondurre a un sistema

LA RISPOSTA OLISTICA

coerente le interrelazioni tra di essi. Ma si rivela molto spesso inefficace. In medicina, ad esempio, la specializzazione è efficace solo a seguito di una diagnosi corretta ed esauriente. Ma quest’ultima è molto difficile da ottenere da un punto di vista meramente specialistico. Da ciò deriva la fortuna delle medicine alternative, che hanno consentito l’affermazione di un approccio olistico nel rapporto medico-paziente, anche se poi, dal punto di vista della terapia, non sempre riescono a garantire l’efficacia di cure basate su protocolli scientifici propriamente detti.

INTERDISCIPLINARIETÀ E FEEDBACK L’olismo in scienza enfatizza soprattutto lo studio dei sistemi complessi, proponendo di studiare i fenomeni quali parti a cui arrivare da un’osservazione allargata. Ad esempio, considerare prima l’ecosistema nel quale un organismo è inserito per poi passare a studiare il singolo organismo. Ma c’è anche l’idea che lo scienziato non è un osservatore passivo e indipendente di un universo esterno, del quale non fa parte e dal quale è in grado di trarre verità oggettive. L’osservatore si inserisce in un rapporto di reciprocità rispetto alla natura che osserva e che egli stesso 6

influenza, come ci ha rivelato, ormai un secolo fa, la fisica quantistica. Un altro elemento tipico dell’olismo è la multidisciplinarietà o, in un’accezione un po’ più accademica, interdisciplinarietà: la collaborazione tra scienziati di discipline diverse che osservando uno stesso fenomeno, ciascuno dal proprio punto di vista, riescono a fornire un quadro d’insieme molto più esauriente che non dalla somma dei singoli lavori svolti separatamente. Un ulteriore pilastro del pensiero olistico è costituito dal feedback, definito come la capacità di un sistema dinami-

co di tenere conto dei risultati del sistema stesso per modificare le proprie caratteristiche. Un esempio può essere costituito dalla fusione dei ghiacci ai poli. I ghiacci fondono a causa dell’aumento della temperatura, ma la diminuzione della loro superficie bianca fa sì che si indebolisca anche la capacità di riflettere i raggi solari, provocando così un ulteriore aumento della temperatura. Il feedback è sfruttato anche nell’industria bellica: un sistema che spara può essere reso molto più efficiente se ogni colpo viene tarato tenendo conto dei risultati del colpo precedente.


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QUANDO ARISTOTELE SALÌ IN CATTEDRA A SPIEGARE L’APPROCCIO OLISTICO NELLA FILOSOFIA Avere una visione olistica della realtà significa avere una forma mentis che vede il funzionamento dell’insieme nella somma delle sue parti. L’approccio olistico, infatti, riconosce che ogni singolo elemento ricopre un ruolo di fondamentale importanza all’interno di un determinato insieme e che ne riflette, a sua volta, tutte le caratteristiche. Da qui nasce l’obiettivo dell’olismo d’indagare le interazioni e le interconnessioni che si stabiliscono fra le parti e che sono in grado di unire piuttosto che dividere, avvicinare anziché allontanare. Questo modo di vedere il mondo - se declinato nell’ambito filosofico - trova un suo precursore nella figura di Aristotele. Il più noto “filosofo dell’immanenza", infatti, nel lontano IV secolo a.C. elaborò una visione olistica dell’uomo che non concepiva anima e corpo come parti scindibili dell’essere umano, bensì come un tutt’uno che richiamava al singolo individuo. L’acuta mente del filosofo greco partorì così il pensiero che "il tutto è più della somma delle parti”, contenuto nell’opera Metafisica. Aristotele iniziò dunque a guardare all’uomo nella sua totalità, andando oltre l’involucro esterno che lo rivestiva ed esplorando le miriadi di sfumature e caratteristiche che pur esistevano da tempo immemore. Giunse alla conclusione che l’uomo non fosse solo il corpo che lo sostiene, ma anche la mente che lo guida, i pensieri che lo animano, i sentimenti che lo fanno sentire vivo, l’immaginario che lo fa volare e il movimento che lo spinge a viaggiare. L’uomo è una macchina perfettamente collaudata la cui buona o cattiva prestazione non dipende esclusivamente dalla qualità dei suoi elementi, ma soprattutto dalla loro capacità di comunicare gli uni agli altri, d’integrarsi e di amalgamarsi al punto da sacrificare la propria peculiarità a favore dell’armoniosa unicità del singolo individuo. Se s’impara a vedere la realtà e l’uomo in una dimensione più globale, niente rimarrà escluso: né il tutto, né le parti che concorrono al suo porsi in essere. Tutto sarà infinitamente connesso e interconnesso con tutto.

IL FASCINO DELLA TEORIA Tra i più affascinanti filoni di ricerca in campo olistico c’è la teoria del caos, quella per la quale il minimo battito d'ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall'altra parte del mondo. La teoria del caos ci insegna come un sistema complesso sia governato al tempo stesso da forze deterministiche, e quindi prevedibili, e da forze aleatorie e perciò non prevedibili. Il fumo di una sigaretta, ad esempio, è ogni volta diverso e caotico, se lo si osserva nel dettaglio. Ma a livello macroscopico consentirà di rilevare delle tendenze fisse e determinate. Così funzionano molte cose, nel nostro

universo, soprattutto per il fatto che essendo molti fenomeni provocati da una lunghissima catena di altri fenomeni precedenti - una variazione delle condizioni iniziali, per quanto minima, può provocare come esito finale risultati del tutto diversi, come nella metafora della farfalla. Per il matematico Alan Turing, considerato uno dei padri dell’informatica, “lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una

valanga, o la sua salvezza”. Per quanto suggestivo possa essere, questo approccio non manca di suscitare critiche. Ad esempio da parte di coloro che affermano che metodi sistemici come questi possono rivelarsi utili solo a livello di osservazione. Perché poi, quando si tratta di operare sul concreto per intervenire sui fenomeni, un po’ di determinismo non guasta. Specie se si vogliono ottenere risultati affidabili e condivisibili a livello di comunità scientifica. Il dibattito, anche tra gli scienziati, è molto più aperto di quanto non si tenda comunemente a pensare. z 7


PRIMO PIANO: OLISMO E SCIENZA

DAVID BOHM,

IL PADRE DELL’OLISMO SCIENTIFICO

ANDARE OLTRE I CONFINI TANGIBILI DELLA FISICA PER CERCARE UNA RISPOSTA AL MISTERIOSO QUESITO DELL’UNIVERSO 8


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L’olismo scientifico, nel modo di vedere l’universo di David Bohm, te complessa, che i si è spesso innon contempla solo un ordine terrogati sul siesplicito, confutato e comprovato fungono da amplificatori delle gnificato della dalla scienza, ma anche “informazioni” parola “olismo”, un e soprattutto un ordine contenute in termine che di per sé implicito che ancora un’onda quantistica» pare evocare antiche praci sfugge. (Universo, mente e matiche orientali e lontani sa-

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pori esotici. In realtà, uno dei principali contributi alla creazione e alla formulazione di una concezione olistica dell’universo giunge da David Bohm, importante fisico e filosofo americano che, rivoluzionando i canoni classici della scienza, ha investigato l’affascinante teoria secondo la quale tutte le parti dell’universo sono fondamentalmente interconnesse e formano un flusso continuo e ininterrotto. In particolare, David Bohm dedicò molti anni della sua vita alla ricerca dell’olismo in natura, da cui trasse ispirazione per la formulazione delle più moderne teorie circa le proprietà fondamentali della materia. Insoddisfatto dei paradossi suggeriti dalla fisica quantistica, che si basavano su una concezione materialistica dell’universo per la quale l’unica realtà che può davvero esistere è la materia e tutto ciò che da essa deriva, Bohm cercò di darvi una risposta abbracciando un approccio olistico. Tenendo conto dei principi cardine evidenziati dalla fisica quantistica, Bohm partì quindi dal presupposto che «le particelle elementari sono sistemi con una struttura interna estremamen-

teria, 1996). Ciò significa che Bohm non si limitava a considerare l’atomo come un insieme di parti indipendenti, ma, al contrario, ne sosteneva una continua interconnessione. Dal tentativo di spiegare lo strano comportamento delle particelle subatomiche laddove non erano riusciti gli studiosi di fisica quantistica, Bohn plasmò la teoria dell’ordine implicito, ossia che «due particelle che hanno interagito anche una sola volta possono istantaneamente rispondere al movimento reciproco centinaia di anni dopo quando sono distanti anni luce» (Universo, mente e materia, 1996). Le particelle reagirebbero, secondo lo studioso americano, in funzione di una regola nascosta - detta holomovement - dove ogni cosa è connessa in modo che ogni elemento individuale possa rivelare informazioni su qualsiasi altro elemento dell’universo. La teoria così formulata ed esposta da David Bohm gettò le basi di quell’olismo scientifico che, nel modo di vedere l’universo del filosofo americano, non

contempla solo un ordine esplicito, confutato e comprovato dalla scienza, ma anche e soprattutto un ordine implicito che ancora ci sfugge. Nel tempo, questo pensiero non trovò applicazione solo nel campo della fisica quantistica, ma anche nella formulazione dello sviluppo della coscienza umana. Fu soprattutto dopo l’incontro con Jiddu Krishnamurti, filosofo indiano che sosteneva che la coscienza di ogni individuo altro non fosse che la manifestazione della coscienza dell’intero genere umano, ricca della sua storia e della sua interazione con la natura, che Bohm giunse a teorizzare un parallelismo tra la coscienza umana e l’ordine implicito. Proprio come le particelle subatomiche, infatti, anche la coscienza umana agirebbe come un’intrinseca caratteristica dell’universo, che sarebbe incompleto se l’uomo non esistesse e non partecipasse a questo insieme dove coscienza e materia s’influenzano vicendevolmente. Nella visione olistica di Bohm questa zona di contatto tra mente e materia potrebbe rappresentare «il tessuto connettivo che unisce il regno, apparentemente astratto, della mente, e il mondo fisico, “manifesto” in un unico continuum» (Universo, mente e materia, 1996). z

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PRIMO PIANO: OLISMO E SCIENZA

NEWTON, GOETHE E LA TEORIA DEI COLORI n un tempo non troppo lontano i grandi uomini godevano del doppio talento: illustri poeti erano anche brillanti scienziati, e i più noti scienziati scrivevano i loro trattati in una lingua e forma tali da rendere la lettura gradevole a molti: proprio come un bel romanzo. Ce ne accorgiamo oggi, vedendo quanto tuttora vende L'origine della specie di Darwin, anche tra chi non si occupa di biologia e leggi naturali. Il trait d'union è il pensiero filosofico, per il quale uomo e natura (leggasi scienza) sono il medesimo oggetto di indagine. Poi vennero la tecnologia e il linguaggio informatico, e gli scienziati si chiusero nei laboratori e parlarono solo con le formule. E i poeti? Quei pochi rimasti, si industriarono a fare altro per sopravvivere. Dopo questa premessa forse stupirà meno sentire che Johan Wolfgang von Goethe, noto come uno dei mas-

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simi poeti tedeschi di tutti i tempi, di sé amasse dire che aveva dedicato più cura e impegno agli scritti scientifici che non alle creazioni letterarie. Perché sì, l'autore del Faust e di alcuni romanzi tra i più significativi di quell'epoca a cavallo tra Illuminismo e Romanticismo fu anche un prolifico indagatore della natura: a lui si deve una complessa teoria ottica, nata in risposta a quella formulata da Newton oltre cent'anni prima. Ma andiamo con ordine.

DOPO LA MELA, IL PRISMA La storia vuole che sia stata la caduta accidentale di un pomo maturo sulla sua testa a dare origine alla teoria gravitazionale, e l'immagine di per sé è molto suggestiva. Pochi sanno che in quello stesso anno 1666, Isaac Newton, uno dei più grandi uomini di scienza di tutti i tempi, conduceva alcuni esperimenti ottici che

gli consentirono di dimostrare che non sono gli oggetti terreni (come fino allora si credeva) a modificare il colore della luce. Fece così: schermando una finestra con una tavola forata, fece filtrare uno stretto raggio di luce in una stanza buia, e gli fece attraversare un prisma, proiettando la luce che ne fuoriusciva su uno schermo bianco. Ne ottenne i colori dell'arcobaleno in una nitida sequenza, dal rosso al violetto, lungo una striscia sfumata che chiamò spettro della luce. Quindi lo scienziato isolò uno dei raggi colorati e gli fece attraversare un altro prisma: il raggio filtrato mantenne lo stesso colore. Per ultimo, Newton fece passare il raggio di luce scomposto attraverso una lente, e mise a fuoco su uno schermo: ottenne ancora una volta la radiazione luminosa bianca. Era così dimostrato che il processo di dispersione della luce è reversibile, e che i colori, lungi dal modificarla, la compongono.


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THE

ISAAC NEWTON

LA RISPOSTA DI GOETHE Poteva un animo profondamente romantico come quello di Goethe - il quale peraltro si dilettava di pittura - rimanere indifferente dinanzi a una dimostrazione così fredda, dove l'occhio che vede non ha cittadinanza? No che non poteva. Per questo il tedesco si impegnò in una serie di esperimenti mirati a sbugiardare la scoperta newtoniana, e davvero sembrò esserci riuscito: il suo prisma non lasciava filtrare colori, ma solo luce bianca. Peccato che avesse sbagliato a ripetere l'esperimento! Da lì si determinarono una serie di conclusioni erronee, eppure qualcosa di nuovo Goethe lo provò davvero: il colore non è fenomeno di percezione solo passivo, ma è anche il prodotto di chi lo recepisce. Se Newton riduceva tutto a un fenomeno fisico, Goethe si impegnò a mostrare quanto già sostenuto dal fi-

J.W.

VON

GOE

losofo greco Plotino : «Un occhio non avrebbe mai visto il sole se non fosse simile al sole; ugualmente, l’anima non potrebbe vedere il bello, senza divenire essa stessa bella».

UNA TEORIA ARMONICA Tutto, per Goethe, tende all'Uno e alla completezza: la tendenza disgregativa di Newton non basta a spiegare l'emozione che si prova per un colore, e che varia da situazione a situazione e da occhio a occhio. Studiando soprattutto gli accostamenti di colori e ombre, il tedesco comprese quello che molto più tardi sarebbe stato studiato dalle tendenze cromoterapiche: chi guarda ha un ruolo attivo nella visione, e la percezione del colore è alla base del suo effetto. In un cerchio che racchiude l'intera gamma di colori percepibili da un occhio sano, gli opposti (giallo-violetto, arancio-blu...) sono per Goethe armo-

nia: la rètina “richiama” il colore che non vede, per ricostituire il tutto a cui ambisce, ed è capace di far sorgere i colori per polarità, ricreando spontaneamente il complementare. Come dire: l'uomo tende a una totalità a sé esterna, di cui pure lui è parte integrante. Una disciplina olistica, insomma, che ha del divino. In uno dei capitoli del vasto trattato si illustra l'effetto morale dei colori, con suggestioni talvolta sorprendenti: se è prevedibile che il rosso si associ all'energia, l'azzurro è visto come una contraddizione tra eccitazione e serenità, mentre il verde è quanto di meglio si possa trovare per pacificare mente e cuore. Goethe si premura a suggerire ai suoi lettori che scelgano bene i colori degli abiti, o della tappezzeria del salotto. Pensateci, la prossima volta che arredate casa: potreste ricavarne un gran beneficio. z 11


ABC PIANO: OLISMO E INDUSTRIA PRIMO

È IN ARRIVO LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

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GRAZIE A STRUMENTI COME LA STAMPANTE 3D, I PROCESSI PRODUTTIVI, COSÌ COME QUELLI ECONOMICI E SOCIALI, STANNO PER CONOSCERE UNA SORTA DI FUTURISTICO RITORNO AL PASSATO: CON L’UOMO AL CENTRO DEL PROCESSO PRODUTTIVO, L’ARTIGIANO (OGGI MAKER) QUALE MOTORE DELLA PRODUZIONE E L’ECONOMIA MONDIALE DIRETTA VERSO UN RIEQUILIBRIO GEOGRAFICO E UN RITORNO DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A UNA DIMENSIONE LOCALE E NON PIÙ GLOBALE. i narra che John Maynard Keynes fosse solito dire: “È più facile spedire ricette che torte e biscotti”, probabilmente sottolineando che è più utile insegnare a fare le cose piuttosto che spedirle. Un grande designer italiano e di fama mondiale, Enzo Mari, nei primi anni 70 del secolo scorso propose “Autoprogettazione”, una linea di oggetti di arredo per i quali lui forniva le istruzioni e concepiti per essere facilmente assemblabili. Il messaggio che stava alla radice di “Autoprogettazione” era un invito a recuperare certe capacità di costruirsi le cose, ricordando, per esempio, come i pionieri dell’epopea americana dell’800 sapessero tutti fabbricarsi una casa. Oggi, Fablab Torino, ad esempio, propone una versione avanzata dell’idea di Mari, inserendosi in una comunità mondiale che sta assumendo proporzioni ragguardevoli e che utilizza le tecnologie più moderne per introdur-

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re customizzazioni sempre più avanzate nella produzione di oggetti per l’arredamento e nella realizzazione, in genere, di manufatti per edifici. Si tratta di soluzioni che non chiamano in causa l’utente finale, ma una popolazione di nuovi artigiani, capaci di mixare un’elettronica di base con materiali tradizionali come il legno, oppure più avanzati e maneggiabili con stampanti 3D e altri strumenti di lavorazione che oggi, comunque, sono sempre gestiti da software.

LA STAMPANTE 3D Un ruolo centrale in questo cambiamento dei processi produttivi, lo sta senza dubbio ricoprendo la stampante 3D. Un prodotto sempre più diffuso anche in Italia (vedi box a pag. 14), che opera con una logica esattamente contraria rispetto a quella della produzione manifatturiera nella qua-

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PRIMO PIANO: OLISMO E INDUSTRIA

le si parte da un certo materiale, grezzo, dal quale bisogna tirar fuori un oggetto – un vaso, un aereo – che deve presentarsi con una certa solidità funzionale, il cui raggiungimento, nella filiera produttiva, si porta appresso quasi sempre, un inevitabile spreco di materiale. Le stampanti 3D, invece, utilizzano un processo produttivo in cui la materia prima è sotto forma di “pasta” o di “polvere metallica”, e il pezzo è composto per deposizione di strati successivi, dello spessore di un millimetro o due. Questo consente una precisione costruttiva di qualche ordine di grandezza superiore a quella dei sistemi tradizionali, con una riduzione impressionante nello spreco di materiali. C’è una correlazione diretta, infatti, fra precisione costruttiva ed efficienza funzionale del manufatto. Non solo: se cresce l’efficienza, diminuisce la necessità di avere materia nel pezzo. Diciamola meglio: se il manufatto deve, per esempio, resistere a determinate sollecitazioni ambientali, ovvero sopportare pesi, oppure forze che

agiscono su di esso, l’accuratezza nella sua costruzione è direttamente proporzionale all’obiettivo; e se la precisione costruttiva richiede meno materiale, questo vuol dire che sale l’efficienza e cala lo spreco. Un altro effetto positivo nell’uso di stampanti 3D risiede nella facilità con la quale il singolo pezzo è prodotto. Abbiamo davvero a che fare con una stampante, quel marchingegno che può produrre una singola copia. Se pensiamo allora alla gestione dei pezzi di ricambio nei settori più disparati della produzione industriale, ecco che la necessità di magazzini che ne contengano stabilmente un numero consistente, viene a cadere, perché la produzione ad hoc è assolutamente gestibile.

L’industria della stampa

3D

Il “Wohlers Report 2014” calcola che l’industria della stampa 3D, includendo macchinari, servizi, materiali, laser e aggiornamenti software valga oggi 3,05 miliardi di dollari, dopo una crescita del 35%, il tasso più elevato degli ultimi 17 anni. Di questi circa un miliardo è stato generato dai due leader di mercato, Stratasys e 3D Systems. In Italia l’utilizzo delle tecnologie di stampa 3D è già molto radicato. Alla fine del 2013 c’erano 66.702 stampanti 3D industriali, cioè macchine da più di 5.000 dollari, nel mondo e il 3,5% di queste, cioè 2.334, erano in Italia. (fonte “Il Corriere della sera”)

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Le stampanti 3D permettono insomma di produrre senza più sprechi, di produrre oggetti unici e specifici per ogni consumatore. Non si ha più bisogno della fabbrica, del magazzino, di un certo tipo di capitale iniziale: chiunque può diventare un produttore. E si annullano anche i costi di spedizione: invece di andare a comprare un oggetto, per poi ritirarlo oppure farcelo mandare, si compra infatti il codice numerico per la stampa 3D, si va al centro di stampa più vicino e ce lo si fa stampare. Non importa quale sia il luogo geografico di origine dell’oggetto, vicino o lontano. Si può stampare di tutto. Dalle ossa alle protesi acustiche o dentarie, a membrane pericardiche, pale per turbina, tessuti, qualunque cosa e su misura.


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Le stampanti 3 D dando vita a u stanno na nuova forma di artigia attività che si nato, ba produzione di sa sulla pochi pezzi - anche uno so lo che nascono da creatività indiv una iduale.

PER SAPERNE DI PIÙ SU STAMPANTI 3D

E ALTRE TEMATICHE DEL FUTURO PROSSIMO, CHIEDICI COPIA DEL LIBRO “PAROLE PER IL FUTURO” DI FEDERICO PEDROCCHI, EDIZIONI AMBIENTE PER IMQ.

LA PERSONA RITORNA AL CENTRO DELLA PRODUZIONE

Cambiamenti dunque del processo produttivo e distributivo. Ma cambiamenti anche di tipo sociale. Le stampanti 3D stanno infatti dando vita a una nuova forma di artigianato, attività che si basa sulla produzione di pochi pezzi - anche uno solo, a volte - che nascono da una creatività individuale. Qui le cose cambiano perché non ci sono più scalpelli, pialle o piccoli forni per arroventare il ferro, oppure quelle macchine a pedali che fanno ruotare i pezzi di creta da modellare. Tuttavia c’è un rapporto forte e diretto di una persona con della materia alla quale dare una forma, e la stampante è una macchina che sarà sempre più duttile. Al posto del fabbro che sapeva forgiare una spa-

da su misura del suo utilizzatore, stanno arrivando i maker, qualcuno che grazie a un progetto e a una stampante 3D può “forgiare” su misura. Ma per il resto, al centro del processo produttivo vi è di nuovo la persona.

L’IMPATTO SULL’ECONOMIA POLITICA

Sembra dunque che si sia di fronte a un cambiamento dei processi produttivi e sociali che avrà anche un forte impatto a livello di economia politica. Stati come la Cina sono e stanno crescendo

molto, perché sono la fabbrica del mondo e producono la maggior parte dei prodotti sul mercato. Ma molti analisti prevedono che, nel medio periodo, i costi di produzione tra Oriente ed Occidente saranno equiparabili a causa delle nuove tecnologie produttive (stampanti 3D, ma anche robot) e delle modifiche/evoluzioni sociali che inevitabilmente ci saranno in Oriente. Le nuove tecnologiche riporteranno le attività produttive/manifatturiere ad una dimensione locale e non più globale, in quanto i costi di spedizione e distribuzione incideranno più di quelli di produzione. z 15


PRIMO PIANO: OLISMO E INDUSTRIA

SISTEMI DI PRODUZIONE

I GIGANTI DELLE MULTINAZIONALI

versus

LE BOTTEGHE DEGLI ARTIGIANI 16


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A CONFRONTO

IN UN VILLAGGIO ECONOMICO SEMPRE PIÙ INTERCONNESSO ASSISTIAMO CON FREQUENZA ALLA CONTRAPPOSIZIONE TRA L’APPROCCIO OLISTICO DELLE GRANDI AZIENDE E QUELLO SPECIALISTICO DELLE BOTTEGHE DEI PICCOLI ARTIGIANI. LE PRIME CHE DECENTRALIZZANO IL PROPRIO SISTEMA PRODUTTIVO, CREANDO UNA FITTA RETE DI STABILIMENTI SPARSI PER IL GLOBO. I SECONDI CHE PRODUCONO MANUFATTI UNICI. PER CONOSCERE MEGLIO QUESTO DUPLICE VOLTO ABBIAMO INTERVISTATO L’OPERATION MANAGER DI UNA GRANDE AZIENDA ITALIANA, CON SEDI PRODUTTIVE IN TUTTO IL MONDO, E UN ARTIGIANO SPECIALIZZATO NELLA COSTRUZIONE DI REMI.

Cercare di capire che cosa sia oggi il tessuto economico e produttivo di un mercato sempre più globale è come immaginare di essere sul punto d’intraprendere un viaggio e dover decidere quale strada percorrere. Sono due le scelte: da un lato potremmo scegliere le moderne e sofisticate arterie di grande scorrimento che, nell’aggrovigliata matassa del mercato, sono rappresentate dalle grandi multinazionali; dall’altro, invece, potremmo optare per un viaggio su strade secondarie, fatte di viuzze che si snodano tra scorci suggestivi e semafori cittadini che, metaforicamente parlando, rispecchiano la minuziosa lavorazione dei manufatti artigianali. Sebbene la grande azienda e la bottega artigiana all’apparenza sembrino due mondi agli antipodi, in realtà ciò che emerge è che si trovano spesso a essere due facce complementari di un modo di lavorare e produrre che richiede sia un approccio olistico e sia specialistico. Se, infatti, il lato olistico della capa-

cità produttiva di una multinazionale passa attraverso una visione d’insieme delle varie componenti che concorrono alla fabbricazione di un determinato prodotto e nelle competenze trasversali del direttore di produzione, il suo approccio specialistico si manifesta, invece, nel momento in cui l’azienda decide in quale settore cimentarsi. Nel caso, invece, della piccola produzione artigianale, la specializzazione è insita nella natura dell’artigiano, che è colui che realizza oggetti unici per eccellenza, mentre l’approccio olistico si palesa nella sua personale cura di tutte le fasi che interessano la realizzazione finale del prodotto: dalla sua progettazione alla scelta delle materie prime fino alla fase di costruzione e rifinitura. Parleremo dunque di questo duplice volto del settore produttivo con Francesco Ciampini, Operation Manager di Artemide S.p.A. e Piero Dri, artigiano e gestore de Il Forcolaio Matto. 17


PRIMO PIANO: OLISMO E INDUSTRIA

INTERVISTA A FRANCESCO CIAMPINI, OPERATION MANAGER DI ARTEMIDE S.p.A. Il suo ruolo prevede la supervisione del lavoro di diversi reparti. Quante competenze sono necessarie per fare il direttore di produzione? Sono in Artemide dal 1989 e da allora non ho mai smesso di crescere. Ho iniziato dalla base del processo inserendomi nel reparto di Ricerca e Sviluppo dove si creano i modelli definendone i materiali, le forme e le sorgenti luminose. Successivamente sono passato per la progettazione e l’industrializzazione del prodotto. Dopo qualche anno per scelte strategiche si è deciso di creare un forte ed organizzato polo produttivo e quindi mi sono occupato di sviluppare e far crescere quelle che oggi sono le Fabbriche Artemide. Tutto questo percorso è stata un’esperienza straordinaria che mi ha arricchito moltissimo e mi ha fornito gli elementi che oggi sono alla base del mio ruolo. Oggi gestisco e coordino le tre fabbriche design del Gruppo e mi occupo anche di tutti gli aspetti legati alla logistica dato che qui a Pregnana c’è il magazzino centrale da dove partono tutte le spedizioni per le filiali Artemide presenti nel mondo. Grazie alla mia esperienza lunga 25 anni ho dunque sviluppato competenze fondamentali nel mio lavoro come la conoscenza profonda dei processi aziendali e la consapevolezza dei nostri pregi e dei nostri difetti. Qual è l’aspetto più difficile da affrontare nella supervisione di diversi reparti? L’aspetto più impegnativo è sicuramente legato alla gestione dei rapporti con le persone. Non è facile mettere insieme tante personalità diverse (solo nello stabilimento di Pregnana siamo 300 e circa 800 nel mondo) e creare un team di lavoro sempre efficiente. In questo senso è fondamentale avere i processi ben organizzati ed un valido sistema gestionale che sia il più possibile integrato in modo da agevolare la comunicazione fra i servizi aziendali. Su queste basi bisogna riuscire a costruire i rapporti con le persone in modo da va-

Il Gruppo Artemide è uno dei leader mondiali nel settore dell’illuminazione residenziale e professionale d’alta gamma. Con sede a Pregnana Milanese, il Gruppo Artemide ha un’ampia presenza distributiva internazionale in cui spiccano gli showroom monomarca nelle più importanti città del mondo e gli shop in shop nei più prestigiosi negozi di illuminazione e di arredamento. Fondata nel 1960, Artemide è nota per la sua filosofia “The Human Light”, ed è oggi sinonimo di design, innovazione e Made in Italy. L’azienda ha contribuito alla storia del design internazionale con prodotti come Eclisse (1967, di Vico Magistretti), Tolomeo (1989, di Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina) e Pipe (2004, di Herzog & De Meuron), tutte insignite del Premio Compasso d’Oro. Nel 1994 Artemide ha ricevuto il Premio Compasso d’Oro alla carriera e il prestigioso European Design Prize nel 1997. Compasso d’oro ricevuto anche nel 2014 per la lampada IN-EI disegnata da Issey Miyake Reality Lab, certificata da IMQ. Le lampade di Artemide sono considerate a livello internazionale delle icone del design contemporaneo: sono esposte nei maggiori musei di arte moderna e collezioni di design del mondo. L’azienda collabora da sempre con i più famosi designer internazionali e promuove workshop con scuole di design al fine di scoprire i migliori talenti tra le giovani leve.

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lorizzare ogni singola competenza con l’obiettivo comune di far crescere l’Azienda. In Artemide è come se fossimo in una grande famiglia, abbiamo un turn over molto basso e tutti, giovani apprendisti compresi, contribuiscono con passione allo sviluppo dei nostri prodotti. In questo senso cerchiamo di essere il più possibile meritocratici e di riconoscere il valore delle persone. Quanto è importante la comunicazione tra i vari reparti di una grande azienda? La comunicazione è importantissima anzi direi fondamentale. Negli ultimi anni si sono verificati dei cambiamenti sostanziali per tutta la filiera produttiva e distributiva. Ovviamente le filiali, i distributori e i negozi tendono a non fare più magazzino e di conseguenza la richiesta di evasione degli ordini è sempre più veloce. La visibilità in produzione è brevissima e oggi bisogna essere capaci di produrre solo ciò che serve nel momento in cui serve. Questo richiede maggiore flessibilità e velocità di produzione e di conseguenza tutta la catena aziendale avverte una maggiore pressione. Questo cambiamento richiede processi ben oleati e persone pronte a modificare continuamente i programmi già definiti. In questo contesto la comunicazione è fondamentale. Non mi stanco mai di ripetere che è sempre meglio fornire una parola e un chiarimento in più piuttosto che dare tutto per scontato. Un cambiamento epocale nel settore dell’illuminazione si è verificato con l’avvento del LED, una sorgente che ha rendimenti sempre più efficienti e costi sempre inferiori. Le fabbriche devono tenere il passo dell’evoluzione della tecnologia ed è necessario investire nella ricerca e dotarsi delle attrezzature idonee a essere sempre all’altezza delle richieste dei clienti. Quali sono i vantaggi del decentramento di alcune fasi della produzione in altri stabilimenti (e in altri paesi)? Artemide ha scelto di investire in Ungheria (lo stabilimento si trova a Paks, una città a circa 120 km da Budapest) principalmente per due motivi: il basso costo della manodopera e la notevole facilità burocratica, cosa che in Italia ci sogniamo. La distanza rispetto alla casa madre permette una piena concentrazione sulle attività produttive garantendo un ottimo livello di servizio e produttività. Fino ad un paio di anni fa in Ungheria si è lavorato sui prodotti più semplici ma adesso, l’evoluzione tecnologica dei LED impone un livellamento delle competenze in tutte le nostre fabbriche. Per questo motivo teniamo continui corsi di aggiornamento anche a Paks, cosa che fidelizza molto i dipendenti, li fa sentire apprezzati e li lega sempre di più all’azienda. Anche a Paks si sta costituendo un team affiatato di persone che si appassionano sempre di più alla vita aziendale. Inoltre le policy di Artemide sono uguali per tutti gli stabilimenti indipendentemente dal paese in cui essi si trovano. Esistono dei rischi quando si decide di decentralizzare parte della produzione in un paese estero, dove magari esiste un diverso approccio lavorativo? I processi e le attività per avviare una nuova linea di pro-

duzione sono uguali in ogni stabilimento. Quando deve essere realizzato un nuovo prodotto in Ungheria un gruppo di tecnici partono da Pregnana e vanno a Paks per illustrare il progetto al capo fabbrica e agli operai. Mostrano loro la documentazione tecnica, evidenziano le criticità, definiscono i test da effettuare, insomma discutono e lavorano tutti insieme fino allo sblocco della produzione. Questo succede in tutti gli stabilimenti e ciò garantisce l’omogeneità di tutti i flussi produttivi e la stessa attenzione in tutte le realizzazioni. Nel reparto Produzione della sua azienda quanta attenzione c’è nei confronti della sostenibilità? La scelta di investire nella tecnologia LED e di cogliere il cambiamento che ne deriva è già una scelta sostenibile. Certo, si tratta di un cambiamento oneroso: per portarlo a termine è necessaria tanta ricerca quindi investimenti in test, verifiche tecniche, analisi dei report, attrezzature idonee nei laboratori e sui banchi di produzione. Inoltre da qualche anno stiamo cercando di introdurre il concetto di lean manufacturing per fare in modo che si produca di più e meglio, faticando meno. La prima cosa da fare è eliminare gli sprechi ossia tutto ciò che nella filiera produttiva non crea valore aggiunto e che di conseguenza i nostri clienti non sono disposti a pagare. Molto spesso bastano pochi accorgimenti per limitarli; ad esempio con i dipendenti insisto molto sull’ordine e la pulizia dei reparti, sulla manutenzione della propria postazione e sulla necessità di organizzarla solo con gli attrezzi necessari eliminando il superfluo. Inoltre, vorrei portare avanti il progetto di far diventare Artemide un’azienda smoking free. Entro un anno e mezzo vorrei poter dire che qui nessuno fuma più. Come? Aiutando i fumatori a smettere attraverso un percorso di incontri organizzati con strutture ed enti specializzati. È un classico caso in cui sia l’azienda che tutti i suoi lavoratori hanno da guadagnare sia in termini economici ma soprattutto di z salute.

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PRIMO PIANO: OLISMO E INDUSTRIA

INTERVISTA A PIERO DRI, ARTIGIANO E GESTORE DE “IL FORCOLAIO MATTO” Come ha imparato a fare l’artigiano? L'artigiano è uno di quei lavori che non s’impara facendo un corso o frequentando lezioni e, se si vuole fare bene, non si può nemmeno improvvisare. Quello dell'artigiano più che un lavoro è un mestiere, un'arte che si apprende lentamente, giorno dopo giorno. Io ho imparato nella bottega del mio maestro, Paolo Brandolisio. Ho iniziato a frequentarla un po' per caso, mosso dalla necessità di cambiamento verso cui la mia vita mi spingeva. È stato un lungo percorso in cui, secondo me, gli ingredienti fondamentali sono stati l'umiltà e la passione. Umiltà perché credo che ci si debba sempre dimostrare pronti a imparare e avere un atteggiamento aperto e di enorme rispetto nei confronti del proprio maestro. Anche quelle cose che a prima vista non si capiscono o possono sembrare irrilevanti, poi col tempo si rivelano assolutamente necessarie al lavoro di tutti i giorni. Imparare a fare l'artigiano significa imparare ad avere cura del tempo e dell'oggetto che si sta creando, ma anche dare valore alla fatica fisica che può rendersi necessaria. Fare l’artigiano significa non avere fretta. La cura dell'oggetto è fondamentale per scoprire e coltivare la passione nel costruirlo, che è poi il motore di tutto. Senza passione, a mio avviso, non c'è motivo per cui valga la pena mettere tutta la propria anima in quello che si fa. Nel percorso di apprendimento non tutto può essere tratto dagli insegnamenti del maestro. Quando le proprie abilità e competenze iniziano a maturare deve contemporaneamente svilupparsi - sotto forma d’interrogativi, prove o idee - una propria, personale visione delle cose. Dal mio punto di vista è un passo importante perché permette di passare da allievo a qualcosa di più, contribuendo così a far nascere e prendere forma una nuova identità di artigiano che poi si tramuterà in nuovo maestro. È inoltre essenziale - in mestieri come questo dove non si finisce mai di imparare mantenere sempre quell'atteggiamento di umiltà iniziale. Quali competenze sono necessarie per svolgere il suo lavoro? Buone capacità manuali e artistiche, ma allo stesso tempo precisione, cura e intuizione, soprattutto quando si parla di costruire forcole. Nei secoli, infatti, le forcole sono divenute vere e proprie sculture e come tali possono essere acquistate. Per questo motivo si deve sviluppare una buona competenza, che sappia coniugare la funzionalità e gli aspetti tecnici e pratici con un buon gusto estetico che permetta di ottenere un oggetto intrinsecamente bello, armonioso, impeccabile, attraente e degno di essere considerato un oggetto d'arte. Per svolgere il mestiere del remer occorre poi essere inseriti nella realtà veneziana e saper vogare, in modo da capire e saper interpretare ciò che i gondolieri o chi voga in generale riporta. 20

Quanta tecnica e quanta specializzazione servono? Direi che se non c'è la tecnica, il lavoro non si può fare. Capita che qualcuno improvvisi e provi a costruire qualche remo o qualche forcola, ma si vede subito quando uno di questi oggetti è stato costruito senza le necessarie conoscenze e abilità. La specializzazione, infatti, è una caratteristica fondamentale di questo mestiere poiché anche l'utilizzo degli strumenti elettrici o manuali è molto diverso rispetto a quello per cui a volte sono concepiti. L'uso della sega a nastro o della pialla a filo, nonché della pialla manuale, è molto diverso dall'uso classico che un falegname, in genere, fa di questi strumenti. In Italia ci sono tanti artigiani remer? Sicuramente in giro per il mondo ci sono persone che costruiscono remi. Qui a Venezia, però, la figura del remer è molto particolare poiché stiamo parlando di un antico mestiere che ha più di 700 anni. Il remer, oltre alla costruzione dei remi veneziani, infatti, si occupa anche della realizzazione delle forcole, che vengono ricavate da un unico blocco di legno, in genere noce, e che hanno caratteristiche morfologiche tali da ga-


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mestieri erano molto specializzati e, a parer mio, è un sano principio, da riprendere se si vuole ricreare un tessuto sociale vario e completo. Penso anche però che i tempi siano cambiati e che sia quindi giusto conservare e difendere i modi di lavorare e i metodi tradizionali con una marcia in più, ossia la rivisitazione in chiave moderna di alcuni aspetti. La creatività e la fantasia, infatti, sono per certo concetti che negli ultimi anni sono molto apprezzati, soprattutto nell'ambito artistico. Occorre dunque avere la capacità intellettuale di fondere assieme queste due caratteristiche, trovando e garantendo il giusto equilibrio. Provo terrore quando vedo che in nome della modernità si cancellano definitivamente alcuni aspetti validi e sempre attuali della vita di chi ci ha preceduto. Alcune cose non sono state tramandate a noi non per caso, ma perché probabilmente contribuivano a una bellezza generale del mondo.

rantire l'efficacia della vogata in ogni situazione. Come accennavo prima, oggi le forcole sono vendute come vere e proprie sculture, oggetti d'arte e d'arredamento. Se intesa in questo senso, dunque, la figura del remer esiste unicamente a Venezia e siamo quattro in tutto. Io sono il più giovane. Secondo lei, specializzarsi in un unico settore (o in un unico prodotto), oggi, paga oppure no? Senza dubbio bisogna recuperare la bellezza del fare le cose bene. Esprimersi in un settore molto specializzato dà la possibilità di considerare meglio, con più cura e attenzione, aspetti che altrimenti potrebbero essere trascurati. Un tempo i diversi

IL FORCOLAIO MATTO Piero Dri nasce a Venezia nel 1983. Nel 2005 consegue la laurea triennale in Astronomia con il massimo dei voti. A pochi esami dal conseguimento della Laurea Magistrale, anche questa ottenuta con il massimo dei voti, si accende in lui il bisogno di riavvicinarsi con forza alla sua Venezia, soprattutto alla sua vita quotidiana. Inizia a frequentare la Bottega del maestro remer Paolo Brandolisio e, nel 2013, apre il laboratorio de “Il Forcolaio Matto”.

Dall’astronomia alle forcole: come mai questo cambiamento radicale? È stato un passaggio singolare, lo ammetto, ed è forse questo il denominatore comune delle cose che fin qui ho fatto nella mia vita. L'astronomia è un campo affascinante, stimolante e molto ampio, volto al futuro, che mi piaceva molto. Col tempo, però, ho iniziato a capire che lavorare in questo settore, o cercare di farlo, avrebbe voluto dire essere precario, combattere per cercare i fondi necessari a un progetto o a un contratto, e per chissà quanto tempo. Inoltre, si tratta di un tipo di lavoro che rende molto difficile, se non impossibile, avere una vita con dei punti di riferimento fissi perché ti porta a viaggiare in giro per il mondo e a condurre una vita frenetica e un po' nomade. Per questo motivo ho scelto di recuperare il legame con la mia città e risvegliare la passione che fin da piccolo ho avuto per le barche, la voga e al contempo per il legno e il lavoro manuale. In questo momento Venezia sta vivendo un periodo molto difficile. Purtroppo è un luogo di facili speculazioni, dove si è diventati schiavi del turismo di massa, del turismo mordi e fuggi, quello portato dalle compagnie aeree low cost e dalle grandi navi da crociera. E tutto ciò è successo a discapito dei cittadini che ogni giorno diminuiscono inesorabilmente. Ho voluto intraprendere una strada, dal mio punto di vista importante, per contribuire in qualche modo a difendere le tradizioni e l'essenza di questa meravigliosa città. L'apertura della mia bottega vuole essere uno stimolo, un messaggio per far capire che siamo noi cittadini i padroni della nostra città e che si può iniziare a ricostruirne il tessuto sociale. Mi auguro che venga portata avanti una buona politica residenziale, che la città risorga insomma. Penso sia fondamentale per migliorare la qualità della vita. Credo fortemente che per andare avanti nel futuro ci si debba un attimo fermare e, per molti aspetti, tornare al passato. L'uomo del resto non vive perché ha un tablet o uno smartphone, ma vive felice perché ha una casa, una famiglia cui star vicino, un lavoro vicino a casa, i servizi che gli servono. Negli ultimi anni si è pensato di poter rinunciare a tutto questo, ma forse è l'errore più grande di questa società pseudo moderna, capitalista e globalizzata. Io voglio remare controcorrente! z 21


PRIMO PIANO: OLISMO ED ECONOMIA

CAPIRE COME GLI INTERESSI ECONOMICI DEI SINGOLI STATI POSSANO CONVIVERE IN UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ INTERDIPENDENTE: È LA SFIDA MODERNA DI UN APPROCCIO OLISTICO ALLA FINANZA

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IL LATO OLISTICO

DEI MODERNI

SISTEMI ECONOMICI Ernesto Screpanti Nato nel 1948 a Roma, ha studiato Economia all’Università della Sapienza e Scienze e Tecniche dell’Opinione Pubblica alla LUISS. All’università di Trento ha esplorato la sociologia e l’economia e si è laureato con una tesi sugli usi del modello Von Neumann nella soluzione al problema della trasformazione. Nei due anni successivi ha vissuto a Milano, dove ha fatto un pò di ricerca applicata nella Comunità di Ricerca Sociale e ha frequentato la Scuola Superiore “Enrico Mattei”, conseguendo un Diploma post-laurea in Metodi Matematici per la Ricerca Economica. Nel biennio 1975-77 ha seguito i corsi di Economia all’Università di Cambridge e ha poi cominciato la carriera universitaria all’Università di Trento, dove ha tenuto per vari anni un corso progredito di Economia e uno di Teoria dello Sviluppo Economico. In seguito ha girovagato in varie università italiane: Firenze, Trieste, Parma, per poi approdare all’Università di Siena. Autore di diversi libri, di recente ha pubblicato Global Imperialism and the Great Crisis: The Uncertain Future of Capitalism (2014), Marx dalla totalità alla moltitudine (2013), Comunismo libertario: Marx Engels e l'economia politica della liberazione (2013).

Intervista a Ernesto Screpanti, professore di Economia della Globalizzazione e di Storia dell’Economia Politica all’Università degli Studi di Siena.

La globalizzazione è un fenomeno complesso che mette in sempre maggiore interrelazione le economie dei vari angoli del mondo, dando vita a una rete sempre più fitta di scambi commerciali, investimenti e operazioni finanziarie. I capitali delle multinazionali, che dapprima si muovevano su territorio nazionale, ora diventano flussi di denaro che si spostano di paese in paese, incuranti dei confini da valicare e degli ostacoli da superare. Siamo entrati a far parte di quella società che Zygmunt Bauman ama definire modernità liquida, ossia un mondo in cui finanza e informazione da un lato uniformano il globo, ma dall’altro creano una notevole differenziazione delle condizioni di vita di numerose popolazioni. I sistemi economici finiscono per incontrarsi, mescolarsi e amalgamarsi al punto da creare un “crogiolo” finanziario all’interno del quale il successo di un approccio olistico può passare solo attraverso la capacità di integrare gli interessi econo-

mici e strategici dei singoli attori coinvolti, siano essi Stati, governi o aziende. Per individuare il sottile orizzonte che divide un approccio olistico all’economia da uno individualista e capire se queste due anime possano eventualmente convivere in modo equilibrato, abbiamo chiesto il parere di Ernesto Screpanti, che nei suoi scritti ha tra l’altro affrontato il tema dell’affermarsi di una nuova forma di imperialismo su scala globale in cui il potere del capitale multinazionale sta di fatto erodendo la sovranità e l’autonomia politica delle istituzioni locali. Il metodo dell'Economia è olista o individualista? In Economia prevale nettamente l’individualismo metodologico. Anzi è proprio in questa disciplina che, con la “disputa sul metodo” (Methodenstreit) di fine dell’Ottocento, si fece chiarezza sulla non scientificità di certi approcci olistici tipici dell’idealismo, specialmente della 23


PRIMO PIANO: OLISMO ED ECONOMIA

scuola storica tedesca. Gli approcci olistici tendono a vedere negli agenti collettivi (Stati, classi, nazioni, imprese etc.) dei soggetti metafisici dotati di finalità intrinseche (“lo spirito della nazione”, “la ragione di Stato”, “la missione dell’impresa”) che in realtà non esistono. Secondo l’individualismo metodologico le finalità degli enti collettivi devono essere riconducibili a quelle degli individui che ne fanno parte, anche se gli effetti aggregati delle azioni di molti individui possono andare oltre le aspettative dei singoli agenti. Il problema con l’individualismo metodologico più estremo, quello professato dagli economisti neoclassici, è che assume che gli individui siano degli atomi non influenzati dalle condizioni sociali e dotati di razionalità olimpica (perfetta capacità di calcolo e informazioni complete). Il che è molto irrealistico. Per questo si è sviluppato, nella seconda metà del Novecento, un nuovo approccio, denominato “individualismo istituzionale” o “sociale”, che riconosce che gli individui sono costituiti socialmente

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e fortemente influenzati dalle condizioni istituzionali e culturali. Inoltre riconosce che gli agenti sono dotati di razionalità limitata e informazioni incomplete. L'approccio olistico porta con sé dei vantaggi e se sì, quali? Un altro problema con l’individualismo metodologico è che, data la complessità e la vastità degli enti collettivi e delle azioni collettive, è difficile individuare tutti i nessi causali che vanno dalle azioni dei singoli individui agli effetti collettivi. Per questo si è di fatto affermato un approccio di “olismo euristico” che, pur accettando i canoni dell’individualismo, sviluppa le analisi di tipo aggregato tipiche della macroeconomia. La metodologia degli aggregati ha portato all’elaborazione di fondamentali teorie e alla scoperta di leggi empiriche che si sono rivelate illumi-

nanti riguardo al funzionamento delle economie moderne e molto utili per fondare le politiche economiche. Al contrario, gli approcci d’individualismo metodologico estremo di tipo neoclassico hanno prodotto solo teorie astratte e irrealistiche, oltre che inutili dal punto di vista della politica economica. La "globalizzazione" è un processo che può essere compreso meglio con un approccio individualista o con uno olista? Anche in questo caso è necessario usare una metodologia degli aggregati, ad esempio per studiare gli investimenti diretti esteri delle multinazionali, le bolle speculative, la grande crisi 2007-13, lo sviluppo dei paesi emergenti ecc. Tuttavia bisogna essere sempre in grado di individuare gli interessi specifici dei singoli agenti individuali se si vuole dare una spiegazione scientifica dei fenomeni. Quando si dice che “il mercato è sovrano” si usa una metafora, non s’intende certo sostenere che esiste un agente collettivo, il Signor Mercato, che persegue una finalità propria. L’approccio d’individualismo istituzionale ci porta


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a individuare negli interessi delle singole imprese multinazionali (dei loro manager) le basi delle loro azioni economiche. Poi la metodologia degli aggregati ci farà capire quali effetti globali sono stati prodotti da quelle azioni (delocalizzazioni, ristagno delle economie avanzate, esplosione della bolla speculativa ecc.) in un contesto in cui la competizione di mercato indebolisce le capacità politiche delle organizzazioni non globalizzate, come gli Stati e i sindacati.

Nella storia delle dottrine economiche, quali scuole di pensiero hanno praticato maggiormente l'olismo? Non molte: le scuole storiche tedesche dell’Ottocento, che erano fortemente influenzate dall’idealismo hegeliano e da filosofie provvidenzialiste della storia; alcune correnti del marxismo; e alcune scuole istituzionaliste. Oggi permangono residui di olismo in certi economisti che combinano istituzionalismo ed evoluzionismo.

Le economie dei vari Paesi sono collegate e dipendenti l'una dall'altra. Questo, secondo lei, porta più vantaggi o svantaggi? La globalizzazione ha creato una situazione di crescente interdipendenza economica globale. La riduzione delle barriere protezionistiche seguita alla fondazione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio nel 1995, ha portato a una forte espansione del commercio internazionale. Potrebbe essere un grande vantaggio per tutte le nazioni, in quanto la crescita delle esportazioni e delle importazioni di ognuna di esse favorirebbe lo sviluppo economico e l’aumento dell’occupazione. Se non che la liberalizzazione dei movimenti dei capitali ha compromesso questi vantaggi almeno per le economie avanzate (USA, Europa, Giappone) in quanto ha indotto molte loro imprese a delocalizzare gli investimenti verso i paesi emergenti e in via di sviluppo causando ristagno economico, crisi e riduzione dell’occupazione. Inoltre la liberalizzazione dei movimenti di capitale finanziario (investimenti di portafoglio) ha causato una superfetazione della finanza speculativa che ha generato grosse bolle speculative e crisi disastrose. Le classi lavoratrici hanno ottenuto più svantaggi che vantaggi dalla globalizzazione. Il libero movimento dei capitali ha consentito alle imprese multinazionali di mettere i lavoratori di ogni paese in competizione con quelli di tutti gli altri, con la conseguenza che la quota salari sul reddito nazionale è andata diminuendo drasticamente in pressoché tutti i paesi. È aumentata anche la povertà relativa e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

Alla fine Marx era olista o individualista? L’uno e l’altro. Il giovane Marx risentì molto della filosofia hegeliana della storia e in alcuni scritti elaborò a sua volta una filosofia della storia provvidenzialista in cui un soggetto collettivo, il proletariato mondiale, si vede affidare dalla Storia una missione salvifica: la liberazione di tutta l’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici. Un residuo di questa concezione permane nelle opere della maturità, specialmente quando teorizza il socialismo come l’esito finale di un processo storico in cui l’uomo assume il controllo razionale della produzione attraverso la pianificazione centralizzata. Ma c’è anche l’antidoto di questo olismo idealistico. Già in gioventù Marx critica la filosofia hegeliana sostenendo che i cambiamenti storici sono determinati dalle azioni di soggetti concreti mossi da interessi particolari. Nelle opere della maturità poi Marx sviluppa una profonda analisi del funzionamento e della dinamica delle economie capitalistiche. E benché si serva di una metodologia degli aggregati basata sui comportamenti di classi sociali e agenti collettivi, mantiene sempre fermo il principio che le decisioni economiche rilevanti sono prese dai singoli capitalisti, dai lavoratori organizzati e dai politici. Inoltre il Marx maturo tende a vedere la storia come un processo aperto che, se sbocca nel socialismo, non è perché così vogliono delle fantomatiche leggi deterministiche dalla storia, bensì perché, e solo se, i soggetti politici reali riescono ad attivare i necessari processi di cambiamento politico, economico e tecnologico. z 25


PRIMO PIANO: OLISMO E SOCIETÀ

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SIAMO

TROPPO

SOCIAL

“Ops, forse mi sono dimenticato qualcosa….”. Sempre più presi dai nostri dispositivi digitali, che anche quando siamo impegnati nelle faccende della vita quotidiana ci notificano di continuo eventi dal mondo “social”, può capitare persino che ci dimentichiamo di avere un corpo. I fisioterapisti sono sempre più felici, ma tutti noi - o per lo meno noi appartenenti a quella metà degli italiani che si connette abitualmente a Internet - stiamo decisamente perdendo il controllo di parti importanti della nostra vita. Senza neanche rendercene troppo conto. E stanno emergendo problemi inediti.

RELAZIONI VIRTUALI La questione che emerge con sempre maggiore evidenza, specie tra le giovani generazioni, è che la Rete, specie con Facebook, è diventata il mezzo principale di gestione delle relazioni interpersonali, a discapito di molte altre modalità che contemplano il contatto o la vicinanza fisica. Varie ricerche hanno evidenziato come i social media vengano utilizzati - ancor più che per creare nuove relazioni - per gestire quelle esistenti, nella più stretta cerchia di conoscenti. Specialmente i ragazzi, tendono

a costruirsi ampie reti di “amici”. Nella fascia d’età 12-17 anni, il numero medio di amici è 300, ma poi, nella realtà, interagiscono prevalentemente con quelli che vedono tutti i giorni a scuola o nel quartiere. Uno strumento come Facebook era stato creato inizialmente per rispondere a due bisogni degli studenti: l’incapacità di uscire dalla solitudine e quella di emergere dall’anonimato. La sua forza è stata questa, ma ora che ha di gran lunga superato il miliardo di utenti, possiamo dire che si tratta di promesse mancate, o per lo meno soddisfatte solo virtualmente. Il paradosso che stiamo vivendo è che da un lato, le tecnologie digitali ci consentono di arricchire - apparentemente senza limiti - le modalità di relazione con gli altri, così come il numero di persone con le quali possiamo stabilire relazioni. Dall’altro, non risolvono il problema della solitudine: se un ragazzo, o una qualsiasi altra persona, non ha amici, non ha nessuno da abbracciare o con cui confidarsi, non riuscirà mai a uscire dalla sua solitudine grazie a una soluzione tecnologica. Né possiamo pensare di risolvere, tramite Facebook o Twitter, difficoltà e incomprensioni che scaturiscono dall’estrema complessità delle relazioni interpersonali. Ciò nonostante, Internet e i social media ci proiettano continuamen-

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PRIMO PIANO: OLISMO E SOCIETÀ

te in una dimensione relazionale - ormai ogni minuto della giornata - e ci allontanano così dalla più autentica dimensione di noi stessi: quella di persone che vivono e interagiscono tra loro, mettendo interamente in gioco le proprie menti e i propri corpi.

TROPPE COSE PER VOLTA Negli uffici e nella vita quotidiana viene considerato sempre più normale, se non addirittura richiesto, il “multitasking”, cioè il fare tante cose insieme. Guidare la macchina mentre ascoltiamo il giornale radio e parliamo al telefono con un amico, guardare la TV mentre commentiamo su Twitter, concludere un affare mentre accompagniamo i bambini a scuola. Grazie al multitasking, possiamo essere più produttivi ed efficienti. Una variante di questa forma di iper-connessione è l’”attenzione parziale continua”, la condizione mentale che consiste nel prestare un’ininterrotta attenzione al flusso di informazioni cui siamo esposti, in modo da non perderci nulla e incamerare solo ciò che riteniamo ci interessi

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o ci sia utile. Dunque siamo sempre meno abituati a fare una sola cosa per volta. Persino l’azione vitale del mangiare arriva a sembrarci insopportabile, se non è accompagnata da qualcos’altro come conversare, leggere o guardare la TV. Eppure, se vogliamo veramente esserci al cento per cento nella vita, così come se vogliamo esserci pienamente all’interno delle relazioni interpersonali, fare una cosa per volta è l’unicpossibilità che abbiamo.

LONTANI DALLE EMOZIONI Considerando più nello specifico la sfera emotiva, le tecnologie ci stanno procurando problemi psicologici inediti. “In età adolescenziale” - sostiene Sherry Turkle, psicologa clinica del MIT di Boston - “c’è una fase in cui la persona comincia a essere consapevole dei sentimenti che prova ed è in grado di valutare se condividerli o meno. Tale condivisione è un atto volontario e contribuisce a definire la sfera di quella che chiamiamo intimità”. Questo modello entra in crisi nel momento in cui prendiamo in mano un telefono, il quale ci consente

di connetterci istantaneamente, solo sfiorando uno schermo, con qualcuno disponibile a risponderci, e comunicare le nostre emozioni quando ancora si stanno formando. “Il modello verso cui stiamo andando è molto diverso, rispetto al passato: non si fa piena esperienza di un sentimento fino a quando non lo si è comunicato agli altri”, conclude Turkle. E con Facebook, che consente di condividere l’emozione con un numero ampio di persone, la sfera intima si frantuma del tutto. L’escalation successiva è determinata dalla presenza negli smartphone di sensori, a cominciare dalla fotocamera: averla sempre a disposizione alimenta la nostra aspirazione a condividere con le persone care ciò che proviamo e a farlo istantaneamente. Fino all’estremo di sostituire l’emozione con la condivisione. È il caso, ad esempio, delle riprese dei concerti con il cellulare, poi caricate su YouTube. Quando facciamo così, diventiamo tutti fotoreporter o giornalisti, cioè persone che vivono lo svolgersi degli eventi avendo come preoccupazione principale quella di raccontarli, prendendo il più possibile le distanze dalle nostre emozioni. È questo che vogliamo dalle tecnologie? z


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NELLA SOCIETÀ “LIQUIDA”, L’IMPORTANZA DI UNA

VISIONE GLOBALE

Nell’ambito sia dell’antropologia che della sociologia, il dibattito sulla possibilità di considerare la società nel suo complesso è stato ampio e prolungato, trovando il più compiuto approdo teorico nel funzionalismo, una corrente di pensiero ispirata dal filosofo britannico Herbert Spencer (1820 - 1903) e che poi ha coinvolto molti studiosi di entrambe le discipline fino ai giorni nostri. Per Spencer la società può essere paragonata a un organismo vivente, nel quale le varie parti hanno un senso solo in quanto appartenenti all’organismo nel suo complesso, ma al tempo stesso si specializzano ciascuna in una funzione propria, come avviene con i vari organi del nostro corpo. E così le parti di un’unità sociale complessa ed evoluta tendono a differenziarsi tra loro: la religione rispetto alla politica, il lavoro rispetto alla famiglia e così via. Ciò implica che ogni parte dell’organismo sociale, in quanto specializzata, divenga insostituibile da parte di un’altra. La società può dunque essere vista come un insieme costituito da parti distinguibili ma tra loro interdipendenti. Lo scopo dei funzionalisti è stato quello di adottare nell’ambito delle scienze sociali gli stessi metodi delle scienze naturali - dunque un carattere più scientifico - in modo da studiare l’organizzazione sociale come un sistema totale, all’interno del quale lo specifico di ciascuna cultura può essere individuato quale combinazione di diverse variabili. Una conseguenza interessante dell’approccio funzionalista è che un qualsiasi mutamento in una delle parti della società è considerato causa di un certo grado di squilibrio, che produce, a sua volta, ulteriori cambiamenti in altre parti del sistema e addirittura una riorganizzazione del sistema stesso. L’equilibrio è dunque un fattore fondamentale, che si ottiene quando ogni parte svolge correttamente il proprio compito. Le relazioni che intercorrono tra le parti della società sono infatti di tipo funzionale, ovvero ogni elemento svolge un particolare compito che, unito a tutti gli altri, concorre a creare e mantenere funzionante quell’apparato complesso che noi chiamiamo società. Un tempo le società erano relativamente stabili, perché i cambiamenti avvenivano con tempi che spesso era difficile percepire nell’arco temporale di una generazione. Oggi tutto è estremamente veloce e le società sono diventate fortemente instabili, anche a causa del fatto che le parti che le compongono sono sempre più mutevoli. Uno dei più grandi sociologi del nostro tempo, Zygmunt Bauman, ha coniato il termine “società liquida”, che rende molto bene l’idea di un sistema che non riesce a garantire più alcuna certezza. All’interno della società liquida ogni individuo - diversamente da come avveniva in passato - deve inventarsi il suo ruolo, facendo della propria vita una vera e propria opera d’arte, proprio perché l’instabilità non riesce a garantire alcuna strada sicura, salvo eccezioni sempre più rare. Non tutti però sono in grado di fare della propria vita un’opera d’arte e dunque non hanno altra strada che cercare il più possibile di omologarsi agli stili di vita predominanti, per non sentirsi esclusi. Per capire cosa significa il rompersi di un equilibrio tra le parti, all’interno dell’organismo sociale, non c’è bisogno di andare troppo lontano nel tempo o nello spazio. Basta considerare cosa è avvenuto in Italia nel corso dell’ultima generazione, dal dopoguerra - il momento in cui si apriva il nuovo ciclo della democrazia - fino ad oggi. La famiglia, ad esempio, tassello primario della struttura sociale, si è trasformata al punto tale che l’enorme patrimonio edilizio di cui disponiamo - progettato per ospitare il classico nucleo composto da genitori e figli - non è più in grado di rispondere alle esigenze abitative dei nuclei familiari di oggi, spesso composti da una sola persona e anch’essi molto mutevoli. Inoltre, nell’equilibrio della nostra società, la famiglia ha svolto un fondamentale ruolo sussidiario, nei confronti del welfare pubblico, facendosi carico di funzioni che in altri Paesi sono stati storicamente svolti da soggetti collettivi, come il sostentamento dei disoccupati, l’assistenza alle persone con disabilità, la cura dei bambini in età prescolare e così via. Oggi questo disequilibrio assume aspetti sempre più drammatici, dal momento che sono entrati in crisi sia il sistema familiare, sia quello del welfare, anche a causa dei cambiamenti di tipo demografico. Se consideriamo altri ambiti - come la religione, la struttura produttiva, la politica, l’istruzione - ci rendiamo conto di quanto radicalmente siano cambiati i rispettivi ruoli nel corso di così pochi decenni. Né è possibile analizzarli separatamente, ignorando il fatto che ci sono stati anche molti fattori “esterni” che hanno scompaginato tutto, dalla fine del bipolarismo alle ondate migratorie, dalla globalizzazione dell’economia all’avvento di internet. Tutti gli equilibri si sono rotti, e non potremo tornare indietro. È per questo che abbiamo disperatamente bisogno di una visione globale che ci aiuti a trovare la strada migliore da intraprendere. A livello individuale così come collettivo. z 29


PRIMO PIANO: OLISMO E SOCIETÀ

MARSHALL MCLUHAN

VILLAGGIO GLOBALE E IL

uno dei personaggi più noti del ventesimo secolo, ed è tra i più citati, specie da quando è stato inventato il Web. Ma di lui, a parte l’espressione “villaggio globale” e la frase “il medium è il messaggio”, sappiamo ben poco, abituati ormai come siamo a ragionare per citazioni e parole chiave. Un tempo si sarebbe detto per frasi fatte. Marshall McLuhan si presta così tanto a queste semplificazioni che Woody Allen nel film Io e Annie (1977) lo fece intervenire di persona in una scena, nella quale smascherava un personaggio che si vantava di insegnare in un corso universitario proprio le teorie del sociologo canadese. Allora arriva McLuhan in persona e dice: “Lei non sa niente

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del mio lavoro. Lei sostiene che ogni mia topica è utopica. Come sia arrivato a tenere un corso alla Columbia è cosa che desta meraviglia”. McLuhan (1911-1980) è vissuto in un’epoca nella quale Internet non esisteva, eppure molti aspetti del suo pensiero fanno ritenere che ne abbia previsto in qualche modo le caratteristiche. È stato poi il suo allievo Derrick De Kerckhove a estendere alle reti digitali i ragionamenti sull’influenza delle tecnologie sulla società, rafforzando ancora di più la reputazione del determinismo tecnologico, il filone di pensiero di cui McLuhan è stato tra i principali esponenti. Per i teorici del determinismo tecnologico, è la tecnologia a guidare l’evoluzione so-

ciale e i valori culturali di una determinata società. L’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1455), ad esempio, avrebbe reso possibile l’era moderna, consentendo l’abbandono della conoscenza trasmessa solo oralmente a favore di un mezzo “freddo” e legato al passato come la scrittura e favorendo niente meno secondo McLuhan - che l’avvento di fenomeni come l’individualismo e il


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nazionalismo, oltre che la meccanizzazione e l’omogeneizzazione. Se il ragionamento di McLuhan è corretto, in questo momento Internet, con la sua rapida diffusione, sta cambiando in profondità la struttura sociale dell’intera umanità. È così? Gli elementi a favore di questa ipotesi so-

no parecchi. De Kerckhove si è spinto a ipotizzare l’emergere di una “intelligenza connettiva”, una nuova forma di intelligenza che scaturisce proprio dalla connettività tra le menti umane, ovvero un passaggio persino più forte di quello avvenuto ai tempi di Gutenberg. Senza arrivare a tale raffinatezza di ragionamenti, le profonde modifiche in corso sono sotto gli occhi di tutti, in ogni campo. Se anche non volessimo considerare cosa sta succe-

dendo all’economia (con i connessi problemi di disoccupazione) e alla finanza (dove le sorti di interi paesi sono decise da algoritmi informatici senza interventi umani), basterebbe guardare alla famiglia, il mattone di ogni struttura sociale: genitori e figli che si mantengono in contatto via Skype da un capo all’altro del mondo, coppie che si formano all’interno di siti di dating, membri di una stessa famiglia che passano il tempo ciascuno di fron-

te al proprio dispositivo digitale, e così via. Ambienti digitali come Facebook e LinkedIn ci danno veramente l’idea di trovarci in un “villaggio globale”, ma come ha potuto uno studioso avere questa intuizione quasi cinquant’anni fa? A quel tempo già esisteva una rete elettrica che avvolgeva il pianeta come un’“estensione del nostro sistema nervoso centrale”: grazie all’elettricità, abbiamo potuto portare i nostri sensi ovunque nel pianeta, vedendo e ascoltando direttamente a qualsiasi distanza, e di fatto accorciando virtualmente qualsiasi dimensione spaziale. Ma oltre all’elettricità erano assai diffuse tecnologie come la radio, la televisione e le trasmissioni satellitari. Proprio l’anno dopo la pubblicazione, nel 1968, di War and Peace in the Global Village, il mondo intero diventò un vero villaggio globale, interamente assorto nel seguire lo sbarco del primo uomo sulla luna, dunque annullando le distanze (persino fino alla luna) e vivendosi come un’unica comunità, proprio le due principali caratteristiche del villaggio globale, secondo le ipotesi dello studioso nordamericano. Oggi è diventato così normale sentirci tutti parte di uno stesso villaggio - ad esempio quando aspettiamo l’uscita dell’ultimo volume di Harry Potter o di un album degli U2 - che ci sfuggono le enormi implicazioni. Tutte queste tecnologie così potenti che abbiamo messo a punto non hanno solo cambiato la struttura delle nostre società e il modo in cui comunichiamo - come aveva ben intuito McLuhan - ma ci hanno fatto combinare un bel guaio: far salire di diversi gradi la temperatura del nostro pianeta, aprendo così la strada a scenari catastrofici. Forse persino la cancellazione di intere città. O magari sarà ancora una volta la tecnologia a salvarci. Ma sarà necessario che si realizzi un’altra profezia di McLuhan: l’emergere di una nuova dimensione di corresponsabilità comunitaria e un conseguente maggiore coinvolgimento delle opinioni pubbliche a livello internazionale. z 31


PRIMO PIANO: OLISMO E URBANISTICA

DAL TERRENO AL CIELO: UNA VISIONE OLISTICA DELLA CITTÀ LA CITTÀ, CREAZIONE UMANA PER ECCELLENZA, PERIODICAMENTE SI RIVOLTA CONTRO IL SUO CREATORE, TRASFORMANDOSI IN UN MOSTRO. MA ORA SERVE UN NUOVO SALTO DI QUALITÀ, CON L’INNESTO PROGRESSIVO E URGENTE DI ALMENO 3 SISTEMI CAPILLARI E INTERNI ALLE CITTÀ: IMPIANTI DI PICCOLA SCALA PER LA RIPRODUZIONE E IL RIUSO DELLE STRUTTURE; UNA MOVIMENTAZIONE PIÙ EFFICIENTE DI UOMINI E COSE; SISTEMI DI FEED-BACK. LO SLOGAN CHE ORMAI DA UN DECENNIO LI CONTIENE TUTTI È QUELLO DELLA “SMART CITY PER UNA SMART COMMUNITY”.

Intervista a Stefano Panunzi, architetto e Prof. Associato Università del Molise, pioniere della pianificazione urbana al livello delle coperture

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È possibile oggi adottare un approccio olistico alla progettazione e ripensare la città con una visione più ampia? La consapevolezza sistemica ormai dovrebbe essere quasi innata, lo è certamente la consapevolezza del destino metropolitano dell’umanità su questo pianeta. Sono millenni che costruiamo e utilizziamo sistemi artificiali, dalle strade all’acqua; negli ultimi due secoli dal gas all’elettricità; da qualche decennio l’elettronica e l’informatica. Ma nonostante questo la città non è un sistema ‘attestato’, ma una stratificazione di sistemi interferenti che vivono cicli di saturazione e di crisi che ci costringono a inventare altri sistemi da aggiungere, in un processo di continuo reverse engineering come se fossimo davanti a un oggetto sconosciuto: la città, creazione umana per eccellenza, periodicamente si rivolta contro il suo creatore, trasformandosi in un mostro. Ora serve un nuovo salto di qualità, con l’innesto progressivo e urgente di almeno 3 sistemi capillari e interni alle città: impianti di piccola scala per la riproduzione ed il riuso delle strutture; una movimentazione più efficiente di uomini e cose; sistemi di feed-back. Lo slogan che ormai da un decennio li contiene tutti è quello della “Smart City per una Smart Community”. Cosa significa considerare anche la dimensione verticale della città? È vero che è possibile lavorare a livello progettuale anche sull’immenso territorio inutilizzato delle coperture piane degli edifici? Certo! È proprio la nuova frontiera interna da conquistare, nelle parti più dense e degradate delle nostre città, sopratutto nelle periferie. È il nocciolo di una sfida che l’architettura ci racconta da sempre, ma che ha avuto un’accelerazione straordinaria dalla fine dell’Ottocento. Il nostro edificio residenziale plurifamiliare, soprattutto quello ad alta densità abitativa, deve essere considerato come una micro città verticale innestata sulla piastra orizzontale della logistica urbana (impianti di adduzione e scarico, mobilità e scambio

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PRIMO PIANO: OLISMO E URBANISTICA

commerciale). Ogni edificio può essere raccontato come una Torre di Babele che poggia sulla Kasbah o, se preferisci, sul Souk degli scambi che avvengono per strada e ai piani terra. Ora dobbiamo attrezzarci per rendere produttive le coperture, soprattutto quelle condominiali, un suolo da lottizzare per mettere a km zero tutto quello che manca in casa e nel quartiere… Una specie di riconquista del Giardino dell’Eden. Può citare degli esempi concreti? Ci sono dei precedenti storici in questo senso? Ci sono esempi nella mitologia e nella storia antica, nell’utopia, nelle grandi aree metropolitane di tutto il mondo. Dai giardini di Babilonia a Ville Savoye di Le Corbusier, dai tetti di El Zabaleen al Cairo alle rooftop farm di Brooklyn.

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Cosa possono fare le istituzioni per incentivare questo nuovo approccio all’urbanistica e all’edilizia? Sicuramente rendere sempre più semplice l’attuazione di leggi che in alcuni paesi stanno dando ottimi risultati, come il Green Infrastructure Plan di New York. Ma come al solito anche l’Italia ha leggi in tal senso, male o per nulla applicate, come ad esempio la Legge 10 del 2013 sul verde urbano, pubblico e privato, la quale parla esplicitamente di incentivare giardini pensili sui tetti e sulle facciate. Il Comune di Bari ha appena emanato un bando per finanziare giardini pensili sui condomini privati, il Ministero dei beni culturali ha creato un tavolo di concertazione interistituzionale, il Forum Corviale, insieme all’ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), la Regione Lazio, il Comune di Roma, associazioni e una rete nazionale di università. In questo ambito mi occu-


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po della creazione di una mostra laboratorio di prototipi da tutte le regioni d’Italia, per trasformare quel tetto lungo un chilometro in un Roof Top Lab da interconnettere con Expo Milano 2015. Da qualche anno coordino una “eco-cluster-cooperation” nazionale, United Roofs, che propone la bonifica della crosta urbana attraverso la trasformazione dei tetti in suolo produttivo di alimenti, energia e fablabs.

Cosa sono le funivie urbane e quale contributo potrebbero dare a una città più sostenibile ? La funivia è un antico e affascinante sistema di trasporto, che nell’ultimo secolo identifichiamo con i sistemi di risalita in montagna, ma in realtà è già usata da quasi un secolo, con spostamenti orizzontali anche in ambiti urbani, un esempio per tutti quello di Barcellona, tra il Montjuic ed il porto. L’attuale possibilità tecnica di avere stazioni intermedie e la sosta della cabina in stazione per salire comodamente la stanno trasfor-

mando in una straordinaria soluzione strategica per completare le reti del trasporto pubblico esistenti. Ma qui apriremmo un altro capitolo che meriterebbe molto più spazio e che addirittura potrebbe essere realizzato in Italia prima dei “tetti produttivi”. La cosa interessante di tutti questi temi, tornando all’impostazione olistica della prima domanda, è la necessità di trasformare in sistema dotato di anelli di retroazione, la filiera che non riesce a collegare il territorio con la politica che deve amministrarlo. Chi governa non può continuare a considerare l’ascolto di chi vive sul territorio un approccio dal basso, ma deve essere cosciente del fatto che ogni persona che vive quotidianamente la città è come un pixel indispensabile ad alzare la risoluzione della politica, finora sofferente di una bassissima risoluzione, vicina alla miopia, per non dire cecità. Il famoso slogan “la mappa non è il territorio” andrebbe rovesciato in “il territorio è la sua mappa”. Oggi la riforma della politica deve passare dall’ascolto e dall’attesa di proposte generate dal territorio, insieme a esperti che ne garantiscano la validità tecnica e la compatibilità normativa. Il suo unico compito sarà accoglierle e garantirne la migliore reaz lizzazione.

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PRIMO PIANO: OLISMO E SOSTENIBILITÀ

IL PERSONAGGIO: BUCKMINSTER

FULLER uckminster Fuller, uno dei geni del ventesimo secolo, noto soprattutto come padre della cupola geodetica, ebbe la svolta della sua vita grazie a una visione, nel corso della quale si sentì dire: “Non appartieni a te stesso, appartieni all’universo. Ciò che tu significhi ti rimarrà ignoto per sempre, ma potresti realizzare il tuo ruolo dedicandoti a dirigere le tue esperienze verso il massimo vantaggio per gli altri”. Da quel momento, convinto che un singolo individuo può dare un contributo sostanziale a cambiare il mondo,

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portando benefici all’umanità intera, portò le sue capacità progettuali a una scala visionaria, fino all’invenzione della cupola geodetica, nel primo dopoguerra. Anzi, alla reinvenzione, perché una struttura analoga era già stata brevettata e costruita nel 1922 da Walter Bauersfeld, ingegnere capo delle industrie ottiche Carl Zeiss, in Germania, per alloggiare il proiettore di un planetario. Fuller sfruttò e sviluppò al massimo grado l’idea di questa struttura composta esclusivamente da sottili aste, di-

sposte a formare triangoli accostati uno all’altro, fino ad approssimare la forma di una sfera. Una struttura del genere è molto efficiente, perché riduce al minimo possibile l’uso di materiali rispetto al volume coperto. Grazie al sistema del triangolo, infatti, ogni asta lavora solo a trazione o compressione, non potendo mai subire flessioni e perciò richiedendo diametri minimi. Di “cupole di Fuller” ne sono state costruite ovunque, nel mondo, ma mai per realizzare la sua specifica visione, che era quella di da-


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UNA VISIONE SISTEMICA Ma il motivo per cui oggi è utile parlare di Buckminster Fuller è la sua visione sistemica, cioè olistica, del mondo, che lo ha portato ad anticipare - forse troppo presto - molte idee e tendenze cruciali per l’umanità e in questa fase storica estremamente attuali. Fuller ha innanzitutto teorizzato la necessità di fare di più con meno, sia riciclando le risorse esistenti in prodotti nuovi e di maggior valore, sia realizzando prodotti più sofisticati con l’uso di quantità minori di materiali. Aveva a tal fine coniato il termine “efemeralizzazione”, intesa come la capacità del progresso tecnologico di “fare sempre di più con sempre di meno, fino a poter fare tutto con niente”. Come tendenza di massima, questa sembrerebbe la strada obbligata per rendere sostenibile la sopravvivenza di un’umanità da 9 miliardi di persone (la popolazione prevista a regime, dal 2050 in poi), ma anche, già oggi, il motore di un numero straordinario di innovazioni da parte dei centri di ricerca e delle imprese, per realizzare nuovi materiali a partire dagli scarti di tutti i tipi. Le stesse cupole geodetiche sono un esempio di come si possa fare molto (coprire grandi spazi) con poco (una quantità minima di materiale). Nate dalla volontà di soddisfare esigenze abitative, possiamo vederle oggi come il primo passo che lo ha portato a diventare il pioniere per eccellenza del pensare globalmente. Puntò l’indice contro la dipendenza energetica dal petrolio, affermando che “non c’è alcuna crisi energetica, solo una crisi d’ignoranza”. re vita a un sistema su larga scala per abitazioni talmente leggere da poter essere trasportate per via aerea. È stata usata per costruire osservatori meteorologici, auditorium, magazzini, battendo tutti i record di superficie coperta, volume racchiuso e velocità di costruzione. Nel 1975 ne fu costruita una per ospitare la stazione antartica Amundsen-Scott, la quale, date le condizioni, richiedeva una grande resistenza al carico della neve e del vento. Tutt’oggi ne esistono diverse con un diametro che supera i 200 metri.

di materiali e risorse per lo più già estratti dai giacimenti disponibili, in combinazione con lo sfruttamento di risorse rinnovabili come il sole e il vento, secondo l’architetto americano, renderà inutile sia l’autosufficienza sia la competizione tra le diverse comunità umane, facendo diventare obsoleta la guerra e rendendo la collaborazione l’unica strategia possibile. Nel suo libro “I seem to be a Verb” (1970) scrisse “Vivo sulla Terra oggi, e non so cosa sono. So che non sono una categoria. Non sono una cosa, un nome. Sembro essere un verbo, un processo evolutivo - una funzione integrale dell’universo”. Questo vedere i singoli individui - e così le organizzazioni, le città, le nazioni non come entità separate e autonome, ma come processi in continua evoluzione, strettamente interconnessi tra loro e parte integrante di un unico mondo, non è solo una visionaria interpretazione olistica della realtà. È una visione estremamente realistica. Gli scienziati, che sin dall’inizio del ventesimo secolo, grazie alla fisica quantistica, hanno scoperto che noi e tutte le altre cose del mondo siamo sostanzialmente la stessa cosa, cioè energia, devono ancora trovare un corrispettivo nel pensare comune. Un pensare troppo legato a una concezione “dualista” del mondo: da una parte ci sono io, dall’altra tutto il resto dell’umanità, gli altri esseri viventi e l’ambiente nel quale viviamo. z

LA COLLABORAZIONE COME UNICA STRATEGIA Un altro motivo per cui oggi è utile ricordare Fuller è che la sua preoccupazione per la sostenibilità rispetto all’umanità intera non si tradusse in pessimismo, ma proprio nel suo contrario. Il sempre maggiore patrimonio di conoscenza di cui l’umanità dispone, applicato alla disponibilità

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PRIMO PIANO: OLISMO E AGRICOLTURA

“Quando considero che non c'è al mondo un'attività più antica dell'agricoltura e nello stesso tempo indispensabile perché ci fornisce da mangiare e da vestire, mi stupisco che oggigiorno gli uomini l'apprezzino tanto poco. (…) Non c'è diletto maggiore di quello di occuparsi attentamente alla cura quotidiana dei propri giardini, degli orti, dei broli e dei campi”. (Giacomo Agostinetti, da “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa”, 1679).

LA FATTORIA CHE SEGUE LE ORME DI

MADRE NATURA

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UN MODO PER TORNARE A COLTIVARE LA TERRA IN ARMONIA CON LE MERAVIGLIE DEL CREATO ESISTE E RISPONDE AL NOME DI AGRICOLTURA BIODINAMICA. Intervista a Marco Serventi, membro del board dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, docente di Agricoltura Biodinamica e Senior Inspector di Demeter Italia Le parole di Giacomo Agostinetti (riportate nella pagina qui a fianco), fattore che servì molti nobiluomini veneti del Seicento e che decise di raccontare il suo mestiere nel manuale Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa, ricordano una visione dell’agricoltura sinonimo di amore per la propria terra, rispetto per tutti i suoi elementi e ritorno alle origini. Quasi 250 anni più tardi, e più precisamente nei primi anni Venti, questa visione sembra riemergere, in chiave moderna, nell’agricoltura biodinamica, ovvero un modo di fare agricoltura che presuppone una visione olistica della coltivazione poiché considera la terra e tutte le sue forme di vita come un unico e complesso sistema da rispettare e tutelare. Si parla quindi di un tipo di agricoltura che è in maggiore sintonia con la Natura rispetto a quella biologica poiché, come affermò Rudolf Steiner, filosofo e ispiratore del concetto di agricoltura biodinamica, “l’azienda agricola è un vero e proprio organismo vivente a ciclo chiuso, inserito nel più grande or-

ganismo vivente cosmico, alle cui influenze soggiace”. Per scoprire di più su quest’universo parallelo, e per certi versi alternativo all’agricoltura tradizionale, abbiamo chiesto maggiori delucidazioni a Marco Serventi, membro dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, che considera questo particolare metodo di coltivazione un potenziale punto di partenza per la produzione alimentare futura. Cos’è la “permacultura”? La permacultura nasce da un concetto di Agricoltura Permanente per il quale non può esistere cultura senza una agricoltura adeguata a una vita sana in un ambiente sano. La capacità dei sistemi ecologici e agrari di autoripararsi e adattarsi è enfatizzata e organizzata per rendere sostenibile, per un tempo illimitato, un sistema agricolo. Il tutto avviene studiando le relazioni tra viventi, con particolare ri-

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PRIMO PIANO: OLISMO E AGRICOLTURA

L’ASSOCIAZIONE PER L’AGRICOLTURA BIODINAMICA L’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, che promuove questo “approccio alla terra” in ambito culturale, informativo, formativo e di ricerca, ha una propria sede centrale a Milano e diverse sezioni regionali in tutta Italia. Dal 1985, al suo fianco, c’è la Demeter Associazione Italia, (vedi box a pag. 47). L’Associazione organizza anche corsi, convegni, iniziative culturali e progetti per promuovere e far conoscere il metodo dell’agricoltura biodinamica e il suo impiego sul mercato.

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DEMETER ASSOCIAZIONE ITALIA La Demeter Associazione Italia è un’associazione privata che riunisce tutti i produttori, trasformatori e distributori i cui prodotti agricoli e alimentari biodinamici sono conformi agli standard internazionali di Demeter in termine di produzione, trasformazione ed etichettatura. L’Associazione, che ha sede a Parma, ha il compito di controllare, con occhio scrupoloso, tutte le fasi della filiera al fine ultimo di tutelare il marchio da eventuali abusi e denigrazioni. I controlli effettuati riguardano sia la produzione vegetale, l’uso di compost naturali, sia la lavorazione di carne, prodotti caseari, prodotti di panificazione, frutta, verdure, spezie, erbe aromatiche, e prodotti non alimentari come i cosmetici e i prodotti tessili.

ferimento ai vegetali, organizzando sistemi complessi di consociazione e incrementando la biodiversità secondo le possibilità offerte dal luogo. In tutto questo il consumo di energia è razionalizzato e riportato a un percorso di maggior indipendenza possibile da soluzioni non rinnovabili. Massimo riciclaggio interno e minimizzazione dei rifiuti non compostabili sono naturalmente corollari del sistema. In cosa consiste l’olismo della permacultura? La permacultura contesta la visione consumistica del sistema economico del '900 e denuncia i limiti del riduzionismo scientifico contrapponendo una visione molto meno "meccanica" e più "sistemistica" in campo scientifico. In particolare, contrappone alla visione "puntiforme" dell'ambiente agricolo, e non, un’osservazione a livello dei sistemi ecologici complessi. Le conoscenze che sono accettate nella "tecnologia" agraria sono tutte quelle che incrementano la biodiversità e non interferiscono in modo unilaterale e riduttivo nell'ecosistema agrario. In questa

visione vi è quindi una conoscenza biologica, meteorologica, pedologica, microbiologica e botanica che include anche le relazioni delle azioni umane con l'ambiente e con il sociale e che evidenzia una tendenza alla complessità dei fenomeni di relazione dal punto di vista fisico, economico, psicologico, etologico ed ecologico tra tutti i viventi che esistono su un territorio. Su quali principi si fonda l’agricoltura biodinamica? Anche questa è una disciplina olistica? L'Agricoltura Biodinamica nasce nel 1924 da un gruppo di agricoltori e proprietari terrieri che posero a Rudolf Steiner, scienziato e filosofo di grande valore e innovazione, questioni fondamentali e pratiche che, a distanza di 90 anni, si sono rivelate fortemente innovative e rivoluzionarie. L'impostazione di fondo rivela un nuovo paradigma scientifico che critica fortemente il limite del meccanicismo e del riduzionismo scientifico tutto orientato a una concentrazione dei sottolivelli della materia persino nei sistemi viventi. Il riduzionismo scientifico è quel procedimento per cui un

determinato oggetto d’indagine viene analizzato nelle sue parti componenti relativamente più semplici e interpretato o spiegato mediante la loro addizione. La spiegazione di un fenomeno su un livello diviene possibile, nel riduzionismo, attraverso l’esame dei sottolivelli. Questo ha comportato un abbandono dell’osservazione dei fenomeni nella loro globalità per ridurli al livello al quale siamo in grado di percepirli noi con i nostri sensi. Se teniamo conto che l’agricoltura è nella sua essenza l’arte di osservare e compiere sintesi interdisciplinari conoscitive e operative, fondata su una percezione continua e dinamica della natura e raffinata dall’esperienza, comprenderemo che il secolo scorso è stato quello nel quale una graduale disarticolazione della cultura agricola ha consegnato ciò che ne resta nelle mani dell’estremismo riduzionista. Le proposte dell’ingegneria genetica in agricoltura sono oggi uno degli aspetti del riduzionismo. Ma anche tutti gli aspetti della nutrizione vegetale, del metabolismo dell’humus e del rapporto della pianta con esso, della nutrizione animale e molto altro sono elementi da rivisitare in

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PRIMO PIANO: OLISMO E AGRICOLTURA

I PRINCIPI E GLI STRUMENTI DELL'AGRICOLTURA BIODINAMICA

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a)

Fare di una fattoria un Organismo Agricolo per giungere poi a farne un’Individualità Agricola. Si tratta di una posizione simile a quella originata dalla permacultura, ma che si fonda sulla consapevolezza che nel campo del vivente non è possibile applicare un metodo di osservazione, ricerca e applicazione "tecnologica" applicato nel campo della fisica e della chimica della materia non vivente. La fisiologia vegetale, animale e umana non può essere letta come generata dalle sole forze fisiche, elettriche o magnetiche in cui sono coinvolti elementi chimici variamente combinati. Vi sono forze specifiche del vivente che si manifestano poi sul piano delle forme fisiche delle piante, degli animali e che determinano fenomeni notevolmente diversi da quelli cui sono sottoposte le sostanze sul piano non vivente. Una visione molto precisa e con uno specifico linguaggio del mondo delle piante, del terreno e degli animali che giunge, con la medicina antroposofica, a livello della fisiologia umana è caratteristico dell’agricoltura biodinamica. L’Individualità Agricola è un’ulteriore evoluzione del nostro paesaggio agricolo e della nostra azienda, così ricco di specie e di dinamiche ecologiche da configurare un sistema stabile e autoregolato, frutto di una sinergia tra organismi viventi ai massimi livelli in grado di produrre humus in modo intensivo e al contempo produrre in quantità e qualità cibo vivo e sano.

b)

Preparati biodinamici. Sono preparazioni fatte in azienda con materiali vegetali e animali combinati tra loro e organizzati secondo una comprensione profonda della loro funzione, gnoseologia ed embriologia che produce strumenti importanti per incrementare e armonizzare i processi dell’humus nel terreno agricolo, organizzare e armonizzare lo sviluppo delle forme vegetali e la loro fisiologia e infine organizzare e armonizzare i processi di trasformazione e umificazione colloidale del composto.

c)

Importanza dell’allevamento animale come organo importante dell’Individualità Agricola nonché intensificatore e armonizzatore dei processi legati al ciclo del carbonio interno al nostro organismo agricolo in relazione con tutti gli altri elementi. In questa visione, l’allevamento animale non è pensato in modo intensivo, ma in armonia con le tipicità del nostro organismo agricolo.

d)

Compost con letami o scarti vegetali.

e)

Sovesci e compost di superficie.

f)

Rotazioni, avvicendamenti e consociazioni secondo una visione massimamente biodiversificata che guarda sempre all’insieme del nostro organismo agricolo.

g)

Osservazione dei ritmi in cui siamo inseriti: quelli lunari, solari, planetari, e quelli relativi alle costellazioni che si affacciano sul nostro organismo agricolo, nel cielo che vediamo sulla nostra azienda. Le azioni agricole che compiamo tengono conto di questi ritmi generali in relazione con il microclima specifico del luogo e per questo abbiamo calendari delle semine piuttosto dettagliati.


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un’ottica non riduzionista. I ricercatori biodinamici operano dall’inizio del secolo scorso per ricostruire nel tempo una rinnovata e autonoma cultura agricola, a partire dal dibattito nel campo della biologia, della morfologia e dell’epistemologia. Agricoltura biodinamica, permacultura, agricoltura biologica: sono sinonimi o si tratta di aspetti diversi della stessa disciplina? E in questo caso quali le principali differenze? La relazione tra agricoltura biologica e quella biodinamica è quella di cuginanza. L’agricoltura biologica è venuta dopo e non si pone storicamente in discussione sui fondamenti gnoseologici e sui paradigmi scientifici di base. Possiamo dire che elimina e rifiuta le operazioni d’interferenza con i processi agricoli e con i mezzi chimici e punta a stabilire un’agricoltura al minimo impatto ambientale. Tuttavia, può giungere a un modello agricolo in cui si sostituisce lo strumento di derivazione chimica con quello di derivazione naturale senza proporre altro di diverso. Come anche vi sono moltissime realtà agricole che cercano un diverso fondamento e un diverso modello tecnico ed economico su cui operare. L’azione dell’agricoltura biologica non giunge all’ampliamento di visione, di pratica agricola e di ricerca scientifica con altre basi epistemologiche così come tenta invece di fare l’agricoltura bio-

dinamica. Quest’ultima in effetti non si pone come alternativa all’agricoltura convenzionale, ma si pone come ampliamento alla sua ristretta visione riduzionista. Il riduzionismo non è in grado di conoscere la realtà di un organismo più ampio, si ferma solo al particolare ultra specialistico, meccanico. In questo senso oggi si percepiscono segnali di attenzione da parte del biologico verso la via biodinamica come liberazione dalla gabbia riduzionista che porta l’attuale desertificazione dei nostri suoli patri. Le pratiche dell’agricoltura biodinamica sono alla portata di tutti? Come possono essere trasmesse anche a chi non possiede affatto il pollice verde? Le pratiche della biodinamica sono complesse ma ogni agricoltore vero è perfettamente in grado di farne esperienza e di avviarsi a una conversione ed educazione che portano a osservare in modo attento quel che succede nella propria fattoria. D’altra parte questo implica una volontà individuale di procedere a questa “rifondazione” del proprio rapporto con il mondo in cui lavora. È un percorso creativo e intenso che porta cambiamenti e salute non solo all’ambiente e a chi consuma il prodotto, ma anche alla qualità interiore delle persone che vi lavorano. Se qualcuno non ha il pollice verde e si trova a fare l’agricoltore dovrà

senz’altro faticare un po’ di più ma vi può certamente riuscire. Prima o poi riusciremo a vivere tutti in armonia con la natura? Secondo lei c’è davvero un interesse generale nell’ottenere questo risultato e potremmo vivere di sola terra? Noi biodinamici sappiamo che tutto il pianeta si è co-evoluto (non amiamo la visione competitiva e guerresca di una certa interpretazione del darwinismo perché non corrisponde alla realtà) e con la saggezza di coloro che migliaia di anni fa hanno trasformato in armonia, con le leggi di natura intrinseche, le piante e gli animali di cui ci nutriamo, abbiamo avuto fino a due secoli fa cibo adatto allo stato evolutivo umano. Il ‘900 è stata una lunga interruzione di questo processo co-evolutivo. Dobbiamo trovare i semi, gli animali adatti allo stato evolutivo dei nostri corpi, delle nostre anime e dei nostri spiriti attuali che sono rimasti senza quella ricchezza di forze che è sempre stata l’obiettivo dei nostri padri agricoltori. Non si tratta d’interesse (che c’è, istintivo o evoluto, ma c’è!) perché oggi è una necessità per tornare a non a parlare di salute, ma di salutogenesi. La biodinamica è la porta da cui riteniamo possa giungere un contributo per il cibo del futuro. z 43


PRIMO PIANO: OLISMO E MEDICINA

MEDICINA:

CLASSICA, ALTERNATIVA O COMPLEMENTARE? diventato sempre più di moda dir male della medicina classica e un gran bene di quella ‘alternativa’. I nomi, se non altro, suonano più attraenti: ayurveda, pranoterapia, agopuntura, yoga, omeopatia, reiki, erbe cinesi, e (perché no ?) i guaritori filippini o no... Quando si trattò della mia sopravvivenza non ebbi un momento di esitazione: dovevo affidarmi a ciò che mi era più familiare, alla scienza, alla ragione occidentale... Più stavo con la scienza e la ragione, più mi cresceva dentro la curiosità per la magia e la follia delle ‘alternative’ che avevo scartato all'inizio".

“...è

(Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”)

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Olismo e medicine alternative, olismo e medicina tradizionale… Scelta difficile, che fa tornare alla mente il libro scritto da Tiziano Terzani, giornalista e scrittore morto nel 2004, in cui parla del suo modo di reagire al tumore all’intestino, viaggiando per il mondo e osservando le tecniche della medicina moderna occidentale e le medicine alternative. Quante sono le branche della medicina? Quanto sono valide? Quale scegliere nel momento del bisogno? Una è migliore dell’altra? È molto difficile orientarsi in questo mondo anche perché, pur alcune essendo antichissime, ben poco sono conosciute da noi occidentali. Possiamo comunque dire che la medicina è una sola ma molti sono i modi della sua pratica. Molti di questi sistemi di cura hanno origine millenaria, altri sono di recente utiliz-


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zazione ma quasi tutti hanno in comune una visione dell'uomo come entità indivisibile, difficilmente incastrabile in dettami dualistici che separano la mente dal corpo. Per capire meglio si può affermare che la medicina convenzionale è quella in cui i principi e le tradizioni scientifiche guidano il sistema sanitario nazionale. La pratica della medicina convenzionale richiede una profonda conoscenza della struttura del corpo umano e delle sue dinamiche ordinarie e anomale. Questo approccio informa tutta la struttura socio-sanitaria che pertanto è preposta a riconoscere le patologie (diagnosi) e a intervenire per ripristinare il normale funzionamento con svariati strumenti, principalmente con la terapia farmacologica e chirurgica. La medicina alternativa invece comprende ogni forma di pratica medica che si pone al di fuori dell’ambito della moderna medicina occidentale e ingloba tutte le metodiche terapeutiche non riconosciute dalla scienza medica ufficiale. Infine la medicina complementare: si tratta di ogni forma di pratica medica al di fuori dell’ambito della moderna medicina occidentale, che viene usata in associazione alla medicina convenzionale. Ad esempio: l’agopuntura può essere utilizzata per lenire i dolori durante interventi chirurgici o l’omeopatia può intervenire per rafforzare naturalmente le difese immunitarie durante un trattamento antibiotico. La differenza fondamentale tra la medicina tradizionale occidentale e

quella definita “olistica”, naturale o alternativa sta nel fatto che nella prima la cura della malattia avviene prevalentemente attraverso l’uso dei farmaci e nella seconda si tenta di rimuovere le cause di ciascun disturbo passando da una profonda analisi del corpo e della psiche del paziente. È possibile che medicina tradizionale e medicina alternativa interagiscano? Secondo una recente indagine i progressi della medicina occidentale nel trattamento dei tumori è data in costante aumento. Oggi si stima che circa il 30%- 40% dei pazienti affetti da malattia tumorale sopravviva più di cinque anni dopo la diagnosi, che è il periodo di calcolo statistico per essere considerati fuori rischio. Secondo alcuni studi, una cura tradizionale integrata con la Medicina Cinese potrebbe permettere di aumentare le speranze di vita dei pazienti oncologici. I risultati pubblicati dal Memorial Sloan Kattering Hospital di New York, presso il quale sono stati fatti studi di ricerca (epidemiologica) sul cancro, hanno mostrato che i risultati di sopravvivenza a cinque anni di follow-up aumentava dal 30% al 60% in pazienti che seguivano una terapia medica combinata alla Medicina Cinese. Quest’ultima agisce sugli elementi esclusi dalla terapia medica: la risposta individuale del malato, la tolleranza dei farmaci, la velocità di recupero, l’efficienza del sistema immunitario, la risposta psicologico-emotiva. Che, come spesso accadde, l’unione faccia la forza? Speriamo, speriamo davvero. z

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PRIMO PIANO: OLISMO E MUSICA ABC

QUANDO LA MUSICA DÀ I NUMERI LA MUSICA CREA DEI PONTI IMPREVISTI E INASPETTATI CON DIVERSE DISCIPLINE, TRA CUI LA FISICA E LA MATEMATICA. QUESTO CONNUBIO DI NOTE E NUMERI DÀ COSÌ VITA A UN INIMMAGINABILE APPROCCIO OLISTICO ALLA REALTÀ. Intervista a Corrado Greco, pianista di fama internazionale, componente del Trio des Alpes e professore al Conservatorio di Milano

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a musica, nel lungo corso della Storia, ha stretto forti legami con molteplici discipline: dall’architettura alla fisica, dalla medicina al diritto, dalla filosofia alla psicologia fino alla matematica, sviluppando un approccio sempre più olistico alla realtà. Data la vasta interconnessione con settori spesso molto distanti l’uno dall’altro, si ritiene che la musica abbia contribuito, in parte, alla nascita della scienza moderna. In particolare, la musica vanta, da tempi immemorabili, un rapporto privilegiato con la matematica. Questo legame, infatti, fu indagato in primis dai lontani filosofi Pitagorici i quali, nel IV secolo a.C., scoprirono le basi della scala naturale dei suoni e alcuni degli accordi fondamentali. Più tardi, lo stesso Lorenz Mizler, allievo di Bach, affermò nella prima metà del Settecento

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che "la musica è il suono della matematica", sottolineando così l’inequivocabile legame tra teoria musicale e strutture matematiche. Abbiamo quindi deciso di chiedere a Corrado Greco, pianista di fama internazionale e professore al Conservatorio di Milano, maggiori delucidazioni sul rapporto che esiste tra la musica e le altre scienze e come questo aspetto influenzi il “fare musica”. Quanta matematica c’è nella musica? Moltissima. La musica può essere definita l’arte di disporre suoni e silenzi nel continuum temporale. Tale disposizione, per non risultare caotica all’orecchio, obbedisce da tempo immemorabile a suddivisioni matematiche naturali: le riconosciamo istintivamente perché affini alle

pulsazioni della nostra fisiologia. È così che nei ritmi variegati della musica e della danza si sublimano gli elementi ritmici primigeni del battito del cuore e dell’alternarsi del passo. Una componente ritmica pulsante e profonda permea anche il cuore stesso del suono: la frequenza con cui un’onda sonora, fluttuando, si propaga determina in modo direttamente proporzionale l’altezza del suono. Sono molti i fenomeni sonori che possono essere indagati matematicamente: il temperamento - che è correlato all’accordatura degli strumenti - i battimenti, i fenomeni dell’eco e della risonanza, per citarne solo alcuni. Ci sono procedure matematiche alla base della sintesi sonora degli strumenti elettronici, del campionamento del Compact Disc, e via dicendo. C’è spesso un rigore matematico anche nella ricerca di armonicità,

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PRIMO PIANO: OLISMO E MUSICA

di equilibrio che lega le sezioni di una composizione, si tratti di una semplice canzone o di una gigantesca sinfonia. Sono traslati gli stessi principi che ci fanno guardare con ammirazione alle simmetrie in architettura o alle distribuzioni geometriche nelle arti figurative. Questi stessi principi avevano inserito a pieno titolo la musica nel Quadrivium medievale, assieme all’Aritmetica, la Geometria e l’Astronomia. L’intera storia della Musica, oltre che una profonda esperienza estetica, è anche un’affascinante avventura di trasformazioni matematiche, che a partire da suoni semplici e pulsazioni elementari, ci conduce fino alle più ardite complessità foniche, ritmiche e strutturali della musica d’avanguardia. La musica ha rapporti anche con altre scienze?

Certamente. La fisica innanzitutto, per la materia di cui è fatta e sulla quale indaga la branca dell’acustica. Ma la musica dialoga trasversalmente con le più svariate e spesso imprevedibili discipline e settori scientifici: dalla psicoacustica all’informatica, dalla medicina all’architettura, dalla psicologia all’astronomia, dal marketing alle neuro scienze, fino alla robotica.

mente è condotto il gioco delle parti e si compie la magica cooperazione del suonare insieme, tanto più il risultato è valido e interessante. La stessa cosa vale per la formazione musicale: il musicista completo deve mirare a una formazione globale, dove tecnica e specializzazione coesistano insieme con sguardo d’insieme e profondità emotiva, preparazione culturale ed esperienza di vita.

Per suonare e comporre bisogna possedere tecnica e specializzazione. Secondo lei, però, la musica può essere definita anche una disciplina olistica? Sicuramente. In musica il risultato complessivo vale sempre ben di più della somma delle singole parti. Anzi, quanta più “armonia” c’è nella disposizione timbrica e strutturale, quanto più abil-

Come s’inserisce la sezione aurea in musica? La sezione aurea è il nome che si dà a una proporzione matematica molto presente nella costruzione musicale. Così come nelle arti figurative e in architettura, questa proporzione infonde un senso di plastico equilibrio alle forme musicali che ne riproducano la disposizione. La sezione aurea è presente poi

CHI È CORRADO GRECO A 19 anni, dopo il diploma con lode in pianoforte al “Bellini” di Catania, si è perfezionato con Alberto Mozzati e a lungo con Bruno Canino, completando gli studi al Conservatorio di Milano, dove si è diplomato a pieni voti in Composizione e in Musica Elettronica. Premiato in concorsi pianistici nazionali e internazionali, suona regolarmente da solista e con orchestra in Italia e all’estero. La sua attività cameristica vanta collaborazioni con Mario Ancillotti, Arturo e Rodolfo Bonucci, Mario Caroli, Massimo Quarta, Giovanni Sollima, Tatjana Vassiljeva, Lorna Windsor. Come pianista del Trio des Alpes suona per le più importanti istituzioni musicali europee. Si è esibito in Francia, Russia, Slovenia, Croazia, Portogallo, Svizzera, Austria, Egitto, Etiopia, Indonesia, Belgio, Spagna. Ha suonato nella Conway Hall a Londra e ha effettuato due tournée in Giappone. Recentemente ha tenuto concerti a due pianoforti con Bruno Canino, ha eseguito il Concerto di Chausson per Milano Classica, il Primo Concerto di Šostakovič con la PKO al Festival di Lubjana e il Quintetto di Dvorak con l’Amarcord Quartett (Berliner Philharmoniker). Ha eseguito il Triplo di Beethoven nella Sala Filarmonica di Trento, è stato invitato da importanti Università americane (Northwestern, UMBC) per masterclass e concerti negli USA. Ha registrato per la RAI e due volte in diretta Euroradio nei “Concerti del Quirinale” di Radio3. Tiene seminari, conferenze e lezioni-concerto. Ha pubblicato per la WB Italia e collaborato con Adriano Abbado alla realizzazione di un CD-Rom sul Don Giovanni di Mozart.

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anche nelle relazioni che i liutai rispettano da secoli quando determinano le dimensioni dei diversi elementi costitutivi degli strumenti ad arco. Quando si dirige un’orchestra, un unico gesto parla a diversi strumenti. Come nasce la perfetta armonia tra i vari suoni? C’è indubbiamente qualcosa di magico nella figura del direttore d’orchestra, ovvero colui che, servendosi solo del gesto, riesce a plasmare il suono di più individualità, imponendo senza coercizione la propria intenzione interpretativa. Il direttore, attraverso la concertazione e il gesto, opera una meta comunicazione: aggiunge senso e sostanza a qualcosa la musica - che di per sé ne è già dotata. Dirigendo fornisce informazioni che chiarificano il significato dei segni musi-

cali, simboli che hanno L’orecchio assoluto è La musica dialoga bisogno di essere dela capacità di riconotrasversalmente con le più codificati a loro volscere le altezze dei svariate discipline: dalla ta. In questa particosuoni presi singopsicoacustica all’informatica, larissima forma di larmente, condalla medicina all’architettura, comunicazione il difrontandoli con rettore obbedisce a un proprio riferidalla psicologia all’astronomia, un’immagine sonomento inter no. dal marketing alle neuro ra interiore, frutto del Non sono moltissimi scienze, fino alla lavoro preliminare sulla a esserne dotati, ma robotica. partitura, e a essa confornon credo affatto sia ma l’intenzione musicale una condizione indispensaespressa nel gesto. È una sfida che ribile per essere un buon musicista. Nelchiede autorevolezza, perspicacia, tec- la pratica musicale è molto più utile nica, grande cultura e un’innata capaci- coltivare un buon orecchio relativo, tà di comunicare, oltre naturalmente, a poiché saper porre nella giusta relaun ottimo orecchio musicale. zione altezze e timbri diversi può aiutare enormemente nella ricerca di Chi è dotato di “orecchio assoluto”? quella perfetta armonia a cui tutti Come può una persona riconoscere aspiriamo in questo difficile e affascinante mestiere. di possedere tale dono? z

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PRIMO PIANO: OLISMO E LINGUAGGIO

Cesare Cozzo. Nato nel 1958 a Roma, nel 1986 si è laureato in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Nel 1992, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia all’Universita` di Firenze con una tesi sulla Teoria del significato e filosofia della logica. A cavallo tra il gennaio e il giugno del 1993 ha ottenuto una borsa di ricerca di "Filosofiska Institutionen" presso l’Universita` di Stoccolma e nel 1994 una borsa di ricerca post-dottorato in Filosofia della Scienza all’Universita` della Basilicata-Potenza. Nel 1995, sempre all’Universita` di Stoccolma, ha conseguito il Dottorato in Filosofia Teoretica. Nel 1998 ha iniziato a lavorare all’Università La Sapienza di Roma come ricercatore presso il Dipartimento di Studi Filosofici ed Epistemologici della Facolta` di Lettere e Filosofia e dal 2005 è Professore Associato in Logica e Filosofia della Scienza. È autore di diversi libri e articoli pubblicati tra cui Olismo epistemologico senza olismo linguistico.

PAROLE

NELLA RETE DEL

LINGUAGGIO UNA PAROLA NON È SOLO UNA PAROLA MA LA FINESTRA CHE DÀ SU UN GIARDINO BEN PIÙ AMPIO, RICCO DI MOLTEPLICI SIGNIFICATI E CONTENUTI.

Intervista a Cesare Cozzo, docente di Filosofia all’Università La Sapienza di Roma e autore del saggio “Olismo epistemologico senza olismo linguistico”

a cosiddetta Filosofia del Linguaggio, ossia la disciplina che studia il linguaggio umano e i suoi sistemi di comunicazione, nasceva già ai tempi di Platone e Aristotele. Il modo in cui comunichiamo, infatti, ha sempre affascinato l’essere umano e il motivo di tale interesse risiede nel fatto che la capacità di padroneggiare abilmente una lingua può rivelarsi uno strumento estremamente efficace nelle dinamiche della nostra vita

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sociale, culturale e interpersonale. Non sorprende quindi che siano numerosi i dibattiti nati attorno a questo tema e altrettanto numerosi i punti di vista illustrati nelle varie discipline a esso correlate. Friedrich Ludwig Gottlob Frege, ad esempio, si chiedeva se il valore delle parole si riducesse al lo-


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ro significato, inteso come legame con l'oggetto identificato, o se, al contrario, non fosse opportuno tenere conto anche del senso che esse esprimono. A proposito della scelta tra un approccio atomista e uno olistico al linguaggio, abbiamo chiesto un approfondimento al Prof. Cesare Cozzo. Nel linguaggio si può parlare di olismo? Molti autori adottano una concezione olistica del significato e della comprensione delle espressioni linguistiche. Ferdinand de Saussure sembra sostenere proprio questa concezione. Per Saussure «La lingua è un sistema di cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri». Sulla scia del grande linguista ginevrino molti linguisti e studiosi di semiotica hanno propugnato l’idea che

per afferrare il significato di una parola occorra comprendere tutta la lingua. A questa poi spesso si associa l’altra idea che comprendere una lingua implichi abbracciare una visione globale del mondo - un modo peculiare di organizzare concettualmente la «Massa amorfa e indistinta» del materiale prelinguistico - incommensurabile con le visioni, altrettanto globali, contenute in lingue diverse. L’olismo linguistico è adottato anche da molti filosofi del linguaggio. Il filosofo americano Willard Van Orman Quine è celebre per l’affermazione «L’unità di significato empirico è la totalità della scienza». Questa tesi è stata enormemente influente. Secondo un altro filosofo americano, Donald Davidson, «Possiamo dare il significato di un qualsiasi enunciato (o parola) solo dando il significato di ogni enunciato (e parola) nella lingua. […] solo nel contesto di una lingua un enunciato (e quindi una parola) ha significato». Non mancano, però, filosofi che criticano l’olismo linguistico. L’obiezione principale è che esso ci costringe a trarre una conclusione assurda: se è vero l’olismo linguistico, due parlanti italiani qualsiasi scelti a caso non intendono mai nemmeno una parola nello stesso modo, perché i loro bagagli lessicali complessivi sono diversi. Ma ovviamente l’olista può replicare. Questo è solo l’inizio di una lunga discussione con il critico dell’olismo. Come si incontra la semantica della singola parola con il significato che essa va ad assumere all’interno di un discorso e che può cambiare a seconda degli enunciati? Nell’uso quotidiano del linguaggio come valutiamo se i nostri interlocutori comprendono o no una parola? Semplicemente controlliamo la capacità che essi hanno di compiere in modi adeguati certe particolari azioni, azioni che contano come mosse nel gioco del

linguaggio, ossia come atti linguistici - asserzioni, comandi, domande, ecc. Un comune parlante-ascoltatore giudica che il suo interlocutore comprenda, se questi compie atti linguistici in modi adeguati. Altrimenti il parlante-ascoltatore tende a ritenere che l’interlocutore non comprenda. Per esempio: se Ugo, per dire che una squadra di calcio ha vinto la partita con difficoltà, afferma “la vittoria è stata stentorea”, concluderemo che probabilmente Ugo non comprende la parola “stentoreo” (ndr: potente, riferito a voce umana) anche se crede di comprenderla. Ma non potremmo concludere nulla se Ugo si limitasse a proferire la parola fuori dal contesto di un enunciato. Come disse Ludwig Wittgenstein, solo proferendo un enunciato si fa «una mossa nel gioco linguistico», ossia si effettua un atto linguistico, che può essere valutato. L’enunciato è l’unità minima con cui si compie un atto linguistico. Comprendere è sapere usare correttamente gli enunciati. Di conseguenza, comprendere una parola non è altro che sapere come quella parola contribuisce al significato degli enunciati in cui ricorre. Il significato di una parola è il suo contributo al significato degli enunciati di cui fa (o può fare) parte. Perciò non si può comprendere una parola in isolamento, avulsa da ogni enunciato. Tuttavia non si deve trarre l’assurda conclusione che il significato di una parola muti completamente in ciascun diverso enunciato in cui la parola si ripresenta. Il contributo che una parola dà agli enunciati è per lo più stabile. Altrimenti non si spiegherebbe un fatto importantissimo: possiamo comprendere potenzialmente infiniti enunciati mai incontrati prima, se questi sono formati combinando parole che già conosciamo. Ciò è possibile perché ogni parola ha un significato proprio, stabile e distinguibile da quelli delle altre parole, capace di contribuire uniformemente ai significati di enunciati diversi. z 51


PRIMO PIANO: OLISMO E LINGUAGGIO

LA E R A C O I G O D N QUA E L O R A P CON LE ARTE

’ N U A T DIVEN

lzi la mano chi non ha avuto un attimo di smarrimento la prima volta che ha sentito il corriere al citofono dire: “Signor Rossi? Ci sono due colli a suo nome”. Certo, non avrà pensato a un messaggio minatorio, perché il collo non è solo la parte del corpo che regge la testa: è anche un pacco, per l’appunto. E non solo: è la parte alta della camicia, quella stretta

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della bottiglia, quella iniziale dell’estuario di un fiume, quella inferiore del capitello di una colonna e perfino una parte che compone l’armatura del cavallo nelle giostre medievali. E che dire del neofita della caccia che non sapeva di dover appoggiare “Fido” sulla spalla, per sparare? E il bambino che non riusciva a credere che esistesse anche la “buona” influenza? Per non

parlare degli imbarazzi igienici al dover fornire all’ospite... un ospite! Sono solo alcuni esempi del valore polisemico delle parole: diversa dalla comune omonimia (quella per cui la botte non fa male quanto le botte, a meno di non scolarsela tutta), la polisemia è la caratteristica che ha una parola di assumere un senso diverso ogni volta che cambia il discorso.


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DI CHE SI TRATTA? Alla base di molti giochi linguistici, barzellette, equivoci, la polisemia è un gioco molto serio, studiato nei corsi di semiotica delle accademie, noto da sempre ai poeti e agli amanti della parola, ben frequentato dai pubblicitari, sempre a caccia di calembours per i loro slogan, che diventano così dei veri tormentoni. In linguistica indica la coesistenza, in uno stesso segno, di significati diversi: la gamba può essere umana, ma anche quella del tavolo; può inoltre rientrare in un’espressione (in gamba!, gambe in spalla!) che perde addirittura il riferimento concreto e puntuale alla realtà (a meno di non fare come lo sciocco Giufà della tradizione siciliana, che per “tirarsi dietro la porta” uscendo di casa, bene pensò di scardinare l’uscio e portarselo sulle spalle).

In letteratura, la polisemia è anche la varietà di significati che un intero testo può assumere, e quindi le interpretazioni che consente: si pensi alle letture allegoriche e morali che, esulando dal senso strettamente letterale, fanno luce su un mondo di simboli arcani o religiosi. Come l’uso dei numeri nella cabbalah ebraica o, per restare in Italia, quello presente nella Commedia dantesca, dove il tre della divina trinità (con i suoi multipli) domina tutto l’impianto poetico. Ma torniamo ai tempi nostri, e proviamo a smascherare l’uso pubblicitario della duttilità della nostra lingua.

Pensiamo all’ultima campagna abbonamenti della Roma di Totti, reduce da un ottimo campionato e intenzionata il prossimo anno a raggiungere la Juventus, sua rivale storica: “La caccia è cominciata. Unisciti al branco”. Nella capitale, dove il tifo è una cosa serissima, la scritta è comparsa un po’ ovunque: muri, vetrine, sul retro degli autobus e dei taxi. In questo caso la parola polisemica è talmente trasparente che non c’è neanche bisogno di esplicitarla: la frase è affiancata dalla lupa capitolina, simbolo della città e della stessa società sportiva. “Lupo” si definisce chiunque si riconosca nei colori giallorossi, a Roma lo sanno pure i bimbi all’asilo (che spesso sono già divisi tra lupi e aquilotti, sostenitori della Lazio): da qui l’esortazione a “unirsi al

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PRIMO PIANO: OLISMO E LINGUAGGIO

branco”. Un branco figurato, certo, che pure non ha evitato le critiche da parte di chi ha letto un malcelato invito alla violenza negli stadi. D’altra parte, ogni slang specialistico abbonda in queste doppiezze: la tinca nel linguaggio del teatro è una parte lagnosa, spesso in scena e priva di

slanci che attirano l’applauso; nel giornalismo si può bucare la notizia, non forando il giornale ma arrivando tardi, quando è già stata divulgata da qualcun altro. Insomma, ricordate che è il contesto a spiegare le parole, quando queste da sole non bastano a spiegarsi. Se poi vi capita di trovarvi su una barca

a vela per la prima volta nella vostra vita, tenetevi pronti. Il capitano urla ordini che vi scandalizzano, ma non c’è da preoccuparsi: cazzare la randa, o il fiocco, si dice proprio così. Quando avrete imparato, sarà facile proporvi per il compito in prima persona. z

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CONTESTO

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IMQ NOTIZIE n. 100

EHI RAGA, TUTTO REGO?

Intervista a Mirko Volpi, filologo e storico della lingua italiana

In principio era la pagina bianca. Adesso è il monitor del pc o, più spesso, il display di un smartphone. E scriviamo tantissimo. C’è chi dice che i nuovi media “corrompano” le capacità di scrittura, soprattutto dei giovani, scoprendo voragini di analfabetismo. Io non sarei così catastrofista. Oggi la maggior parte delle persone scrive quotidianamente, cosa che fino a quindici anni fa era del tutto impensabile. La scrittura si è desacralizzata, e non è male. Ma è vero o no che scriviamo peggio? Non lo darei per scontato. Il fatto è che sui social network si trova molto spesso un tipo di scrittura informale, che deve molto all’oralità: non significa che gli utenti, in un diverso contesto comunicativo, non sappiano scrivere adeguatamente; significa, semplicemente, che stanno usando un mezzo differente, che prima non c’era. “Ehi raga, tutto rego?”. Quanto influisce lo slang giovanile sull’italiano che parliamo? Negli ultimi decenni, lo slang ha preso piede. Letteratura, cinema e televisione hanno iniziato a rappresentare i giovani

con maggiore attenzione e realismo, e amplificato un fenomeno che, essendo una varietà dell’italiano molto espressiva, può avere una forte presa. Non vanno dimenticati poi altri due elementi: l’allungamento della giovinezza “percepita” fino ai 40 anni e il fatto che i “giovani” siano per il mercato e la pubblicità una fascia altamente appetibile. Di qui il parziale adeguamento linguistico di certi media agli usi linguistici giovanilistici. Questo complesso di cose ha fatto sì, a mio avviso, che nell’italiano parlato siano penetrati con grande rapidità molti elementi dello slang, che però vengono per lo più usati consapevolmente, scherzosamente, per fini espressivi. Sfatiamo un mito: “A me mi” si può dire? Altroché! Vale come rafforzativo, traducibile con “Per quanto mi riguarda, mi piace…”, ed è pienamente grammaticale. Detto questo, resta preferibile usarlo nell’oralità e negli usi scritti informali. La lingua si è sciolta ma quando abbiamo a che fare con la Pubblica amministrazione restiamo tutti vittime del “burocratese”. Questo è un male antico, basterebbe leggere le lettere che i “semicolti”, persone poco alfabetizzate, scrivevano al re durante la Grande Guerra. Gente umile che

non padroneggiava bene l’italiano e si trovava costretta a sfruttare maldestramente i pochi modelli a disposizione: le incerte nozioni scolastiche e la lingua della burocrazia. Così, in queste lettere vediamo riutilizzate parole, formule, locuzioni formali provenienti da quell’ambito, ma con modalità incoerenti, come se fossero tessere linguistiche che riaffiorando alla memoria vengono incollate nel testo in maniera impropria, con effetti talora esilaranti. L’intento era quello di innalzare, nobilitare lo scritto con gli scarsi mezzi culturali che avevano a disposizione: e la disgraziata lingua della burocrazia sembrava fornire loro un paradigma utile allo scopo. Si può spiegare il mestiere del filologo con un tweet di 140 caratteri? La paziente, costante, umile ricerca di un brandello di verità. Ne sono bastati sessantatré... z

MIRKO VOLPI Mirko Volpi è filologo e storico della lingua italiana. Insegna all’Università di Pavia. Tra le sue pubblicazioni più recenti Sua maestà è una pornografia!. Italiano popolare, giornalismo e lingua della politica tra la grande guerra e il referendum del 1946. (Edizioni Universitarie 2014) 55


PRIMO PIANO: OLISMO E DESIGN

IL DESIGN

CHE TI APRE UN MONDO IL VERO DESIGN SI SVINCOLA SEMPRE PIÙ DALLE CORRENTI ARTISTICHE PER ASSUMERE LE SEMBIANZE DI OGGETTI D’USO QUOTIDIANO ED ENTRARE COSÌ NELLE CASE DELLA GENTE. Intervista ad Alberto Bassi, storico del design e docente allo IUAV di Venezia

i sono oggetti d’uso quotidiano che hanno segnato la storia, rappresentando non solo una rivoluzione “tecnologica” dei loro tempi, ma anche vere e proprie icone pop del design. Basti pensare alla mitica Vespa di Vacanze Romane e alla piccola ma agile Fiat 500, alla moka Bialetti, emblema del caffè all’italiana, o ancora a Fab, il coloratissimo frigorifero bombato firmato Smeg e a Candy, la prima lavatrice interamente made in Italy.

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gue, in che maniera il design è sempre più legato alla nostra quotidianità e al nostro stile di vita e cosa dobbiamo aspettarci dal futuro.

Dai primi anni Cinquanta il design ha cambiato radicalmente il rapporto degli italiani con gli oggetti d’uso domestico ai quali è stato conferito - pur senza tralasciare il lavoro accurato di ricerca, scelta dei materiali e lavorazione artigianale - un maggiore appeal estetico. Questa cultura, che si è accentuata con il passare del tempo, continua a mettersi al servizio delle persone e, a differenza del passato, è anche più attenta ai problemi economici e socio-politici della nostra epoca. Come sosteneva l’architetto e designer Ettore Sottsass: “Quando Charles Eames disegna la sua sedia, non disegna soltanto una sedia, ma disegna un modo di stare seduti, cioè non disegna per una funzione, ma disegna una funzione”. Alberto Bassi, storico e critico del design, ci spiega, nell’intervista che se-

Nel suo libro Design. Progettare gli oggetti quotidiani, afferma: "All’origine delle «cose», fisiche o immateriali, che ogni giorno entrano nelle nostre vite, esiste un processo globale di progettazione nel quale convergono ideazione e produzione, impresa, uso, consumo e riuso: è il design". Si potrebbe parlare di una visione olistica del design che poco ha ormai a che fare con la mera sfera artistica? Parlare di design come processo complessivo, esito del lavoro collettivo di un team-work, vuol dire focalizzare l'attenzione sulla relazione che il design instaura con il mondo, la società e le persone. Questa idea non costituisce certo una novità: era, infatti, alla base dell'identificazione di una figura di progettista dell'età della produzione industriale - nella quale, vale la pena dirlo, siamo completamente inseriti ancora

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PRIMO PIANO: OLISMO E DESIGN

oggi, nonostante i processi di dematerializzazione e le logiche digitali nata nell'Ottocento e che, passando per il Modernismo, arriva fino ad oggi. Il design, così inteso, non ha nulla a che fare con l'Arte. Certo può trarvi ispirazione, come può fare con l'architettura, il cinema o la letteratura. Ispirazione, percorso creativo e progettuale attingono e fanno sintesi di stimoli che arrivano da molti "mondi", ma si rela-

zionano e collocano dentro specifici "contesti" economici, sociali e culturali. Insomma, si tratta di un fare dentro i contesti, non un "gesto", una forma e così via. L'equivoco fra design e arte, che si trascina dall'Ottocento e da William Morris (l’artista considerato tra i principali fondatori del movimento delle Arts and Crafts), è alimentato strumentalmente da chi vuol ricondurre il design a un ruolo alla fine marginale rispetto ai processi reali, ma anche a un’indebolita coscienza e "orgoglio" della cultura del design. E certo non mancano le responsabilità dei media - ma in verità anche delle istituzioni culturali e museali - che faticano a "guardare dentro" a un fenomeno complesso e

CHI È ALBERTO BASSI Alberto Bassi - nato a Milano nel 1958 - si occupa di storia e critica del design. È professore associato alla Facoltà di Design e Arti Iuav di Venezia, direttore del Corso di laurea in Disegno Industriale e direttore della Facoltà nella sede di San Marino. Fa parte della redazione di Casabella e collabora con riviste di settore, come Auto & Design, con l’inserto domenicale del quotidiano Il Sole 24 ore e con Il fatto quotidiano. Fra i volumi pubblicati: Giuseppe Pagano designer (con L. Castagno, Laterza 1994); La luce italiana. Il design della lampade 1945-2000, Electa 2003; Antonio Citterio industrial design, Electa, 2004; Design anonimo in Italia. Oggetti comuni e progetto incognito, Electa, 2007; Design. Progettare gli oggetti della vita quotidiana, Il Mulino, 2013. 58

articolato come il design e preferiscono adottare facili scorciatoie per divulgarlo, come l'"invenzione" di archi o designer-star, l'adozione univoca di letture formalistiche, il privilegiare l'eventismo o le novità a tutti i costi. Modi vecchi di affrontare le questioni. Da tempo si rende necessario un radicale rinnovamento di impostazione culturale, linguaggio e contenuti. Forse anche di persone. Dopo di che, una delle condizioni contemporanee è la possibilità di intendere non una sola, ma tante idee di design. Quello che manca è dare a ognuna il suo nome specifico: industrial design è differente da progetto per la produzione artigianale, dall'autoproduzione, dal design-artistico e così via. E qui è fondamentale il ruolo della teoria, della storia e della critica. Marcel Duchamp, padre del ready-made nell'arte, fu un precursore involontario del moderno concetto di design che innalza oggetti di uso quotidiano a vere e proprie piccole opere d’arte. Quale sarà, secondo lei, l’evoluzione del design? Il ruolo del design ha a che fare con la vita quotidiana delle persone, con le questioni importanti della nostra società, come la sostenibilità del pianeta, l'usabilità per tutti degli artefatti e così via. Il design significativo contemporaneo - non dunque le piccole variazioni stilistiche e formali sull'esistente, bensì quello basato sull'idea di innovazione tipologica, d'uso, tecnologica e anche estetica - è fruito secondo modalità in sostanza "anonime" e low profile: chi conosce il designer Apple o chi pensa alla tecnologia come opera d'arte o anche solo come uno status symbol? Senza parlare della crisi delle tipologie di oggetti ostentativi a favore di valori d’immaterialità, appartenenza e, ancora, il muoversi verso logiche di accesso, e non più possesso, sharing, open, crowd e così via. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un'evoluzione del design in chiave sempre più democratica e


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orizzontale. Oggi l'oggetto di design, infatti, non è più soltanto un lusso per pochi. Crede che in questo modo il design venga svilito e svuotato del suo valore artistico o piuttosto reso più accessibile e alla portata di tutti? Il design è democratico. Anche la logica contemporanea di affermazione di nicchie di mercato - “siamo passati da un mercato di massa alla massa dei mercati”, dice Chris Anderson, direttore di Wired - si muove nella direzione di rispondere a esigenze mi-

rate e specifiche, alle necessità di ciascuno. Il "valore" del design sta nella capacità di rispondere a bisogni, desideri o quant'altro, ma è un meccanismo complicato difficilmente pianificabile, spesso legato a "intangible assets", fra cui certo anche in senso lato l'estetica, che è un elemento obbligato e necessario, ma non esclusivo. Sempre più spesso si sente parlare di design e designer, con il rischio poi di abusare di tali termini e di banalizzare e sminuire la qualità e la professionalità del settore. Secondo lei, quali sono le caratteristiche che aiutano a riconoscere il “vero” design? Lo storico dell'architettura e del design Giovanni Klaus Koenig diceva che la qualità del design ha a che fare con innovazione, estetica ed "effetto sociale positivo". Se da un lato il design è il collante di tutte le fasi di progettazione che compongono un oggetto, dall'altro è pur vero che ogni industrial designer è specializzato in un settore specifico, in linea con i propri gusti personali e le proprie competenze. Quali sono oggi i settori del design più richiesti dal mercato?

I settori significativi sembrano essere quelli collegati alle nuove tecnologie e ai nuovi media. Presso l'Università Iuav di Venezia - nella sede di San Marino di cui sono direttore - abbiamo avviato corsi di laurea magistrale dedicati a Interaction design e Motion graphic, il modo contemporaneo di intendere il design del prodotto e la comunicazione visiva. Gli artefatti tecnologici hanno bisogno di modalità di interazione avanzate e ben progettate. Gli oggetti tecnologici, la rete, i nuovi e i vecchi media, infatti, utilizzano sempre più le immagini in movimento che devono dialogare con testi, infografiche e così via. Credo sia fondamentale guardare con rinnovate conoscenze, approcci e sensibilità progettuali a quanto sta avvenendo ogni giorno attorno a noi. Sembra anche l'unico modo - e qui entriamo in un grande tema contemporaneo, particolarmente caro al nostro Paese - per "progettare" nuovo lavoro. z 59


PRIMO PIANO: OLISMO E DESIGN

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Intervista a Silvio Dolci e Marco Benadì, Presidente e Amministratore Generale di Dolci Advertising

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DA CAROSELLO A OGGI, SCOPRIAMO COME È CAMBIATA LA PUBBLICITÀ NEL NOSTRO PAESE.

LA FORZA DELLE IDEE ra il 3 febbraio del 1957 quando andò in onda per la prima volta Carosello, il contenitore di 5-6 spot pubblicitari che teneva incollati allo schermo i primi italiani a essersi dotati di un apparecchio televisivo nei primi anni del dopoguerra. Gli spot raccontavano storie, alcuni ricorrendo a sketch comici, altri puntando sui personaggi dei cartoni animati, altri ancora sfruttando la notorietà di canzoni e cantanti dell’epoca. La struttura narrativa ricordava quasi sempre quella delle favole: la storia vedeva un eroe e un cattivo che, attraverso l’uso del prodotto sponsorizzato, veniva redento. Il

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messaggio contenente la valorizzazione dei prodotti passava dagli slogan verbali, sempre uguali, alcuni dei quali fanno ancora parte della memoria collettiva degli italiani, il cui obiettivo era favorire il riconoscimento della marca e il suo imprimersi nella mente dei consumatori. Da allora sono cambiati i linguaggi, sono cambiati i messaggi che le marche vogliono comunicare e, soprattutto, sono cambiati il modo e i mezzi attraverso i quali comunicarli. Ma qualcosa, a parte il fatto che la pubblicità continua a essere uno specchio della nostra società e dei nostri consumi, è rimasto immutato dagli anni ‘50 a oggi. Lo scopriamo nell’intervista che segue, grazie alle parole di Silvio Dolci (SD) e Marco Benadì (MB), rispettivamente Presidente e Amministratore Generale di Dolci Advertising, una delle realtà più importanti nel panorama pubblicitario italiano. Secondo lei la comunicazione pubblicitaria è olistica o rimane un linguaggio specialistico? MB: Quasi tutte le agenzie propongono dei progetti

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di comunicazione integrata e interattiva, dove i diversi elementi (la pubblicità, l’ufficio stampa la presenza sui social, ecc) non rappresentano solo una parte dell’intero progetto ma si rafforzano e si arricchiscono l’uno con l’altro. Tutto l’insieme, inoltre, concorre a rafforzare l’idea centrale che deve essere comunicata e quanto più il sistema di comunicazione risulta armonico tanto più l’idea funziona. Tutto, nella comunicazione, ruota intorno all’idea centrale che va poi declinata nei vari linguaggi che l’azienda propone, e quando ciò funziona ci sono le premesse per un buon lavoro di marca. Oggi i consumatori sono più informati, più attenti, sono veri e propri partner. Danno pareri, giudicano, criticano, si tengono al corrente su Internet. Pensiamo al ruolo che piattaforme come Tripadvisor ricoprono nel settore dell’hotellerie, strumenti che non possono assolutamente essere sottovalutati. Un tempo, le aziende pensavano che bastasse fare promesse e presentare un prodotto “in grande” per riuscire a vendere. Oggi non è più così: il consumatore non vuole solo una descrizione del prodotto ma vuole sentire una storia raccontata con un tono e uno stile


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NON CAMBIA MAI sempre coerenti negli anni. In tutto questo risiede l’olismo della comunicazione pubblicitaria. Forse possiamo individuare anche un lato specialistico nel fatto che nel mercato della comunicazione, oggi, c’è una fitta parcellizzazione dei ruoli e delle competenze professionali. Questo aspetto, però, alle aziende interessa poco, per loro conta avere una comunicazione coerente, un’identità riconoscibile, ottenuta sfruttando la forza di ogni mezzo. E il pubblicitario deve saper orchestrare le varie competenze, i vari linguaggi e i vari strumenti della comunicazione attorno all’idea centrale. Come cambia l’approccio del pubblicitario nel realizzare una campagna a seconda dei clienti? Quali parametri vengono considerati quando si progetta una campagna advertising? SD: Dipende tutto dalla natura del prodotto e dalle caratteristiche dell’azienda. Ogni settore ha le sue peculiarità, per cui un’uniformità nella delineazione dei temi da comunicare non è possibile. È l’azienda, con i suoi obiettivi, i

Fondata nel 1962 da Silvio Dolci, con il nome “Studio Dolci”, l’agenzia conquista subito budget pubblicitari notevoli e clienti di fama internazionale. Grazie alla notevole crescita che conferma Dolci come una delle prime realtà italiane del settore, le agenzie diventano tre: Dolci Italia, Dolci International e Dolci Advertising, con un totale di 70 collaboratori. Nel 1968, Silvio Dolci fonda Dolci France nel cuore di Parigi. Primo italiano ad aver “osato” aprire un’agenzia all’estero, il suo lavoro viene presto ripagato, anche grazie all’effervescenza creativa dei suoi collaboratori, e in breve tempo Dolci France si colloca tra le più affermate agenzie francesi. A partire dal 1988, Silvio Dolci si dedica a un progetto più ampio, fondando nove agenzie che operano a livello internazionale. Nel 1991 si aggiudica il Leone d’Oro all’International Advertising Film Festival di Cannes, il massimo riconoscimento per il mondo della pubblicità. Dai primi anni del 2000 Dolci Advertising non ha fatto che consolidare il suo ruolo nel settore della comunicazione, curando campagne per clienti come Toyota, Nissan, BMW, con uno stile creativo che è sempre riuscito ad adeguarsi al mutamento della società e dei linguaggi. 61


PRIMO PIANO: OLISMO E DESIGN

suoi valori, le sue peculiarità a suggerire l’orientamento della comunicazione e del marketing. Non a caso, in Dolci lavoriamo seguendo un approccio su misura. Per ogni cliente svolgiamo un gran lavoro di marketing intelligence, ascoltiamo i consumatori, indaghiamo sul mercato di riferimento, individuiamo le peculiarità dell’azienda. Fatto questo studio, scriviamo un vero e proprio manifesto della marca, dove ne definiamo gli aspetti visivi e verbali, il tono e lo stile di comunicazione. Altro elemento fondamentale per noi, è il fatto di lavorare sia a contatto con l’imprenditore, sia con l’organizzazione aziendale fino ai punti vendita: questo, perché, se da un lato è vero che è la marca a creare attenzione su di sé, dall’altro lato è pur vero che i risultati commerciali si conseguono localmente. Ci deve essere una coerenza tra quello che la marca promette e il modo in cui viene comunicata all’interno degli store. Questa coerenza contribuisce notevolmente al successo del prodotto. Com’è cambiata la comunicazione pubblicitaria negli ultimi 60-70 anni? MB: Siamo orgogliosi di definirci un’agenzia indipendente nata nel periodo del debutto televisivo e attiva anche oggi nell’era delle nuove piattaforme digitali. In tutti questi anni, la principale evoluzione nel mondo della pubblicità si è avuta nei rapporti con le persone: una volta le marche promettevano e la gente si limitava ad ascoltare. Oggi il messaggio pubblicitario passa attraverso nuovi linguaggi, nuovi mezzi, nuove professionalità, ma quello che non cambierà mai è la forza delle idee, elemento centrale per noi pubblicitari. Non a caso, le aziende più forti nel mercato sono quelle che credono nelle idee che comunicano. Le idee consentono alle aziende di uscire dalla crisi rafforzate rispetto a quando ci sono entrate. Un cambiamento importante è legato al fatto che le aziende si sono rese conto del fatto che i loro clienti sono consumatori attivi, sempre connessi, 62

molto partecipi. Bisogna quindi innovarsi aprendosi verso una comprensione totale (una diagnosi dei processi e dei linguaggi in atto) e un dialogo verso i consumatori. Dialogo che deve assumere sempre più le forme dello scambio (cosa che avviene sui canali social) e del coinvolgimento. Non a caso si moltiplicano i tentativi di engagement del cliente attraverso la diffusione di carte di fedeltà o di questionari per la raccolta delle opinioni. Un tempo la pubblicità compariva solo in Tv, sulla stampa e sulle affissioni stradali. Oggi ci s o n o a nche i nuov i media come Internet e i social network. Quali novità ha portato questo cambiamento? SD: Sicuramente la novità principale consiste in un ampliamento delle informazioni che vanno ripartite sul mercato. Le caratteristiche dei vecchi media oggi sono completate e ridimensionate dai nuovi mezzi di comunicazione che stanno quasi prendendo il sopravvento. Questo si riflette anche sulle dimensioni degli investimenti: ormai s’investe su Internet e sui nuovi canali quasi quanto sui media tradizionali. Come immagina la pubblicità del futuro? MB: I nostri comportamenti di acquisto non possono prescindere dal contesto in cui viviamo. Le marche devono tenerne conto e, nel futuro, devono ripartire dal prodotto, dalle sue peculiarità, devono soddisfare il bisogno dei consumatori di saperne sempre di più. Dobbiamo quindi obbligare le aziende a dire sempre di più sul prodotto, non limitandosi a descriverlo


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ma fornendo il racconto di una storia concreta, vicina al mondo dei consumatori. Se siamo troppo didascalici annoiamo, se rimaniamo troppo impalpabili risultiamo distanti e non avviciniamo le persone. Dolci Advertising ha realizzato diverse campagne per aziende del settore automotive. In quel caso cosa si è voluto comunicare e come è stata progettata la campagna? SD: Abbiamo avuto l’onore di lavorare con grandi marchi, aziende di prodotto, società di servizi, imprenditori italiani coraggiosi ma anche brand planetari. Nel settore auomotive abbiamo seguito oltre quindici case automobilistiche. Abbiamo cominciato a lavorare con loro negli anni Novanta, anni in cui la conoscenza del consumatore, del mercato e della concorrenza, i cambiamenti sociali e culturali diventavano elementi indispensabili per la realizzazione di una campagna integrata di successo. Le abbiamo affiancate anche nella gestione del post vendita, instaurando un vero e proprio rapporto a 360 gradi. E con alcune di loro abbiamo fatto ricorso a codici rivoluzionari per i tempi e per il settore dell’automotive, anticipando il concetto di low cost/high value. Concetto che sarebbe esploso di lì a poco tempo e che, nel caso dell’automobile, oggetto che ci coinvolge quotidianamente, è molto importante. Così facendo, grazie a una rinnovata attenzione al risparmio, il brand è stato anche percepito come portatore di un patrimonio di valori che comprende anche il divertimento e l’attitudine etica ai consumi. z 63


STORIE DI QUALITÀ: COELUX

IL PROGETTO CHE “FA LUCE” SULLA NATURA AVRESTE MAI PENSATO DI POTER AVERE CIELO E SOLE SEMPRE A PORTATA DI MANO? È QUELLO CHE HA FATTO UN GRUPPO DI SCIENZIATI, IL CUI INTENTO ERA RICOSTRUIRE IL FENOMENO DELLA LUCE NATURALE PER FAVORIRE IL BENESSERE DELL’INDIVIDUO NEGLI SPAZI BUI. 64


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Intervista al Prof. Paolo Di Trapani, fondatore e CEO di CoeLux

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a scienza e la tecnologia, come l’arte, ci consentono di riprodurre la realtà, mettendo in scena le leggi che riteniamo valgano in natura. Come in teatro, lo spettacolo non sostituisce la realtà, ma spalanca una finestra attraverso la quale scopriamo il mondo come non lo abbiamo visto mai.

Con queste parole, il professor Paolo Di Trapani definisce CoeLux, progetto di ricerca che negli ultimi mesi ha raccolto numerosi consensi in tutto il mondo, compresi quelli della Commissione Europea.

Che cos'è CoeLux e come funziona? La tecnologia alla base di CoeLux consente di ricreare lo spazio composto da cielo e Sole, applicabile in posti e situazioni che sono privi di luce. Un risultato importante, per noi umani che non siamo fatti per vivere al buio ma siamo da sempre abituati alla luce outdoor. CoeLux ricrea la percezione del cielo e del Sole non solo riproducendone l’immagine ma ricostruendo i meccanismi fisici che permettono la diffusione della luce. In sintesi, è come avere a disposizione un modellino del cielo, un’atmosfera tascabile. Ovviamente la ricostruzione non è un processo semplice: per “costruire” il Sole, ad esempio, si è resa necessaria la realizzazione di un proiettore in Led capace sia di riproporre le spettralità e la brillantezza della luce solare e sia di illuminare in modo direzionale come fanno i raggi solari. Per rendere questa direzionalità abbiamo sviluppato delle ottiche che colorano le ombre come accade in Natura.

Il risultato di questa ricostruzione è duplice: innanzitutto, è possibile illuminare un ambiente buio come se ci fosse una finestra; inoltre, guardando da questa “finestra” si percepisce uno spazio infinito. Tuttavia, l’obiettivo di CoeLux non è solo creare comfort ma aprire gli occhi verso la natura, dato che noi ormai la diamo per scontata e non siamo più in grado di guardare e apprezzare la luce naturale. E la cosa meravigliosa è che si riesce a guardare e capire la natura grazie all’apporto della tecnologia!

Come nasce l'idea di creare uno strumento in grado di riprodurre la luce solare? L’idea è nata quando io, ottico e dunque abituato a lavorare immerso nel buio dei laboratori, mi sono reso conto (complice la lettura di Light and Colours in the outdoors di Marcel Minnaert) che non conoscevo nulla riguardo alla luce naturale. 65


STORIE DI QUALITÀ: COELUX

Per orgoglio mi sono chiuso in laboratorio e ho ricostruito in piccolo (come fosse una scenografia) i fenomeni naturali di cui parlava Minnaert. Quando ho aperto la finestra e ho guardato fuori è stato come se avessi aperto gli occhi per la prima volta, come se fino a quel momento avessi visto tutto in bianco e nero. È stata la prima volta in cui mi sono reso conto che la tecnologia, così come l’arte, riesce ad aprire una finestra sulla realtà. In seguito,con il mio team abbiamo preso parte a mostre ed eventi sia in Italia e sia all’estero come, ad esempio, “Di luce in luce” (Light in Light), a Vilnius, dove abbia-

vi. Pensiamo anche ai palazzi molto grossi, dove gli uffici sono spesso lontani dalle finestre o, ancora, ai laboratori delle camere bianche, alle stazioni orbitanti degli astronauti, alle sale operatorie. Per non parlare dei reparti di diagnostica e radioterapia degli ospedali che spesso si trovano sot-

toterra. A questo proposito, ormai è risaputo che, nel processo di guarigione, la condizione psicologica è fondamentale e la luce ha sicuramente un impatto positivo sull’individuo.

CoeLux ha realizzato tre diverse scenografie di luce: CoeLux 60, per gli amanti della luce tropicale; CoeLux 45, per chi predilige la fascia mediterranea; CoeLux 30, per gli appassionati dei paesi nordici

CoeLux S.r.l. è una start-up tecnologica fondata dal professor Paolo Di Trapani dell’Università dell’Insubria. Ha sede a Lomazzo all’interno del Parco Scientifico Tecnologico ComoNext, progetto promosso dalla Camera di Commercio di Como che si pone l’obiettivo di facilitare lo sviluppo e la competitività delle imprese del territorio promuovendo in esse la cultura dell’innovazione. CoeLux è un progetto di ricerca finanziato dall’Unione Europea, selezionato dalla Commissione Europea tra i 12 progetti tecnologicamente più innovativi in Europa.

mo ricostruito tutte le condizioni climatiche e naturali della luce con macchinari e sistemi hardware.

Come potrebbe essere impiegato CoeLux nella vita di tutti i giorni e con quali vantaggi? Ci sono tanti spazi privi di luce: si pensi alle aree benessere di spa e alberghi, alle stazioni della metropolitana, agli ascensori, alle cabine delle na66


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Pensa dunque che CoeLux potrebbe essere impiegato per curare alcuni disturbi legati alle variazioni di luce, come ad esempio la depressione?

È stato provato che esiste una connessione tra la mancanza della luce e i disturbi come, appunto, la depressione. Non a caso riceviamo tante ri-

lone della fiera Light&Building di Francoforte: Lux Review, la rivista internazionale di design ed efficienza energetica in ambito illuminazione, ha classificato CoeLux al terzo posto tra i 10 progetti più innovativi presentati durante la manifestazione.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro? Il progetto di ricerca CoeLux è stato f i n a n z i a t o d a l l ’ U n i o n e E u ro p e a nell’ambito del settimo programma quadro di ricerca e sviluppo ed è stato selezionato dalla Commissione Europea tra i dodici progetti più in-

chieste dai paesi del Nord. Inoltre abbiamo ipotizzato che CoeLux possa contribuire a migliorare la sostenibilità degli ambienti e degli edifici. Sostenibilità intesa come vivibilità, gradevolezza e benessere per l’uomo. Inoltre, lo spazio di CoeLux non consuma, dunque favorisce il risparmio energetico.

Il lancio sul mercato è previsto per la fine del 2014. Vi aspettavate un tale successo? No, però lo speravamo. Questo grazie al forte successo che abbiamo ottenuto all’edizione 2014 del Fuorisa-

novativi presentati alla Innovation Convention di Bruxelles lo scorso marzo. Durante la Convention CoeLux è stato definito uno dei migliori progetti a livello europeo degli ultimi anni. Attualmente, però, ci sentiamo ancora all’inizio della scoperta e lo studio di CoeLux richiederà ancora per parecchio tempo l’apporto di contributi esterni, per esempio da parte di designer e architetti che credano nell’importanza di ricreare uno spazio che aiuti le persone ad aprire gli occhi sulla Natura e aiuti a comprendere il funzionamento dell’universo. z 67


QUALITÀ DELLA VITA: STILE DI VITA

GIOCARE CON LA SCIENZA TOCCARE, ESPLORARE, RIPRODURRE FENOMENI NATURALI, RITROVARE L’INCANTO DAVANTI ALLA BELLEZZA DELLA NATURA, SPERIMENTARE DIVERTENDOSI PER VIVERE IL PIACERE DELLA RICERCA E RIPERCORRERE L'AVVENTURA DELLA SCIENZA. È QUESTA L’OFFERTA DEL MUSEO “L’IMMAGINARIO SCIENTIFICO”. PER SAPERNE DI PIÙ ABBIAMO INTERVISTATO IL DIRETTORE, FABIO CARNIELLO.

piegare ai bambini e ai ragazzi in modo comprensibile e divertente la struttura del DNA, il Genoma umano o la teoria del caos: è una sfida che l’Immaginario Scientifico di Trieste, ogni giorno, dal 1999, attua con successo e con l’intento di far conoscere il piacere della ricerca e gustare il sapore della scoperta. L’Immaginario Scientifico (IS), il museo della scienza interattivo e multimediale del Friuli Venezia Giulia, appartiene alla tipologia dei “musei di nuova generazione”, ovvero dei science centre di scuola anglosassone che rivoluzionano le modalità tipiche di un museo tradizionale e lo trasformano in un luogo vivo, dove il visita-

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tore interagisce con gli oggetti presenti e con gli ambienti museali. Nella sede di Trieste sono tre le sezioni principali: Fenomena, Kaleido e Cosmo. Fenomena è l’ambiente che raccoglie la collezione di exhibit hands-on (postazioni interattive), organizzato secondo specifici percorsi tematici (Moti, Luci e ombre, Specchi, Forme, Suoni, Percezioni), dove i visitatori possono confrontarsi liberamente con una serie di oggetti da toccare e con cui giocare, per avvicinarsi in modo piacevole ai fenomeni naturali e scoprire le leggi fisiche che li governano: dal tornado di vapore al vortice d’acqua gigante, dalle bolle di sapone al deserto in scatola,

agli specchi deformanti ecc. Kaleido è l’originale spazio immersivo che ospita le spettacolari mostre temporanee multimediali proiettate su maxischermi; postazioni interattive e musiche originali danno vita a un luogo che unisce il contenuto scientifico al coinvolgimento emotivo. Cosmo è il planetario che permette di scoprire le meraviglie della volta celeste: le costellazioni, i pianeti, il movimento apparente del Sole.


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Come spiegare la scienza e quali le difficoltà? Il problema più difficile da affrontare quando si comunica la scienza è abbattere il pregiudizio che la scienza e la tecnologia siano appannaggio di pochi “addetti ai lavori”. Accanto a quello della “difficoltà”, lavora poi spesso un altro pregiudizio, ovvero che il sapere scientifico sia anche “definitivo” e freddo, che tolga poesia e magia al mondo. Noi crediamo invece che la scienza, con i suoi straordinari modi di guardare e raccontare la vita, i fenomeni naturali e anche noi stessi, apra nuove finestre su insospettabili, poeticissimi panorami. Tutti possono farci scorrere lo sguardo, l’unico requisito è la curiosità e la voglia di conoscere. Quali sono i progetti di maggior successo dedicati alle scuole? Abbiamo fondamentalmente due tipi di attività per le scuole: quelle rivolte soprattutto agli studenti accompagnati dagli insegnanti e quelle pensate per l’aggiornamento degli insegnanti.

Tra le prime, oltre ai servizi di visita guidata alle esposizioni interattive, al planetario e alle mostre temporanee, svolgono un ruolo fondamentale e raccolgono un notevole successo i servizi di animazione didattica laboratoriale e sperimentale svolti nelle salette polifunzionali del museo. Grazie all’uso di piccoli apparati sperimentali e allo svolgimento di una serie di piccoli esperimenti, si affronta uno specifico tema nelle discipline della biologia, della chimica, della fisica, della matematica, dell’astronomia, dell’ecologia o delle scienze della terra o della vita. Visite e attività propongono poi ai partecipanti di avvicinarsi ad alcune tematiche scientifiche con modalità pratica, informale e giocosa. Si tratta di una metodologia, ormai consolidata e rodata da decenni di sperimentazione in tutto il mondo, che ha senza ombra di dubbio una grande efficacia comunicativa e di coinvolgimento dei partecipanti e che ben si presta ad essere attività complementare e di supporto all’attività scolastica tradizionale. Quali strategie vengono utilizzate per attirare l’attenzione dei visitatori? Le linee guida fondanti dei nostri science centre sono l’interattività, l’esperienzialità e il coinvolgimento emotivo del visitatore. Questi principi ispiratori generali vengono declinati di volta in volta in base alle attività e alla proposta contenu-

tistica e didattica. Altro elemento importante è l’aggiornamento dei contenuti in modo da offrire nuove occasioni di visita e di coinvolgere pubblici diversi. Cerchiamo quindi di aggiornare costantemente i contenuti museali, con nuove mostre, nuovi laboratori, nuovi servizi. Quale area gode di maggior successo per i visitatori? Le sezioni interattive dei nostri musei riscontrano sempre molto successo fra i visitatori, che possono toccare e manipolare gli exhibit, intuire, sperimentare, scoprire. Ne sono attratti sia i bambini, naturalmente portati alla sperimentazione e all’esplorazione, sia gli adulti, che possono riscoprire il lato più giocoso e stupefacente della scienza e della natura. Quando iniziare un lavoro di tipo sperimentale per sviluppare il pensiero scientifico nel bambino? Scienza e atteggiamento scientifico sono prima di tutto osservare e sperimentare, fare domande e ipotizzare risposte da testare, di nuovo, con sperimentazione e osservazione. La conoscenza “sperimentale” è il nostro modo originario di conoscere il mondo e anche noi stessi. Guardare, dedicare attenzione a un evento o a un oggetto, allungare le mani e toccarlo, giocarci, mettersi in relazione con esso, “interrogarlo” e “produrre teorie” sulla regolarità e la causalità degli eventi, è attività naturale del neonato. Potremmo dire che nasciamo “naturalmente sperimentatori e scienziati indagatori” e solo poi, crescendo, diventiamo “culturalmente ri-assemblatori di risposte e di saperi acquisiti”. Certo, anche la scienza è

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QUALITÀ DELLA VITA: STILE DI VITA

GLI ITINERARI DELL’IMMAGINARIO SCIENTIFICO L’Immaginario Scientifico propone diversi tipi di itinerari nelle proprie sedi, a seconda delle particolarità della struttura. A Trieste e a Pordenone i musei propongono un percorso attraverso le postazioni interattive (i caratteristici “exhibit hands-on” dei science centre di scuola anglosassone), divise in aree tematiche. Inoltre, in entrambi i musei è presente una sezione dedicata alle mostre multimediali temporanee, caratterizzate da proiezioni su maxischermi di immagini e brevi testi che scorrono a ritmo di musica, su temi di maggiore attualità scientifica. È infine presente un planetario, dove vengono effettuate visite guidate alla volta celeste. A Malnisio di Montereale Valcellina, l’Immaginario Scientifico si trova all’interno di una prestigiosa ex Centrale idroelettrica. Qui è quindi possibile effettuare un percorso di tipo storico, attraverso i macchinari originali, come le turbine “Francis” e gli alternatori, la sala comandi e le apparecchiature di comando e di gestione, le grandi foto d’epoca e gli altri pregevoli reperti presenti. All’interno della Centrale, nella sezione dell’Immaginario Scientifico dedicato alle postazioni interattive, i percorsi tematici sono dedicati agli specchi, ai movimenti e giravolte, alle geometrie della gravità, alle correnti e calamite e a luci e ombre. Nel Geo Centre Immaginario Geografico di Malnisio, gli itinerari sono dedicati a geografia, territorio e ambiente. L’elemento espositivo principale del nuovo centro visite è rappresentato da gigantesche foto aeree (ortofoto), calpestabili indossando le apposite soprascarpe e sulle quali si può camminare o distendersi per vedere ogni dettaglio (aiutati da grandi lenti). Il Geo Centre si trova all’interno dell’ex latteria sociale di Malnisio. Sono quindi esposti piccoli e grandi oggetti che raccontano la storia della latteria e delle persone che vi hanno lavorato. Infine, il Dida Centre Immaginario Didattico di Adegliacco – allestito all’interno di un ex mulino – si presenta come centro di didattica delle scienze proponendo, sul modello delle altre sedi IS, una serie di laboratori tematici per le scuole e un programma di attività ludo-didattiche per bambini, nei fine settimana. A questi percorsi laboratoriali e sperimentali si aggiunge la visita al mulino – per il momento solo su prenotazione per gruppi e scuole – con il suo sistema-macchine perfettamente restaurato. Nello spazio verde antistante l’edificio, L’Immaginario Scientifico propone un percorso museale “all’aperto” sui temi della riflessione, della geometria e della matematica, costituito da specchi e installazioni di grandi dimensioni, belle da vedere e piacevoli da toccare, scoprire e studiare.

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IMQ NOTIZIE n. 100

fatta di saperi acquisiti ma è proprio la sua “ideologia sperimentale e indagatrice” che le permette di rimanere viva e di essere così potente e inesauribile. Quando l’educazione alla scienza si allontana dall’esperienza diretta diventa sopra ogni cosa noiosa e oscura, ostica e respingente. La scienza a scuola diventa sempre più un sapere da mandare a memoria e da “capire” in astratto: farla così è come voler insegnare la musica raccontandone la storia o spiegando le regole

dell’armonia, senza far ascoltare nemmeno un brano musicale o senza far mettere le mani su un qualche strumento. Il cosiddetto “pensiero scientifico del bambino” è la sua “attrezzatura di dotazione” e va solo accompagnato e sostenuto, messo di fronte a fatti e fenomeni man mano più complessi, ma sempre in via sperimentale. Più che il problema di quando iniziare, direi quindi che il vero problema è quando non-iniziare a smettere. z

L’IMMAGINARIO SCIENTIFICO

FABIO CARNIELLO 48 anni, con un percorso formativo che mescola la preparazione tecnica del biennio di Ingegneria a quella umanistica di Lettere e Filosofia e una tesi in Storia della Scienza, Fabio Carniello, tra il 1990 e il 1997 ha operato in vari campi che vanno dal giornalismo alla grafica, dalla didattica musicale alla produzione audiovisiva e multimediale, dall’organizzazione di eventi culturali alla progettazione e programmazione di archivi digitali. Giunge all’Immaginario Scientifico sul finire del 1996 e ne diventa direttore nel 1998 curando la progettazione organizzativa della nuova sede di Grignano, inaugurata nel 1999. A essa seguiranno le aperture delle altre 4 sedi regionali dell’IS nel 2007, 2008, 2011 e 2012. In questo periodo ha ricoperto vari incarichi nel campo della museologia e della promozione culturale scientifica tra i quali ricordiamo la direzione artistica di FEST - Fiera Internazionale dell’Editoria Scientifica di Trieste nelle due edizioni 2007 e 2008 e Scienzartambiente - Festival della scienza di Pordenone dal 2009 a oggi.

Oltre 800.000 i visitatori totali delle sedi, con una media annua di circa 62.000 visitatori di cui 40.000 utenze scolastiche. 19 sono le mostre multimediali originali realizzate internamente, alcune delle quali riproposte in versioni aggiornate e ampliate, per un totale di 27 mostre presentate al pubblico. Oltre 40 esposizioni, 300 interventi di animazione didattica e 30 allestimenti di percorsi interattivi effettuati in Italia e all’estero, dal 2003 al 2013, per un totale di circa 350.000 partecipanti. Uno staff di 70 professionisti impegnati nella progettazione, management, divulgazione, didattica, marketing e comunicazione, con un’età media di 31 anni. L’80% di essi è laureato o laureando (il 35% in materie scientifiche). 71


QUALITÀ DELLA VITA: VIAGGI

C’È “TU”RISMO E “TOUR”ISMO

IL VIAGGIO NELL’ERA DEL WEB 2.0 È SEMPRE PIÙ FAI-DA-TE E SI RACCONTA SUI SOCIAL NETWORK

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l viaggio è un tema che affascina l’essere umano da tempi immemorabili. Il susseguirsi delle stagioni e l’inarrestabile evoluzione delle civiltà hanno comportato un mutamento nel concetto di viaggio, da sempre specchio che riflette i problemi, i sogni e le paure degli uomini protagonisti dei loro tempi. L’importanza del viaggio, quale opportunità di varcare nuovi confini

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non solo per scopi commerciali, ma soprattutto per diffondere la propria cultura e la propria conoscenza, era cosa ben nota ai padri della civiltà moderna ed è questa consapevolezza che ha, di fatto, contribuito all’evoluzione dell’uomo e alla costruzione della sua identità. Nell’era contemporanea la voglia di scoperta è stata più facilmente saziata dall’avvento della tecnologia e dalla sferzata d’innovazione che ha investito la seconda metà degli anni Novanta con la diffusione dei computer, dei cellulari, dei canali satellitari e soprattutto di Internet. Il mondo appare all’improvviso più piccolo e la cosiddetta globalizzazione dei mercati favorisce uno scambio ininterrotto e sempre più ampio di persone, merci, denaro, conoscenze e idee, rivoluzionando più di altri il modo di viaggiare. Paradossalmente proprio la crescente interconnessione tra persone, luoghi e culture ha aumentato la curiosità, lo spirito di avventura e la voglia di immergersi nei diversi stili di vita locali, tramutando così il turismo di massa in un fenomeno molto più sfaccettato, che si plasma in base alle passioni e agli interessi del nuovo viaggiatore. Il viaggio si allontana


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con sempre maggiore forza dalla dimensione olistica che lo avvolgeva e predilige i nuovi micro mercati, o mercati di nicchia, caratterizzati da una domanda sempre più mirata ed esigente. In tal senso, il marketing, cui obiettivo primario è offrire prodotti, servizi ed esperienze in grado di soddisfare le esigenze del singolo cliente, provvede a creare pacchetti ad hoc, coupon o gift box che facciano fronte alle più attuali forme di turismo: da quello culturale per gli amanti dell’arte a quello responsabile che combina la passione del viaggio con il rispetto dell’ambiente; dal turismo enogastronomico e rurale che si rivolge a chi vuole riscoprire i piaceri della terra al turismo sportivo, pensato per i temerari degli sport estremi e del tempo libero, fino al turismo del benessere che cura il corpo e lo spirito con spa e centri termali. Come anticipato, alla progressiva segmentazione del viaggio concorre sempre di più Internet, ossia la stessa rivoluzione tecnologica che solo pochi decenni prima serviva a connettere molteplici comunità in un unico “villaggio globale”, e il più recente fenomeno dei social network. Grazie all’ICT, infatti, la figura del viaggiatore diventa tridimensionale: non viaggia più solo con la mente e con il corpo, ma anche in Rete e supera il tanto agognato tête-à-tête con il tour operator preferendo il viaggio-fai-da-te. La maggior parte dei turisti che si prepara all’esplorazione di una nuova terra, infatti, si affida sempre meno alle agenzie di

viaggio tradizionali, salvo nel caso in cui debbano affrontare viaggi più impegnativi che possono durare qualche mese o qualche settimana - il safari fotografico in Kenya, l’affascinante coast-to-coast emblema del sogno americano, il trekking mozzafiato sull’Himalaya o ancora il tour avventuroso nella foresta amazzonica - o per l’organizzazione di un viaggio di nozze oltreoceano. In questi casi, nonostante la provata efficienza delle OLTA, acronimo di On-Line Travel Agency, la gente preferisce affidarsi ad agenzie in carne e ossa in grado di guidarli nella scelta, consigliarli e, se necessario, rassicurarli. Tuttavia, all’infuori di queste eccezioni - in Italia, va ricordato, ci si sposa sempre meno e, complice la crisi economica, pochi si possono permettere costosi tour e safari all’estero - il progresso tecnologico ha inequivocabilmente rivoluzionato il modo in cui l’aspirante viaggiatore si relaziona con il Web e, se in passato si ricorreva a Internet solo per cercare informazioni e orari e comparare i prezzi di voli e alberghi da prenotare, oggi gli aspiranti Gulliver dell’epoca moderna se ne servono per scegliere da sé il proprio viaggio e modellarlo a forma e immagine dei propri gusti. L’aspirante viaggiatore si trasforma così da spettatore passivo ad attore protagonista e si scopre un pò turista, ma anche blogger, fotografo,

membro di una community, reporter. Sempre più spesso, infatti, prende spunto dalle foto che gli amici pubblicano sui loro profili Facebook, Flickr e Instagram o dai video che caricano sul loro canale Youtube, legge i racconti di viaggio scritti da travel bloggers sempre in giro per il mondo o segue i consigli degli opinion leaders digitali. La chiamano l’era del turismo 2.0, l’ennesima tappa evolutiva di un processo che, da Il Milione di Marco Polo e Viaggio in Italia di Goethe all’Ulisse di James Joyce fino a Sulla strada di Jack Kerouac e Le città invisibili di Italo Calvino ha consentito all’uomo di arricchire il proprio io e di conoscere l’altro. In un’era di socializzazione sempre più virtuale che rischia di alienare piuttosto che unire, il viaggio è forse l’unico strumento che mantiene ancora vivo un comune senso di fratellanza e di apertura al mondo. z 73


QUALITÀ DELLA VITA: HOBBY

iamo nell’era di Flickr, Facebook e soprattutto di Instagram, dove basta avere acquistato uno smartphone e scaricato una delle ultime applicazioni più di moda per improvvisarci fotografi, “filtrando” e “ritagliando” paesaggi, visi, momenti. Che poi pubblichiamo e condividiamo sui social, dove decine di follower commentano, esprimono il loro gradimento e magari, ispirati dalla immagine da noi appena postata, fanno altrettanto e, a loro volta, scattano, filtrano e condividono. Questo è l’aspetto più eclatante della massificazione della fotografia,

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quello che, forse più di tutti, ha contribuito all’appiattimento del ruolo delle immagini ai nostri tempi. Ma usare i filtri giusti non basta. E come ci rivela Roberto Tomesani, coordinatore della TAU Visual, è ancora possibile distinguere un vero fotografo dalla massa di improvvisati tali: non basta possedere una fotocamera di ultima generazione, perché la bravura risiede nel giusto mix di talento, sensibilità, creatività e capacità di comunicazione, un insieme di elementi la cui coesistenza fa la forza dell’immagine. Ma c’è dell’altro. Il vero professionista deve anche essere pienamente consa-

pevole del fatto che ogni ambito fotografico possiede un suo linguaggio specifico. Ecco quindi che, per sopravvivere alla massificazione e all’appiattimento odierni, il fotografo e la bella fotografia devono collocarsi nel giusto equilibrio tra olismo e specializzazione. Una bella fotografia è il frutto di tanti elementi assemblati con cura: la scelta del soggetto, l'uso di una buona luce, la selezione dei colori. La tecnica, però, senza creatività non serve a nulla. Qual è il processo creativo che vi sta dietro? Partiamo da una premessa. La condi-


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UN

“OBIETTIVO”

OLISTICO

SCOPRIAMO COME, NELL’ERA DI INSTAGRAM, NON ABBIA SENSO PARLARE DI “FOTOGRAFIA” IN GENERALE, E COME LE NUOVE TECNOLOGIE ABBIANO CAMBIATO RADICALMENTE IL RUOLO DEL FOTOGRAFO. Intervista a Roberto Tomesani, Coordinatore Generale dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual

visione delle immagini in Rete e, in generale, la massificazione che oggi si fa dell’uso delle immagini ci hanno portato erroneamente a considerare la fotografia come un linguaggio unico, un tutt’uno. Non è così, ogni ambito ha le sue caratteristiche: la fotografia giornalistica, ad esempio, è diversa da quella creativa che a sua volta è diversa da quella pubblicitaria, ecc. Quello che può andare bene per le immagini da pubblicare su Facebook non va bene per la carta stampata; ogni ambito fotografico utilizza i suoi codici specifici. Di conseguenza, non esiste un modo unico con il quale possa essere descrit-

to un corretto percorso creativo, in ambiti fotografici diversi. Il processo creativo non è affatto omogeneo. La fotografia professionale non rappresenta un territorio unico, sul quale valgano regole universali; e questo avviene perché la professione si espleta, di fatto, in decine e decine di differenti ambiti di specializzazione, ognuno dei quali ha le sue regole e caretteristiche. La fotografia è un'arte che si può imparare o un talento naturale? La fotografia è paragonabile alla bellezza di una persona: per certi versi, è innegabile che esista un patrimonio genetico che la determina e che viene

consegnato dalla natura; d'altro canto, però, ognuno può imparare il proprio modo di porsi, di agire, di farsi percepire. In fotografia avviene qualcosa di simile : si parte sicuramente da un talento congenito di genialità visiva, all’interno del quale si inserisce l'esperienza e l'acquisizione di competenze, che si sviluppano con il tempo. Helmut Newton disse: "Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare: tre concetti che riassumono l'arte della fotografia". Per lei che significato ha la fotografia? Fotografia significa soprattutto

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QUALITÀ DELLA VITA: HOBBY

potere contare su delle potenzialità comunicative che nessun altro mezzo ha. Rispetto a quanto accade con gli altri media, infatti, nella fotografia la comunicazione passa immediatamente, senza la necessità che il ricevente sia consenziente ad esporsi al messaggio, che incontra ben poche barriere culturali. Chi guarda un’immagine ne coglie infatti immediatamente il messaggio quasi senza possibilità di difesa. Che rapporto si instaura tra il fotografo e il mondo che cerca di rappresentare attraverso le foto? Il fotografo può considerarsi tale quando ha sviluppato una reale empatia, e riesce a trasmettere ad altri con efficacia la sua percezione del mondo che lo circonda... Ovviamente, per ottenere questo genere di risultato, occorre che l'abilità empatica sia sostenuta anche da un'oggettiva creatività. I puristi della fotografia tradizionale guardano con scetticismo alla fotografia digitale. In un'intervista a “Il Sole 24 Ore” del 2010 Gianni Berengo Gardin l'ha definita "scatti artificiali privi di pensiero". Lei da che parte si schiera? Non mi schiero perché ormai ha poco senso farlo per chi vive questi anni. Sono d’accordo con l’amico Berengo quando afferma che utilizzare i mezzi più moderni spesso induca a produrre immagini frettolose e non sostenute da un reale pensiero. I costi e i tempi della fotografia analogica obbligavano a rallentamenti e selezioni nel processo descrittivo delle immagini che oggi non si pongono più in atto. Oggi non

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abbiamo più a che fare con i rullini da 36 scatti. Grazie alle fotocamere digitali, non esiste praticamente limite alla quantità di immagini realizzabili; possiamo guardarle subito e, se non ci soddisfano, possiamo cancellarle e rifarle. Il fatto di disporre di uno strumento di questo genere, tuttavia, non impone di utilizzarlo sempre, ed acriticamente. Possiamo scegliere di dedicare tempo e ponderatezza ai nostri scatti. Ècome se, pur possedendo un'automobile, si scegliesse di non correre, ma di fare una bella passeggiata a piedi e soffermarci, prendere il giusto tempo per osservare, pensare. Il digitale, che ha semplificato l'uso delle macchine professionali, e il photosharing, che ha reso tutti noi un po' più "fotografi", come hanno cambiato il ruolo del fotografo? Il ruolo del fotografo è completamente cambiato di senso e di natura. Un tempo era sufficiente che le fotografie "venissero bene". Oggi, per mantenersi come fotografo professionista, servono doti comunicative, conoscenze e altri elementi molto

più estesi della semplice capacità di fare foto. Le fotocamere attuali possiedono funzioni ed automatismi che compensano la scarsa capacità di ottenere immagini tecnicamente valide. Il digitale ha reso in molti casi inutile la padronanza di alcune conoscenze, che prima erano riconosciute di appannaggio esclusivo del fotografo e, come tali, vendibili. Nell'attuale realtà professionale continua ad avere spazi chi sa mettere in campo delle sinergie offrendo altro, oltre la semplice competenza fotografica: un fotografo di moda, ad esempio, per avere realmente qualcosa da "dire" nel suo ambito deve amare la moda in sé e per sé, e non solo - banalmente - amare la fotografia. Non basta che ritragga le modelle come belle donne che indossano begli abiti. Un bravo fotografo di moda deve amare e conoscere realmente quel settore, coniugando questa passione con la capacità e la sensibilità fotografica. z

ROBERTO TOMESANI

È IL COORDINATORE GENERALE DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE FOTOGRAFI PROFESSIONISTI - TAU VISUAL, DI CUI È ANCHE IL FONDATORE. COORDINATORE DI CORSI PROFESSIONALI DI FOTOGRAFIA DELL’ISTITUTO EUROPEO DI DESIGN DI MILANO È ANCHE MEMBRO DELLA COMMISSIONE ESPERTI DEGLI STUDI DI SETTORE DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE, PER LA FOTOGRAFIA PROFESSIONALE. È PERITO (CTU) DEL TRIBUNALE DI MILANO PER “FOTOGRAFIA PROFESSIONALE, UTILIZZI DI IMMAGINI FOTOGRAFICHE IN PUBBLICITÀ ED EDITORIA, DIRITTO D’AUTORE CONNESSO ALLE IMMAGINI" E CONSULENTE TECNICO DELLA CAMERA DI COMMERCIO DI MILANO. È IL RELATORE (CIOÈ IL MATERIALE ESTENSORE) DELLA NORMA UNI 11476:2013, RELATIVA ALLE "FIGURE PROFESSIONALI OPERANTI NEL CAMPO DELLA FOTOGRAFIA E DELLA COMUNICAZIONE VISIVA CORRELATA" È INOLTRE "VALUTATORE DI COMPETENZE E CONOSCENZE" PER LA CERTIFICAZIONE PERSONALE A NORMA UNI PER CONTO DI IMQ. È STATO CAPOREDATTORE DELLA RIVISTA PROFESSIONALE PROGRESSO FOTOGRAFICO E REDATTORE DELLE RIVISTE ZOOM, TUTTI FOTOGRAFI E FOTONOTIZIARIO. ATTUALMENTE È AUTORE DI 19 MANUALI MONOGRAFICI PROFESSIONALI , 4 MONOGRAFIE TECNICHE E DI OLTRE 1.700 ARTICOLI NEL SETTORE DELLA FOTOGRAFIA E DELLA COMUNICAZIONE VISIVA.


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QUALITÀ DELLA VITA: SALUTE

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LA DIETA PERFETTA?

È SCRITTA NEL TUO DNA INTERVISTA A PAOLO GASPARINI, PROFESSORE DI GENETICA MEDICA DELL’UNIVERSITÀ DI TRIESTE E PRIMARIO DELL’OMONIMO SERVIZIO DELL’OSPEDALE INFANTILE IRCCS BURLO GAROFOLO

hissà se gli scienziati Francis Crick e James Watson, che per primi nel 1953 svelarono il mistero della struttura del DNA, avrebbero mai immaginato che il nostro patrimonio genetico oltre a conservare biologia e memoria degli esseri viventi, sarebbe anche servito a individuare l’alimentazione perfetta per ognuno di noi. Il merito è da attribuire alla nutrigenetica, scienza che, combinando genetica e nutrizione, studia attraverso il test del DNA le caratteristiche strutturali di un individuo che influenzano la diversa risposta ai nutrienti. “La nutrigenetica - spiega il Prof. Paolo Gasparini - è una disciplina appartenente alla genetica, che mette in relazione il patrimonio genetico con l’alimentazione. Si occupa cioè di indagare il singolo individuo e le sue caratteristiche genetiche rapportandole a ciò che mangia e al suo metabolismo, e individuando le variazioni genetiche che caratterizzano ciascuno di noi rispetto ai cibi che as-

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sumiamo”. Immediata dunque l’associazione con il concetto di dieta intesa non tanto e non solo come dimagrimento, ma come corretta alimentazione e raggiungimento di un generale benessere per il nostro organismo. Su questi studi “L’Italia - afferma Gasparini - è sicuramente uno dei paesi in cui l’attività di ricerca sperimentale fra nutrigenomica e nutrigenetica è tra le più avanzate assieme a Germania, Inghilterra e Stati Uniti. È indubbio che nel settore della genetica del gusto e delle preferenze alimentari, i gruppi italiani sono decisamente all’avanguardia”. Ma che tipo di relazione esiste tra cibo e DNA? “È una relazione molto stretta e assolutamente interessante” spiega Gasparini. “Ognuno di noi, ad esempio, ha una capacità diversa, 79


QUALITÀ DELLA VITA: SALUTE

neticamente determinata, di percepire l’amaro. Esistono individui che percepiscono l’amaro in modo molto intenso, e altri che non lo percepiscono affatto. Ciò fa sì che questi due gruppi di persone scelgano alimenti diversi con ricadute importanti sulla salute. Per esempio, i soggetti che presentano variazioni genetiche che li rendono particolar-

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mente sensibili all’amaro tendono a eliminare dalla dieta tutta una serie di cibi come broccoli, radicchio e altre verdure amarognole, ma anche succo di pompelmo, cioccolato fondente, caffè. Per non correre il rischio di incappare in carenze alimentari è bene allora suggerire loro una dieta che comprenda fonti alternative di vitamine e sali minerali. Invece, le persone che tollerano l’amaro sono molto aperti a sperimentare e provare anche le cucine innovative”. I vantaggi sono molteplici e decisamente interessanti soprattutto in termini di prevenzione delle patologie. Che il cibo

sia la tua medicina, che la medicina sia il tuo cibo affermava Ippocrate, nella convinzione che gli alimenti fossero in grado di influenzare quello che lui chiamava il calore dell’organismo, cioè la genesi delle malattie. “Non dobbiamo mai dimenticare che la prevenzione di molte patologie inizia a tavola con una corretta alimentazione - conferma il professor Gasparini - e allora conoscendo perfettamente ciò che ti piace e l’impatto di questi alimenti sul metabolismo, è possibile formulare una seria strategia di prevenzione, individuando una dieta personalizzata”. Partendo dalle informazioni che ci fornisce il nostro codice genetico possiamo riorientare il metabolismo? “Sì e


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no, nel senso che il nostro codice genetico non è di per sé molto modificabile. Certamente gli alimenti stimolano i nostri geni e quindi sicuramente un determinato cibo può stimolare il gene A piuttosto che il B o il C. Ogni volta che mangiamo stimoliamo la risposta di enzimi e proteine che sono codificate dai geni. In futuro potremo sviluppare farmaci capaci di modulare direttamente l’azione dei geni coinvolti nel metabolismo stesso”.

È possibile operare per estensione anche nel settore delle intolleranze alimentari? “La genetica svolge un ruolo fondamentale in almeno due vere e proprie intolleranze alimentari che vanno distinte dalle allergie e cioè la celiachia, intolleranza al glutine, e l’intolleranza al latte e derivati dovuta alla carenza di un enzi-

ma che è la lattasi. In entrambi i casi c’è una forte componente genetica che può essere individuata in anticipo per iniziare subito con una serie di strategie di prevenzione”. Minori possibilità, invece, una volta che l’intolleranza si è manifestata. “Nel caso del deficit di lattosio - continua il professore - l’intolleranza può essere superata con la somministrazione dell’enzima mancante. Per la celiachia invece l’unica soluzione al momento è astenersi dall’assumere alimenti che contengono glutine”. E il futuro, cosa ci riserva? “C’è molto fermento in questo settore. Le attività di ricerca porteranno nel tempo verso un programma nutrizionale sempre più personalizzato in modo da favorire e facilitare un migliore stato di salute e di benessere generale dell’organismo”.

INTOLLERANZA E CELIACHIA L’intolleranza al lattosio è dovuta al deficit di produzione delle cellule intestinali del duodeno della lattasi, enzima deputato alla scissione del lattosio in glucosio e galattosio: si manifesta con disturbi gastroenterici che compaiono all’ingestione di alimenti contenenti questo zucchero.

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La celiachia o morbo celiaco è un' intolleranza permanente al glutine, sostanza proteica presente in frumento, farro, kamut, orzo, segale, avena, spelta e triticale. In Italia, l'incidenza della celiachia è in aumento: è stimata in un soggetto ogni 100-150 persone. I celiaci potenzialmente sarebbero quindi 600.000, ma ne sono stati diagnosticati a oggi quasi 150.000. Per curare la celiachia, attualmente, occorre escludere dal proprio regime alimentare alcuni degli io s alimenti più comuni, quali pane, pasta, biscotti e pizza, ma anche eliminare le più piccole tracce di to t glutine dal piatto. Questo implica un forte impegno di educazione alimentare. Infatti l’assunzioa l ne di glutine, anche in piccole quantità, può provocare diverse conseguenze più o meno gravi. no La dieta senza glutine, condotta con rigore, è l’unica terapia attualmente che garantisce al celiaco un perfetto stato di salute.

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QUALITÀ DELLA VITA: SALUTE

G-DIET, LA PRIMA

DIETA SENZA TABÙ POCHE LE RESTRIZIONI IMPOSTE DAI NOSTRI GENI Se mangiare intelligentemente è un arte, come sosteneva Francois de la Rochefoucauld, la G-diet, è qualcosa di ancora più evoluto. Calibrata sul patrimonio genetico e realizzata ad hoc per ognuno di noi, questa dieta è piuttosto un programma nutrizionale personalizzato che, partendo dalle caratteristiche strutturali prese in esame, consente di perseguire e mantenere il benessere in un’ottica preventiva, senza rinunciare a gusto, abitudini e preferenze alimentari. La G-diet è basata su dati scientifici consolidati e confermata da analisi empiriche. Recentemente sono stati compiuti test di valutazione clinica in

collaborazione con l’Università degli Studi di Trieste e un Centro sportivo e wellness, che hanno fornito dati interessanti. Cento persone in sovrappeso sono state sottoposte a un protocollo dietetico tradizionale e altrettante hanno seguito la G-diet. I successivi controlli a distanza di sei mesi, un anno e due anni, hanno evidenziato una perdita di peso decisamente più significativa e stabile nei soggetti che hanno deciso di seguire le indicazioni provenienti dal loro codice genetico. Ma in che cosa consiste la dieta? Il nutrizionista utilizza le informazioni genetiche sul metabolismo degli zuccheri piuttosto che sui carboidrati e poi propone un programma alimentare personalizzato. L’introito calorico non viene

modificato, ma la quantità e la qualità degli alimenti varia a seconda della reazione registrata dai propri geni al momento dell’assunzione di un determinato cibo. Per capire cosa si deve mangiare è sufficiente rivolgersi a un centro specializzato e richiedere un kit con il quale effettuare un test sulla saliva. Il prelievo di cellule dalla bocca si esegue con l’ausilio di un semplice bastoncino di ovatta e si invia nuovamente al laboratorio per l’analisi del profilo genetico. Al momento della risposta vengono indicati gli alimenti da prediligere perché pienamente compatibili e armonici col 82


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nostro DNA. La dieta sarà quindi piacevole - assicurano gli esperti - e non comporterà sacrifici eccessivi. L'apporto calorico giornaliero è differente per ogni soggetto e richiede un calcolo specifico. Si tengono in considerazione diverse variabili: peso iniziale, altezza, sesso, età, attività fisica (tipo di attività, frequenza settimanale, intensità, frequenza) e ovviamente il profilo genetico. Anche il rapporto tra proteine, lipidi e glucidi viene definito in relazione a

diverse variabili legate alla condizione del soggetto e al profilo genetico; è inoltre collegato a quello definito dalle linee guida per una sana alimentazione (secondo il modello della dieta mediterranea): proteine 10-15%, lipidi 2530%, glucidi 50-55%. Nella G-diet non esistono alimenti tabù, ma piuttosto cibi da limitare dal punto di vista quantitativo e della fre-

quenza di assunzione. Un primo esempio valido per tutti è il formaggio. La pizza può essere un altro esempio: può essere inclusa nel programma alimentare, per alcuni con una frequenza di una volta a settimana, per altri, invece, con frequenza ridotta, per esempio due volte al mese. z 83


QUALITÀ DELLA VITA: SPORT

SGUARDO SUL KUNG FU:

TRA MEDICINA, ARTI MARZIALI, BENESSERE INTERVISTA AL MAESTRO MARIO MANDRÀ*

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no sente dire Kung Fu e pensa subito a calci, pugni, occhi pesti e avversari mandati al tappeto. Nel migliore dei casi pensa a Bruce Lee, ai suoi spettacolari combattimenti coreografici e al cattivone di turno - sia esso un invasore giapponese o un boss della mala di Hong Kong - che viene sconfitto poco prima dello scorrere dei titoli di coda. Pochi sanno che Kung Fu non vuol dire necessariamente arte marziale e che dietro a questa espressione c’è una filosofia tuttora legata a doppio filo al benessere, alla medicina, alla pittura, alla meditazione, alla musica, alla calligrafia e, in generale, al modo in cui si sta al mondo, coltivando in se stessi e ricercando negli altri pazienza, tolleranza e rispetto. Un metodo completo, quindi, che coltiva corpo, mente, cuore e spirito e si pone come ottimo strumento per una crescita armonica dell’individuo. Lo stesso Bruce Lee, smessi i panni dell’eroe senza macchia che si batteva senza esclusioni di colpi, era un fine pensatore. “È la compassione più che il senso di giustizia che può evitarci di fare del male ai nostri simili”, amava ripetere ai suoi allievi, e questa è solo una delle massime contenute nel suo Il Tao del Dragone, antologia di scritti e interviste apparse sulla stampa dal 1958 al 1973 che rivelano un ritratto per molti versi inedito: eccezionale praticante di arti marziali, questo sì, ma anche (se non soprattutto) pensatore, filosofo e uomo dotato di un carisma non comune. La stessa espressione “kung fu” è og-

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getto di un curioso equivoco. Di solito lo si associa al concetto di stile di combattimento, quando invece la realtà è ben più ampia e articolata. “Con questo termine - spiega Mario Mandrà, uno dei più conosciuti e stimati maestri di arti marziali in Italia - i cinesi indicano qualsiasi abilità acquisita tramite un duro lavoro, in ogni campo dell’agire umano. Ad esempio, un cuoco che diventa chef dopo anni di gavetta, un ingegnere o un avvocato che giunge ai massimi livelli della sua professione, avranno tutti un buon kung fu”. Il kung fu, quindi, è il risultato di ogni percorso professionale, personale e umano che si affronta con perseveranza, pazienza, dedizione. E, soprattutto, tempo. Non a caso in Cina si usa dire che gli occidentali seguono tutte le luci, per indicare la nostra naturale tendenza a farci catturare da mode, suggestioni e passioni passeggere. “Lì è diverso. Quando una persona scopre un interesse o un particolare talento, lo segue, lo approfondisce e ci si dedica totalmente. Va in profondità, la studia e la esamina, sempre consapevole del fatto che più si sa, meno si sa. Quando poi si dedica tutta la vita, ha un buon kung fu”. Abbiamo incontrato il maestro a Milano, presso la palestra di cui è direttore tecnico, per parlare di Kung Fu come approccio olistico e di discipline orientali. Mentre ci racconta il suo percorso umano e professionale, ci rendiamo conto anche noi di come l’arte marziale sia solo uno dei tasselli che compone il percorso di ogni praticante di Kung Fu. Nella sala accanto si intravede un gruppo di studenti alle prese con il Qi Gong, disciplina collegata alla medicina tradizionale cinese che unisce respirazione, meditazione e particolari movimenti di esercizio fisico volti a migliorare la circolazione delle energie nel corpo e, di conseguenza, il benessere complessivo dell’individuo. In patria il Qi Gong è parte integrante del sistema sanitario nazionale dal 1955, ma anche diversi ospedali europei stanno iniziando a utilizzarlo come integrazione di alcune terapie e percorsi riabilitativi. “Tutto quello che facciamo - sottolinea 85


QUALITÀ DELLA VITA: SPORT

il maestro Mandrà - si basa essenzialmente su cinque pilastri: saggezza, compassione, sincerità, coraggio e pazienza, che poi sono anche

le cinque virtù confuciane. L’arte marziale è solo uno dei passaggi, per quanto imprescindibile, che si completa con la musica, lo studio della calligrafia, della cultura cinese e della medicina tradizionale cinese. Un percorso completo prevedrebbe lo studio di tutte queste discipline, anche se poi, come è naturale, c’è chi si specializza più in un campo che in un altro”. La bellezza del sistema praticato è seconda solo al livello di compenetrazione tra le discipline. I movimenti della mano che scrive ricalcano quelli del corpo durante la pratica del Taijiquan, lo stile interno di arti marziali cinesi nato come tecnica di combattimento e oggi conosciuto in occidente soprattutto per i suoi movimenti graziosi, naturali ed elastici, che ne fanno una ginnastica e una tecnica di medicina preventiva ineguagliabile. “Quanto alla musica, viene subito da pensare al Gu Qin, la cetra cinese. Oltre a essere uno dei più antichi strumenti musicali a corda, già ampiamente utilizzato nel 2.200 avanti Cristo, è noto per il suo suono caldo e melodioso che genera in chi ascolta un senso di raccoglimento e, si dice in Cina, è in grado di pacificare mente e cuore”. Una caratteristica indispensabile anche nella lotta: non a caso, uno dei grandi insegnamenti delle arti marziali cinesi è che bisogna sentire le proprie emozioni ma mai esserne preda. “Cuore sereno e mente tranquilla, libera da ogni pensiero” è una frase che riecheggia spesso nelle palestre come questa. “Studiare Kung Fu significava innanzitutto che, in quanto appassionato, dovevi portare avanti la cosa fino in fondo” ci dice il maestro Mandrà. Ciò non vuol dire solo allenamenti molto duri, altra caratteristica per cui Shin Dae Woung è ben noto tra i praticanti di arti marziali, ma anche una formazione completa, che non prevedeva solo il conseguimento di una sempre mag86

giore abilità nel combattimento a “CUORE SERENO E MENTE mani nude o con le armi TRANQUILLA, LIBERA DA della tradizione. “Negli OGNI PENSIERO” anni sono diventato È UNA FRASE CHE operatore di medicina RIECHEGGIA SPESSO tradizionale cinese, e nello specifico di masNELLE PALESTRE DOVE saggio Tuina. Questo perSI PRATICA ché medicina, cultura, erIL KUNG FU boristeria e agopuntura sono altrettanti pilastri, trasmessi di maestro in maestro, per consentire di mantenersi in vita e longevi”. Non pensiamo alle condizioni di vita tutto sommato agiate di oggi. Pensiamo piuttosto alla Cina di 3-400 anni fa, quando un bravo maeto qualcosa in te”. Insomma, sei un stro doveva saper combattere ma anche leader quando gli altri ti attribuiscono espliessere totalmente autosufficiente da un citamente questo titolo. Ovviamente ciò punto di vista psico-fisico, in modo da ponon basta per essere un maestro tout court, ter continuare ad allenarsi e a insegnare anche se è un buon indizio. combattendo acciacchi e traumi riportati “Un maestro che si rispetti - continua Mandurante i combattimenti. “In quest’ottica drà - deve essere un eccezionale praticancontinua il maestro Mandrà - studiare le arte di arti marziali, deve aver studiato con i ti marziali a un certo livello per molti ha simigliori e conoscere la dottrina di Confugnificato studiare i principi di una dieta corcio, i principi del Taoismo e del Buddhismo, retta, la fisiologia umana, la meditazione, la medicina, la calligrafia e l’agopuntura. E la medicina”. conoscerli vuol dire anche vivere in conforNaturale chiedere al maestro quando ci si mità con questi principi, che è forse la parrende conto dell’essere diventati maestri, te più difficile, specie se non si vive in un dal momento che non è un titolo che si acmonastero sperduto tra i monti ma all’inquisisce in automatico, come un diploma o terno di una società competitiva, frenetica, una laurea, o dopo un certo numero di anindividualista e, se vogliamo, nevrotica”. ni e prove. In Cina l’unico limite ufficiale, se Da un punto di vista più ampio, il maestro così possiamo dire, è l’età minima: sotto ai non è solo colui che ti insegna le arti mar50 anni è impensabile farsi chiamare maeziali cinesi, la medicina, la meditazione o la stro dai propri studenti. Sarebbe una manfilosofia. È un punto di riferimento, che ti canza di rispetto per i praticanti e i maestri porta alle soglie del suo sapere e ti indica più grandi. In questi casi, al massimo, si può una strada che lui stesso, per primo, sta perusare l’espressione “insegnante”. Ma in correndo. È un interlocutore anziano che, generale, quando ci si rende conto dell’essulla base della sua esperienza, è in grado sere diventati maestri? “Non è facile ridi fornire consigli preziosi in diversi campi, spondere. Direi che quando gli altri iniziano anche non collegati strettamente alle discia chiamarti maestro, capisci che è cambiapline marziali.


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Il Kung Fu come stile di vita, ma soprattutto come una base pratica di valori e atteggiamento che accompagna il praticante in tutte le fasi del suo percorso, dentro e fuori la palestra. Ma soprattutto un metodo che, se applicato alla vita di ogni giorno, sempre più competitiva ed “escludente” (nel senso di propensa a escludere le forme del diverso e le particolarità che rendono ognuno di noi unico e, in quanto tale, una ricchezza per se stesso e gli altri), riesce a riportare alla giusta prospettiva la dimensione del fare. Ovunque, in ogni campo: in palestra come nel lavoro o nella vita privata. “L'essenziale è fare le cose - diceva ancora Bruce Lee - non i risultati di esse. Non esistono attori, solo l'azione, come non

esiste un soggetto che sperimenta, ma solo l'esperienza”. Quindi fare, lanciarsi, sperimentare il coraggio, capire la propria forza interiore anche quando tutto il resto non smette di insinuare il dubbio che si abbia paura. E poi c’è dell’altro. “Solo provando il Kung Fu si capisce bene quale sia l’apporto positivo che questa arte marziale può portare nella nostra vita”, conclude il Maestro Mandrà. “Il Kung Fu ti dà un metodo di lavoro e qualsiasi cosa tu faccia nella vita ti abitua a lavorare con pazienza, umiltà, coraggio, sincerità”. Ciò è ancora più valido quando sono i bambini ad approcciarsi al Kung Fu: “Diventano più tranquilli, più concentrati: capiscono che le loro azioni comportano una responsabilità. Capiscono che ogni risultato richiede pazienza e, da grandi, sapranno che se si vuole ottenere qualcosa bisogna guadagnarsela” .z

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MAESTRO MANDRÀ, CLASSE 1960 E UNA VITA SPESA PER LE ARTI MARZIALI. DIPLOMATO IN LINGUA CINESE, HA INIZIATO LA PRATICA A SOLI 16 ANNI, STUDIANDO IL WU SHU TRADIZIONALE (TERMINE UTILIZZATO IN CINA PER INDICARE LE ARTI MARZIALI) E IL TANG LANG, LO STILE DELLA MANTIDE, SOTTO LA GUIDA DI SHIN DAE WOUNG - PRATICAMENTE UNA LEGGENDA VIVENTE DI QUESTA DISCIPLINA – DIVENTANDO NEL 1982 LA PRIMA CINTURA NERA ITALIANA. DA QUI UNA CARRIERA COSTELLATA DI SUCCESSI E IMPEGNO. FINO A OGGI QUANDO, DOPO QUATTRO TITOLI NAZIONALI CONSECUTIVI E UNA MIRIADE DI PIAZZAMENTI E RICONOSCIMENTI OTTENUTI IN TUTTA EUROPA E IN CINA, È MAESTRO DELLO STILE DELLA MANTIDE RELIGIOSA TAIJI MEIHUA. LA NOMINA A DIRETTO SUCCESSORE DEL GRAN MAESTRO SUNBAO’EN È SOLO L’ULTIMO TASSELLO DI UN PERCORSO UNICO ED ENTUSIASMANTE CHE LO COLLOCA TRA GLI ESPONENTI MONDIALI DELLA DISCIPLINA.

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PANORAMA NEWS

ANIE: RIPORTARE LA MANIFATTURA IN ITALIA È L’UNICA STRADA PER USCIRE DALLA RECESSIONE Le aziende ANIE, riunite per l’Assemblea Annuale, non credono che il 2014 segnerà l’uscita dalla crisi. Il Presidente Gemme: “Ma la nostra competenza sarà il valore aggiunto premiante” Si è tenuta lo scorso 2 luglio l’Assemblea Annuale di ANIE Confindustria, tradizionale momento di confronto e dibattito sull’andamento dell’industria elettrotecnica ed elettronica italiana. Il bilancio sul 2013 appena concluso è di un comparto ancora in sofferenza: il fatturato aggregato ha registrato un calo dell’11,8%, con una perdita di ben 7 miliardi rispetto all’anno precedente. Si è passati allora dai 63 miliardi di euro del 2012 ai 56 miliardi del 2013. Su questo dato pesano soprattutto l’andamento del segmento fotovoltaico, che ha chiuso lo scorso anno con una flessione del 70%, e l’impoverimento del mercato interno (nel complesso, la domanda nazionale rivolta alle tecnologie ANIE ha mostrato un calo del 5,5%). Uno scenario internazionale in costante decelerazione ha limitato anche le potenzialità espresse dalla domanda estera. Quasi tutti i comparti rappresentati dalla Federazione hanno chiuso il 2013 con un andamento di segno negativo, con diminuzioni accentuate nei comparti Componenti elettronici (-11,2%), Tecnologie per la Trasmissione di energia elettrica (-9%) e Cavi (-8,3%). In sofferenza anche Ascensori e scale mobili (-6,2%) e Componenti e sistemi per impianti (-5,8%), tradizionali comparti fornitori di tecnologie che si rivolgono a un mercato edile in stagnazione. I Trasporti ferroviari ed elettrificati (-4,6%) ri-

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sentono da tempo della debolezza degli investimenti nazionali. Fra i comparti in controtendenza, si evidenziano Automazione industriale, che a fine 2013 ha registrato un incremento annuo del fatturato totale del 3,9%, e Sistemi di Trasmissione Movimento e Potenza, che hanno mostrato una variazione positiva dello 0,7%. Il comparto Sicurezza e Automazione Edifici, inoltre, ha mostrato una sostanziale tenuta del giro d’affari complessivo (+0,9%), pur in un percorso di graduale rallentamento rispetto agli ultimi anni. Il confronto sul futuro del manifatturiero, sullo stato di salute dell’intero Sistema Paese e sugli stimoli che occorrono per uscire da un clima recessivo che sembra davvero non avere mai fine sono stati al centro degli interventi dei tanti ospiti presenti all’evento, per esplorare fenomeni quali il reshoring, l’innovazione, la fabbrica del futuro e l’education. In particolare il back reshoring, ovvero il ritorno della produzione manifatturiera in Italia da parte di chi aveva delocalizzato all’estero, è stato il tema di uno studio promosso da ANIE in collaborazione con Luciano Fratocchi, professore associato di ingegneria dell’Università de l’Aquila e portavoce del gruppo di ricerca italiano Uniclub MoRe reshoring (per informazioni: anie.it).


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Erano presenti il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia e la Presidente di Expo 2015 Spa e Commissario per il Padiglione Italia, Diana Bracco, con i quali è stato fatto il punto sulle aspettative per il grande evento che Milano si prepara ad ospitare il prossimo anno. “Milano cerca di operare al meglio per aiutare il sistema produttivo, paghiamo i fornitori nei tempi previsti dalla legge e talvolta anche prima, ed Expo 2015 rimane un'occasione straordinaria per la città e per tutto il Paese” ha commentato il Sindaco Pisapia, mentre Bracco si è detta fiduciosa per la puntuale fine dei lavori sia infrastrutturali che contenutistici. Come noto infatti, il tema centrale della manifestazione sarà “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Anche ANIE parteciperà, insieme a Confindustria, all’organizzazione di una mostra permanente ‘Il Cibo dei desideri’, che illustrerà l’apporto della tecnologia italiana nella filiera agroalimentare. La mostra sarà ospitata nel Padiglione Italia per tutti i sei mesi di Expo e sarà una delle maggiori attrazioni del gran tour del sito espositivo. Preziosi interlocutori del dibattito sono stati Lisa Ferrarini, Vice presidente di Confindustria per l’Europa e Maurizio Pernice, direttore generale per la Tutela del territorio e delle risorse idriche del Ministero dell’Ambiente. Secondo un’indagine condotta dall’Associazione, comunque, l'80% delle imprese non vede il 2014 come anno effettivo della ripresa. Che futuro ci dobbiamo allora aspettare per l’industria elettrotecnica ed elettronica italiana? Qual è la chiave della ripresa? “La specializzazione degli uomini e delle sue aziende” dice il Presidente di ANIE Confindustria, Claudio Andrea Gemme. “L’ultimo decennio ha cambiato la storia dell’industria manifatturiera, tuttavia la new economy basata solo sulla finanza e sui servizi è fallita: senza la manifattura il Paese muore. Laddove la concorrenza sarà spietata la nostra competenza sarà il valore aggiunto che farà la differenza e sarà premiante”.

COMITATO ELETTROTECNICO ITALIANO

PREMIO CEI “MIGLIOR TESI DI LAUREA” Il CEI - Comitato Elettrotecnico Italiano, ente responsabile in ambito nazionale della normazione tecnica in campo elettrotecnico, elettronico e delle telecomunicazioni, è da sempre impegnato nella divulgazione della cultura della normazione tecnica attraverso il coinvolgimento di tutte le parti sociali interessate, tra cui il mondo accademico. L’università è da sempre il luogo designato all’istruzione e alla formazione del corpo sociale di domani. E la normativa tecnica è parte imprescindibile del bagaglio di conoscenze necessarie ad affrontare da professionista il mondo del lavoro. Gli studenti, una volta inseriti nel mondo del lavoro, saranno i soggetti primari della produzione e dello sviluppo tecnologico ma anche i garanti della loro corretta interpretazione e fruizione. Per questo motivo, è di fondamentale importanza che, nel proprio bagaglio di conoscenze, vi siano anche le necessarie nozioni normative. È in quest’ottica che si inserisce il Premio CEI “Miglior Tesi di Laurea”, premio istituito nel 1995 con il quale il CEI intende premiare neolaureati o laureandi che abbiano svolto una tesi di laurea dedicata in modo esplicito e diretto a sviluppare ed approfondire tematiche connesse alla normazione tecnica nazionale, comunitaria ed internazionale, ai suoi riflessi tecnici, economici o giuridici, relativi anche alle ricerche preparatorie per garantire il raggiungimento della regola dell’arte nella concezione e progettazione di prodotti, servizi, impianti, processi e nell’organizzazione e gestione di impresa e della Pubblica Amministrazione. Oggetto delle tesi sono tematiche relative a ricerche volte alla definizione dei limiti di qualità e sicurezza da fissare nella normativa tecnica, all’attività di ricerca pre-normativa o di indagine e ricerca in genere, ai si-

stemi di gestione per la qualità, l’ambiente e la sicurezza. Tali approfondimenti possono interessare qualsivoglia campo di applicazione delle norme: da quello strettamente tecnico o tecnologico, alle conseguenze sul piano giuridico, economico, sociale, storico, urbanistico, dei rapporti internazionali, dei costumi della società. Ulteriori approfondimenti possono anche esaminare gli sviluppi sociali ed il benessere in senso lato che, grazie alla normativa tecnica nazionale ed internazionale, la tecnologia in continua evoluzione ha contribuito a determinare, anche considerando il grande sviluppo che essa ha apportato alla comunicazione ed alla economia tra i popoli e le nazioni nel tempo. Per questa diciannovesima edizione verranno premiate tre tesi di laurea con un riconoscimento pubblico ed ufficiale e l’assegnazione di un contributo in denaro. La cerimonia di premiazione avverrà nel corso di un momento di incontro pubblico organizzato dal CEI nell’ambito di importanti eventi di settore. Al Premio possono partecipare tutti i laureati o laureandi (Laurea precedente ordinamento o Laurea Magistrale) delle Facoltà di Ingegneria (Civile, Della Prevenzione e della Sicurezza, Elettrica, Elettronica, Energetica, Dei Sistemi Edilizi, Per l’ambiente e il territorio, Informatica, Meccanica), Giurisprudenza, Economia e Scienze Politiche e Sociali di tutte le Cattedre nazionali che avranno discusso la tesi e conseguito la laurea nel periodo dal 01/01/2014 al 28/02/2015. Il bando del Premio CEI “Miglior Tesi di Laurea” 2014 - XIX Edizione è scaricabile dal sito www.ceiweb.it alla voce Eventi > Premi CEI.

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BREVI IMQ

NASCE IL PIÙ GRANDE POLO ITALIANO PER LA SICUREZZA DI VEICOLI E COMPONENTI Il Gruppo IMQ acquisisce Prototipo Technologies S.r.l. e dà vita al più grande centro italiano per l’attività di testing, verifica e collaudo del settore automotive

CSI S.p.A., società del Gruppo IMQ, ha finalizzato l’acquisizione di Prototipo Technologies S.r.l., realtà operativa nell’automotive. Un’acquisizione degna di nota, poiché porta alla costituzione del più grande polo italiano di testing, collaudo e certificazione del settore. L’operazione vede da una parte CSI S.p.A., la società del Gruppo specializzata in testing e certificazioni per il settore dell’auto, ma con posizioni di leadership anche in altri settori merceologici quali l’alimentare, il packaging, le strutture resistenti al fuoco, la tossicità, la termotecnica, l’acustica, e dall’altra Prototipo Technologies S.r.l., azien-

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da che dal 1991 opera nel settore dell’ingegneria sperimentale di veicoli e sistemi-componenti e nella verifica di componenti automobilistici. “Con l’acquisizione di Prototipo” ha dichiarato l’ing. Pasqualino Cau, Vicepresidente di CSI S.p.A. “Il Gruppo IMQ, che tramite CSI già vanta una posizione di rilievo nell’offerta di servizi all’industria dell’auto sia a livello nazionale sia internazionale, accresce la propria leadership nel settore automotive, venendo così a realizzare un polo a respiro europeo, tra i più qualificati Centri di Sicurezza, in grado di affrontare tutte le problematiche legate alla sicurezza attiva e passiva dell’auto e di offrire la più ampia gamma di servizi ai

produttori di autoveicoli e della relativa componentistica”. Ma visibilità e raggio di azione europeo, non sono gli unici benefici dell’operazione. Occorre infatti ricordare come l’acquisizione preveda non solo una potenziale crescita dell’indotto, ma anche un rafforzamento del ruolo del Gruppo IMQ quale realtà a supporto del sistema produttivo italiano. “Gli ambiti di operatività di IMQ si stanno sempre più ramificando” ha sottolineato l’ing. Giorgio Scanavacca, Presidente del Gruppo. “Le nostre competenze nel testing e nella verifica si stanno confermando sempre di più indispensabile supporto per la valorizzazione della qualità delle aziende italia-


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ne. Il potenziamento dei servizi offerti al settore automotive inciderà sull’attività e sulla realtà del Gruppo IMQ spostando gli obiettivi di fatturato nell’intorno dei 100 milioni di euro, per una realtà di 700 dipendenti ed alcune centinaia di collaboratori esterni”. Il tutto con una rinnovata capacità di competizione e nell’ottica di accrescere le posizioni di mercato ad oggi acquisite. Le opportunità in termini competitivi sono state sottolineate anche da Vincenzo Ruocco, Amministratore Delegato di Prototipo, che ha espresso soddisfazione per l’operazione: “Diventare parte di un importante Gruppo, di riconosciuta immagine e affidabilità, permetterà di valorizzare al meglio il know-how e gli asset maturati da Prototipo in più di vent’anni di attività nel settore. Un’esperienza già apprezzata dal mercato, ora al servizio di una realtà più ampia e completa, di un polo d’eccellenza nel settore del testing per l’automotive che contribuirà a rafforzare la posizione del nostro Paese quale punto di riferimento per le aziende europee del settore”. Un’esperienza consolidata grazie anche al management di Centrobanca Sviluppo Impresa SGR (Gruppo UBI Banca) società che, attraverso il Fondo Sviluppo Impresa, ha affiancato Prototipo nella sua fase di ristrutturazione, sviluppo e crescita. “Sono lieto che l’operato di SGR” ha commentato il suo Amministratore Delegato, Giuseppe Gilardi “abbia contribuito alla valorizzazione e alla stabilità nel tempo delle competenze e dei relativi livelli occupazionali di Prototipo rendendo possibile, oggi, il suo ingresso nel Gruppo IMQ”. Conclude Scanavacca: “Il Polo di Sicurezza Automotive del Gruppo IMQ sarà fortemente contraddistinto dalla ricerca e l’innovazione, offrendo al Sistema Italia un punto di riferimento nazionale per poter affrontare con maggiore forza le sfide della globalizzazione. In questo modo ci auguriamo di poter contribuire a tutelare e rilanciare i volumi produttivi di un settore che è un bene da difendere”.

IMQ APRE UNA NUOVA SEDE NEL DISTRETTO DEI BIOMEDICALI Sempre più vicino alle aziende del settore, IMQ ha aperto una nuova sede operativa anche a Medolla. Un punto di riferimento a cui le realtà del territorio potranno rivolgersi per avvalersi dei servizi one-stop- solution di IMQ e avere una risposta a tutte le esigenze di testing, verifiche ed export. Si trova a Medolla, ovvero nel cuore di uno dei più importanti distretti biomedicali a livello mondiale, la nuova sede operativa avviata da IMQ. Un potenziamento territoriale voluto per rispondere al meglio alle esigenze delle aziende del settore. In particolare alla necessità di poter contare su un unico partner in grado di offrire tutti i servizi relativi a testing e certificazioni, servizi per l’estero e supporto tecnico, attestazioni, audit di seconda parte e attività di sorveglianza. Un’esigenza alla quale solo IMQ è in grado di rispondere con un servizio one-stop-solution che, alla competenza riconosciuta a livello internazionale, aggiunge i vantaggi derivanti

da un partner localizzato sul territorio e i conseguenti benefici in termini di riduzione dei tempi e dei costi di lavorazione. Ma l’apertura di Medolla non è l’unica novità di IMQ a vantaggio dei clienti del settore medicale. Accanto alla localizzazione sul territorio, sono stati infatti anche potenziati i servizi offerti, in particolare per le aziende interessate a esportare che da oggi potranno contare su IMQ anche per la gestione di tutte le pratiche necessarie per l’ottenimento delle registrazioni e delle approvazioni internazionali. Non ultimo va infine ricordato il rafforzamento dell’attività di testing estesa anche alle prove chimico-fisiche e microbiologiche.

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BREVI IMQ

CON IL RAPPORTO DI VALUTAZIONE RILASCIATO DA IMQ, COSIGN OTTIENE LA CERTIFICAZIONE EAL4+

CoSign, la prima soluzione di firma remota completamente conforme alla nuova normativa eIDAS Sono state svolte dal Laboratorio di Valutazione della Sicurezza ICT di IMQ i test sulla sicurezza hardware e software che hanno consentito a CoSign di ottenere dall’OCSI la certificazione secondo i Common Criteria (ISO/IEC 15408) al livello di garanzia EAL4+ (augmented with AVA_VAN.5) e ad essere riconosciuto a livello internazionale come dispositivo di firma digitale remota che offre una soluzione nel pieno rispetto degli standard di sicurezza. OCSI, lo ricordiamo è l’organismo italiano per la certificazione della sicurezza informatica. Il rilascio della certificazione è avvenuto sulla base del Rapporto finale di Valutazione elaborato da IMQ. Con questa nuova certificazione, CoSign, prodotto dalla Arx (fornitore a livello mondiale di soluzioni per firma elettronica e sicurezza dei dati e distribuito in Italia da itAgile), viene ufficialmente riconosciuto come una soluzione per la firma remota gestita centralmente e altamente sicura, oltre che conforme ai requisiti europei previsti dal regolamento eIDAS (Electronic Identification and Trust Services for Electronic Transactions in the Internal Market). Il Laboratorio di Valutazione Sicurezza ICT di IMQ, lo ricordiamo, è accreditato negli schemi nazionali per la valutazione della sicurezza dei sistemi e prodotti ICT. Inoltre, IMQ è l'unico organismo di certificazione accreditato da Accredia, operante in Italia, ad aver raggiunto l'obiettivo di avere al suo interno un laboratorio accreditato per effettuare valutazioni formali della sicurezza di sistemi e prodotti IT negli schemi nazionali gestiti da DIS/UCSe e OCSI secondo gli standard internazionalmente riconosciuti. 92

ENEC PLUS

Il primo marchio europeo che certifica le prestazioni degli apparecchi di illuminazione tradizionali, con tecnologia a Led e dei moduli. Presentato a Francoforte, ENEC Plus è il primo marchio europeo che certifica le prestazioni degli apparecchi di illuminazione tradizionali, con tecnologia a Led e dei moduli, e la piena affidabilità e corrispondenza delle caratteristiche dichiarate. Sviluppato da EEPCA (l’Associazione Europea degli organismi di certificazione nel settore degli apparecchi elettrici), in collaborazione con LightingEurope (l'Associazione che rappresenta i principali produttori di illuminazione e associazioni europee di illuminazione nazionali) ENEC Plus si base sullo schema di ENEC, il marchio di sicurezza da oltre 20 anni leader in Europa. Come quest’ultimo è riconosciuto da 22 Paesi Europei e da 25 enti di certificazione tra i quali IMQ, ad oggi ente leader in termini di numero di certificati ENEC emessi. I principali higlights: • Sistema pan-europeo di certificazione delle caratteristiche di prestazione sia degli apparecchi con tecnologia a Led e dei moduli, sia di quelli con tecnologia tradizionale. • Alta visibilità, garantita dall’autorevolezza acquisita dal marchio ENEC e supportata in termini di comunicazione dai 25 enti aderenti all’accordo. • Tracciabilità dei prodotti attraverso un database online. • Garanzia sull’obiettività dei valori dichiarati, anche in termini di efficienza energetica. • Basato su un modello in continua evoluzione. • Strumento obiettivo per una trasparente comparazione delle prestazioni offerte dai diversi apparecchi di illuminazione.

Semplificazione delle procedure e riduzione dei costi grazie alla possibilità di eseguire le prove anche presso i laboratori dei costruttori, opportunamente qualificati. Elemento distintivo nelle gare di appalto.

Come funziona: • Per poter ottenere la certificazione ENEC Plus i prodotti devono prima aver ottenuto il marchio ENEC, e dunque essere anzitutto conformi ai requisiti di sicurezza. • I test di prestazione sono condotti sia presso laboratori approvati, sia direttamente presso i laboratori delle aziende, preventivamente qualificati. Tutti i laboratori hanno sede in Europa. • Inizialmente basato sugli standard prestazionali IEC/PAS 62722-1, IEC/PAS 62722-2-1 e IEC/PAS 62717, ENEC Plus evolverà in accordo con le richieste di mercato per comprendere altri aspetti prestazionali oltre a quelli già previsti, quali, ad esempio, eco-design, durata delle prestazioni...). Vantaggi per tutti gli attori del mercato: • Produttori. Autorevole strumento di terza parte che garantisce sulla bontà del loro operato e sull’affidabilità dei loro prodotti. • Distributori. Che in questo modo potranno individuare a prima vista i prodotti di alta gamma. • Progettisti, designers, utilities, contract. Certezza certificata da una terza parte, di avere scelto prodotti conformi e affidabili in termini di sicurezza e di prestazioni dichiarate.

03 Per ottenere il marchio ENEC Plus i prodotti devono prima aver ottenuto il marchio di sicurezza ENEC, nel rilascio del quale IMQ è ad oggi, in Europa, ente leader in termini di numero di certificati emessi.




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