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Gabiano e dintorni

Il mensile della nostra terra

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In copertina foto di: Gianni Boschi, Arianna Boschi, Laura Chiarello, Ubertalli Lorenzo. Trifole del Monferrato, ultime notizie CiviltĂ del vino

Febbraio 2012

Cereseto curiosità , racconti e un po’ di storia


Trifole del Monferrato… ultime notizie dalla ricerca di Enzo Gino

Pochi sanno che esistono tartufi... maschi e… tartufi femmina, e che 10.000 anni fa, quando le querce hanno varcato le Alpi il tartufo bianco non le ha seguite restandone al di qua...

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Se quello dei funghi è un regno a sé stante e quindi non fa parte né di quello vegetale e tantomeno di quello animale, il tartufo è certamente il re di questo regno. Non cresce alla luce del sole e necessita di grandi piante, piante nobili come roveri, noccioli, pioppi che mettano al suo servizio le loro grandi radici per farlo crescere. Che siano una categoria di nobili lo si vede anche dal limitato numero, se le specie fungino sono centianaia di migliaia poche decine sono le varietà di tartufi. Limiti che si estendono non solo alla varietà ma anche ai ritrovamenti. E fra questi uno in particolare sembra disporre di tutte le qualità per rivestire all’interno di questa ristretta cerchia il ruolo di re: il Tuber Magnatum Pico al secolo il tartufo bianco d’Alba. Nome altisonante nella sua versione latina quanto simbolica nella versione popolare con quel suo richiamo al bianco, colore amato da queste terre, rafforzato dal nome di Alba che, oltre al richiamo della celeberrima città capitale delle langhe, rafforza l’aggettivo conferendo al fungo ipogeo una sorta di aura sacrale, proprio a lui che di luce in verità non ne ha mai vista, prima di venir scoperto. Re del Monferrato, delle Langhe e del Roero, re perché ha evitato nei millenni di attraversare le Alpi come hanno fatto tanti suoi amici con la scorza ben più scura e dura della sua; re perché a differenza di tutti gli altri è restio ad ogni forma di coltivazione e pretende condizioni ambientali molto particolari, in fatto di umidità, temperature, caratteristiche del suolo radici su cui crescere. Re che ha persino creato una economia che lo vede al centro di compravendite dalle cifre ragguardevoli e certamente, fra tutti i

Paola Bonfante

certamente, fra tutti i suoi simili, più consistenti. Un re che sa essere anche il miglior rappresentante delle nostre terre e delle colline in cui cresce senza mai farsi notare e ricorda da vicino le genti che da sempre le abitano, ci vivono e ci lavorano. Riservato, sensibilissimo all’ambiente in cui si sviluppa, cresce anche per anni sotto terra, invisibile, collaborando con piante ben più grandi di lui con cui sa intrecciare rapporti di mutuo interesse. Per scoprirlo occorre gente speciale che conosce non solo i luoghi, le ore, le stagioni, le piante, il territorio, ma la terra, la dura, bassa, fertile, incontaminata, terra delle nostre colline, gente che si accompagna, come una simbiosi, solo al suo “tabui” cercatori che, come lui, amano lavorare in solitudine, nel silenzio dei boschi d’autunno, spesso avvolti dalla nebbia, senza farsi notare senza farsi vedere e senza lasciar segno del proprio passaggio. Persino nell’aspetto il nostro re rispecchia una cultura. Informe, monocromatico, senza le rotondità delle patata, il colore delle carote, la lucentezza delle cipolle, vagamente simile al “grottoluto” Topinanbur che diversamente la lui sbandiera la sua presenza con alti e colorati fiori gialli, mentre lui, lungi dal segnalare la sua presenza, resta sempre legato alla terra dove è nato e cresciuto e dalla quale pare non volersi staccare nemmeno quando, scoperto, viene posato, come un re, sul morbido mantello che riveste un vassoio per essere esposto al mondo. Un re che al momento sa esprimersi con grande forza, investendo della sua presenza della sua essenza tutto ciò che lo circonda diventando il centro dell’attenzione, dell’interesse e talvolta dell’economia di mercati a lui dedicati nei diversi angoli delle nostre colline, mercati in cui da tutto il mondo si contendono a suo di euro, dollari, juan le sue grazie.

Tuber Magnatum Pico, Bianco d’Alba


tartufismo, quel comportamento sotterraneo, nascosto, invisibile ma talvolta letale per chi non lo sa riconoscere. Questo nostro tartufo metafora del carattere nato dall’intreccio di cultura, tradizione, economia, commercio, territorio che come, e più di tante altre creature, ha contribuito e contribuisce a plasmare. Sono i caratteri umili e forti, talvolta sfuggenti di società contadine che hanno attraversato secoli di storia, carestie, invasioni, guerre ed epidemie ma che hanno saputo superarle proprio perché hanno un tratto comune immutato da sempre divenuto valore intrinseco destinato sempre più a diventare l’ancora di salvezza delle società secolarizzate: la terra, la nostra terra, quella che nessun cinese potrà copiare, nessun laboratorio clonare, nessuna business distruggere e che solo chi con essa è cresciuto e ci vive sa intimamente conoscere ed amare. E chi più di un tartufo che nella nostra terra, dalla notte dei tempi, nasce, cresce e ci vive letteralmente immerso, può raccontarcelo?. Per questo abbiamo voluto sapere tutto ciò che c’è da sapere su questo re della nostra terra, per farlo ci siamo rivolti a chi di mestiere i tartufi e non solo, li studia da decenni: Paola Bonfante, direttore adesso del Dipartimento di Biologia Vegetale dell'Università e prima del Centro di Studio sulla Micologia del terreno del CNR, un classico luminare della materia, con trent’anni di ricerca sulle spalle e che in una lunga intervista ci ha raccontato qualche frammento delle relazioni scienza-tartufo. Molti sanno che il tartufo appartiene alla famiglia dei funghi cosiddetti ipogei, ossia che crescono sotto terra, pochi sanno che i funghi, dopo gli insetti, sono il gruppo biologico più numeroso sul pianeta; si stima esistano almeno mezzo milione di varietà fungine e da tempo sono stati elevati al rango di un regno a sé, alla stregua del regno vegetale o animale non essendo quindi né l’uno né l’altro. Tanto è importante la materia che negli anni si è sviluppata la etnomicologia che studia il rapporto fra l’uomo e i funghi, un rapporto documentato sin dall’età della pietra che coinvolge intimamente l’uomo. Giusto per dare qualche sommario

cenno, citiamo che padetto volgarmente bianne, birra, vino, formagchetto o marzuolo; 8) gi, penicillina, antibiotici Tuber macrosporum esistono grazie ai funghi Vitt., detto volgarmente oltre purtroppo a numetartufo nero liscio; 9) rose malattie indotte da Tuber mesentericum funghi. Vitt., detto volgarmente Anche il territorio è catartufo nero ordinario. ratterizzato dai funghi, E continuando a parlare tanto che si potrebbe dei mangerecci, pare dire “Paese che vai, funche i primi cultori dei ghi che trovi” visto che tartufi in cucina fossero ogni paese ha le sue gli antichi Greci e Romavarietà ed in alcuni conni. Ma per avere il priOreste Mattirolo tinenti come l’Australia mo trattato ad essi dediquesto regno è ancora cato si dovette attendere tutta da esplorare. qualche secolo quando un italiano Attraverso la filogeografia, che stuAlfonso Ciccarelli nel 1564 pubblicò dia la distribuzione geografica delle Opusculum de Tuberibus. Da allora linee genetiche che sono presenti gli scritti si sono moltiplicati per nelle popolazioni di una specie o arrivare agli oltre 1500 testi di oggi gruppi di specie, è stata studiata la come stimati da Anna Fontana già distribuzione del tartufo anche nel Direttrice del Centro di Studio Micopassato. Così si è scoperto che, alla logia del Terreno (CSMT) del CNR. fine della glaciazione, 10.000 anni In Piemonte il prof. Oreste Mattirofa, il Tuber melanosporum seguì lo fondatore della Facoltà di Agraria a Torino sin dalla fine ‘800 iniziò a le querce dalle zone più meridionali studiare i funghi ipogei ed in partie calde dell'Italia e della Spagna colare la simbiosi localizzata nelverso le valli francesi, mentre il l'apparato radicale tra un fungo ed Tuber magnatum Pico o Bianco una pianta superiore. Da questa d’Alba non ha mai superato le Alpi, simbiosi si sviluppano delle strutturestando confinato nelle colline e re caratteristiche che gli addetti ai nelle pianure padane per arrivare lavori chiamano Micorriz e, essensino all’Istria, Croazia, Slovenia e ziali per il completamento del ciclo Ungheria vitale e per la creazione del corpo NI tartufi si riducono a oltre una fruttifero particolarmente aromatisessantina di specie presenti in co a tutti noto come tartufo. Europa America e Australia. In ItaIl Mattirolo diede così il via ad una lia sono presenti circa 25 varietà e ricerca scientifica che ancora oggi di queste solo poche sono ricercate vede l’Italia, e Torino in particolare, e, in base alla legge 752 del 16 all’avanguardia nel mondo in quedicembre 1985, solo 9 specie in sto campo. Il CSMT-CNR fondato tutto sono commercializzabili: nel 1951 dal micologo Beniamino 1) Tuber magnatum Pico, detto Peyrronel è infatti l’unico in Italia a volgarmente tartufo bianco; 2) Tudedicarsi in modo istituzionalizzato ber melanosporum Vitt., detto volai funghi del suoloe in particolare a garmente tartufo nero pregiato; 3) quelli micorrizici. Tuber brumale var. moschatum De Interessante la “joint venture”fra le Ferry, detto volgarmente tartufo moscato; 4) Tuber aestivum Vitt., piante ed i tartufi, questi ultimi indetto volgarmente tartufo d’estate fatti sono alquanto selettivi e non si o scorzone; 5) Tuber aestivum var. uncinatum Chatin, detto volgarmente tartufo uncinato; 6) Tuber brumale Vitt., detto volgarmente tartufo nero d’inverno o trifola nera; 7) Tuber Borchii Vitt. o Tuber albidum Pico, Tuber aestivo Vittad.

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accontentano di una pianta qualunque, ma esigono specie particolari. Il tartufo nero cresce solo con alcune varietà di quercia: Roverella, Leccio, Cerro, oltre che col Tiglio, il Carpino Nero, il Nocciolo ed il Cisto che è un cespuglio. Quello bianco oltre alle citate varietà (ad esclusione del Cisto e del Leccio) cresce anche sulle radici della Farnia, del Rovere e su diverse varietà di pioppo: Nero, Bianco, Carolina e Tremulo, sulle radici del Salicone e del Salice Bianco. L’accordo fra i rappresentanti dei due regni, quello vegetale e quello fungino, prevede che la pianta fornisca al fungo ipogeo gli zuccheri sintetizzati dalla fotosintesi clorofilliana che esso non è in grado di svolgere e quest’ultimo ricambia rilasciando minerali indispensabili alla pianta quali fosforo e azoto. Diversamente dai tanti loro parenti “patogeni”, ossia generatori di malattie, i tartufi quindi vivono pacificamente e nel reciproco interesse con la pianta ospite. Giova segnalare anche altre importanti funzioni svolte dai funghi che possono esser considerate delle “scatole nere” della natura. La loro distribuzione sul territorio sia attuale che passata, attraverso i reperti fossili, consente di comprendere la storia evolutiva delle piante. I funghi simbionti sono stati sicuramente essenziali alla conquista delle terre emerse da parte delle piante, e attraverso essi si può anche testare lo stato di salute del suolo. I funghi infatti assorbono i metalli pesanti dal terreno in misura tale che a 25 anni dall’incidente di

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Chernobyl, Greenpeace ha misurato nei funghi attorno alla centrale, livelli di Cesio 137 di 288.000 Bq/kg (Becquerel per chilogrammo) pari a 155 volte oltre i limiti consentiti. I miceti, altro nome dei funghi, riescono infatti a sopravvivere all’inquinamento bloccando i metalli pesanti sulla superficie delle loro pareti cellulari, o immobilizzandoli dentro loro vacuoli. Questa interessante caratteristica è stata oggetto di studio da parte dei gruppi di ricerca del Dipartimento di biologia vegetale e del CNR nell’ambito di progetto dedicati alle biotecnologie ambientali: essa può aprire interessanti prospettive all’uso combinato di piante e funghi per il risanamento dei luoghi inquinati. Fra tutti i funghi mangerecci, il tartufo è, come tutti sanno il più pregiato ed è diventato oggetto di un importante mercato: basti pensare che nel 2010 il prezzo, per pezzature media di 20 grammi, si aggirava attorno ai 220 € all’ettogrammo crescendo sensibilmente con il crescere delle dimensioni, inevitabilmente quindi si presta a contraffazioni e truffe di vario genere. Dai vari alimenti a base di tartufo, formaggi, salumi, paste, salse “arricchiti” dalla sua presenza, sino alla vendite delle piccole piante tartufigene o più propriamente micorrizate che hanno (o dovrebbero avere) le radici colonizzate dai funghi ipogei e che vengono vendute a caro prezzo. In passato era difficile verificare la reale presenza di tartufo negli alimenti piuttosto che il ricorso ad aromi artificiali, così come difficoltoso se non impossibile era l’accertamento dell’effettiva e corretta micorrizazione delle piante. Grazie allo sviluppo a partire dagli anni ’90 delle t e c n i c h e di diagnostica molecolare, si sono identificate sequenze di DNA che permettono di riconoscere e distinguere i diversi tartufi, tra cui il Tuber magnatum, il più Ciclo del tartufo

tum, il più prezioso tra tutti, e che,

grazie a tali sonde, può essere identificato con certezza anche durante la fase simbiontica. Con questo sistema è stato scoperto che solo il 15-20% dei campioni di piante esaminate erano correttamente micorrizati, e soprattutto in situazioni controllate, quali celle climatiche e serre. L’assenza di micorrize di T. magnatum nei vivai, insieme al frequente ritrovamento di bianchetti quali il T. maculatum e il T. borchii, indicano una scarsa competizione del T. magnatum in queste condizioni. Dalle ricerche sono emerse anche le condizioni ambientali necessarie alla crescita dei tartufi. Se in un recente passato l’unica indicazione disponibile per chi voleva allestire una tartufaia sperimentale era l’analisi chimico-fisica del suolo, oggi è possibile affiancare a questa una analisi molecolare, una vera carta d’identità, in grado di rilevare l’eventuale presenza del micelio di T. magnatum nel suolo. Quindi è possibile stabilire non solo se un terreno è vocato alla tartuficoltura, ma anche rilevare la persistenza del prezioso micete in tartufaie di impianto. Parallelamente alla tracciabilità del pregiato bianco T. magnatum, è stato possibile anche tracciare il tartufo pregiato nero, T. melanosporum, che si trova spontaneamente in Italia, Francia e Spagna ma viene anche ottenuto in tartufaie sperimentali in altri paesi quali Israele, Stati Uniti e Nuova Zelanda. Da un punto di vista ecologico la presenza di questo fungo nel suolo è associata, a differenza del T. magnatum, alla formazione del pianello, meglio noto con la parola francese brulé, una zona intorno alla pianta ospite caratterizzata da assenza o scarsità di vegetazione ed entro cui si raccolgono generalmente i tartufi. Ipotesi sulla formazione del pianello hanno suggerito un effetto fitotossico dovuto al tartufo, tuttavia i meccanismi con cui questo processo avviene sono del tutto sconosciuti. In uno studio condotto sul suolo di tartufaie francesi buone produttrici di tartufo è stato accertato che il T. melanosporum è il tartufo dominante in questo ambiente in cui diminuiscono in percentuale altre specie fungine, evidenziando quindi un effet-


suo ruolo importante nella formazione del pianello. La tradizione francese nel settore della tartuficoltura è notevole: da secoli infatti in Francia si coltivavano i tartufi neri e in assenza di conoscenze scientifiche i contadini diffondevano semplicemente le radici delle piante tartufigene. Ma il tempo della Scienza non è passato invano: nel 2007 in un meeting tenutosi a Torino, ad opera di un consorzio italo-francese, coordinato da Francis Martin, direttore di Ecogenomics of interactions di Nancy, un Centro specializzato nei sequenziamenti genomici, fu lanciato un progetto per il sequenziamento del DNA del tartufo nero del Périgord (Tuber melanosporum). Il sequenziamento è il metodo che consente di descrivere tutte le informazioni genetiche ereditarie che sono presenti nel DNA di un organismo e che sono alla base dello sviluppo di tutti gli organismi viventi. I risultati della ricerca, che ha visto attivamente coinvolto il gruppo di ricerca di Torino tra cui la dottoressa R.Balestrini del CNR , furono pubblicati nel marzo 2010 sulla prestigiosa rivista Nature, ed ebbero grande riscontro sulla stampa di tutto il mondo. La conoscenza del Genoma del tartufo è stata una chiave di volta per capire la biologia di questi organismi che sono considerati dei biofertilizzatori naturali. L'analisi ha svelato, senza più ombra di dubbio, che questo fungo è eterotallico, ossia porta caratteri genetici che Micorrize al microscopio

permettono il processo di fecondazione su individui differenti, analoghi a maschi e femmine. Sulla base di questa scoperta sarà presto possibile selezionare individui di segno opposto per garantire la compatibilità sessuale e il successo riproduttivo in programmi di tartuficoltura che si potranno svolgere finalmente su base scientifica. Questa scelta di bilanciamento degli individui si tradurrà in una maggiore produttività del tartufo nero nelle tartufaie di impianto in cui le piante ospiti dovranno presentare individui di sesso opposto. Altre informazioni di carattere applicativo che emergono sono le migliaia di marcatori genetici sparsi lungo tutto il genoma e che potranno essere impiegati per evidenziare polimorfismi genetici, ossia variazioni genetiche presenti nella stessa popolazione di tartufi provenienti da diverse aree e quindi utili per classificare i tartufi sulla base della loro provenienza. L’analisi del genoma ha anche evidenziato il ridottissimo potenziale allergenico (ossia la capacità di causare allergie) del tartufo, che viene pertanto riconosciuto come sicuro, in quanto in esso mancano i geni capaci di creare le temibili micotossine. Inoltre, sono stati individuati i geni responsabili della formazione dei composti volatili che costituiscono l’aroma del tartufo (isoprenoidi, alcools e, soprattutto, composti solforati). L’insieme di queste informazioni permetterà di definire un profilo genetico molecolare che coniughi l’origine geografica dei tartufi neri con il loro aroma. grazie alla conoscenza del genoma, il fine ultimo della rintracciabilità si traduce quindi nel controllo della qualità tanto dei tartufi freschi quanto dei prodotti al tartufo che hanno, ormai, un largo consumo. Gli strumenti molecolari messi a punto negli ultimi 15 anni insieme a una conoscenza approfondita della sistematica dei tartufi, iniziata proprio a Torino, permettono pertanto di identificare con certezza le specie di tartufo presenti sulla nostra tavola. Ma anche i tartufi in scatola possono essere identificati su questa base. Trifulau con Tabui

Per i prodotti al tartufo l’osservazione delle spore e la messa a punto di un metodo che permetta il recupero di DNA costituiscono lo strumento per svelare il segreto contenuto. Se oggi è possibile quindi sapere quali specie sono state usate in un prodotto, ben poco si sa sulla loro origine. È quindi al genoma che si affidano le prospettive di rintracciare l’origine geografica dei tartufi che sono adoperati in vario modo nell’industria alimentare. Basti pensare che in Italia, il tartufo fresco e lavorato ha un mercato che supera i 300 milioni di euro. Naturalmente fra tanti benefici e tante opportunità qualche pericolo si nasconde. Sentendo parlare di genoma e DNA il pensiero corre subito alle piante ed agli animali transegnici. Perché quindi non un tartufo in vitro, usando metodi di trasferimento genetico ? L’eventualità, per ora, non è l’obiettivo delle ricerche che si stanno conducendo, come conferma la prof.ssa Bonfante. Anzi queste ricerche consentiranno di disporre di strumenti molto utili per garantire la sopravvivenza di un prodotto naturale eccezionale come il tartufo; questi strumenti sono a disposizione delle Agenzia locali e di chi volesse indagare sulla provenienza dei tartufi, in quanto oltre al loro preciso riconoscimento, essi consentono anche di tracciare la loro storia e provenienza. Sarebbe infatti difficile distinguere solo su base morfologica ossia sulla loro forma ed aspetto un T. melanosporum da un T. himalayense o da un T. indicum, specie che non hanno valore commerciale. Così come risulterebbe difficile distinguere il bianchetto (T. borchii) dal T. maculatum non presente nella lista della legge 752. Quindi viva la ricerca sia essa in laboratorio o nei boschi .

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Civiltà del vino Seconda parte di Sergio Ramoino

dopo il Tartufo l’altro re delle nostre terre che gli contende il trono: il vino

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Dopa la pausa di fine anno riprendiamo un po’ di storia del vino. Un’annosa e campanilistica questione: chi produsse il primo vino in Italia ? 2000 anni fa lo si trova in Sicilia; anfore e contenitori di fattura Egea rinvenuti in questa regione ci fanno pensare che il vino arrivasse dalla Magna Grecia, dove era consideratissimo, anche usato come merce di scambio. Una citazione dell’Odissea narra “di una terra (l’Italia) dove non serve ne’ arare ne’, seminare, perche’ tutto nasce da solo, compreso la vite che dà grossi grappoli” quindi già considerata terra da vino, e sempre Omero narra che Ulisse offrì del vino a Polifemo, che gradì paragonandolo all’ambrosia. Storicamente quindi, essendo portato il vino dalla Magna Grecia, iniziò a farsi conoscere in Sicilia, per poi continuare il suo viaggio secondo l’espandersi della Magna Grecia, cioè risalendo la penisola fino al Nord. Giusto per non trovare risposta all’annosa e campanilistica questione iniziale, molti sono contrari a questa tesi, però sembra che nel centro Italia le bevande del tempo fossero realizzate con more, lamponi o bacche di sambuco. Ne consegue che mentre in Sicilia si brindava con il vino, più a nord si brindava con bevande diverse. Un grosso passo avanti lo fecero gli

Etruschi, che avendo a disposizione le viti autoctone e spontanee, altro non fecero che affinarne la coltivazione. Ricordiamo che le viti a quel tempo erano assolutamente spontanee, non potate e si arrampicavano ad altri alberi come faggi, pioppi, querce per sostenersi, coltivazione definita “ad arbustum”, al contrario del Sud dove la vite veniva già coltivata bassa, sorretta da piccoli pali (quasi come oggi in certe zone più calde). Reperti archeologici confermano che Dionisio (il Bacco per i Greci), dio della felicità, lo si ritrova rappresentato su vasellame, sempre più raffinato per poter accogliere una bevanda sempre più raffinata, e ricordiamo che gli Etruschi, come i Greci, non annacquavano mai, perchè ritenevano il vino una medicina… si sa tutte le scuse sono buone!!!!! E non solo medicina, perchè già i Romani bevevano, e le donne, inizialmente escluse dalla pratica del bere perchè il vino a loro offerto era considerato sprecato, hanno iniziato a bere quando il vino si era raffinato un po’ : e quando si dice “cosa da donne” gli uomini romani intendevano questo vino raffinato, che loro non bevevano, prediligendone uno più rozzo, quasi aceto, con cui fare anche colazione bagnandoci il pane, considerandosi uomini forti. Con l’espandersi di Roma nel mediterraneo, si scoprì che il vino era largamente redditizio, più di altre colture, per esempio il grano, che confluiva a Roma in larga misura dalle terre conquistate. Se tempi addietro le matrone romane erano considerate adultere e quasi condannate a morte per aver bevuto in pubblico, Livia la moglie di Augusto ha contribuito a far cambiare le cose: era una profonda conoscitrice di vino, beveva solo i migliori, che pare arrivassero appositamente per lei da Sibari, dove la vinificazione aveva raggiunto uno sviluppo maggiore in confronto di quella praticata a Roma, e arrivavano via mare in anfore ricoperte


quella praticata a Roma, e arrivavano via mare in anfore ricoperte di pece all’interno, senza fondo, adatte ad essere trasportare nelle stive delle navi. Tornando ai tempi di Roma la vite incontrò uno sviluppo di coltivazione e di conseguenza di affinamento delle tecniche di lavorazione in tutto il Lazio. Si dovette scegliere se applicare il sistema di coltivazione ad alberello, cioè basso e sorretto da piccoli pali, oppure “ad arbustum”. Ci vengono

in aiuto affreschi realizzati a Pompei che ci illustrano che fu adottata quest’ultima soluzione, raffigurano putti alati che sistemano alcune viti sugli alberi. Inoltre allo sviluppo della coltura della vite ha contribuito molto l’assegnazione di terreni ai legionari che avevano finito la loro carriera, e sviluppare l’agricoltura, e in considerazione che la vite era molto redditizia, come detto prima, ne consegue che un po’ per moda di bere, un po’ per convenienza eco-

nomica, il vino ebbe un forte sviluppo. Già allora i trattati di agronomia consigliavano di effettuare la vendemmia nei primo giorni di ottobre, ma solo nelle zone più a nord; altri suggerivano di effettuare la vendemmia a luna crescente, altri a luna calante, altri di notte con la luna piena… fortunatamente moltissimi contadini vignaioli non sapevano leggere e quindi effettuano le pratiche di vigna e di cantina secondo il loro estro e la loro esperienza agricola.

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Cereseto: curiosità, racconti e un po’ di storia di Mirko Carzino

Iniziamo da questo numero di G&d una serie di racconti su Cereseto scrivendo di storia e di... storie Sul sito di G&d www.gabianoedintorni.net potrete leggere e, se volete scaricare e stampare, il libro di Mirko Carzino Cereseto Monferrato Dalle origini al XXI secolo

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A proposito di “Sciancaciuendi” Non si sa con precisione da quando i ceresetesi vengono nominati dagli abitanti dei paesi limitrofi “sciancaciuendi”. Si sa soltanto che questo è il loro soprannome. Per meglio comprendere cosa significa questo termine, forse non troppo adatto oggigiorno, vediamo il significato e le origini di questa strana e poco conosciuta parola; si legge su “Il Monferrato” del 17 Settembre 2002: “Avvicinandosi la

vendemmia, i contadini delle nostre colline avevano un lavoro importante da sbrigare: difendere la vigna dagli intrusi o, più chiaramente, dai ladri di uva, impedendone l'accesso con rami, spine, canne e con qualsiasi altra cosa atta a formare una barriera e a bloccarne l'entrata. Ricercatissimi erano i rami delle giovani acacie, belli lunghi e, soprattutto, ornatissimi di spine, ma non è che si disdegnassero rami di prugnolo, di biancospino o, addirittura, di grisele (uva spina) che, in quanto ad aculei, non avevano proprio niente da vergognarsi di fronte agli aculei delle gaggìe. Questa tradizione di chiudere la vigna, per quanto ne possiamo sapere, risale addirittura al Medioevo e la ritroviamo negli Statuti di vari paesi. Per esempio, negli Statuti di Camino, nel primo corpo anteriore al 1286, leggiamo al capo 14: “… inoltre si è stabilito che se qualcuno rompendo la recinzione entra nella vigna altrui, è in multa di soldi 5; se ruba uva è in multa di denari 4...” e ancora al capitolo 112: “… inoltre stabilirono che se qualcuno asporta o trasferisce una cancellata o una recinzione altrui che sia collocata intorno ad una vigna, un orto od un frutteto, è multato per ogni volta di soldi 5 di Pavia”.(…) Negli Statuti di Casale all’ art. 280 si legge: “…si è stabilito che nessuna bestia possa o debba pascolare né stare nelle chiuse o nel distretto delle vigne…”. Però anche qui c’ era l’ abitudine di “grattare" le recinzioni del vicino infatti l' articolo 267 recita: “…nessuna persona debba asportare qualche delimitazione dagli orti e dai sedimi altrui

pena 60 soldi pavesi …” In altri Statuti, come in quello di Castelnuovo, i contadini, entro il mese di Aprile, erano obbligati a recingere le vigne con siepi e l' ingresso alle stesse era vietato dalle calende di Giugno fino al termine della vendemmia. Nei tempi più vicini a noi, oltre a recintare la vigna, quando l' uva era quasi matura, di notte, il contadino si appostava nei “casot” che costellavano le vigne (e di questi qualcuno, qua e là c'è ancora: semplici ripari costruiti in mattoni dai benestanti, con canne e lamiera dai più tapini), tenendo sempre a portata di mano il fedele fucile da caccia e ben carico. Ma la selvaggina che il padrone della vigna aspettava al varco nel buio della notte, non era selvaggina comune, bensì una selvaggina speciale, selezionatissima e, per di più, stagionale: era di passo solo al tempo dell' uva matura. Si trattava nientemeno che di bipedi "sgraffignatori" d' uva. Però, per non avere grane, non si caricava mai l' arma col piombo, perchè questo munizionamento avrebbe costituito un pericolo grave per la vita del ladro, bensì si caricava con sale grosso, in modo che l' intruso, sorpreso in fragrante, non arrischiasse danni fisici, ma potesse avere tutto il tempo necessario per meditare sulle conseguenze della sua cattiva azione, magari anche soffiando e versando acqua fresca sulle ferite. Quel che può interessare, è che dalle siepi preparate, dal latino, “ad claudendas” (per chiudere) le vigne, arriva la nostra ciuènda, che indica la stessa chiusura fatta con gli stessi materiali e per delimitare una coltura. Quindi, dal latino claudenda deriva chiudenda e, in seguito alla caduta di alcune lettere, (c(h)iu(d) enda) eccoci alla “ciuènda” (da questa parola procede sautaciuèndi o sciancaciuèndi, che è colui che salta le chiusure che delimitano una proprietà). Ma il termine sautaciuèndi, in realtà, assume ben altro valore! Bisogna tener presente che la chiusura più sacra, non era quella della vigna, ma quella che delimitava la proprietà privata e, in


particolare, la casa. E cosa faceva il sautaciuendi? Era un uomo che non si fermava davanti ai confini sacri di un'abitazione nè di fronte ad altre difficoltà pur di poter arrivare ad attentare alla virtù di qualche donna. E vi pare poco? E chiamalo grappolo d'uva! Altro termine di ugual significato è “sautabiscùn”, ovvero “salta cespugli”. Poichè, sovente, la proprietà privata era difesa da cespugli, magari anch'essi fioritissimi di spine, questo signore, per entrare in una certa proprietà privata quant' altre mai, era disposto a saltare cespugli spinosi e pungenti, sperando di ottenere, come premio per tanta fatica, quella stessa ricompensa che, e sempre con la stessa specialità sportiva, cercava di ottenere il sautacuièndi. Così, da una tradizione che si collega al Medioevo, è nato un termine che oggi ha perso ogni valore perchè le abitazioni private non sono più difese nè da cespugli nè da ciuènde.” Una meteorite su Cereseto Le meteoriti sono frammenti di materiale roccioso o metallico provenienti dallo spazio che, a differenza delle meteore, sono sopravvissuti al passaggio nell’atmosfera e raggiungono la superficie della Terra. Sulla Terra cadono ogni anno molte decine di migliaia di tonnellate di materiale extraterrestre sotto forma di meteoriti e micrometeoriti. Le meteoriti sono classificate in tre categorie principali: le metalliche ricche di ferro e nikel (dette sideriti), le pietrose (aeroliti) e le ferropietrose (sideroliti). Le condriti sono invece meteoriti rocciose che presentano all’interno aggregati sferici (condrule). Il 17 Luglio 1840, sul territorio di Cereseto Monferrato, cadde una meteorite catalogata come “condrite ordinaria” di classe H5 dalla massa di 5 chilogrammi; un frammento dal peso di 3,40 chilogrammi si trova al Museo Regionale delle Scienze Naturali di Torino, mentre frammenti minori della meteorite si trovano nei musei di Perugia, Vienna, Budapest, Praga, Berlino e Washington. Le antiche pietre Sulla parete esterna dell’abitazione privata situata in Via Roma n. 46, durante le recenti ristrutturazioni, è venuta alla luce un’antica pietra in tufo con sopra scolpita la frase:

La meteortite di Cereseto

“MCCCCLXXX - VIII DIE XXII -

MENSIS MADII - HOC OPUS FECIT - MAGISTER F4EO” che tradotta diventa “1488 - 22 MAGGIO QUESTA OPERA FECE IL MAESTRO …”.

Molto probabilmente, tenuto conto del tipo di scrittura utilizzato, questa pietra faceva parte dell’antica costruzione presente sulla sommità del paese, forse un castello, prima della costruzione della villa dei Marchesi Ricci (che venne poi rasa al suolo dal finanziere Riccardo Gualino per la costruzione dell’attuale maniero). Una seconda pietra, a forma irregolarmente esagonale, si trova posizionata su un pozzo in un’abitazione privata in Via Roma n.14. Non si riesce a decifrare la scrittura, probabilmente risalente al VIII secolo; vi compare soltanto un simbolo cristiano (a forma di pesce).

Via Roma 46 (foto 2002)

Via Roma 14 (foto 2000)

La scommessa della Madonnina ex-voto di Vittorio Tornelli La Madonnina disegnata sulla fac-

ciata del castello, fu oggetto di scommessa una notte d’estate del 1926; doveva essere toccata da due ceresetesi della stessa età, in questo caso della leva del 1909, che oltre ad aver scalato la facciata, non si accontentarono di toccarla, ad una altezza di 30 metri circa, ma si dice che ci posero anche la loro firma. La radio Nel 1924 i ragazzi delle scuole elementari ceresetesi, accompagnati dal maestro Franzosi, vennero condotti (naturalmente a piedi), alla Fornace del Cav. Ferraris in Frazione Madonnina di Serralunga di Crea. Qui vi era una linea ferroviaria elettrica, con dei piccoli vagoni che portavano il gesso e la calce dalle colline di Rolasco alla fornace; inoltre, per la prima volta, i bambini ascoltarono le notizie trasmesse da una delle rare radio che vi erano in quel periodo nella nostra zona. Il biplano I bambini delle scuole elementari furono accompagnati a vedere il luogo dove un aeroplano (un biplano) cadde nei pressi delle Cascine Merli, nella zona dove oggi vi è un laghetto artificiale; infatti i proprietari della tenuta (nei primi decenni d’inizio secolo era la Famiglia Magnardi) avevano un figlio aviatore che decise di voler atterrare sui propri terreni. La famiglia, su precisi ordini del figlio, preparò una pista su un prato per permettere l’atterraggio del velivolo e stese delle grosse lenzuola bianche per delimitare i confini; purtroppo non si era tenuto conto di un fosso che attraversava il prato. Al momento dell’atterraggio, alla vista di questo ostacolo imprevisto, il pilota del velivolo tentò di riprendere quota, ma inutilmente, e si schiantò al suolo perdendo la vita. Il proverbio “meteo” Sicuramente è nato nei nostri territori, visto che vengono menzionate due città che si trovano l’una l’opposto all’altra rispetto a Cereseto, il detto: “quand al nivuli i van an ver

Ast, pia l’asu e gavii al bast; quand al nivuli i van an ver Casà, pia al beu a va a laurà” e cioè: “quando le nuvole vanno verso Asti, prendi l’asino e levagli il giogo(ovvero pioverà); quando le nuvole vanno verso Casale, prendi il bue e vai ad arare (sta arrivando il bel tempo)”

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ed ora un po’ di... storia Gli Statuti comunali del 1358 A partire dal 1358, furono redatti gli Statuti comunali. Come in molti altri comuni del Monferrato, il Consiglio Comunale riunì tutte le leggi ed i regolamenti allora vigenti, comprese le principali norme di carattere consuetudinario. Gli statuti del comune vennero aggiornati con ulteriori disposizioni e con l’aggiunta di capitoli, l’ultimo dei quali, in ordine di tempo, fu il capitolo n. 94 del 1457, approvato dal Marchese. Negli ultimi capitoli non sono più nominati nè consoli, nè rettori, come mediatori tra Comune e Marchesato. Nel periodo della pubblicazione dei primi Statuti, Cereseto era un comune signorile, sorto in seguito al dominio ed al potere della classe nobile “…ad laudem et

magnificentia Ill.mi Principis et D.D. Marchionis Montisferrati ac Condominorum de Cerexeto…”.

Come altri comuni, Cereseto fu un’autentica organizzazione politica che rivendicava la propria autonomia a proposito di alcune funzioni di carattere amministrativo e giurisdizionale. In quest’epoca apparvero anche nel Monferrato i primi Consorzi famigliari, anche se già nell’alto Medioevo se ne erano creati. A questo fenomeno di vita associativa presero parte sia i nobili che i sudditi; i primi per consolidare la loro potenza politica nei confronti delle famiglie rivali e per creare organizzazioni economiche di tipo bancario o mercantile più efficienti; i secondi per diminuire le maggiori tasse e imposte dovute all’aumento dei nuclei famigliari allora definiti fuochi. I consorzi potevano essere di due tipi: consorzi originari (o per ceppi) e consorzi per carta. Il consorzio per ceppo era formato da persone aventi lo stesso vincolo

sanguigno, mentre il consorzio per carta era una sorta di alleanza tra famiglie di stirpe diversa. Un esempio dell’epoca di consorzio per ceppo fu quello della casata dei Bardi di Chieri, mentre un consorzio per carta era quello dei De Castello che riuniva le famiglie Guttuerii, Isnardi e Turchi, ad Asti. In base alla documentazione dell’epoca si deduce che Cereseto fosse un comune governato da Signori che crearono un consorzio per carta; infatti originariamente il feudo fu governato dai Graseverto, che vivevano secondo la legge longobarda (e quindi i discendenti avevano diritto di concorrere in parti uguali all’eredità del padre), mentre in seguito il nome Graseverto non compare su alcun documento. Perciò questo fa pensare, in seguito alla frammentazione del territorio, ad un’unione con altre famiglie nobili. Anche se si tratta di comune, l’idea del tempo era ben diversa dall’attuale: infatti vi era sempre una notevole differenza tra la classe nobile ed il popolo. In ogni caso è necessario tenere presente che la parola “comune” non è sinonimo di uguaglianza nei primi secoli dell’anno 1000, anzi rappresenta una differenza di classi sociali; in numerosi capitoli degli Statuti di Cereseto, troviamo “...fidelium subditorum …

Comunitatis et Hominum… Cerexeti ...” ovvero rappresentanti

del ceto nobile e ricco, eleggibili alle cariche pubbliche ed amministrative, e “ ... personarum existentium in Cerexeto ...”, persone appartenenti alle classi rurali e nullatenenti. Nel periodo compreso tra gli anni 1100 e 1500 circa, il sistema economico era governato dal comune soprattutto per quel che riguardava la determinazione dei

10 Cartolina storica di Cereseto prima della costruzione del castello

prezzi, in particolar modo quello dei prodotti tessili. La Chiesa a Cereseto era in una posizione privilegiata per quanto riguardava il pagamento delle imposte e delle tasse, pur senza partecipare attivamente alla vita politica del paese; per esempio, in caso di passaggio di proprietà di beni, tutti i condomini erano obbligati, sotto stretta sorveglianza, al pagamento delle imposte, tranne la Chiesa. Non tutti gli Statuti comunque prevedevano questa tassazione differenziata; infatti gli Statuti di Chivasso, Verolengo ed Occimiano sancivano numerose restrizioni finanziarie e giurisdizionali a favore del clero. Per quanto riguarda la partecipazione alla vita parlamentare dello Stato Monferrino, apprendiamo da alcuni documenti che i rappresentanti del comune di Cereseto presero parte attivamente alle assemblee. Nel 1305 ci fu l’assemblea di Trino che, per il suo carattere straordinario, più che un parlamento, fu il primo atto di partecipazione del popolo Monferrino ad un problema di interesse pubblico. La partecipazione alle assemblee veniva limitata ai ceti più forti e produttivi; praticamente intervenivano i rappresentanti dei Consortili di nobili e delle comunità che avevano l’obbligo di pagare i tributi ordinari e straordinari. Quindi, quasi sempre, la classe ecclesiastica e la massa rurale venivano escluse. Secondo le Leggi e gli Statuti del tempo, i Consortili non potevano inviare al Parlamento più di due ambasciatori, mentre i comuni potevano inviarne di più; Cereseto, essendo un comune Signorile, non poteva inviare più di due rappresentanti. Pur non essendo a conoscenza del criterio di scelta, possiamo ritenere che i Condo-


mini abbiano eletto un proprio rappresentante tra i nobili, mentre il Consiglio Comunale abbia eletto un proprio ambasciatore con modalità analoghe a quelle previste dal Cap. 15 degli Statuti. Durante le assemblee i rappresentanti della classe nobile vigilavano sul rispetto delle proprie immunità, mentre gli ambasciatori comunali dovevano accertare che non fossero stabilite contribuzioni contrarie alla consuetudine ed alle possibilità finanziarie del paese. Da alcuni documenti si apprende che nel Parlamento riunitosi il 3 Gennaio 1379, convocato dal curatore del Marchese e governatore del Monferrato, Ottone di Brunswick, risulta che Cereseto inviò due rappresentanti: il giurisperito Stefano «ex Dominis Cerexeti» con il titolo di Vicario, ed Enrietto «de Cerexeto». Durante questa assemblea, su proposta del consigliere Albertone «de Prato de Montecalvo», vi fu una discussione molto accesa a proposito del giuramento di fedeltà al Marchese Giovanni III a patto che non venissero commessi soprusi e violenze nei confronti dei sudditi. Questa situazione fu la conseguenza del malgoverno del Marchese Secondotto (siamo nella seconda metà del 1300); si risvegliò infatti proprio in questo periodo, in molti comuni del Monferrato (probabilmente anche nel comune di Cereseto), l’esigenza di chiarire il complesso di diritti e doveri tra i sudditi e il signore. Un decreto dell’Imperatore Carlo VI, del 1355, conferma il possedimento del territorio di Cereseto ai Marchesi del Monferrato. Sempre a proposito della situazione politica del tempo, si apprende che in alcuni casi, temendo che i comuni o i Consortili dessero poteri limitati ai loro rappresentanti, il Marchese ordinava ai rappresentanti ed agli ambasciatori di intervenire al Parlamento con

pieni poteri; un esempio lo abbiamo nell’assemblea del Maggio 1379, convocata con lettera del 25 Aprile dal Duca Ottone, che ingiunse alle Comunità di concedere pieno mandato agli ambasciatori. Il rappresentante di Cereseto, inviato dai Consorti, fu il Vicario Stefano. In una lettera del Duca Ottone, inviata ai Consortili di Cereseto, sulla quale sono annotate le decisione deliberate in sede parlamentare, si apprende che il Vicario Stefano fu nominato, dallo stesso Duca, membro di un ristretto consiglio. Con questo incarico il Vicario avrebbe preso tutte le decisioni relative al governo ed alla difesa dei territori del Monferrato, in caso di assenza del Duca o del Marchese. Il consiglio nominò come luogotenente del Marchese, Ghigone Flota di Provenza, il quale poteva scegliere quattro consiglieri, due appartenenti alla nobiltà e due appartenenti al popolo, che duravano in carica quattro mesi. I nomi dei consiglieri provenivano da una lista di nominativi sulla quale, in quel periodo, compare il nome di un’altro Ceresetese, il Condomino Facio. In questo periodo storico il paese di Cereseto risultava essere uno dei paesi più ricchi ed importanti del territorio sul quale governava il Marchese Teodoro II. Il 4 Settembre 1388 si riunì a Moncalvo un Parlamento; la seduta aveva come sco po la d e li be ra d i u na “talea” (tassa straordinaria) per finanziare il reclutamento di milizie mercenarie. Cereseto contribuì con il pagamento di centocinquanta Fiorini, versati in due rate, la prima a Novembre e la seconda a Gennaio dell’anno 1389. Nel verbale sono elencati anche gli altri comuni appartenenti al Marchesato: il maggior contribuente risulta essere il comune di Trino, con una “talea” di cinquecentoottantasei Fiorini; i mi-

nori invece sono “Baldischius” e “Rocha”, con un carico di dieci Fiorini ciascuno. I criteri di ripartizione erano dettati appunto dall’importanza e dalla ricchezza del comune; Cereseto aveva una capacità economica, e quindi contributiva, piuttosto considerevole. Il gettito tributario del comune di Cereseto era superiore alla quarta parte di quello dei maggiori comuni e superava di quindici volte il gettito dei comuni minori. Avvenuta la ripartizione, il comune pagava con redditi ordinari, imputando l’onere alle entrate fiscali, oppure distribuiva tra i cittadini la quota, che veniva riscossa direttamente o tramite degli esattori appositamente nominati. Il 14 Agosto 1432, a Pontestura, si riunì il Parlamento per deliberare la “taglia” relativa al mantenimento delle guarnigioni militari in Piemonte; la tassa risultò troppo onerosa per tutti i comuni: così, nel Febbraio 1433, Amedeo VIII la ridusse a ottomila Fiorini in seguito ad una supplica delle comunità. I rappresentanti inviati da Cereseto all’assemblea presieduta da Amedeo VIII furono Antonio de Valynana e Pietro Gagliano. Fino all’anno 1500 il comune di Cereseto partecipò attivamente alla complessa attività parlamentare dell’epoca; infatti, oltre alla ripartizione delle milizie e dei tributi, si trattarono questioni concernenti il commercio e l’economia, la polizia interna, il diritto processuale civile e penale, le libertà personali e il foro ecclesiastico. Dal 1500 in poi, con l’affermarsi del potere centrale, i Marchesi convocarono il parlamento (quindi gli ambasciatori dei comuni), solo più per imporre nuove tasse o “taglie”; il declino della vita parlamentare, per quanto riguarda tutto ciò che non faceva parte delle imposizioni, peggiorò maggiormente con la dominazione Sabauda.

Cartolina storica di Cereseto dopo la costruzione del castello

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Autorizzazione n° 5304 del 3-9-99 del Tribunale di Torino - Direttore Responsabile Enzo GINO Sede: via S. Carpoforo 97 - Fraz. Cantavenna 15020 Gabiano - Stampato presso A4 di Chivasso (TO) - Editore: Associazione Piemonte Futuro - P. Iva 02321660066 - Per informazioni e pubblicità cell. 335-7782879 - fax +391782223696; www. gabianoedintorni.net ; e-mail posta@gabianoedintorni.net)

Sotto: Gabiano, gennaio 2012: I 46 anni della classe 1966

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