Munfragiugno14

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Nost MunfrĂ

giugno - luglio 2014


Nemo propheta in patria sua Vangeli : Matteo 13,57 - Marco 6,4 - Luca 4,24 - Giovanni 4,44

Nessuno è profeta in patria sua? e noi faremo i missionari altrove!

Nost Munfrà E’ registrato come Gabiano e dintorni con Autorizzazione n° 5304 del 3-9-99 del Tribunale di Torino; Direttore Responsabile Enzo GINO - Sede: via S. Carpoforo 97 - Fraz. Cantavenna 15020 Gabiano - Stampato presso A4 di Chivasso (TO) - Associazione Piemonte Futuro: P. Iva 02321660066; Distribuzione gratuita; Per informazioni e pubblicità: cell. 335-7782879; fax 0142-271061 e-mail: posta@gabianoedintorni.net www.gabianoedintorni.net www.collinedelmonferrato.eu 2

A quattro anni dalla diffusione della nuova edizione di Gabiano e dintorni abbiamo deciso di rifarci il look . Abbiamo cambiato nome, non più G&d ma Nost Munfrà, ed anche i contenuti saranno in parte modificati portando a 16 le pagine della rivista, magari tutte a colori. Perché cambiare? Per adeguarci alla realtà che cambia. Molti si saranno accorti che l’edizione di maggio non è stata stampata; in verità è stato stampato un programma elettorale che altro non era che la trasposizione in proposte amministrative di una Lista Civica presentata a Gabiano di quanto, da anni, stiamo scrivendo su G&d. E’ stato un esperimento con cui si voleva verificare il livello di considerazione e condivisione (un tempo si parlava di presa di coscienza) dei valori e del progetto di valorizzazione della storia e del territorio che tentiamo da tempo di comunicare. Purtroppo il risultato è stato deludente: 2/3 dei compaesani Gabianesi hanno dimostrato di non condividere il nostro progetto optando per un programma di continuità con il passato descritto in appena 46 righe. Non resta che prendere atto della realtà e adeguarci. Visto che da molti altri comuni, ci vengono sollecitati interventi ed avanzate proposte per i nostri territori, abbiamo ritenuto giusto l’adeguamento del nome per adottarne uno che, invece, vuole essere rappresentativo di un territorio locale ampio e più sensibile ai nostri richiami. Nost Munfrà quindi continuerà la propria storia ed assumerà anche uno stemma quello degli Aleramo che potrà diventare il simbolo di chi intende collaborare con il nostro progetto. Ciò premesso segnaliamo alcune iniziative in programma. Ci muoviamo in anticipo per il prossimo Natale. Intendiamo infatti organizzare una mostra di… pre-

sepi. L’iniziativa prevede di esporre alcuni dei 3000 (avete letto bene tremila) presepi di una collezione privata presso le chiese di uno dei nostri bellissimi paesi onde proporre un percorso devozionale e artistico oltre che un richiamo di visitatori dai dintorni e non solo. Sul nostro Youtube sito proporremo un filmato della mostra già realizzata nello scorso inverno. Se qualche amministrazione fosse interessata si può mettere in contatto con la redazione di Nost munfrà ai recapiti soliti. Concorso Fotografico Ha avuto buon successo il concorso fotografico sul Nost Munfrà organizzato in collaborazione con Attini Arte che si è concluso a fine Giugno. Le premiazioni si terranno a settembre, comunicheremo la sede e giorno dell’evento. Sabato 15 giugno è stato fatto un tour fotografico delle località più belle delle nostre colline (la foto di copertina è stata scattata proprio in quella giornata), ed è stato concordato con Attini Arte di ripetere nelle 4 stagioni le visite dei fotografi al fine di consentire ai partecipanti di immortalare nelle loro opere le mutazioni stagionali dei luoghi. Appuntamento quindi a Ottobre per il prossimo tour autunnale.


Rocca delle donne Testo e disegni di Carlo Rosso

Nessuno sa più quando fu costruito il monastero di santa Maria alla Rocca delle Donne. Certo è che nel 1167 il monastero era più che mai attivo e ospitava una comunità di monache che, sebbene poco numerose, disponevano di cospicui beni e benefici. Le strutture sopravvissute del piccolo cenobio, che a giudicare dai documenti non contò mai più di una ventina di monache, rivelano tuttavia origini più antiche. È possibile (se non, secondo alcuni, probabile) che sullo sperone dove oggi sorge Rocca delle Donne esistesse un insediamento umano da tempo immemorabile, precedente alla conquista romana di quello che oggi chiamiamo Monferrato e che allora era la Liguria interna. Ma di ciò non sappiamo praticamente nulla. Sappiamo invece che, al momento in cui il nostro monastero compare nella documentazione scritta sopravvissuta fino ad oggi, e cioè il già nominato 1167, era precedentemente appartenuto ai monaci cluniacensi di Fruttuaria, la famosa abbazia fondata da Guglielmo da

Volpiano nel 1003, nel Canavese. Prima delle Rocca cerano i monaci di Fruttuaria. Da quando? Recenti indagini sulle strutture della chiesa del monastero, che oggi è la chiesetta del paese, dedicata a Santa Caterina, fanno risalire su base stilistica l'edificio alla prima metà dell'XI secolo, una ventina di anni dopo la fondazione di Fruttuaria. All'inizio dell'XI secolo, dunque, accanto alla chiesa appena eretta (o forse ristrutturata) sorge probabilmente un piccolo nucleo cenobitico. Circa un secolo e mezzo dopo, nel 1164, la famiglia aleramica dei marchesi del Monferrato, nella persona di Guglielmo detto il Vecchio zio dell'imperatore Federico Barbarossa - si interessa del monastero e lo acquista dall'abate Ruffino di Fruttuaria scambiandolo con la chiesa presso Alessandria. Guglielmo vuole farne un convento di famiglia, e infatti attua una mossa strategica: fa insediare sua sorella Adalasia come badessa. La storia ci racconta che Ruffino non

fu soddisfatto del proprio affare, anche perché dopo pochi anni il vescovo di Acqui faceva buttare fuori ("a pedate", come è detto nei documenti) i suoi monaci da Gamondio. A Ruffino non resta altra via che cercare di tornare in possesso della Rocca. Con i suoi monaci piuttosto insolenti, tenta allora in più occasioni di riprendersi il monastero, anche con la violenza. Testimoni, nel 1181, raccontano di quella volta che i monaci armati di bastoni malmenarono le monache, o di quell'altra in cui il priore di Lucedio, accompagnato dal vescovo di Ivrea, dovette far rompere il chiavistello del portone del monastero perché i fruttuariensi si erano asserragliati dentro. In ogni caso, alla fine, la disputa viene risolta a favore delle monache, che nel 1182 si vedono finalmente assegnato definitivamente il monastero dal papa Lucio III. A quel punto i marchesi, con scaltra mossa, fanno in modo che la giurisdizione dell'ente passi sotto il controllo della lontana e potente abbazia francese di La Chaise-Dieu, proteggendo il piccolo convento dalle ingerenze degli interessi locali. Ecco che tra i nomi delle monache e delle badesse cominciano a comparire donne francesi, in particolare dell’Arvernia, dove sorge appunto La ChaiseDieu. Il monastero possiede delle grange, tenute agricole dove si coltiva la terra e si alleva il bestiame per rimpinguare le casse dell'ente; le due principali sono Maranzana, presso Pontestura, e Guazzolo,

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vicino a Moncalvo. Ma tra i beni di proprietà delle monache ci sono anche chiese, come Santa Maria in Castro a Trino, che le monache affittano ai canonici trinesi di San Michele in Insula in attesa che venga completata la nuova parrocchiale di San Bartolomeo. Il piccolo monastero femminile acquista dunque un ragguardevole prestigio e un grande patrimonio, grazie alla vicinanza della famiglia marchionale e alla dipendenza da un'abbazia madre lontana, che lo svincola dalle pressioni del clero locale. I documenti, conservatici sino ad oggi, ci parlano di infinite dispute territoriali con le comunità vicine e non, dispute nelle quali le monache si dimostrano sempre agguerrite e mal disposte a cedere il benché minimo privilegio. Il monastero, che segue la regola benedettina, oltre all'esiguo numero di monache, è popolato da una folla di personaggi che vi gravitano intorno: le novizie (tra le quali la futura beata Arcangela Girlani di Trino), il priore (come Petrus, che dal XIII secolo affianca la badessa e fa da procuratore negli atti giuridici), il presbitero che officia le messe, i conversi, laici che fanno voto di obbedienza e, svolgendo le più varie mansioni all'interno del monastero e nelle sue proprietà, entrano a far parte della comunità. L'isolamento del monastero, la sua autonomia amministrativa, i suoi ampi possedimenti lo rendono in un certo modo un luogo privilegiato e un punto di riferimento, non solo spirituale, per l'aristocrazia monferrina. Fino alla metà del Quattrocento S. Maria della Rocca vive una tranquilla esistenza, che i maligni vedono più incline ai vizi mondani che alle virtù spirituali. La storia tuttavia avanza, i tempi mutano e alla corte di Casale - dove alla stirpe degli Aleramici sono succeduti i Paleologi - l'aria della signoria rinascimentale non tarda ad arrivare. I marchesi, accentrando sempre più su se

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stessi l'amministrazione dello Stato e le prerogative dell'autorità ecclesiastica, non vedono di buon occhio la presenza in Monferrato di residui, antichi enti autonomi come il nostro monastero. Con atto d'autorità la Rocca viene sganciata dalla dipendenza francese e posta sotto la giurisdizione del vescovo di Casale. Alcuni anni dopo, intorno al 1494, sotto il marchesato di Bonifacio III, il monastero viene soppresso e accorpato al nuovo convento delle clarisse di Casale, con l'infamante accusa di cattiva condotta morale delle monache. La vicenda, ancora oggi mai indagata in modo approfondito, è interessante: le monache, che erano ormai meno di una decina, resistono per anni, rifiutando ogni offerta e ogni mediazione. Alla fine, in modalità che per ora non conosciamo, cedono e il monastero, con quanto di misterioso e prezioso conservava (tanto da giustificare una resistenza a oltranza), cessa per sempre di essere ente autonomo. Da allora la documentazione diventa frammentaria e indiretta. Le visite pastorali dei vescovi casalesi parlano soprattutto della chiesa, titolata poi a Santa Caterina e che nel Seicento appare già come oggi, più piccola e con l'orientamento invertito, parzialmente ricostruita.

La presenza di monache, provenienti da Casale, deve essere sporadica e limitata, finalizzata forse ad amministrare i beni locali. Alla fine del Settecento le confische napoleoniche colpiscono l'antico monastero che diventa proprietà privata di un tale Jean Poitier, del quale resta traccia nelle memorie locali. Poi, nella seconda metà del XIX secolo, la famiglia Norzi, di origini ebraiche, acquista la struttura e la trasforma in una ricca azienda vitivinicola, che occupa con i suoi terreni vitati tutto il contado della Rocca e impiega braccianti anche da Palazzolo. Ai piedi della collina, in riva al Po, è infatti attivo fino agli anni '60 del Novecento il traghetto che collega la Rocca a Palazzolo, nella pianura. Con i tragici fatti della seconda guerra la famiglia Norzi si estingue. Oggi la struttura dell'ex convento appare nelle forme di un'azienda agricola ottocentesca, con ampia corte interna e notevoli cantine. Sul lato meridionale si aprono due ordini di logge cinquecentesche, mentre la facciata est mostra due belle monofore trecentesche in laterizio e pietra da cantoni gialla di Rosignano. Sul lato ovest, affacciato sul Po, si indovinano invece le strutture difensive medievali. All'interno i soffitti con volte a crociera e a cassettoni in travi di


Dall’homo sapiens alla mulier sapiens

13RICREA www.13ricrea.com Via Casale, 3 bis 15020 Serralunga di Crea (AL) - ITALY tel/fax: +39 0142 940471 mobile +39 333 2469938 +39 348 6513333

A Serralunga di Crea per la precisione in frazione Madonnina è nata nel 2007 un’azienda condotta da sole donne che si è dedicata ad una attività particolare: la creazione di arredi e suppellettili utilizzando materiali di recupero. L’azienda che si chiama 13Ricrea applica una sua filosofia che consiste nel considerare in maniera nuova il concetto di risorsa. Materie e materiali derivanti dal recupero sono visti infatti non come scarti destinati a smaltimenti più o meno costosi ma bensì come materie prime-secondarie da riutilizzare per creare e disegnare nuovi oggetti e fare nuovi progetti. Riteniamo importante sottolineare come un simile approccio vada ben al di là del semplice e pur importante aspetto ecologico con il riutilizzo dello sfrido delle lavorazioni o lo spreco di materiale e di energia necessaria sia per produrli che per smaltirli. Questa iniziativa introduce ad una nuova cultura dell’architettura e del design, è noto infatti che aspetti, forme e colori di tutti gli oggetti che ci circondano sono una sintesi, più o meno perfetta più o meno funzionale, più o meno bella, fra il servizio che devono svolgere riconducibile alle esigenze delle persone, ed i materiali con cui sono realizzati. Il materiale quindi necessariamente influenza le forme e gli aspetti degli oggetti, usare materiali originali come quelli di recupero quindi, porterà a oggetti dalle forme e dagli aspetti originali, in sintesi ad un nuovo stile. Ma ci spingiamo ancora più in là, se nella civiltà dei consumi la ricerca tradizionale è orientata spesso a inventare i materiali in funzione delle loro

destinazioni ed usi, qui è il contrario, qui è il design a sfruttare ciò che rimane di materiali creati per altri usi. In questo caso fantasia, creatività, immaginazione sono la reale materia prima. Notiamo che la storia dell’umanità a partire dall’homo sapiens è stata proprio questo, la capacità di creare utensili d’uso quotidiano partendo da ciò che già c’era in natura, spesso destinato ad altre funzioni. Per questo le nostre “mulier sapiens” dedicano tanto tempo e attenzione alla ricerca e allo studio dei materiali. Il loro riutilizzo, sotto nuova forma, oltre a consentire un minor spreco favorisce l’impiego di quanto già disponibile, si cerca infatti di far coincidere i luoghi di produzione e di lavorazione. Ed ecco chi sono le “nostre” creative creatrici : Angela Mensi che ha saputo unire la razionale analisi del mondo degli oggetti alla immaginazione e creatività sviluppata dall’esperienza acquisita attraverso le molteplici espressioni dell’arte della decorazione. Un percorso che non poteva che esser autodidattico grazie al quale ha potuto scoprire le innumerevoli anime dei materiali e come ciascuna di esse può essere trasformata, ri-usata e riciclata, secondo un processo di solve et coagula che trasforma il rifiuto da smaltire in… oggetti belli. Molto diversa la storia di Ingrid Tarò: personalità eclettica in grado di intravedere in anticipo le nuove opportunità, ha iniziato la sua formazione all’Università di Genova dove si è laureata in Architettura che perfeziona poi a New York dove frequenta con successo l’International Center for Photography. Le sue conoscenze le consentono di ottenere collaborazioni con importanti periodici d’arredamento e design italiani e stranieri. Il suo percorso di crescita, integra varie discipline e la porta ad elaborare progetti creativi che spaziano in diverse direzioni tra le quali l’ambiente.

Nelle foto alcune realizzazioni di 13Ricrea

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Il castello dei Feltrinelli Sorge a Villadeati ed è forse uno dei castelli più noti e meno conosciuti delle nostre colline, probabilmente legato al fatto che i noti editori tengono comprensibilmente alla loro

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privacy e non a tutti è concessa l’opportunità di una visita. Aggiriamo il problema pubblicando un articolo comparso su un vecchio libro del 1972 edito da Il Monferrato a cura di Luigi

Angelino e Aldo Timossi che ci racconta del castello e anche di altro. Oggi è una giornata "importante". Riusciremo finalmente a visitare il castello di Villadeati, balzato alla


ribalta della cronaca per l'oscura vicenda del suo proprietario, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, tragicamente perito sull'ormai famoso traliccio di Segrate. Per comodità giungiamo a Villadeati percorrendo la strada della Valcerrina. Oltrepassati gli abitati di Cerrina Valle e Pozzo, si svolta a sinistra con la segreta speranza di trovare ancora in piedi il ponte sulla Stura, un'opera d'arte che crolla ad ogni batter di pioggia e inevitabilmente viene rifatta alla buona già presentendo la prossima, imminente morte. Giungendo in paese due cose ci colpiscono: la torre più alta del castello e la cupola del campanile parrocchiale, in stile vagamente amalfitano. Provvidenziale e necessario anfitrione per la visita all'abitato è il sindaco geom. Oddone una persona dal fare sicuro e dalla simpatica comunicativa, da 23 anni insediato alla carica di primo cittadino - ("A volte - ci dice -mi viene il dubbio di amare di più il Comune che non la mia famiglia"). Una vocazione per il turismo Villadeati, posto sopra un poggio a 400 metri di quota, ha cercato tempo addietro la strada dell'industria. Qualche trattativa è andata buca, allora si è pensato di puntare tutto sul turismo. Per il momento è fenomeno itinerante, domenicale; nel futuro, non appena approvato il piano di costruzione, si spera possa diventare residenziale, con edificazione di piccole villette a un piano, armonizzate col paesaggio circostante. Qui non esiste un organismo preposto alla valorizzazione delle potenzialità turistiche. Tempo fa lo stesso sindaco propose alle frazioni Zanco e Lussello di unirsi in consorzio per creare un'associazione Pro Loco. Le discussioni non giunsero a buon fine; genti di abitati vicini a volte non si conoscono e addirittura lasciano allignare tra di loro quel campanilismo gretto e irrazionale che non ha più nessuna ragione di esistere allorché, nel caso particolare, oggi si parla di costituire un comprensorio dei Comuni del Casalese.

In mancanza di Pro Loco è l'amministrazione comunale che si impegna. Non già facendo funzioni di agenzia immobiliare per quanti vogliono vendere o comperare vecchie abitazioni, bensì fornendo alle zone abitate i servizi essenziali di illuminazione, strade, fognature. Da vent'anni a questa parte ben 800 milioni sono giunti nelle casse del Comune subito destinati a opere pubbliche. Le 300 fonti Una delle maggiori attrattive, paesaggio a parte, è costituita dalle fonti di acqua sorgiva curativa. Ve ne sono sparse un po' dappertutto. Basti pensare che l'odierno bricco San Lorenzo era una volta chiamato "bricco delle 300 fonti". Citiamo dei nomi a caso: fonte del Parroco, di casa Valleto, di Murei, di Bordighera, di Giulio Cesare. A S. Candido l'acqua sgorga mista a gas; provate ad avvicinarvi con un cerino e poi state attenti: quasi miracolosamente s'incendia. E di miracoli, per tutte le fonti, ci sarebbe veramente da parlare, considerando le loro potenzialità curative, conosciute anche fuori dei confini italiani. A cura del Comune si stanno ristampando gli Statuti di Villadeati, risalenti al 1400. Oltre all'interesse per le altre notizie storiche, sarà grande l'utilità poiché nelle pagine ingiallite dal tempo si trova un censimento accurato di tutte le sorgenti della zona. Si tratta in pratica di una serie di pozzi che si scavano la via verso il cielo aperto dopo aver tratto acqua dal corso sotterraneo di un antico emissario della Dora che corre idealmente sotto le zone di Brozolo, Villadeati, Moncalvo, Ottiglio. La residenza dei Feltrinelli Una fonte esiste anche all'interno del castello. A noi serve da spunto per iniziare il discorso e introdurci, finalmente, in

Nella pagina precedente e qui a destra viste del castello

questo complesso di costruzioni e giardini, fino ad oggi impenetrabili dai comuni mortali che non avessero la fortuna di portare qualche titolo nobiliare o... finanziario. A piedi, percorriamo il viale di circonvallazione. Giunti a metà ci addentriamo in mezzo ad un filare di vigna e raggiungiamo un corridoio coperto, estrema propaggine della costruzione. Si sale per una scala a chiocciola. Iniziamo la descrizione. Sarà più lunga ed accurata del solito poiché pensiamo che, almeno fino a quando il castello rimarrà proprietà privata, pochi privilegiati avranno occasione di esserne ospiti. Chi segue questo itinerario, cerchi di sopperire con un pizzico di fantasia. Magari ad occhi chiusi! Al primo piano della torre un lungo camminamento ci conduce fin sotto la prima "balconata": un insieme armonico e complesso di cupole, logge, porticati. Alle due estremità i vecchi ricoveri per la selvaggina; nella cattiva stagione un sistema di aria calda provvedeva a mitigare la temperatura. Altra rampa di scale a chiocciola. A salire in fretta si rischierebbe forse di giungere alla balconata coi vestiti completamente attorcigliati. Chissà una volta, con quelle gonne ampie e lunghe che le signore si ritrovavano addosso! Sullo spiazzo un giardino all'inglese, curato magnificamente e coltivato

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Ristorante "da Maria".

con fiori d'ogni tipo. In questa oasi di silenzio e tranquillità l'editore scomparso organizzava ricevimenti e incontri con rappresentanti dell'alta società mondiale. Per loro erano anche stati costruiti un vasto locale-sauna e una piscina con sistema di continua depurazione dell'acqua. Feltrinelli agricoltore Al terzo piano, o terza balconata, la cosiddetta "esedra". Uno spiazzo rotondo, al centro del quale si trova l'enorme vasca per la raccolta delle acque piovane. Sul soffitto interno motivi ornamentali scoloriti dal tempo. In un angolo il busto di nonno Feltrinelli con le date: 18201913. Appesa ad un ramo l'altalena di Carlino, il figlio dell'editore scomparso. Ultima spirale di scalini. Come per incanto sbuchiamo sul vasto piazzale antistante gli alloggi di abitazione. Anche qui prato verde dove Feltrinelli trascorreva lunghe ore, a dorso nudo, pantaloncini corti e zoccoli di legno ai piedi, estirpando la gramigna che oggi comincia nuovamente a crescere tra l'erba più nobile. Entriamo in casa sulla destra, dalla parte della cucina. Ci accoglie la cuoca, signora Rina, e uno stuzzicante profumo. Sapremo più tardi che nel forno stanno cuocendo dei pesci giunti direttamente dalla villa Feltrinelli del Carda. Attraversiamo un piccolo salotto con arredamento a metà tra l'antico e il moderno (molta semplicità:

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un tavolo e sei poltrone, un carrello con una ventina di bottiglie di liquori diversi). Un secondo salotto ed infine lo studio dell'editore: tre pareti interamente occupate da una libreria, una poltrona ed un tavolo accostato alla finestra. I mobili sono di antiquariato d'alta epoca. E ci viene spontaneo domandarci come mai un uomo che disponeva di tanto ben di Dio, abbia cercato o trovato la morte sotto un traliccio dell'alta tensione. Perché? Per quale oscuro motivo? Ancora una teoria di scalini. Al primo piano, sui due lati, gli alloggi dei proprietari e degli ospiti. Al centro un locale circolare dipinto con motivi psichedelici e rimasto incompiuto. Manca l'arredamento. La destinazione della stanza ci resta ignota. L'ingresso d'onore Spalancata una porta di ferro ci troviamo sul terrazzo più alto. Due metri per uno dai quali si gode una vista magnifica su 360 gradi di orizzonte. Sul lato di mezzanotte si stende il parco del castello. A destra l'ingresso d'onore, un arco sotto il quale passavano le carrozze degli ospiti illustri. Per tre volte, da quella strada, sono giunti indesiderati - a complicare ancor più il "caso Feltrinelli" - alcuni ladri in cerca di vestiti e argenteria.

A lato del cortiletto inghiaiato, un campo di calcio in miniatura. Era stata l'ultima idea dell'editore per far contento il figlioletto Carlo che su questo rettangolo di terra si diverte con i figli del personale e gli amici del paese. Di corsa in discesa tutte le scale, un grazie rapidissimo alla custode e giù attraverso la "circonvallazione". Una domanda cattivella quella al sindaco: "Se dovessero mettere in vendita il castello il Comune cosa potrebbe fare? ". Oddone non ha difficoltà: "Troverei i soldi per realizzare il diritto di prelazione che già abbiamo. Con un pizzico di idee nuove potremmo fame un centro d'attrazione, magari organizzando visite in costume e landò. A pagamento, s'intende! ". Usciti dal fatidico portone, infiliamo il dedalo di strette e tortuose viuzze (Villadeati si visita al massimo in "500" o meglio a piedi). Breve tappa al ristorante "Panoramico", del signor Oldano. Per ora 400 posti che in seguito arriveranno a 600. Il menu è tipicamente monferrino: bagna caòda, fritto misto, peperoni ripieni, ravioli, e la cucina, almeno nelle pie intenzioni di avvio, casalinga. Il vino Barbera verrà conteggiato sulle 350-400 lire. Un prezzo onesto. In auto scendiamo verso Zanco. La colazione è prevista al ristorante "da Maria" di Luigi Penna. Salumi locali, vitello tonnato, lingua salmistrata, brasato al barolo e contorno di coste, frutta di stagione, vino Barbera di quello "spesso", tipicamente contadino.


Un'enoteca alla fonte Da Zanco verso Lussello. Dopo circa un chilometro, a destra verso Alfiano Natta. La valle si apre in direzione di Trittango, Cardona, a destra Casarello, avanti si intravvede il campanile di Alfiano Natta. Qui è possibile far provvista di carne fresca e salumi presso la macelleria "da Osvaldo", sulla sinistra della via principale. Ancora qualche minuto di strada panoramica, quindi si scende in basso a sinistra verso la fonte sulfurea. Nei pressi, più avanti, una cava conosciuta dai collezionisti di minerali di mezza Italia perché vi si estraggono gessi geminati a ferro di lancia. Attraverso la stradina "scavata" in mezzo al bosco si arriva alla fonte. Nei giorni feriali si entra evitando il biglietto d'ingresso. Ai festivi si paga. Nessuno di noi due, a dir la verità, avrebbe forse resistito più di 30 secondi nei pressi della sorgente che emana un salutare ma provocatorio odore di uova marce. Nemmeno se avessero pagato noi! Annesso alla fonte un lindo ristorante; da segnalare anche per un'eccezionale enoteca e per la cortesia del proprietario.

I salami di Attila Torniamo sulla strada principale con meta Guazzolo, presso il ristorante -Anselmo -. Nel locale c'è gran movimento; il momento è solenne, stanno nascendo i salumi fatti in casa. Sotto un soffitto dal quale incombono quintali di freschi insaccati, il figlio del proprietario conosciuto col nome d'arte di Attila (ex cantante) ci spiega i segreti del suo lavoro. Non vogliamo tediare oltre e leviamo presto il disturbo, dopo aver dato una romantica occhiata all'ultimo forno a legna della zona per il cui pane accorrono da ogni angolo della terra, Pozzo S. Evasio compreso. Si va verso Odalengo Piccolo seguendo le indicazioni che Atti la: un tempo conosciuto dai "fans" delle canzonette, oggi (forse più redditizio?) rinosegnalano... "Torino". La mato per i salumi. strada è tortuosa. Chi guida comincia a spazientirsi: "Ho fatto ro! più curve oggi che per andare al Lasciamo cosi alle spalle la panoraSestriere". Chi non guida si regge mica punta del Tribecco, il magnififorte e cerca, invano, di prendere co bosco di conifere (tutelato dalla qualche appunto intelligibile! La Sovrintendenza) e la fonte sulfurea collina è bella, la colazione buona, con la coda delle macchine a fare ma siamo pur sempre qui per lavo"il pieno d'acqua che puzza".

Comuni di tutto il Monferrato… unitevi! Da qualche tempo è un fiorire di proposte affinché i Comuni del Monferrato, Casalese o Astigiano, basso o alto si uniscano. Il riconoscimento Unesco ad alcuni Comuni delle nostre colline insieme a Langhe e Roero ha ulteriormente rinfocolato le richieste. La cosa ovviamente ci fa molto piacere perché da anni ci stiamo impegnando in questa ottica, ed ora che le province hanno perso parte del loro peso politico forse è il momento giusto per “ricostruire” una aggregazione del territorio non su basi burocratiche come lo furono le province ma sulle affinità storiche, culturali, ambientali, economiche che sono l’anima reale del territorio. Un paesano di Cerrina o Serralunga è certamente più affine per tradizioni e

cultura a un paesano di Berzano San Pietro (AT) o Verrua Savoia (TO) che a uno di Castelceriolo (AL) o Viguzzolo (AL) o alla stessa Alessandria, con tutto il rispetto per questi comuni. E analogamente il territorio su cui le popolazioni negli anni hanno sviluppato quello che oggi chiamano il Genius Loci è certamente più simile fra i primi di ai tanti altri che, un approccio burocratico, ha accorpato nella stessa provincia. Ma è solo una questione di forma? No, crediamo ci sia tanta sostanza, un interesse comune, un sentire comune, consentono di fare iniziative insieme e di ottenere risultati insieme. Ve lo vedreste un vercellese battersi per sviluppare la viticoltura o un monferrino a lottare per le risaie? Le Province per come

furono costituite (nel 1859) sembrano rispecchiare più il vecchio motto austroungarico del Dividi et impera, i risultati li vediamo: ampie fasce di territori sono economie depresse. Se c’è qualche leader in grado di incardinare una battaglia politica e amministrativa in tal senso si faccia avanti; un novello Aleramo che invece di combattere i Mori nelle loro scorrerie, sappia combattere una classe politicoburocratica miope, asservita agli interessi globali che ancora non hanno scoperto che solo con il contributo di tante piccole realtà si può creare un sistema sociale ed economico equilibrato e virtuoso in cui le collettività e non la finanza tornino ad essere il centro del sistema civile.

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I tre Vercelli A Cerrina opportunità unica per gli amanti della pittura di acquistare opere di grande qualità

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Nost Munfrà oltre a dare ai suoi lettori tante notizie utili e interessanti sul nostro Monferrato prova anche a far fare loro qualche affare. Per chi ama l’arte c’è infatti la possibilità di acquistare opere di alcuni noti pittori Monferrini originari per la precisione a Marcorengo dove una piazza è stata dedicata a uno di essi. Si tratta di Giulio Romano Vercelli (1871-1951) e dei suoi due figli Gemma e Renato che hanno un parente, Giuliano Vercelli, che abita a Cerrina e che dispone di numerose opere dei noti pittori, Prima però, vogliamo farvi conoscere meglio i tre artisti Giulio Romano Vercelli, è figlio di un poeta locale, molto giovane si mise spontaneamente a dipingere e decorare le cappelle dei dintorni. A diciotto anni si imbarcò per l'America del Sud, arrivo in Brasile dove decorò delle chiese, si recò poi in Argentina ed in Uruguay e, dopo due anni di soggiorno, fece ritorno in Europa, abitando per un certo periodo a Parigi dove scoprì l'impressionismo che lo influenzerà nettamente in seguito. Tornato in Italia, si stabilisce a Torino dove rimane la maggior parte della sua esistenza. Espose soprattutto in Italia, ma organizzò ugualmente numerose mostre a Parigi, Marsiglia, Nizza e

nell'America del Sud dove ritornò in due occasioni. L'opera del Vercelli non e facilmente definibile essendo particolarmente eclettico e versatile. Tema privilegiato sono i paesaggi, ma anche i ritratti, "peintre de genre", di natura morte, e di numerose composizioni di fiori, espressioni a lui famigliari. Giulio Romano cessò poco per volta di dipingere, per dedicarsi ai figli che come lui dimostrano notevole attitudine nella pittura. Gemma Vercelli, è nata a Torino (1906-19959), come suo fratello Renato, Gemma Vercelli ricevette i primi insegnamenti dal padre Giulio Romano. Eccetto brevi soggiorni a Nizza, Parigi e Londra, visse e lavoro a Torino fino al 1960 epoca alla quale si trasferì in campagna. La pittura di Gemma Vercelli è totalmente idealista, allegorica, simboleggiando sentimenti, cicli della natura o diverse mitologie con visi e corpi di donne eteree. Sono da citare la cura con la quale riesce a mostrare lo sguardo e la sua maestria nel dare vita alle mani. La sua tecnica ricorda talvolta il “pointillisme” (puntinismo) grazie alle delicatezza di tocco e la finezza dei colori. Fece mostre fin dal 1930 a Torino (Galleria Caver), Milano, Parigi (Galeria Marcel Bernheim), Roma, Genova, Londra, New York (Galeria L.Duncan), Bruxelles, Zurigo, Principato di Monaco Renato Angelo Vercelli nato a Torino (1907-1988), figlio di Giulio Romano. Pare che da ragazzino, Renato ambisse soprattutto all’indipendenza. Imbarcatosi molto giovane per l’Africa ne tornò con molti schizzi coi quali illustrò i racconti che pubblicò nelle sue stampe. In seguito andò a Parigi, frequentando diverse accademie e facendo le prime prove di impasti di colore che saranno in seguito la caratteristica del suo stile. Fu pure caricaturista, regista, Natura morta con ciliege


decoratore, scrittore. Di ritorno a Torino prende la direzione di una Galleria d’arte. Lavora soprattutto in Italia e nel Giura francese. Principalmente paes aggi s ta, dipinge alla spatola con impasto scuro che illumina con tocchi vivaci, spiccanti, violenti. Si citano i suoi sottoboschi fioriti ma fu anche pittore di personaggi femminili e di ritratti sentimentali. Espose a Parigi, New-York, Torino, Milano,

Alcune delle opere che potrete acquistare da Giuliano Vercelli che risiede a Cerrina, contattando i seguenti numeri : 0142-945237 oppure al 329484215 Info su : www.3vercelli.com

Nelle opere (prevalentemente olio su tela o legno) si avverte bene lo stile impressionista sviluppatosi a cavallo fra ’800 e ’900 periodo in cui operò Giulio Romano applicandolo con successo alle tradizioni paesaggistiche nostrane. A casa di Giuliano potrete scegliere fra una quindicina di opere di cui ne riportiamo tre che ci sono particolarmente piaciute. In particolare il ritratto di donna qui a sinistra è realizzato con la tecnica del - puntinismo - (pointillisme) particolarmente difficile da praticare ma in grado di produrre effetti pittorici particolari.

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Il Monferrato al tempo dei Romani Monferrini: un miscuglio di Liguri Celti e Romani Industria è un'antica colonia romana nell'odierno comune di Monteu da Po, sorse probabilmente tra il 124 e il 123 a.C., nell'ambito di una serie di fondazioni di colonie nelle terre del Monferrato volute dal console Marco Fulvio Flacco, presso il precedente villaggio ligure di Bodincomagus ("luogo di mercato sul fiume Po", dal nome ligure del fiume, Bodincus) citato da Plinio il Vecchio. Grazie alla sua posizione geografica, presso la confluenza della Dora Baltea nel fiume Po, che la metteva in comunicazione con la Valle d'Aosta e le sue miniere per via fluviale, fu un centro commerciale ed artigianale (metallurgia). Qui infatti scalavano le chiatte cariche di lastre di pietre delle Alpi, pronte per essere spedite in qualche luogo della Repubblica Romana.

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Se molti sono gli scritti sulla storia del Monferrato medievale ossia quello formatosi dopo la caduta dell’Impero Romano, molto meno trattata è la storia precedente sia durante l’impero che prima della sua formazione. Un po’ di ripasso quindi non ci farà male. Vedremo come un mix di popoli unito alla organizzazione del territorio portata dai Romani, in particolare delle strade portò al formarsi di città e paesi che costituiscono il tessuto primario su cui si è nei secoli formato l’attuale Monferrato. Proprio a partire dalle vie consolari quelle realizzate con le tecnologie più avanzate dell’epoca, fatte di pietre giustapposte su un sottofondo di sabbia e ghiaia, si diffusero attività, commerci, istituzioni cominciare da quella. In particolare ciò che condizionò la nascita di paesi e città furono le infrastrutture ricettive come si direbbe oggi. Le legioni (circa 5000 uomini) realizzavano i castrum ossia campi di sosta, per i civili invece c’erano le mansiones ed inoltre le pietre migliari lungo le strade divennero spesso sede di agglomerati urbani che ancora oggi portano il nome (i vari Terzo, Quarti, Settime ecc). Ma venendo al Monferrato l’antica sua storia ci racconta che i nostri antenati erano di origini liguri e successivamente celto-liguri. Stiamo parlando di circa 3000 anni fa

quando gli storici ritengono sia avvenuta una migrazione verso la Francia meridionale e l’Italia settentrionale di un popolo conosciuto dai Romani come popolo Ligure di cui si conoscono i nomi delle tribù Ingauni, Intemeli, Bagienni e Statielli, sui cui insediamenti i Romani fonderanno rispettivamente le città di Albium Ingaunum: Albenga, Albium Intemelium: Ventimiglia, Augusta Bagiennorum: Benevagienna e Aquae Statiellae: Acqui. Si ritiene che anche numerose località come Asti (forse da Ast, che in dialetto ligure significava altura o collina) e Alba siano di origine ligure, come pure quelle con la desinenza -asco, per esempio Bergamasco, Cherasco, Brusasco, Bossolasco e Cassinasco. Successivamente, intorno al 1000 a.C. si stanziarono in Europa nord-occidentale popolazioni nordiche denominate Celti che, mescolandosi coi Liguri diedero origine a quello che fu chiamato ceppo celto-ligure. Molte città come Torino, Ivrea, Pavia e Milano, sarebbero di origine celtica; anche Vardacate o Vardagate, forse identificabile con Casale Monferrato, sarebbe di origine celtica. Recenti ritrovamenti archeologici a Pobietto fra Morano Po e Trino, sul finire dell’età del bronzo, tra X e XI secolo a.C. dimostrano la presenza di queste popolazioni vicino alle nostre colline. Si tratta di una necropoli con sepolture a cremazione che documentano la presenza di recipienti fittili, armi e monili in bronzo, attribuibili a popolazioni celto-liguri. Nel V secolo a.C. popoli celti, denominati Galli dai Romani perché provenienti dalla Gallia, invasero l’Italia settentrionale e costrinsero i Liguri a ritirarsi nel territorio montuoso grosso modo corrispondente all’attuale Appennino Ligure. Gli storici riferi-


scono che nel corso della seconda guerra punica (219-202 a.C.) molti dei nostri antenati liguri o celtoliguri seguirono Annibale che, dopo aver superato le Alpi, riuscì a sconfiggere gli eserciti romani. Molti si arruolarono anche nell’esercito di Asdrubale, fratello di Annibale, quando attraversò a sua volta le Alpi nella primavera del 207 allo scopo di congiungersi al fratello e infliggere a Roma il colpo di grazia. Ma non fu così. I nostri antenati, che combatterono a fianco dei generali cartaginesi contro Roma, si comportarono valorosamente: mulieres ut viri, viri leones (donne come uomini e uomini come leoni), ma sfortunatamente come spesso capita nella storia scelsero la parte sbagliata. I Romani nell'intervallo tra la seconda e la terza guerra punica (fra il 202 e il 149 a.C.) iniziarono ad estendere le loro conquiste all’Italia settentrionale. Ma la completa sottomissione di Liguri e Galli al dominio di Roma, fra guerre, rivolte e repressioni, durò quasi un secolo. Particolare attenzione venne posta dai Romani alla rete stradale, indispensabile al collegamento tra le varie parti dell’Impero. Il Monferrato fu contornato da alcune vie consolari. Centro nevralgico di queste strade era Dertona: Tortona, attraversata da due vie consolari: la Postumia, collegante Genova con Aquileia attraverso Libarna, Cremona e Verona e l’Aemila Scauri (proveniente da Roma, Bologna, Pisa, Pontremoli e Fiorenzuola) diretta a Vada Sabatia (Vado Ligure) attraverso Acqui e l’alta Val Bormida. Da Dertona partiva inoltre

la Fulvia diretta a Torino attraverso Villa del Foro, Asti e Poirino (le località di Quarto, Annone e Quattordio ricordano le rispettive distanze in miglia da Asti: quattro, nove e quattordici). Ad Acqui l’Aemilia Scauri si incrociava con la Iulia Augusta (ma non tutti gli storici sono d’accordo), proveniente d’oltralpe via Chiusa di Pesio, Benevagienna, Pollenzo ed Alba. Altra importante via consolare, non meglio identificata, collegava Pavia con Torino alla sinistra del Po, attraverso Lomello e Rigomagus nome della Trino antica. Oltre alle località citate, molte altre sarebbero di derivazione romana e in particolare quelle con suffisso –ano come Paciliano (attuale San Germano di Casale), Conzano, Grazzano, Occimiano, Felizzano, Ozzano, Agliano, Vigliano, Roccaverano, Caranzano. Questi erano Pagi o Vici, piccoli villaggi, i cui toponimi derivavano dal nome del proprietario romano del relativo fundus, fondo o fattoria agricola, più la desinenza –anus a formare l’aggettivo corrispondente, che serviva a caratterizzare il fondo stesso. Così per esempio fundus di Gratius divenne fundus gratianus e quindi Grazzano; fundus di Allius divenne fundus allianus e quindi Agliano. Oltre a queste strade consolari, pavimentate con blocchi di pietra, esistevano altre numerose strade secondarie vieae rusticae o viae terrenae sterrate, che collegavano località meno importanti tra loro o con le strade consolari. È accertata la presenza di una strada alla destra del Po, collegante Valenza con Torino attraverso Occi-

miano, Vardacate, Pontestura e Industria (lungo la attuale Valle Cerrina?). Altre strade collegavano Asti con Industria attraverso Settime (sette miglia da Asti) e Montechiaro d’Asti; con Vercelli attraverso Moncalvo e Pontestura; con Alba e Pollenzo; con Acqui attraverso Vinchio (venti miglia da Asti) e Incisa. Sono anche state supposte altre strade colleganti, attraverso il Basso Monferrato, Asti con Vardacate, Villa del Foro con Valenza e con Vardacate.

Come si può vedere nella cartina sottostante oltre alle vie consolari Via Aemilia (in rosso) che da Placentia attraversa la Cispadania e la via Aemilia Scaura (fra Genova e Piacenza) in blu, il Po indicava il confine fra Liguria romana e la Gallia Transalpina. Cutiae è Cozzo, Rigomagus è l’attuale Trino. Il toponimo originario, Rigomagus, significa infatti "mercato del re" in lingua celtica. Dal II secolo a.C. Rigomagus fu sede di una mansio romana (una stazione di posta, citata nell'Itinerarium Burdigalense) di una certa importanza, strategicamente posizionata in prossimità del guado sul fiume Po, ed all'incrocio tra le vie militari che univano la Civitas Taurini (Torino) con Ticinum (Pavia) ed in seguito Augusta Praetoria (Aosta) con la Civitas Asta (Asti). Esisteva anche una strada secondaria che, a sud del Po, attraverso Industria (oggi Monteu da Po) portava ad Augusta Taurinorum (Torino)

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Mnestra mariaia e Süpa cavalanta

Dalla minestrina “truccata da corsa” alle infinite zuppe a base di pane nelle ricette d’Italia di cui la nostra süpa è solo un esempio

Scriveremo oggi di due ricette assai semplici di cui per una, non abbiamo trovato traccia nel pur infinito oceano di internet, e dell’altra invece se ne scrive diffusamente... Due piatti che le nonne facevano spesso e che riscuotevano un certo successo nonostante la loro semplicità. Naturalmente anche per queste ricette esistano diverse versioni più o meno simili e comunque, sempre seguendo i gusti personali, sono possibili diverse variazioni sul tema. Stiamo parlando della Mnestra mariaia e della Supa cavalanta. Se cercate -Minestra maritata- nei ricettari vi proporranno una preparazione tipicamente napoletana a base di carni e verdure che nulla ha a che vedere con la nostra mnestra che altro non è che una semplice minestrina “truccata” magari per accontentare anziani e giovani a cena alla stessa tavola e che ricorda invece una semplice Stracciatella.

dell’uovo crudo, precedentemente sbattuto, rapprende e cuoce istantaneamente diventando bianco. Come scherzosamente diciamo noi “è una minestrina truccata da corsa” che piace ai nostri vecchi che alla sera vogliono stare leggeri ma anche a chi, le minestrine, non le ama tanto. E’ possibile poi non mettere la pasta nel brodo e aggiungere dopo l’unione con le uova come sopra descritto, dei cubetti di pane abbrustolito.

Mnestra mariaia Si inizia col preparare una banale minestrina, portando a bollore acqua, dado di carne o di verdure, secondo i gusti e un pezzetto di burro, quindi si aggiunge qualche pugno di pasta piccola, tipo farfalline o tempestina. Mentre la pastina cuoce, in una zuppiera a parte, si mettono due o tre uova intere (per 4 persone) e si aggiunge abbondante formaggio grana grattugiato, sale e la buccia di mezzo limone anch’essa grattugiata, si mescola sbattendo ben bene il tutto in modo da formare una specie di pasta densa e fluida. Quando la minestrina è pronta con la pasta cotta, si versa il tutto nella zuppiera e si mescola ancora tutto per bene sino ad ottenere una minestra omogenea. L’aspetto della Supa Cavalanta in cui si è mantenuta Noterete che a contatto con una consistenza brodosa con i pezzi di pane e la ci- il brodo bollente l’albume polla in evidenza

L’aspetto della mnestra mariaia ricorda la stracciatella

Passiamo ora alla Supa cavalanta. Non chiedetemi il perché del suo nome, così la chiamavano i miei vecchi e così ve la ripropongo. Diversamente dalla precedente di questa minestra esistono ricette del tutto simili nelle varie parti del nostro Stivalone raccolte sotto la voce di Minestra o zuppe di pane ma anche di Pancotto, Panada in tutte le loro varianti. E le varianti non si contano. Come sempre ve ne proponiamo una delle tante quella che qualche volta ci prepariamo per cena e che apprezziamo particolarmente. Partiamo con gli ingredienti le cui quantità e qualità, mai come per queste ricette, sono da considerarsi orientativi, capirete il perché. Per 4 persone: un paio di litri di brodo vegetale; 500 gr. di cipolle; 100 gr. di burro; 200 gr. di formaggio grana grattugiato; 2-300

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grammi di pane raffermo (o anche di più); ½ bicchiere di vino bianco secco; pepe e sale a piacere. Premettiamo che questa ricetta può esser realizzata con consistenze diverse: da quella più “brodosa” a quella più consistente tipo pancotto. Quella che vi proponiamo dovrebbe risultare una via intermedia, sta a voi poi adeguarne la consistenza incrementando o riducendo il rapporto fra pane raffermo e brodo. Si tagliano le cipolle a fettine e le si fa friggere nel burro (o se preferite olio) il tutto in una pentola da minestra col bordo alto. Quando le cipolle iniziano a dorarsi si aggiunge il vino bianco e appena è sfumato il brodo preparato a parte o, se si ha fretta, acqua bollente e dado. A questo punto si aggiunge il pane raffermo precedentemente tagliato a pezzi per facilitare l’assorbimento del brodo e la cottura consentendogli di disfarsi; si aggiungono il sale, il pepe o altri sapori che si amano, si fa cuocere per una ventina di minuti mescolando di frequente. Sul finire si aggiunge il formaggio grattugiato e qualcuno anche un goccio di olio extravergine. E’ importante mescolare bene specialmente se avete abbondato con il pane dando così la consistenza densa e pastosa tipica del pancotto che, in tal caso, si attacca facilmente al fondo della pentola. Se preferite, il grana può essere aggiunto direttamente sulla minestra dopo che è stata servita nel piatto. Questo è il tipico piatto della cucina povera che risale al medioevo, spesso servito nelle locande ai viandanti e che si accompagna volentieri con qualche bicchiere di barberaccia. Ogni Regione ha poi le su varianti: chi usa i pomodori invece delle cipolle, chi le foglie di verza o i porri o altro ancora. E’ una ricetta semplice e anche molto versatile che, soprattutto, consente di recuperare gli avanzi di quel ben di Dio che è il pane. Segnaliamo ancora come ricetta della stessa famiglia la versione che prevede di versare il brodo con la verdura, su fette di pane abbru-

stolito, quindi coperte di scaglie di formaggio, il tutto gratinato al forno per qualche minuto. In tal caso se per verdura utilizzate le verze, per formaggio la Fontina e le fette di pane son di Segale, vi avvicinerete a quella che in val d’Aosta chiamano la Valpellinenze. Vi suggeriamo anche alcune delle infinite varianti territoriali d’Italia. La versione Toscano prevede un soffritto di odori e verdure di base, come ad esempio pomodori, successivamente bagnato con liquido, acqua o brodo, e cotto per 10 minuti, cui viene aggiunto il pane. La versione Laziale e Calabrese richiede che tutti gli ingredienti, verdure di base (pomodori) e odori (basilico, aglio, parmigiano, aromi), pane, brodo o acqua siano cotti insieme sin dall'inizio per circa una trentina di minuti; il pancotto calabrese prevede inoltre l’aggiunta di peperoni. Il Pancotto Pugliese vuole che le verdure di base (pomodori, patate, zucchine, cime di rapa) vengano cotte nel liquido al quale poi si aggiunge il pane, mentre gli odori vengono soffritti a parte e uniti al resto solo al momento di servire. In Lombardia si prevede che il pane sia messo a bagno nel brodo e una volta intriso venga cotto con grassi e verdure aromatiche fino a ebollizione. In passato, soprattut-

to in Lombardia e in Toscana, era usato per favorire l'allattamento e veniva servito ai convalescenti. Come su scritto nelle diverse versioni la zuppa di pane veniva servita come cibo ai viandanti; pur non avendo fonti certe, scritti rinvenuti sui libri del convento dei frati francescani a Lequile, nel Salento, affermano che Giuseppe Garibaldi mangiò in questo convento la zuppa di pane, dopo essersi rifugiato in seguito a una riunione clandestina di cospiratori antiborbonici tenutasi proprio a San Cesario di Lecce. Nelle immagini alcuni aspetti assunti dalle a Zuppe di pane o Pancotti o Panade secondo gli ingredienti impiegati e del tipo di preparazione.


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