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>un nuovo soffio d’impero Nel cuore della cittĂ di Berlino, è in atto un concorso per ridestinare una dimora di antichi re e imperatori prussiani andata quasi completamente distrutta. Il Berlin Castle dovrebbe trasformarsi in un complesso culturale e museale denominato Humboldt-Forum. Ecco il disegno presentato dal noto architetto Jan Kleihues, dove antico e moderno si fondono sapientemente per ricreare uno spazio vivibile dall’intera cittadinanza berlinese.


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>sinuosa verso il cielo Ecco uno degli ultimi edifici concepiti per il progetto “Moscow City”, un moderno distretto finanziario che sorgerà nella capitale russa a pochi chilometri dal Cremlino sulle tracce di una ex area industriale. La City Palace Tower è stata disegnata dagli architetti dello studio londinese RMJM in collaborazione con l’artista scozzese Karen Forbes. La torre, dalla forma incredibilmente sinuosa e organica, attorcigliandosi su se stessa crea un effetto visivo unico. Gli interni si svilupperanno su oltre 160mila metri quadrati dedicati a uffici pubblici e privati.


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>sfida alla gravità Sarà questa la torre più inclinata del pianeta? Secondo gli architetti dello studio internazionale RMJM, sì. È stata infatti ufficializzata la richiesta presso il Guinness Book of Records di registrare la Capital Gate di Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti) come la costruzione che, più di tutte, sfiderà la legge di gravità. Superando di ben quattro volte la celebre pendenza della torre pisana. Ma quella, si sa, non fu volontaria.


Š Filippo Leonardi / FOTOGRAMMA

Santiago Calatrava (Valencia), 58 anni, di fronte al Ponte della Costituzione, inaugurato lo scorso settembre a Venezia

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SANTIAGO CALATRAVA

>la mia architettura è un ponte sospeso tra il presente e il futuro di Sarah Sagripanti

Le sue opere svelano la complessità della statica e dell’ingegneria. I suoi edifici mostrano con orgoglio le strutture portanti, non più nascoste dalle forme architettoniche, ma elementi fondamentali della stessa estetica del manufatto. Un equilibrio che appare sempre al limite del movimento, per ponti che sono metafore della vita e del cambiamento. Perché ogni opera di Santiago Calatrava non è fatta per il presente. Ma, come la campata di un ponte, si appoggia sui pilastri dell’oggi per raggiungere le generazioni di domani

PONTE DELLA COSTITUZIONE VENEZIA

PONTE DI ALAMILLO SIVIGLIA

LIGHT RAIL BRIDGE GERUSALEMME

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La sua architettura è immediatamente riconoscibile dallo sforzo statico che la materia svolge per convertirsi in qualcosa di utilizzabile: un ponte, un edificio, un’installazione. Strutture apparentemente utopiche, dietro le quali si ravvisano equilibri di forze e sollecitazioni disciplinate dalle leggi della fisica, le stesse che permettono a ogni corpo di sorreggersi. Come fu per Leonardo da Vinci, è il corpo umano che ispira il genio di Santiago Calatrava. Partendo dalla decodificazione dei modelli di funzionamento degli organismi, Calatrava crea architetture che assumono forme e movimenti degli esseri viventi. Lo si capisce dai suoi di-

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segni e dalle sue sculture, perché Calatrava, architetto e ingegnere di fama mondiale, è anche pittore e scultore. Lui stesso ha dichiarato che alla base delle sue sculture, quelle in ceramica ma anche quelle in calcestruzzo, c’è la domanda che nasce dall’osservare un bambino che impara a camminare: perché un corpo sta in piedi? L’opera di questo artista poliedrico, uomo nuovo del Rinascimento del terzo millennio, è sottoposta a continue critiche, nel bene e nel male. Ma lui rifugge qualsiasi polemica. «Sono solo un architetto e in quanto tale cerco sempre di fare del mio meglio». Mentre a Reggio Emilia sta partendo il cantiere per la sua stazione dell’Alta Ve-


SANTIAGO CALATRAVA

Ponte della Serreria, Valencia

locità e sono a buon punto i lavori per il nuovo complesso sportivo universitario di Tor Vergata, la purezza di forme e la bellezza del ponte di Venezia spengono, a poco a poco, tutte le polemiche. Architetto, il Quarto Ponte sul Canal Grande di Venezia è stato finalmente inaugurato. Ne è soddisfatto? «Amo molto quel ponte. La cartolina di auguri che il mio studio ha inviato in occasione dello scorso Natale aveva la sua immagine. Ricevo molti commenti da persone che lo hanno visitato e ne sono rimaste affascinate. Per me è stato un grande onore lavorare per una città come Venezia, una grande sfida per un contesto storico urbano

unico e difficile». Prendendo ad esempio questa esperienza, come si dovrebbe risolvere secondo lei il rapporto tra antico e moderno in architettura? «Occorre ricercare un’armonia, ma non tanto nelle forme o nei colori, quanto nella qualità del costruito. Ne sono un esempio tante straordinarie città italiane, dove si mescolano stili architettonici di diverse epoche e il complesso ne risulta comunque armonioso. Questo non avviene per una somiglianza formale o materiale tra i diversi stili, ma perché si tratta di testimonianze architettoniche realizzate tutte con grande cura, che il

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La Città dello Sport a Tor Vergata, Roma

trascorrere dei secoli ha armonizzato. Ciò che risolve il contrasto tra contemporaneo e antico è quindi la qualità del costruito, perché l’architettura va oltre il presente e resta alle generazioni future». Cosa rappresenta per lei un ponte, dal punto di vista delle sfide progettuali che può offrire? «Trovo che un ponte sia un soggetto molto importante per la funzione che svolge di unire due parti di un territorio o di una città, con tutti i significati simbolici che questo comporta. Quando cominciai, nell’ambito della progettazione architettonica, il ponte veniva considerato semplicemente come un’infrastruttura funzionale. Io pro-

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vai a intervenire in quel contesto, cercando di rivalutare l’oggetto in sé, ricercando nuove tecnologie e altre tipologie strutturali, dando importanza a parametri fino ad allora non considerati, come l’inserimento nel contesto, l’illuminazione o il colore». In questo modo, col tempo, ha sviluppato un vocabolario altamente innovativo. «Se paragona il mio lavoro a ciò che hanno rappresentato alcune opere, ad esempio di epoca romana, per la storia dell’architettura dei ponti, vedrà che il mio contributo è molto modesto. Ma in questo settore c’è ancora molto da fare e anch’io mi stupisco delle possibilità che


SANTIAGO CALATRAVA

ARCHITETTO INGEGNERE ARTISTA Santiago Calatrava Valls, nato a Benimamet (Valencia) nel 1951, ha studiato arte e architettura in Spagna, per poi trasferirsi a Zurigo per frequentare l’Istituto svizzero di tecnologia. Parla spagnolo, inglese, francese tedesco e italiano e, con la stessa agilità, attraversa le barriere che dividono l’arte, l’architettura e l’ingegneria. Tra le sue

opere più note, la Città delle Arti e della Scienza di Valencia, il Turning Torso, grattacielo più alto di Svezia, il complesso sportivo olimpico di Atene realizzato per le Olimpiadi del 2004 e l’Opera House di Tenerife. A New York sta realizzando il Centro trasporti del World Trade Center e in Italia il complesso sportivo di Tor Vergata e la

esistono di innovare le metodologie costruttive dei ponti. Sogno, ad esempio, di realizzare un ponte che possa trarre il fabbisogno energetico necessario per la sua illuminazione da cellule fotoelettriche». Quanto contribuiscono anche le possibilità offerte dai nuovi materiali? «I ponti sono oggetti altamente tecnici e tecnologici e qualsiasi innovazione influisce sulla loro costruzione. Ci sono materiali, come la fibra di carbonio, che ancora non sono stati molto sviluppati e credo che avranno certamente un futuro. Io prediligo materiali tradizionali, come acciaio e calcestruzzo, ma anche la pietra o il vetro, poco

stazione dell’Alta velocità di Reggio Emilia, l’unica città al mondo, per il momento, ad avere tre suoi ponti. Il primo ponte che ha realizzato è il Felipe II Bach de Roda di Barcellona (1987), poi sono arrivati l’Alamillo di Siviglia, l’Alameda e il Serreria di Valencia e tanti altri nel mondo: Buenos Aires, Dallas, Orléans, Atene, Dublino, Gerusalemme.

utilizzati quando cominciai». Tra i tanti lavori svolti in questi anni, di quale va più fiero? «Nei miei venticinque anni di lavoro, il numero di oggetti che ho realizzato non è poi così elevato, perché molti sono rimasti progetti o studi. Quelli costruiti, li guardo tutti come fossero figli. Ma il progetto che amo di più è il prossimo che farò. La virtù dell’architetto è il pellegrinaggio, muoversi da un progetto all’altro, cui dedicare sempre, allo stesso modo, tutto se stesso». Come nasce un progetto nello studio di Calatrava? «Mentre parlo, dipingo. C’è una prima fase, puramente

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SANTIAGO CALATRAVA Centro trasporti del World Trade Center, New York

creativa, legata alle prime impressioni sul progetto, in cui nascono schizzi fatti a mano, a matita, ad acquerello. È un momento personale e introverso, dove gioco un ruolo fondamentale. Qui intervengono pochi fidati collaboratori, che trasformano gli schizzi in piani e tavole, poi i plastici, mentre partono i conteggi strutturali. Non è certamente un processo lineare, si va avanti o se necessario si ricomincia. E ogni cambiamento serve affinché il progetto si rafforzi. Ne è un esempio il progetto per il Centro trasporti del World Trade Center, molto complesso. Lì la fase dei bozzetti non si chiude mai». Nel corso di questo processo, è mai arrivato a un punto in cui ha dovuto abbandonare un progetto perché infattibile? «Ho ideato una copertura in acciaio ultraleggera, con parti mobili, di quasi mille metri di portata: sono convinto che sia fattibile, ma non ci siamo ancora arrivati. Come ingegnere, sono molto legato alla fattibilità del progetto fin dal momento dell’ideazione, ma credo sia fondamentale spingersi sempre a sfiorare i limiti della fattibilità». Come nel progetto del ponte sullo Stretto di Messina? «Sì, quello è un esempio bellissimo di un progetto al limite. Una campata di tremila metri che ci conduce su terreni dove nessuno è ancora stato. I progettisti si siano confrontati con situazioni completamente nuove. Sono progetti enormemente suggestivi e interessanti, che si muovono in terra incognita». Tra tanti Paesi nei quali ha vissuto e lavorato, a quale si sente più legato? «Per l’Italia ho una gratitudine enorme, per ciò che mi ha insegnato nella cultura e nell’arte. Alla Francia sono legato perché lì ho iniziato seriamente a dipingere. Degli Usa, invece, dove oggi vivo, amo il fatto di essere un Paese contemporaneo, fatto di contrasti, come è fatta di contrasti la modernità. Amo anche evidentemente il mio Paese, la Spagna, dove sono nato e ho vissuto fino a 22 anni». Cosa porta della Spagna nel suo lavoro? «La Spagna mi ha dato molto, ma ciò che più ha influito sulla mia architettura è il Mediterraneo. Nella casa dove sono cresciuto, oltre i terrazzi della città di Valencia, si vedeva il mare. Quando l’ho lasciata, ho sempre continuato a viaggiare verso Sud, l’Italia, la Grecia, il Nord Africa, alla ricerca di stimoli per la mia architettura. Credo che il Mediterraneo, con la sua luce e le sue architetture, abbia influito molto sul mio lavoro».

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Teresa Sapey, architetto e designer italiana. Vive e lavora a Madrid. È stato Jean Nouvel, che ha collaborato con Sapey nell’opera collettiva dell’hotel Puerta America di Madrid, a ribattezzarla “Madame le parking” e non Norman Foster come spesso si è detto


A COLLOQUIO CON

>emozionar e con lo spazio Dal Piemonte a Madrid, passando per Parigi. Teresa Sapey ha inseguito all’estero la sua carriera. Puntando su un nuovo approccio all’architettura: non solo «grattacieli e città», ma anche spazi finora al margine dell’attenzione di progettisti e fruitori. Sempre all’insegna dell’architettura emozionale. E con la speranza, un giorno, di tornare a lavorare in Italia di Sarah Sagripanti

Anche per i parcheggi è arrivato il tempo della riscossa. Non più grigi spazi desolati e tristi, poco illuminati e uno uguale all’altro, ma un trionfo di colori e luci, luoghi da inventare e scoprire, da vivere e sperimentare. Artefice di questa trasformazione è Teresa Sapey, architetto e designer italiana emigrata a Madrid. Sono proprio i parcheggi che le hanno portato fortuna: il parcheggio a piazza Vázquez de Mella, nel cuore del quartiere madrileno di Chueca, o il garage dell’hotel Puerta America, opera collettiva che ha visto il nome di Sapey affiancato a quelli di Foster, Nouvel o Hadid, o ancora, ultimo in ordine di tempo, il parcheggio di plaza Cánovas a Valencia. Ma forse non è corretto parlare di fortuna, perché Teresa Sapey ha saputo ritagliarsi il suo

spazio in un mondo, quello dell’architettura, dove è forte la competizione e dove spesso i giovani faticano a emergere. Un mondo dove, tra l’altro, il vertice, forse più che in altri campi, è tutto in mano agli uomini. E se è vero che ogni storia è diversa ed è fin troppo facile pensare che emigrare fuori dal Belpaese basti per affermarsi, è anche vero che forse alcune nazioni come la Spagna, ma anche la Francia o la Germania, solo per restare in Europa, offrono maggiori opportunità che l’Italia, un Paese che «ha perso la sua grande occasione di offrire un futuro ai giovani architetti». I parcheggi, luoghi che passano inosservati alla maggior parte delle persone, nei suoi progetti si trasformano in spazi emozionali. Che cos’è l’architettura emozionale?

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Da sinistra, due immagini del coloratissimo garage dell’hotel Puerta America. Due interni dei negozi Custo disegnati dall’architetto Sapey

«Nei parcheggi si entra ed esce rapidamente, sono luoghi in cui ci si muove attraverso un percorso stabilito, spesso sovrappensiero. E proprio per questo sono luoghi che possono parlare non solo alla coscienza, ma anche all’inconscio. L’architettura emozionale parla a tutti i sensi, non solo alla vista. È qualcosa da vivere: non si entra ed esce da un edificio, ma si diventa protagonisti di un’esperienza che incide sensazioni che si ripeteranno nel tempo. Troppo spesso passiamo in un luogo o entriamo in uno spazio per poi dimenticarcene subito. I luoghi dell’architettura emozionale, invece, hanno il potere di tatuare la nostra memoria per sempre». Come nasce la sua predilezione nel progettare parcheggi? «Nasce per caso, e per sopravvivenza. Come architetto ho dovuto imparare a

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nuotare velocemente, per farmi spazio in un settore difficile. Ma ho sempre avuto il desiderio di distinguermi: non volevo fare solo belle case e bei negozi. Credo che l’architettura sia il mezzo per scrivere la storia attraverso i volumi: se vogliamo essere architetti del nostro tempo e costruire la storia contemporanea, dobbiamo adattarci alle esigenze dell’uomo di oggi e progettare i suoi spazi. E il parcheggio è proprio il simbolo della modernità». Quale architetto, secondo lei, ha saputo interpretare in modo esemplare le esigenze del proprio tempo? «Renzo Piano, che con il Pompidou ha cambiato il concetto di museo, creando un edificio nudo, senza vestiti: una rivoluzione evidente oggi, ma non quando è stato fatto. Jean Nouvel, con l’Istituto del mondo arabo, dove la tecnologia


A COLLOQUIO CON

NEI PARCHEGGI SI ENTRA ED ESCE RAPIDAMENTE, CI SI MUOVE ATTRAVERSO UN PERCORSO STABILITO, SPESSO SOVRAPPENSIERO. E PROPRIO PER QUESTO SONO LUOGHI CHE POSSONO PARLARE ANCHE ALL’INCONSCIO

cambia l’architettura. E Frank Gehry, che con il Guggenheim è stato il primo a creare un’architettura senza forma». Tra i grandi che hanno partecipato al progetto dell’hotel Puerta America di Madrid, c’era anche Jean Nouvel. Com’è stato lavorare con lui? «È stato proprio Nouvel a chiamarmi “Madame le parking”. Da quella esperienza ho compreso prima di tutto che i grandi architetti sono persone come noi, che si devono guadagnare il pane quotidiano tutti i giorni. Persone che talvolta hanno un problema nel gestire il potere. E poi ho capito che c’è la speranza, un giorno, di arrivare». Sicuramente già ora la sua esperienza può essere di esempio per altri giovani architetti che cercano fortuna all’estero. «Nemo propheta in patria. È triste che

l’Italia abbia avuto il suo momento di auge con Gae Aulenti, la prima donna importante nella storia dell’architettura, e l’abbia perso. Ha perso l’occasione di poter offrire un futuro ai giovani architetti italiani e ancor di più, mi dispiace dirlo, alle giovani donne. Non è giusto che la patria della cultura e dell’estetica non sia anche la patria di future brave donne architetto». La Spagna offre migliori possibilità? «Non lo so. È stato così per me. Credo che ogni situazione possa offrire delle possibilità, o non offrirle. Non tutto è prevedibile nella vita. Io ho iniziato a Parigi, poi mi sono spostata in Spagna e ho avuto la fortuna di trovarmi in un Paese che mi è molto vicino, per cultura: latina, europea e mediterranea. Anche se talvolta riemerge la mia parte sabauda. In fondo sono piemontese e

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Il parcheggio di piazza Vázquez de Mella a Chueca, Madrid, con i versi, in spagnolo, tratti dalla Divina Commedia

apprezzo il sole fino a un certo punto». Cosa ricorda degli inizi? «È stata molto dura. Talvolta penso che solo la gioventù può dare la forza necessaria per iniziare. Quella dell’architetto è una carriera faticosa, in cui è necessario investire molto, non si è mai pagati, non si ha un posto sicuro, non ci sono prospettive di carriera. Ma è anche colpa nostra: a partire dall’università insegniamo agli studenti a essere architetti su larga scala, trasmettiamo l’opinione sbagliata che un architetto sia una “star”. Sarebbe giusto cominciare a insegnare la modestia e far capire che un architetto può anche risolvere il progetto di una cuccia per cani, non sempre grattacieli e città. Quanto a me, ho sempre voluto fare questo lavoro. Non avevo alternative, perché è l’unica cosa che sono capace di fare: ho bisogno di vivere della mia creatività. Il mondo è fantasia, immaginazione e innovazione».

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Nel suo parcheggio di Chueca si notano alcuni richiami danteschi. Cosa porta dell’Italia nei suoi lavori? «Il liceo classico e le mie letture. La mia cultura è completamente italiana. Ma anche il cromatismo e soprattutto l’eleganza. Siamo dei veri sarti e abbiamo nel sangue il senso per la proporzione perfetta. Siamo stati nutriti dall’estetica». E del suo Piemonte cosa le manca maggiormente? «La neve. Il tartufo. E poi la cultura piemontese. Torino è una città dove si respira cultura. Figurarsi che mi manca anche il Po». Della Spagna, invece, cosa le piace? «L’apertura di questo Paese verso tutte le culture, la voglia di distinguersi e il coraggio di innovare. E il cielo blu di Madrid». Tornerebbe a vivere e lavorare in Italia? «Certamente. E anche subito. Amo follemente l’Italia».



Ritorna Made expo il principale appuntamento italiano dedicato al mondo delle costruzioni. Una vetrina e un’occasione culturale dal respiro internazionale per il design, l’edilizia e l’architettura italiani. Alla scoperta dell’edizione 2009 insieme ad Andrea Negri, presidente di Made Eventi di Lorenzo Berardi

>il palcoscenico del genio italiano

Sopra, Andrea Negri presidente di Made expo. Nella pagina accanto un’immagine della scorsa edizione della rassegna, nata proprio nel 2008 presso il polo fieristico milanese di Rho

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Milleseicento aziende presenti. 95mila metri quadrati di esposizioni. 86 fra manifestazioni e convegni correlati. Sono solo alcune delle cifre di Made expo 2009. Numeri significativi e che si avvicinano a quelli della prima edizione dell’evento, tenutasi l’anno scorso in un momento meno critico per l’edilizia, il design e l’architettura italiani e internazionali. Dal 4 al 7 febbraio nella straordinaria cornice del polo fieristico milanese di Rho si terrà dunque quello che per numeri e intenzioni si configura come il principale evento espositivo in Italia nel settore delle costruzioni. Una rassegna nata sulle ceneri del Saiedue e trasferitasi da Bologna a Milano «dove si è ampliata raccogliendo anche l’eredità di una precedente manifestazione fieristica sull’edilizia – ricorda Andrea Negri, presidente di Made Eventi srl e organizzatore della rassegna –. Oggi il nostro è un evento internazionale che si rivolge a tutto tondo al mondo delle costruzioni». E non a caso Made, sta per Milano Architettura Design Edilizia. Un nome che testimonia il «disegno a 360 gradi» di una manifestazione capace di riscuotere un grandissimo successo sin dalla sua prima edizione atti-


L’EVENTO

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>il rilancio passa da qui Un appuntamento come Made expo punta a ridare fiducia al settore edilizio e a incentivare gli affari. Una molla fondamentale per rilanciare l’intera economia italiana, assicura Giulio Cesare Alberghini, ad di Made Eventi

Le difficoltà riscontrate dall’economia interna-

degli espositori presenti alla seconda edizione di Made

zionale non hanno risparmiato neanche il settore fieri-

expo si sia confermato sui livelli del 2008. Un contesto

stico,

vetrina

in cui sono cresciuti gli eventi e i convegni di contorno,

dell’imprenditoria. Una situazione tanto più valida per

con una presenza di operatori stranieri si annuncia più ri-

una realtà, come quella italiana, formata da un mosaico

levante. «Gli ingredienti per un appuntamento fieristico

di microimprese che hanno bisogno di conoscersi e di

di successo sono l’incontro fra la domanda e l’offerta –

tradizionale

molla

propulsiva

farsi conoscere su mercati più

sottolinea Giulio Cesare Alber-

ampi. Eppure, Giulio Cesare Alber-

ghini – ovvero fra gli espositori e i

ghini, ad di Made Eventi e creatore

grandi operatori economici del

di Made expo di Milano, si man-

settore anche internazionali. Il

tiene ottimista e guarda avanti con

prodotto deve essere di grande ri-

fiducia. «Le fiere sono grandi

chiamo, in caso contrario gli ac-

piazze d’affari, ma anche laboratori

quirenti si rivolgeranno altrove».

di idee e innovazione – afferma –.

Ricerca, sviluppo, innovazione: gli

È da questi eventi che può partire

ingredienti per una manifesta-

il rilancio del nostro Paese. E le

zione che rilanci edilizia, architet-

aziende vengono in fiera solo se

tura e design sono noti. Ma

l’organizzatore riesce a garantire

occorre anche altro. «Le istituzioni

loro un nutrito numero di contatti

locali giocano un ruolo molto im-

e quindi di affari». Tocca infatti al

portante – sottolinea l’ad di Made

mondo espositivo rilanciare gli in-

Eventi – ma è l’attività delle Ca-

vestimenti delle imprese e favorire

mere di Commercio a essere dav-

l’incontro di edilizia, architettura e

vero fondamentale per la riuscita

design italiani con gli operatori in-

di appuntamenti fieristici come il

ternazionali. E Alberghini ricorda:

nostro. Sono questi soggetti che

«Un evento di successo funziona solo se risponde alle esigenze economiche del comparto a cui si rivolge». Una regola ancora più importante in un momento come

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e

Giulio Cesare Alberghini, ad di Made Eventi srl e ideatore di Made expo, oltre che di Cersaie, Saiedue, Artefiera, Cosmoprof, Fiera del libro per ragazzi e Motor Show

assistono materialmente e finanziariamente gli organizzatori, favorendo l’afflusso di operatori italiani ed esteri». Ecco perché il mondo delle fiere è e deve essere in con-

quello tuttora in corso in cui calano gli ordinativi e gli

tinuo dialogo con le strutture del territorio e con le sue

investimenti delle imprese del settore diventano più

istituzioni politiche. Inoltre, «gestendo un flusso cospi-

oculati. «Oggi le aziende sono costrette a contenere i

cuo di persone, la fiera deve essere sostenuta da una

budget di spesa, operando accurate selezioni degli ap-

efficiente rete di trasporti e di strutture ricettive e turi-

puntamenti a cui partecipare – conferma Alberghini –,

stiche». In questo senso, l’avveniristico quartiere fieri-

tuttavia, nonostante ciò, il settore mondiale delle espo-

stico milanese di Rho rappresenta il fiore all’occhiello

sizioni tiene, perché le fiere rappresentano un’occasione

del settore espositivo italiano. Uno dei tanti motivi per

di business ancora insostituibile». Appare significativo

cui Made expo 2009 si configura come l’evento giusto

come, pur in un momento critico per l’edilizia, il numero

al momento giusto e nel posto giusto.

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L’EVENTO

rando 160mila visitatori. Anche quest’anno sarà confermato il format espositivo della Federazione di Saloni, che permette di rappresentare l’edilizia “pesante” accanto al mondo delle finiture e delle superfici, del progetto e dell’architettura. Il tutto inserito in 5 percorsi trasversali: innovazione tecnologica, design, sostenibilità e risparmio energetico, sicurezza e protezione e recupero, che permetteranno di orientarsi nelle diverse aree della manifestazione. «Siamo impegnati a favore dell’Expo 2015 di Milano su cui abbiamo già puntato molto – sottolinea Negri –, in questo ci aiuta disporre di una struttura fieristica d’esposizione unica al mondo come quella di Fuksas a Rho. Ma è tutto l’hinterland milanese a proiettarsi verso il 2015 con importanti interventi strutturali. Senza dimenticare le 5 aree principali che interesseranno Milano fra grattacieli e una riscoperta delle vie d’acqua che trasformeranno completamente la città».

Una visione in prospettiva della città del futuro che caratterizza questa edizione di Made expo. «In questa edizione saranno presenti i massimi esperti internazionali di architettura che parteciperanno a Cityfutures, il convegno più importante di Made 2009: 3 giorni dedicati al futuro delle nostre città. Vogliamo essere un momento di incrocio fra i progetti, le visioni future del mondo delle costruzioni e tutti gli attori che svolgono il loro compito nel realizzarle: architetti, costruttori e istituzioni. In questo siamo un appuntamento centrato al 100%». Quali sono i punti di continuità fra la scorsa edizione e quella di quest’anno? «La cosa fondamentale, e che già caratterizzava l’edizione 2008, è che questa manifestazione non è soltanto un momento d’incontro per relazioni commerciali fra aziende e mercato, ma vuole soprattutto essere il mo-

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L’EVENTO

mento culturale più importante per tutto il settore delle costruzioni. Già l’anno scorso avevano un nutritissimo programma di 76 convegni e manifestazioni legati al settore delle costruzioni. La parte convegnistica è quella più importante della rassegna, quella che ne incrementerà in futuro il successo. Ecco perché quest’anno organizzeremo altrettanti appuntamenti e occasioni di dibattito e faremo di più». La situazione per l’edilizia italiana e internazionale non è facile. Come si inserisce Made expo 2009 in questo contesto? «L’Associazione Nazionale Costruttori Edili prevedeva un 2009 disastroso con una riduzione del 30% degli addetti all’edilizia in Italia e quindi con 600mila persone lasciate a casa. Movimentando il settore delle opere pubbliche, investendo sulle ristrutturazioni e con i grandi cantieri che stanno partendo a Milano, non invertiremo il segno meno, ma lo ridurremo sensibilmente». Come siete riusciti a creare un evento internazionale di richiamo nonostante la difficile congiuntura? «La nostra vocazione è internazionale per cui il grande sforzo che abbiamo compiuto è stato quello di andare all’estero per chiamare clienti. E quest’anno, grazie a una simile politica commerciale, avremo un boom di visitatori stranieri. In questo stiamo cercando di dare un grandissimo supporto alle aziende italiane, tanto è vero che abbiamo triplicato il budget pubblicitario della rassegna. In parallelo stiamo incrementando anche lo spessore culturale della manifestazione grazie all’organizzazione di eventi convegnistici d’eccezione che attireranno un vasto pubblico». Cosa permette di distinguere oggi il design e l’architettura italiana nel mondo? «Sicuramente l’Italia può vantare una propria vocazione nel modo di costruire che resta una qualità unica al mondo e ci è fortemente invidiata. La stessa fortuna che ha avuto il mondo dell’arredamento e quindi del contenuto si può sposare al contenitore e cioè all’edilizia made in Italy. Vi è poi il tocco magico dei nostri progettisti. Inoltre, all’estero viene apprezzato il modo di vivere italiano. Un esempio per tutti è il nostro modo di concepire ambienti come il bagno e la cucina che per noi sono

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culturalmente fondamentali mentre spesso all’estero sono parti della casa un po’ sacrificate. Noi italiani vendiamo un modo di vivere basato sul benessere anche nell’immobiliare e nell’architettura. In un bagno o in una cucina italiana si potrebbe vivere». Su cosa dovranno investire edilizia, design e architettura italiana per rilanciarsi in questo 2009? «Un dato su tutti: in Italia abbiamo un milione e mezzo di edifici che ha più di 35 anni d’età e quindi è inadeguato e consuma molto di più degli edifici moderni. Si tratta di un potenziale di ristrutturabile enorme. Dunque ci sono tutte le possibilità di creare un mercato importante del recupero del bene immobiliare per ristrutturarlo seriamente e riceverne un doppio beneficio. Made expo ha già acquisito una forza tale per cui una nostra indicazione riveste un alto peso specifico presso le istituzioni competenti per il settore dell’edilizia. E le istituzioni stanno tenendo conto dei nostri suggerimenti attraverso uno specifico decreto ministeriale che assicuri benefici al settore della ristrutturazione. Abbiamo visto che il Governo Berlusconi sta dando un impulso costante alle opere pubbliche e questo si riverbera in maniera positiva su tutto il settore perché dà il la a tutta una serie di interventi collegati».



Cina chiama Italia. E Italia risponde. In attesa di assistere all’apertura dell’Esposizione Universale di Milano nel 2015, l’Italia si prepara a “sbarcare” in Cina per l’edizione del 2010 che aprirà a Shanghai tra poco più di un anno e a cui parteciperanno 200 nazioni e organizzazioni internazionali con una previsione di oltre 70 milioni di visitatori. E lo fa da protagonista. Il tema centrale di quella che sarà ufficialmente la prima Esposizione che si terrà in Cina, è, infatti, better city, better life. Non è la prima volta che l’urbanizzazione costituisce il filo conduttore dell’esposizione. Nel 1958 l’edizione di Bruxelles era incentrata sul tema Valutazione del Mondo per un mondo più umano. Meno di dieci anni dopo Montréal puntò l’attenzione di espositori e visitatori sul tema L’uomo e il suo mondo, con particolare riguardo alla crescente urbanizzazione mondiale. Quella di Shanghai però sarà in assoluto la prima che si occupa di città, mettendo a confronto esperienze diverse di sviluppo, conoscenze avanzate sull’urbanistica e nuovi approcci all’habitat umano, come stili di vita innovativi e nuove condizioni di lavoro, per promuovere uno sviluppo sostenibile tra differenti comunità. Un’occasione straordinaria per esplorare le potenzialità della città del XXI secolo, scoprire i centri urbani e, soprattutto, il concetto di civilizzazione del pianeta. Non dimentichiamo, infatti, che la popolazione mondiale che vive in città è passata dal 2% del 1800 al 50% del

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ASPETTANDO Shanghai 2010

>qualità uni ver sale Una vita migliore nel futuro sviluppo delle città del pianeta. È il tema dell’Esposizione Universale che si aprirà il prossimo anno nella “città sul fiume” della Cina, Shanghai. E che è ben espresso da better city, better life , lo slogan che accompagna la prossima edizione dell’Expo. Un’occasione per riflettere sul futuro delle nostre città e sulla qualità della vita. In chiave sostenibile di Laura Pasotti

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2000 con una previsione del 55% per il 2010 e che, pertanto, l’armonizzazione tra uomo, città e pianeta dovrebbe essere uno dei temi principali nell’agenda mondiale. Ed è qui che entra in gioco l’Italia. Perché, come spiega Beniamino Quintieri, commissario generale del governo per l’Esposizione Universale di Shanghai 2010, «la storia italiana è una storia di città. Ognuna con la propria cultura e con una vocazione ben distinta, ma anche integrata nel contesto nazionale nonostante le diversità». E ancora, Italia che, come spiega Silvana Annicchiarico, direttore del Design Museum della Triennale di Milano (partner del Commissariato italiano per l’elaborazione del concept), «ha saputo costruire un modello urbano irripetibile che trova i suoi connotati nella capacità di assorbire e integrare progressivamente tutti i modelli culturali derivati dalle varie dominazioni politiche che si sono susseguite sul L’OBIETTIVO DELL’EXPO DI territorio. Senza per questo azzerare SHANGHAI È UN PROGRESSO INCENTRATO SULL’UOMO, UN il suo passato e la sua memoria». La città italiana è quindi a più strati e CAMMINO FATTO DI INNOVAZIONE plurilinguistica. È una città in cui il SCIENTIFICA E TECNOLOGICA, nuovo non cancella il vecchio, ma lo DIVERSITÀ CULTURALE E plasma, conservandone viva la me- COOPERAZIONE PER UN FUTURO moria. È per questo, precisa Annic- MIGLIORE, CHE PUNTI SUL LEGAME chiarico, che «la cultura urbana TRA RINNOVAMENTO E italiana non è stata e non sarà mai INTERAZIONE TRA POPOLI solo la cultura di architetti, urbanisti, principi e corti, ma è stata e sarà la cultura dei cittadini». Ed è proprio questo il fattore che ha impedito alle città storiche del nostro Paese di omologarsi in nome della modernità. Dal Medioevo al Rinascimento l’Italia è stata un esempio per tutto il mondo occidentale per aver saputo concepire una città ideale e vivibile, sintesi dell’opera dei grandi maestri che sul suo territorio sono nati. Ne è convinto Davide Rampello, presidente della Triennale di Milano che promette: «Lavoreremo per mettere in scena il meglio della nostra cultura, richiamando le radici uniche che la tradizione italiana ha sedimentato nel tempo proprio sul tema della vivibilità delle città e della qualità della vita dei propri cittadini». L’importante è trovare il giusto biglietto da visita per far emergere tutto il patrimonio italiano di conoscenza e cultura.

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Sotto e in apertura, il padiglione sull’urbanizzazione dell’Esposizione Universale di Shanghai. A sinistra, il padiglione italiano

È questo l’obiettivo che si cercherà di raggiungere nel Padiglione italiano. Al suo interno, secondo Rampello, dovranno prevalere «quella “cultura del progetto”, quella sintesi e quella partecipazione collettiva che il nostro Paese da sempre ha insegnato. Perché – continua – un mobile, così come una città, non nasce da solo, ma dall’apporto di tutta una “filiera progettuale” che lavora insieme». Una filiera che oggi non può prescindere dai valori di sostenibilità, rispetto ambientale e qualità della vita. E forse non è un caso che sia la Cina a proporre una riflessione sul futuro della città e la sua sostenibilità. Si tratta, certamente, di una questione di rilevanza mondiale visto che, come precisa Quintieri, dal 1950 a oggi il numero delle metropoli con oltre 10 milioni di abitanti è passato da 2 a 20, molte delle quali si trovano in Paesi in via di sviluppo, sono cresciute in maniera disordinata e hanno un modesto livello di vivibilità. «In Cina – prosegue Quintieri – 600 milioni di persone vivono in 668 città, 40 delle quali hanno più di un milione di abitanti e 50 più di 500mila. È evidente che una tale densità abitativa produce difficoltà di ogni genere, dalla penuria degli spazi e delle risorse ai conflitti culturali e al degrado ambientale». Una crescita senza strategia e controllo può portare a un’ulteriore erosione della qualità della vita. Un’economia in fortissima crescita, quella cinese. Un vero e proprio miracolo economico che ha interessato il terzo Paese più grande al mondo (dopo Russia e Canada) a partire dal 1978. Qualche numero? Basta pensare che il Pil nazionale è passato dai 128 miliardi di dollari del 1980 a circa 2.279 miliardi di dollari nel 2005. Una corsa troppo rapida? La risposta è probabilmente sì, e la Cina oggi

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si sta ponendo il problema di uno sviluppo che ha avvelenato le sue metropoli, tenendo in scarsa considerazione la salute dei propri cittadini. Parola di Xu Bo, responsabile per i partecipanti stranieri del Comitato organizzatore dell’Expo di Shanghai 2010 che spiega, «in Cina è stato recentemente approvato un piano verde che incoraggia con forti agevolazioni le persone a investire risorse in uno sviluppo sostenibile». È anche per questo che si guarda all’Italia, Paese in cui la Cina ripone aspettative altissime e dal quale ci si aspettano contributi fondamentali per il raggiungimento di uno standard di vita migliore nelle città cinesi. «L’Italia, del resto, non è solo un nome – continua Xu Bo – ma è un brand. Per la Cina è un marchio di qualità, una garanzia. Il concetto italiano di città più raccolta, l’eleganza, l’attenzione alla qualità della vita urbana, al tempo libero, allo svago, agli sport, sono argomenti dai quali tanti, noi per primi, devono attingere». Perché la qualità della vita non è un prodotto che si vende, ma si raggiunge grazie alle idee. Quelle buone. Come quelle che vengono presentate nel Padiglione italiano realizzato dall’architetto Giampaolo Imbrighi, un richiamo al gioco dello shanghai in un doppio riferimento al gioco e alla L’EXPO DI SHANGHAI È LA PRIMA IN ASSOLUTO A città in cui sarà ospitato. Il progetto, OCCUPARSI DI CITTÀ, METTENDO A CONFRONTO come spiega lo stesso architetto, «è DIVERSE ESPERIENZE DI SVILUPPO, CONOSCENZE nato dalla necessità di coniugare AVANZATE SULL’URBANISTICA E NUOVI APPROCCI l’idea italiana del saper vivere e ge- ALL’HABITAT UMANO PER PROMUOVERE UNO stire al meglio gli spazi tradizionali di SVILUPPO SOSTENIBILE TRA DIFFERENTI COMUNITÀ

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ASPETTANDO

In queste pagine, alcuni render del Padiglione Italiano che verrà installato all’Expo di Shanghai. Il progetto è dell’architetto Giampaolo Imbrighi: una vera e propria città italiana in uno spazio di seimila metri quadrati

aggregazione sociale, i vicoli, i borghi del nostro Paese, con l’innovazione di una ricerca scientifica sempre più interessata a usare materiali eco-compatibili, rispettosi dell’ambiente e proiettati verso il futuro». Guardare il progetto del Padiglione è un po’ come stare ai margini di una città e osservarla. Una città ideale di seimila metri quadrati con caratteristiche architettoniche d’avanguardia e proposte tecnologiche innovative, un luogo di scambio culturale. «Il padiglione di Imbrighi assomiglia proprio a una città – afferma Umberto Vattani, presidente dell’Istituto nazionale per il Commercio estero –, una nostra città. Una città del sottosuolo, della terra, dell’acqua e del cielo. Tutti elementi che oggi ci caratterizzano. Non c’è una cittadina italiana che non sia attraversata dall’acqua o che non abbia sviluppato, sfruttando sottosuolo, terra e cielo, un sistema integrato di comunicazioni e connessioni. Tutti elementi che consentono di migliorare i servizi per i cittadini». E l’Expo è l’occasione per condividere progetti e idee con quelli che Vattani definisce “i nostri amici cinesi” perché, conclude, «ciò a cui mirano, una città più armonica, è la nostra città». Il vero obiettivo che si auspica l’Expo di Shanghai è, quindi, quello di un progresso incentrato sull’uomo, un cammino fatto di innovazione scientifica e tecnologica, diversità culturale e cooperazione per un futuro migliore, che punti sul legame tra rinnovamento e interazione tra popoli. Un obiettivo ben rappresentato dal logo scelto per l’Esposizione Universale, il carattere cinese che significa “il mondo” e che è costituito dall’immagine di tre persone (io, tu, lui/lei) nel momento dell’abbraccio. A simboleggiare la grande famiglia dell’umanità in armonia e felicità.

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Miami, Florida. Da qualche anno, la capitale indiscussa della Design Art. Grazie a una nuova concezione del settore, scenari internazionali in mutamento e un crescente interesse del pubblico piĂš giovane. Merito di Ambra Medda, direttrice e co-fondatrice di Design Miami/Basel. Creativa, italiana, cittadina del mondo di Stefano Russello

>ri voluzione americana

Ambra Medda, direttore e co-fondatrice del Design Miami/Basel. Sullo sfondo, KaiKai Kiki I, in esposizione durante l’ultima edizione della fiera


© Le foto di Design Miami sono di James Harris

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Non si può definire semplicemente una “fiera”, il polo cresciuto a Miami in questi anni. Si tratta di qualcosa di diverso. Di un fermento artistico innovativo, che ruota intorno a una nuova definizione del design. Protagonista indiscussa di questa rivoluzione americana è una giovane italiana, Ambra Medda, dal 2004 direttore di Design Miami/Basel in Florida. Fiere minori, mostre nei musei e nelle fondazioni, tavole rotonde, wor-

kshop e varie manifestazioni artistiche. Il distretto del design di Miami si è rivitalizzato, e per questo settore è diventato il centro del mondo. Il design elevato a disciplina artistica, che non ha niente da invidiare a scultura e architettura. E che, anzi, con queste arti si fonde, dando vita a in-

teressanti percorsi originali, che attirano l’attenzione di un pubblico sempre più giovane e creativo. Collaboratrice di Christie’s, sovrintendente alle Belle arti, Architettura e Design a Londra, New York e Milano, free-lance per vari progetti, Ambra Medda arriva a Miami quasi

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Private Bank Lounge e, sotto, Moss I, Design Miami/Basel 2008

per caso, ma poi non lascia più la Florida. Diventando uno dei più importanti art promoter nel mondo. Prima di approdare a Miami lei ha lavorato come curatrice free lance a Milano, Londra, New York. Perché alla fine ha scelto gli States e, in particolare, la Florida? «Mi sembrava una città in evoluzione. L’idea di essere giovane e di poter partecipare a uno sviluppo culturale così intenso mi sembrava un’occasione unica. La prima volta sono venuta per visitare Art Basel, naturalmente. Poi è nato un bel rapporto con Samuel Keller, il precedente direttore, e ho deciso di rimanere. Anche perché in questa città già si sentiva nell’aria quella che sarebbe poi stata una nostra intuizione fondamentale, cioè quella di

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far emergere un’idea di design come elemento artistico, che va di pari passo con le altre discipline. Moltissimi galleristi erano appassionati di design e i collezionisti d’arte, viceversa, si addentravano sempre più nel design, iniziando a considerarlo come un valore artistico». Cosa avvicina, in particolare, arte e design? «Il design non era mai stato presentato come noi abbiamo fatto nel 2005, con la prima fiera. In quel momento c’è stata una vera presa di coscienza a livello internazionale sul possibile ruolo del design nel mondo dell’arte contemporanea. Era solo un problema di concezione. I galleristi hanno finalmente avuto la possibilità di presentarsi al proprio massimo, in modo organico. Per i visitatori è stato

uno choc. Sentivo la gente commentare “ecco cosa si intende quando si parla di design”. Da quel momento in poi tutto è diventato molto più semplice. Si è iniziato ad accettare un concetto di fiera che mescola design, architettura e arte in generale. Abbiamo sviluppato al meglio anche il lato culturale: in entrambe le fiere, Miami e Basilea, abbiamo ideato i “design talk”, veri momenti di approfondimento in cui i più importanti rappresentanti del mondo dell’arte discutono i topic del momento». Non solo vetrina quindi? «No di certo. Le nostre fiere rappresentano una piattaforma dove ci si incontra per tirare fuori nuove idee, sperimentare nuovi materiali, packaging, ideare nuovi stili. Sono manifestazioni culturali, con concerti e happening originali, in cui tutto viene messo in discussione, analizzato e proposto al pubblico, con il solo intento di creare un intero mondo dedicato al design, con forti caratteristiche artistiche». Quali sono le novità nel settore? «Nel design oggi ci sono tre strade possibili. La prima si basa su un ritorno alla tradizione, al craft, con l’uso di materiali come legno, cemento, metallo, vetro e plastica, che i designer lavorano in modo quasi artigianale, con le proprie mani. La seconda strada punta invece sullo sviluppo della tecnologia, con realizzazioni e forme più organiche, arrotondate, senza giunture. Un po’ sullo stile del Roth Lab, o di Mike Hansen. Si tratta di una ricerca direzionata su un maggiore uso della computer graphics, che poi viene “tradotta” in fabbrica. La terza via consiste ancora in un ritorno al passato, nel senso però di recupero di materiali di scarto, a cui viene ridata vita. A questo proposito, durante l’ultima edizione del Miami Design, abbiamo premiato come Designer of the year i fratelli Campana, probabilmente i


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rappresentanti di punta per questo settore. Dietro di loro ci sono tantissimi giovani che riutilizzano i materiali in modo molto sorprendente. E proprio ai giovani è dedicato l’altro premio, Designer of the future, che assegniamo invece a Basilea. Con entrambi i riconoscimenti diamo la possibilità di presentare progetti specifici, ideati per la fiera. Ma mentre a Miami vogliamo sottolineare l’eccellenza, portando designer che hanno cambiato la tendenza e la storia della disciplina, a Basilea l’obiettivo è far emergere nomi sconosciuti, che si mettono in evidenza per applicazioni originali, personali e innovative. Li facciamo conoscere, per poi vederli magari lavorare, poco dopo, per le grandi compagnie di fashion design, o iniziare un rapporto con una delle nostre gallerie. Stessa cosa col Designer of the Year, nel quale diamo la possibilità di presentare un progetto specifico per la fiera». L’italian style per decenni ha dettato legge nel settore. Come viene percepito oggi? «Bisogna fare una premessa. In questo settore la formazione ha un ruolo fondamentale. I grandi designer vengono fuori dalle grandi scuole, che oggi sono in Svizzera, Inghilterra, America e Olanda. L’Italia ha sempre un forte appeal, tira fuori idee e stili originali, però vedo pochi italiani fare una carriera internazionale. Per questo spero vivamente di poter sviluppare nuovi rapporti con le scuole italiane, perché mi piacerebbe vedere più designer italiani in giro per il mondo. Presto lavorerò con Fendi, e voglio approfittare di questa collaborazione per avvicinarmi maggiormente all’Italia. A Basilea in giugno, inoltre, avremo una rappresentanza italiana più cospicua». Come si è evoluto il mercato del design negli ultimi anni? «Ormai clienti e il pubblico arrivano da tutte le parti del mondo. Prima i

Due particolari dell’edizione 2008 della fiera: Vivid Gallery e, sotto, Temporary Structure by Aranda Lasch IV

grandi compratori erano solo americani, ora invece un ruolo di assoluta importanza lo giocano i mercati emergenti, Corea, Russia e Medio Oriente, nonostante i collezionisti Usa siano ancora molto importanti. Inoltre è radicalmente cambiato il profilo di compratori e visitatori. Alle nostre fiere ci sono molti più giovani, tante coppie sui 30 anni, a testimonianza che le arti decorative non sono più relegate alla fascia adulta, come avveniva un tempo». Quando ha fondato Miami Design aveva solo 23 anni. Negli States i giovani di talento sembrano trovare lo spazio che in Europa fatica a crearsi. Colpa del contesto o della mancanza di fiducia e coraggio?

«Entrambe le cose. In Italia non si valorizzano abbastanza i giovani, e loro, ormai demotivati, si lasciano un po’ andare. Del resto in Italia, se non hai 50 anni, non vai da nessuna parte, non ti viene data la possibilità di avere responsabilità, compiti specifici e posizioni lavorative rilevanti. Però sono convinta che le cose stiano cambiando: vedo sempre più giovani con esposizioni all’interno di compagnie, correnti culturali e piccoli business. I ragazzi stanno cambiando. Spero di poter far parte, un domani, di un mondo in cui i giovani saranno più responsabili, motivati e apprezzati. Siamo la generazione del futuro: le cose devono cambiare, altrimenti non andiamo avanti».

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La continuitĂ tra porto e centro storico. Lo sviluppo urbano sulle colline. Dai primi insediamenti romani, fino alla rimodulazione urbana del 900, passando per i grandi palazzi rinascimentali. Alla scoperta di Genova con Annalisa Maniglio, uno dei maggiori esperti della storia architettonica della cittĂ della Lanterna di Stefano Russello

>lo stup or e . Tr a mar e, car r ugi e ant ic hi f as t i


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Una foto aerea di Genova. Nel riquadro qui accanto, l’architetto Annalisa Calcagno Maniglio, presidente Aiap

Genova è una delle città più antiche d’Italia. Per capirla fino in fondo bisogna osservarla lentamente, infilarsi nelle sue strade, nei suoi carrugi. E percorrere i secoli a ritroso. Una storia complessa e variegata, stratificata nel paesaggio, negli edifici, nell’organizzazione urbanistica. Una struttura apparentemente caotica, una complessità di forme che in realtà racchiude molteplici stili e differenze. «L’ideale sarebbe farsi prendere per mano da un genovese e lasciarsi accompagnare». Il consiglio arriva dall’architetto Annalisa Calcagno Maniglio, genovese doc, presidente dell’Aiap e preside della facoltà di architettura a Genova, dove si occupa di conoscenza e analisi del paesaggio. Un lavoro complesso e appassionante, che negli anni l’ha resa uno dei massimi esperti di questo territorio. «Tutto quello che è accaduto da queste parti è legato a doppio filo alla storia» spiega. Si parte dal mare, «l’identità più forte della città, l’insediamento originario lungo il porto, con le montagne alle spalle», una fascia costiera stretta, dove la città ha avuto il suo primo sviluppo in epoca romana. «L’allineamento di edifici lungo la costa veniva chiamato ripa maris. Alle sue spalle si è sviluppato da subito un sistema di crose, i percorsi di risalita lungo le colline». Un paesaggio costantemente luminoso, che unisce la campagna a una continua percezione del Mediterraneo. L’identità storico architettonica, del resto, è legata fortemente a questa combinazione: «Ancora oggi la città mantiene questa sua caratteristica – spiega Maniglio – pur essendosi fortemente sviluppata in ogni direzione, da Levante a Ponente». Dal mare concepito come attività mercantile, nucleo originario dello sviluppo urbanistico in epoca romana, si passa immediatamente al periodo rinascimentale. Si entra in via Garibaldi sulla quale si affacciano i palazzi cinquecenteschi delle famiglie storiche, costruiti uno vicino all’altro, come in un’anticipazione delle moderne lottizzazioni. «Questa straordinaria emergenza cinquecentesca rappresenta il momento più importante per la storia della città – conferma Maniglio –. Di quel periodo rimangono i cognomi storici, identificabili oggi con gli edifici cittadini più prestigiosi, dal palazzo Baldi al Doria Tursi, passando

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per Spinola e Cambiaso». I proprietari di queste strutture furono protagonisti anche della prima diffusione delle ville di campagna. «Le ville cominciarono a risalire le colline, con il loro sistema meraviglioso di giardini e il loro doppio affaccio su mare e montagna». Le caratteristiche del territorio hanno sempre influenzato la struttura urbana di Genova, dal punto di vista morfologico e ambientale. «La città si è sviluppata oltre le mura, attraverso un sistema a mezza costa. E anche con l’ampliamento ottocentesco hanno prevalso le assi di via Roma e via Assarotti». È proprio l’800 il secolo che ha consacrato il suo spirito politico. Piazza De Ferrari, vera e

propria agorà cittadina, è lì a testimoniarlo, con il monumentale Palazzo Matteotti, sede storica dei Dogi. «Anche quest’edificio ha un doppio affaccio – fa notare Maniglio –. Una parte è legata alla storia della Repubblica marinara, mentre il lato sulla piazza rappresenta l’evoluzione tra 800 e 900, un polo molto forte della nostra storia, il luogo dove si svolgeva la vita politica». Il centro storico, uno dei più estesi in tutta l’Europa, è molto antico, e raccoglie elementi di varie epoche. «Un primo livello è medievale, chiuso dalle mura costruite da Barbarossa, e prevede un rapporto completamente diverso con i luoghi e le strade. Questa è la parte “ferrata” della città,

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1. Il porto vecchio, nucleo storico di Genova 2. Porticato del Palazzo Doria Tursi 3. Via Garibaldi 4. Piazza De Ferrari-Palazzo Matteotti, vera e propria agorà cittadina 5. I Parchi di Nervi 6. Corso Italia, il lungomare realizzato nel XX secolo

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con i suoi vicoli, i palazzi dai grandi cortili interni e il particolare sistema di scale». Di recente, il progetto di Renzo Piano ha riportato la città sul mare, e oggi i visitatori tendono a preferire l’acquario e i luoghi di riqualificazione, «in molti però dimenticano che alle spalle di quella zona c’è la parte storica, bellissima e tutta visitabile, ricca di opere monumentali di grandissimo valore architettonico». Maniglio è molto legata alla tradizione storico-artistica della città, ma non esclusivamente a quella antica. Come dimostra la sua passione per Piazza Rossetti, il fulcro di uno dei quartieri più recenti di Genova, sviluppata sul progetto di Luigi Carlo


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Daneri, l’architetto ligure che intorno al 1950 rimodulò la concezione di residenza urbana sul mare. Non è il solo esempio di architettura moderna capace di inserirsi nella tradizione artistica della città: «Un altro intervento indovinato è il restauro del centro storico fatto dall’architetto Gardella tra gli anni 70 e 80. Parlo dell’intera area di Sant’Agostino, dove è stato recuperato non solo tutto il sistema di chiese e monasteri, aprendoli a nuovi usi urbani, ma anche la facoltà di architettura e il museo. Con Gardella è stata restituita una nuova vivibilità a quelle zone che in passato avevano sofferto di più». Continuando nella parte moderna si arriva in Corso Italia, il lun-

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gomare realizzato nel periodo di evoluzione urbana del 900. «Non tutti saranno d’accordo – spiega Maniglio – ma io amo questa via. Fino alla sua realizzazione, Genova non aveva un percorso vicino al mare dove poter passeggiare. La ripa maris, infatti, rappresentava esclusivamente la vita commerciale, mentre Corso Italia è la strada dove si cammina in santa pace». Da qui si continua verso il Levante, e subito ci si imbatte nei famosi Parchi di Nervi, una vasta distesa naturale di proprietà comunale. Dietro ai Parchi, una serie di percorsi si diramano nella roccia, riparati dalla tramontana, stretti ma piacevoli. «I genovesi dovrebbero venire più spesso da queste parti – suggerisce la professoressa – e anche il sistema delle crose costituisce una splendida passeggiata, che sale perpendicolarmente lungo le colline. Un vecchio sistema di collegamento che a volte riserva delle sorprese interessanti». Però non tutti gli interventi architettonici contemporanei raccolgono l’approvazione di Maniglio. Quando si cita la famosa Madonna del Monte, infatti, l’architetto non può

fare a meno di farci notare che sul pendio di questa bellissima montagna, la città si è sviluppata in maniera disordinata, rendendo invivibili i quartieri circostanti. «È l’esempio di un’area poco armoniosa – sottolinea –. Ma ce ne sono anche altri. Mi riferisco in particolare ai grattacieli, veri e proprio squarci nel paesaggio, una brusca interruzione nella continuità gradevole della nostra città». Ma non appena si supera la Madonna, si scopre una vasta superficie verde di macchia mediterranea. Là i pensieri negativi svaniscono, di fronte all’ennesima piacevole sfaccettatura di una città imprevedibile. Capace di far convivere lo spirito industriale degli ultimi decenni con un’anima artistica e naturale profonda.

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>il dialo go della dif fer enza L’architettura va rifondata. Partendo dalla rielaborazione del suo pensiero teorico. Per arrivare a una prassi che la affranchi dall’attuale sudditanza dalle altre arti che rischia di dissolverla. A lanciare l’appello è Vittorio Gregotti. Che si schiera contro spettacolarizzazione e archistar di Marilena Spataro

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COLLOQUI Vittorio Gregotti

«Una riflessione ad alta voce». Così Vittorio Gregotti definisce il suo ultimo libro, Contro la fine dell’architettura, minimizzando in parte la polemica suscitata alla sua uscita. Ma il mondo dell’architettura, e non solo, è in subbuglio, perché le tesi sostenute, e supportate da un pensiero forte e da una profonda conoscenza del progettare, da questo ottantenne professionista piemontese, sul suo scritto, suonano come uno spietato quanto lucido j’accuse nei confronti di una parte di suoi colleghi famosi: gli archistar. «Modaioli – dice Gregotti – che hanno ridotto l’architettura a scandalo, a trovata mediatica, decretandone la dissoluzione». Secondo Gregotti sono proprio loro i maggiori responsabili della «liquefazione» dell’antica disciplina del progettare. Ed è a loro che nel suo pamphlet dirige con mira infallibile e con sottigliezza d’analisi gli strali più acuminati della sua polemica. L’ architetto Vittorio Lei ha attraversato mezzo secolo di storia dell’architetGregotti. Nella pagina a tura da protagonista. Cosa l’ha spinta a scrivere un testo fianco trasformazione delle aree Pirelli alla Bicocca di di severa critica del modo di fare architettura nel conMilano, 2007. Qui sopra, temporaneo, anche a rischio di attirarsi antipatie? Torre della Ricerca a Padova «È da quasi cinquant’anni che scrivo libri, non lo faccio con la pretesa di essere un teorico, ma di chiarirmi con me stesso prima che con gli altri. Il mio intento è sempre stato quello di interrogarmi su dove si stia andando nel mondo dell’architettura e anche nelle arti figurative. Magari qualche critica, qualche antipatia me la sarò pure attirata, ma da parte di una minoranza. Ritengo che gli architetti con cui concordo al mondo ci siano, e che siano anche tanti». Lei, però, evidenzia come l’architettura oggi manchi di qualsiasi fondamento proprio, sia a livello teorico, che sociale, etico ed estetico. A tal fine insiste sulla necessità di rifondarne le LA LIQUEFAZIONE O DISSOLUZIONE DELL’ARCHITETTURA DERIVA basi. Quali sono le cause che hanno SOPRATTUTTO DALLA TENDENZA DI METTERE INSIEME LE DIVERSE determinato questa situazione? «Nel Settecento con l’Illuminismo, ARTI, COME SE L’ARTE FOSSE UN’UNITÀ AL DI SOPRA DI CIASCUNA DI con la Rivoluzione industriale e con la QUESTE. INVECE OGNUNA HA UNA PROPRIA SPECIFICITÀ, I PROPRI Rivoluzione francese, le arti hanno as- STRUMENTI, LE PROPRIE PRATICHE TECNICHE E ARTISTICHE sunto una certa responsabilità nei confronti della società e dei singoli soggetti politici, stabilendo, però, al contempo rispetto allo stato reale delle cose una diversità, una distanza critica. Negli ultimi 30 anni tutto ciò ha ceduto il posto a una forma di strano realismo, una specie di realismo capitalista. Ne è derivato, oltre che un disprezzo per il contesto storico e fisico dentro il quale ci si muove, una tendenza a conferire un

eccessivo valore all’originalità, anche quando non è necessaria, alla bizzarria, alla grandezza fisica delle opere come dimostrazione di forza e di capacità che porta a un progresso visto secondo parametri di positività iperliberali. Non è un caso che tutto questo sia avvenuto proprio nel periodo thatcheriano, cioè quando anche la convinzione complessiva del capitalismo globalizzato è

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COLLOQUI Vittorio Gregotti In questa foto, Grand Théatre de Provence, Aix-en-Provence, 2003-2007. Nella pagina successiva dall’alto: Centro culturale di Belém, Lisbona; lo stadio Olimpico di Barcellona; una nuova città di Pujiang, Shanghai

diventata una forma di potenza che CREDO CHE CI SIA UNA GRANDE CONFUSIONE TRA I MONUMENTI E sembrava non avere più limiti. Dal L’IMMAGINE DI MARCA, LE INVENZIONI LINGUISTICHE CHE SI punto di vista delle arti questo ha APPIATTISCONO FINO A COINCIDERE CON I DESIDERI DI SORPRESA prodotto una specie di comunione DEL MERCATO. CI DIAMO TANTE ARIE PARLANDO DELLE TECNOLOGIE, tra le diverse discipline artistiche, MA L’ARCHITETTURA NON È UN MIRACOLO TECNOLOGICO avente al centro l’idea della multimedialità, intesa, però, come premipropri strumenti, le proprie pratiche tecniche e artistinenza della comunicazione in relazione al consumo che. E quindi anche una propria identità attraverso cui delle cose, il che ha generato un mondo statico, dove dialogare con le altre. Il rapporto tra l’architettura e la quello che conta è lo stile e dove tutto è diventato depittura, per esempio, è sempre stato un rapporto imsign e forma. Insomma apparenza e spettacolarizzaportantissimo nella storia dell’Europa in questi ultimi zione. La mia critica vuole essere una reazione a questo mille anni. Ma naturalmente nessuna delle due ha tenstato di cose, che indica la necessità di ristabilire una tato di diventare l’altra, invadendone il campo, ognuna differenza tra le diverse identità disciplinari. L’interdisciha cercato di lavorare all’interno della propria condizione plinarità è un elemento fondamentale, è ed è stato un del fare. Che è quanto oggi non accade. Un altro aspetto elemento di progresso, ma deve implicare che le discinegativo è questo appellarsi continuamente alla creatipline siano diverse tra loro, altrimenti non esiste possività, che così diventa più che altro una citazione. E nulla bilità di relazione». più. Invece, io ritengo che nessuno si inventi le cose da Nel suo libro parla di “liquefazione” dell’architettura. zero, questo compito lo lascerei solo al buon Dio. Tutti Cosa intende esprimere con questo termine? noi modifichiamo, trasformiamo, cambiamo, aggiun«La liquefazione o dissoluzione dell’architettura deriva giamo, proponiamo. È questo il ruolo che abbiamo sulla soprattutto dalla tendenza di mettere insieme le diverse terra. Ovviamente l’opera ha sempre la pretesa di duarti, come se l’arte fosse un’unità al di sopra di ciascuna rare, di significare anche al di là dello stesso autore, e in di queste. Invece ognuna ha una propria specificità, i

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COLLOQUI Vittorio Gregotti

effetti, i lavori artistici detengono questa qualità, parlandoci delle cose anche al di là delle ragioni per cui sono state costruite. Ecco secondo me, fare architettura, significa soprattutto questo». Lei sostiene che l’aspetto mediatico di dover stupire a tutti i costi ha contagiato il mondo dell’architettura, diventando l’obiettivo ultimo per molti architetti. Cosa intende dire? «Sì, credo che ci sia una grande confusione tra i monumenti e l’immagine di marca, le invenzioni linguistiche che si appiattiscono fino a coincidere con i desideri di sorpresa del mercato. Ci diamo tante arie parlando delle tecnologie, ma l’architettura non è un miracolo tecnologico. Quando oggi penso a un miracolo tecnologico penso alle possibilità di allungare la vita o di andar sulla luna, ma non certamente alla tecnologia dell’architettura, che è molto mista e molto complessa. Invece per i gotici era un grande sfida tecnica costruire una cattedrale». L’assenza di progettualità di cui soffre l’architettura pare allora essere una vera e propria ideologia sul personalismo, dove il progetto sociale stesso consiste nell’affermazione della sua frantumazione. Con questo ha forse voluto aprire un dibattito che coinvolge anche l’assetto della società e delle sue istituzioni? «Sì, infatti non possiamo evitare di confrontarci con i problemi della società e di riflesso della politica, in un giudizio che coinvolge IL CONFRONTO CON LA SOCIETÀ COSTITUISCE, OSEREI DIRE, IL anche il fare arte o architettura. QueCONTENUTO POLITICO DELL’ARCHITETTURA. TUTTO CIÒ È sto confronto con la società costituiINEVITABILE, È QUALCOSA DA CUI NON SI PUÒ SFUGGIRE E NEI CUI sce, oserei dire, il contenuto politico CONFRONTI BISOGNA IN QUALCHE MODO, ATTRAVERSO LE OPERE dell’architettura. Tutto ciò è invitabile, NATURALMENTE, NON ATTRAVERSO LE PAROLE, PRENDERE POSIZIONE è qualcosa da cui non si può sfuggire e nei cui confronti bisogna in qualche modo, attraverso le opere naturalmente, non attraverso le parole, prendere posizione». Quanto influirà sul futuro dell’architettura l’utilizzo delle tecnoscienze? «La tecnoscienza certamente ha un’importanza colossale all’interno del mondo contemporaneo. Ma non si può confondere il suo fine con i fini della produzione delle pratiche artistiche. Sono due cose diverse. Bisogna evitare di pensare che il senso del possibile in architettura sia il suo mezzo. Questa è una differenza fondamentale su cui si deve aprire una discussione». In tema di architettura cosa c’è dietro l’angolo? «Sono piuttosto pessimista. Personalmente mi sembra di avere troppo poco tempo per fare questa battaglia che ho intrapreso, speriamo che qualcuno la raccolga e la porti avanti».



>perché l’architettur a deve rinascere Una professione invecchiata. Una diagnosi chiara, affilata e senza appello. Perché per Franco La Cecla il declino dell’architettura contemporanea è un dato di fatto. Che affonda le radici in un mutamento antropologico, prima che ideologico. Di fronte al quale, ormai, c’è solo una via: resettare tutto e ricominciare di Daniela Panosetti

Antropologo, architetto, prolifico saggista. Franco La Cecla, 59 anni, palermitano, è uno dei più noti esperti italiani di pratiche urbane e forme dell’abitare. Ha insegnato Antropologia culturale in diversi atenei italiani e stranieri, tra cui le università di Verona, Palermo, Venezia (Iuav), Milano (Vita e Salute) e la prestigiosa Ehess di Parigi. Tra i molti saggi firmati negli ultimi anni, da ricordare Mente locale. Per un’antro-

pologia

dell’abitare

(1995)

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Perdersi. L’uomo senza ambiente (2005). Contro l’architettura il titolo del suo ultimo libro, pubblicato nel 2008. Attualmente si occupa del riassetto urbanistico di Barcellona

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Controllate, organizzate. Mappate in ogni andito. Le città dell’epoca digitale sembrano aver perso ogni verginità, ogni riserva di imprevisto. Ma l’idea di città, spesso, è cosa molto diversa rispetto alla città reale. E nelle metropoli di oggi, assicura Franco La Cecla, «è ancora possibile perdersi». Per fortuna, verrebbe da aggiungere. Perché, spiega lo studioso, che sull’antropologia urbana riflette da anni, «le città sono storie dell’abitare, prima di tutto, ed è proprio in questa complessità di storie che ci si continua a perdere». Soprattutto, aggiunge, «le città sono luoghi straordinari, ricchissimi. E hanno una dimensione narrativa che nessun architetto è in grado di cogliere». Ulteriore conferma di una crisi che, secondo La Cecla, investe la professione nella sua interezza, fin dalle fondamenta. Che, come scrive nell’ultimo saggio, Contro l’architettura, vanno distrutte e ricostruite. Per ritrovare il giusto sguardo suoi luoghi, sulle città e su coloro che la abitano. Il titolo del suo ultimo libro è un esplicito j’accuse. Perché questa denuncia? «Perché sono convinto che l’archi-

tettura, come professione, si sia esaurita, quasi si fosse suicidata. Perché non è più adeguata ai tempi, tanto per iniziare. E soprattutto non è più utile, nel senso che non contribuisce più a migliorare la vita quotidiana delle persone. La professione, insomma, non è più al passo con i tempi. E anche il fenomeno delle archistar, con la loro autoreferenzialità, non è che un sintomo di questa vecchiaia, perché riflette perfettamente la situazione degli studi professionali, che non sono riusciti a rinnovarsi, non hanno capito che la realtà che sta loro intorno è cambiata radicalmente». Un problema, quindi, più professionale che ideologico. «La mia impressione è che gli architetti abbiano “perso il treno”. Perché ormai delle cose serie, come l’ecologia urbana, i rapporti tra esigenze degli abitanti e progettazione, non sono più loro a occuparsene, ma altri soggetti, altre imprese. Del resto, basta guardare cosa accade nei concorsi internazionali: quanto si tratta di appalti davvero importanti, alla fine sono i gruppi di management a uscirne vincenti. Perché gli architetti non


© BASSO CANNARSA/GRAZIANERI

J’ACCUSE Franco La Cecla

Franco La Cecla, architetto, antropologo, esperto di culture urbane

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Franco La Cecla durante un workshop per operatori interculturali nell’ambito dell’edizione 2008 di Summer Drafts - Bolzano. A fianco, un’immagine della X Biennale di Architettura

SONO CONVINTO CHE L’UNICA STRADA PER L’ARCHITETTURA SIA ANNULLARE TUTTO E RICOMINCIARE DACCAPO. RESETTARE LA PROFESSIONE E REINVENTARLA. PERCHÉ COSÌ È COME SE FOSSE MORTA. IMPRIGIONATA IN UNA STRUTTURA INVECCHIATA E INADEGUATA, DI CUI RIMANGONO VITTIMA, PURTROPPO, ANCHE I MIGLIORI sono più in grado di lavorare in équipe, in modo interdisciplinare. E questo li rende sempre meno concorrenziali». Quanto influisce su questo declino la perdita di funzionalità, la vittoria dell’estetizzazione fine a se stessa? «Attenzione, non è che si sia persa la funzione. È che la funzione è sbagliata. Le architetture attuali funzionano eccome, ma per finalità che nulla hanno a che vedere con la loro reale vocazione. Così, finisce che un’architettura serva magari a imporre un logo, a tracciare delle tendenze, ma non è più capace di incidere in maniera positiva su ciò che davvero conta, ovvero sulla vita delle città, dei gruppi sociali, dei singoli soggetti che le animano». Quali sono le reali cause di questa situazione?

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«Molto dipende dal modo in cui è concepita e organizzata la professione, per cui ormai gli architetti davvero non hanno tempo di occuparsi di altro tranne il disegnare. Ma una parte di colpa va anche al mercato del lavoro, che premia in modo eccessivo una parte minima dell’offerta professionale. Ciò che viene richiesto alle archistar, insomma, è una piccolissima fetta del mercato potenziale della progettazione urbana». Quanto incide tutto ciò sull’idea di città, come spazio del vivere? «Le città sono realtà estremamente complesse, veri e propri organismi in continuo mutamento, che oggi si avviano a occupare circa la metà del pianeta. Da questo discendono i principali problemi, da un punto di vista antropologico. Tra questi, sono due le emergenze più pressanti: quella ambientale e quella propriamente sociale, legata alla convivenza tra gruppi sempre più diversi e numerosi. Problemi reali, urgenti, di fronte ai quali gli archi-


© Giulia Santucci

J’ACCUSE Franco La Cecla

tetti rispondono occupandosi di sciocchezze». Lei ha lavorato molto sul concetto di “mente locale”. Esiste oggi un’architettura locale o perlomeno glocal? «Ci sono senz’altro casi interessanti di architettura regionale, ad esempio in Australia, dove alcuni progettisti si ispirano alla storia e alla cultura indigene, inserendosi nel più ampio dibattito più ampio dei movimenti indigenisti, che si interrogano sul modo più adeguato di costruire nuove strutture. C’è poi una nuova architettura vernacolare, che rimanda a principi simili: penso ad esempio alle ricerche di Pietro Laureano, che personalmente ammiro molto, sulle architetture e i sistemi idrici nei Paesi semiaridi. In generale, comunque, si sta recuperando sempre più l’idea che non è

la singola opera architettonica a essere importante, ma l’habitat di cui questa fa parte». C’è, quindi, qualche segnale di speranza, esempi positivi di un’architettura più autentica? «Tra i nomi e i progetti celebri, direi di no, nulla. Perché tutta la professione, a mio parere, è da buttare. Certo, ci sono alcuni giovani architetti, in posti come la California ad esempio, che si stanno effettivamente impegnando a cambiare le cose. Ma il trend generale è quello di una professione ancorata a schemi ormai del tutto inadeguati. Ovviamente esistono soluzioni alternative, ma del tutto al di fuori del campo professionale. Forme spontanee, che nascono nelle città per le città. Ma gli architetti, nella maggior parte, dei casi sono tagliati fuori, questo è sicuro».

In conclusione, davvero non salva nulla? Tutto da buttare? «Per quanto mi riguarda, sono convinto che l’unica strada sia annullare tutto e ricominciare daccapo. Resettare la professione e reinventarla. Perché così com’è, lo ripeto, è come se fosse morta. Qualcosa che di fronte un mondo che è cambiato, e continua a cambiare, si ostina rimanere uguale. Imprigionato in una struttura vetusta, di cui rimangono vittima anche i migliori, come Renzo Piano ad esempio, con cui ho anche avuto modo di lavorare. Finché non si comincerà a rinnovare alla base la professione, insomma, non vedo reali vie d’uscita. E se è vero che come dicevo in altri Paesi, in parte, questo sta avvenendo, in Italia siamo ben lontani da un cambiamento di questo genere».

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>estetica r esponsa bile Un grande architetto che non ha smesso di interrogarsi sulle possibilità offerte dal proprio lavoro. Questo è Richard Meier. Un progettista che disegna spazi di aggregazione in cui gli elementi naturali tornano protagonisti di Lorenzo Berardi

Un rapporto speciale quello che lega Richard Meier all’Italia. È nel nostro Paese, infatti, che l’architetto statunitense ha realizzato alcune delle sue opere più recenti e sta ora lavorando sul Centro Ricerche e Innovazione dell’Italcementi di Bergamo. Negli ultimi anni, inoltre, Meier si è trovato spesso a Roma. È nella città capitolina che ha realizzato due delle sue ultime opere: la parrocchia di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste e il museo dell’Ara Pacis. Vincitore del prestigioso Pritzker Price nel 1984, il massimo riconoscimento al mondo per un architetto, Meier considera il proprio lavoro «una continua investigazione dell’interazione fra spazio, forma e luce». Caratteristiche, queste, evidenti in ogni suo progetto realiz-

zato nel mondo. Un architetto specializzato in musei, spazi espositivi ed edifici pubblici fra Europa e Stati Uniti che ha saputo innovare non solo attraverso le linee e il design, ma anche grazie alla propria sensibilità etica ed ecologica. «Per me la realizzazione di un edificio non riguarda soltanto la scelta dei materiali e il metodo di costruzione, che sono ovviamente molto importanti – afferma Meier –, ma anche il rapporto della struttura realizzata con la natura e il contesto che la circonda, con le proporzioni dell’uomo e la cultura stessa dell’architettura». Il ruolo assunto dall’architettura oggi rispetto alle problematiche sociali e ambientali è di maggiore responsabilità rispetto al passato? «Le tematiche ambientali stanno

certamente influendo sul design, i materiali e le pratiche costruttive come del resto dovrebbero fare. Per quanto riguarda le problematiche sociali sono sempre esistite e sin dai primordi ci sono state difficoltà a esse connesse per cui sarebbe irragionevole aspettarsi che l’architettura possa risolverle tutte. Quello che possiamo fare come architetti è creare e promuovere spazi pubblici più sostenibili per incoraggiare le persone a ritrovarsi insieme. Ottimizzare l’uso della luce naturale e dell’energia solare è stato un obiettivo della mia attività di architetto sin dagli anni 60. Ora stiamo cominciando la costruzione dell’Italcementi Itc Lab a Bergamo che sarà la prima struttura in Europa accreditato Leed, il sistema di valutazione della qualità energe-

A destra, l’architetto statunitense Richard Meier. Attualmente, in Italia, sta lavorando a Bergamo dove ha progettato il nuovo Centro Ricerche e Innovazione dell’Italcementi. A sinistra, il palazzo per uffici progettato da Meier a Saint Denis, Parigi

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ARMONIE Richard Meier

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© NANNI FONTANA / FOTOGRAMMA

tico ambientale per lo sviluppo di edifici “verdi” ad alte prestazioni che funzionino in maniera sostenibile e autosufficiente». In senso non solo ecologico, ma anche etico quali sono, secondo lei, le spinte ideali e le coordinate pratiche attraverso cui ci si deve muovere nella realizzazione di un edificio? «Da architetto che ha lavorato per

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committenti privati per oltre 40 anni, ho sempre considerato che in ogni progetto in cui lo studio Meier si cimenta esiste una responsabilità non solo verso il nostro cliente, ma anche nei confronti del pubblico, cioè verso chiunque. Una responsabilità che è esistita ieri, esiste oggi ed esisterà domani. Come architetti e progettisti abbiamo, inoltre, una responsabilità anche verso noi stessi

in qualsiasi cosa facciamo». Come riesce a trovare il giusto equilibrio fra arte e scienza nel fare architettura? «L’arte e la scienza sono interconnesse nel processo di creazione dell’architettura. Qualsiasi sia il design su cui si è lavorato, il prodotto finale dovrà riuscire a incontrare le aspirazioni che si proponeva di raggiungere se tutti gli ingegneri coinvolti


ARMONIE Richard Meier

L’ingresso del nuovo museo dell’Ara Pacis, ideato da Richard Meier a Roma. Nella capitale l’architetto statunitense ha realizzato anche la chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste

QUELLO CHE POSSIAMO FARE COME ARCHITETTI È CREARE E PROMUOVERE SPAZI PUBBLICI PIÙ SOSTENIBILI PER INCORAGGIARE LE PERSONE A RITROVARSI INSIEME. OTTIMIZZARE L’USO DELLA LUCE NATURALE E DELL’ENERGIA SOLARE È STATO UN OBIETTIVO DELLA MIA ATTIVITÀ DI ARCHITETTO SIN DAGLI ANNI 60

che vi hanno lavorato vi dedicano la tua stessa attenzione. Nel caso della parrocchia di Dio Padre Misericordioso che abbiamo realizzato a Roma in occasione del Giubileo, gli sforzi ingegneristici sono divenuti essi stessi una fonte di ispirazione per il nostro lavoro». Sempre a Roma, lei ha riprogettato il sito dell’Ara Pacis. Quali sono stati i criteri estetico-architettonici che l’hanno ispirata in quest’opera? «L’Ara Pacis era ospitata in una struttura deteriorata che necessitava di essere rimessa a posto per preservare il monumento. Le nostre linee guida erano quelle di mantenere inalterata la testimonianza storica di ciò che era là, ma anche di creare una nuova struttura nella quale le persone potessero ammirare la magnificenza dell’Ara Pacis. Il luogo, del resto, era fisso e la necessità di preservare l’altare ci impediva di spostarlo. La principale considerazione era di onorare in modo appropriato questo esempio significativo della storia cittadina. Roma è una città vitale e vivace che vanta ricche e storiche testimonianze dell’antichità. Ma Roma è anche una città che continua ad attrarre persone, siano esse turisti o suoi futuri abitanti. In questo, l’Urbe si sta muovendo nella stessa direzione di altre grandi metropoli mondiali del ventunesimo secolo».

A proposito di contemporaneità, come ha influito la ricerca e lo sviluppo di nuovi materiali nella sua attività di architetto? «Di recente stiamo utilizzando un materiale innovativo come l’Active TX della Italcementi che è un cemento “mangia smog” che lavora attraverso la luce per velocizzare la decomposizione degli agenti inquinanti. La Italcementi ha avuto un grande successo con questo materiale e stanno studiando un innovativo cemento rinforzato ad alta resistenza per la realizzazione del loro quartier generale di Bergamo così come per altri progetti». Qual è invece, a suo avviso, il rapporto tra tecnologia ed estetica? «Tecnologia ed estetica si muovono e si sviluppano mano nella mano. La presenza dell’una non nega quella dell’altra». In un’ottica di sostenibilità ambientale, come e cosa cambierà nel modo di fare architettura? «L’emergere di un design responsabile ed eco-sostenibile è uno degli sviluppi più positivi degli ultimi anni. Penso che quando le mete dell’architettura pratica diventano il rinnovamento dei materiali e l’eliminazione degli sprechi si stia andando nella giusta direzione per vedere un’architettura migliore e che derivi da un progresso naturale».

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Erede della libertà intellettuale e dell’impegno civile che caratterizzano opera e pensiero di Giancarlo De Carlo, Anna Grazia Ighina sostiene e sperimenta la natura relazionale dell’architettura. Affinandone una dimensione fluida. Fra lo spazio e la vita di Paolo Nobilio

>le r agioni dell’architettur a

«L’ultima Biennale di Venezia, nella sua esplorazione di un’architettura svincolata dalla fisicità, è stata da più parti contestata. Nonostante alcune sollecitazioni interessanti, l’evento appare tuttavia come un capolinea, in cui l’alienazione dell’architettura, oscillando tra l’incorporeità della seduzione digitale e la prodezza degli involucri spettacolari, sembra condurla a un punto di non ritorno. La domanda è, allora, quali prospettive si aprano per l’architettura del prossimo futuro». A formulare questo e altri interrogativi è l’architetto genovese Anna Grazia Ighina. Affiancata da un giovane gruppo di lavoro, Ighina opera in controtendenza, riflettendo sulla sostanza sociale dell’architettura e promuovendo la ridefinizione dei rapporti fra esseri umani e spazio fisico progettato.

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RIFLESSIONI

Miscellanea di progetti realizzati di abitazioni unifamiliari. A sinistra, Genova, l’accesso al quartiere da via ai 4 Canti di San Francesco arricchito e indirizzato dalle vele. In basso, l’architetto Anna Grazia Ighina, titolare dello studio Ighina & Partners Architettura e Urbanistica

«Nonostante tutto sono ottimista – assicura l’architetto – non è la prima volta nella storia che l’architettura langue. Le società decadenti, come è indiscutibilmente la nostra, hanno sempre sostituito il vuoto di valori con miti velleitari e la complessità con semplificazioni superficiali o complicazioni artificiose. Proprio per questo, credo sia arrivato il momento di riscoprire Le ragioni dell’architettura». Il rimando è al titolo di un libro dedicato, qualche anno fa, all’opera di Giancarlo De Carlo, uno degli ultimi grandi “maestri” dell’architettura contemporanea. Una personalità d’eccezione, che ha influenzato, fra le altre, figure quali Renzo Piano, che così ha definito l’architetto genovese: “una delle miniere a cui mi sono sempre approvvigionato”. Il suo richiamo a De Carlo è un caso o una citazione? «Direi piuttosto un riferimento. Avevo 27 anni, appena

aperto il mio primo studio, quando incontrai De Carlo. Rimasi con lui per dieci anni come assistente di progettazione alla facoltà di Architettura di Genova, lavorai ad alcuni suoi importanti progetti e con lui ebbi contatti con i grandi nomi dell’architettura. Furono anni di grande intensità culturale. Ho imparato a indagare, osservare, lasciarmi pervadere dalle suggestione dei luoghi e di chi li vive, interpretandone le potenzialità, i limiti e le aspettative. Ho imparato che l’architettura non ammette scorciatoie o falsificazioni. De Carlo ha sempre sostenuto che “nulla di nuovo può accadere nell’architettura che non sia inventato e elaborato all’interno dell’architettura in termini specifici di architettura”. E credo che guardando al futuro queste parole rimangano attuali». Il suo lavoro è rigoroso e raffinato, al contempo poetico e pragmatico. Un’architettura sempre legata alla

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vita nella sua dimensione fisica e senso- LA CASA È UN IRRINUNCIABILE LABORATORIO DI riale. In questo la sua ricerca va incontro al FENOMENOLOGIA E SEMANTICA PERCETTIVA. MI APPASSIONA futuro? LAVORARE CON PROPORZIONI, GEOMETRIE, COLORI CHE «Sì, se il futuro è la società, come insieme or- TROVANO LA LORO RAGIONE NELLA VIBRANTE COMPLICITÀ ganizzato di uomini e donne in un ambiente CON I BISOGNI, I SENSI E L’ANIMA DI CHI LI ABITA fisico. La mia architettura deriva da un modo biente. La casa è un irrinunciabile laboratorio di fenodi guardare il mondo. C’è una famosa domanda – da menologia e semantica percettiva. Mi appassiona lavodove veniamo, dove siamo, dove vogliamo andare – che rare con proporzioni, geometrie, colori che trovano la un architetto non può eludere. Questo implica la conoloro ragione nella vibrante complicità con i bisogni, i scenza della storia, una visione critica del presente e la sensi e l’anima di chi li abita; realizzare corrispondenze continua messa a punto di un’ipotesi di futuro. E questo spazio- fruitore tanto intime da potersi evolvere al muvale per progettare una città godibile così come per ditare della vita. A livello urbano, le strategie non possono segnare una casa in cui vivere bene. Credo, insomma, prescindere dal definire i reciproci rapporti tra contradche l’architetto debba ascoltare, interpretare e offrire ridizioni e complementarietà della società multietnica e ferimenti a una comunità sociale e famigliare che cambia della città metropolitana, che non consentono più disema mantiene la necessità di rapporto con il proprio am-

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RIFLESSIONI

Intervento nel quartiere della Maddalena, a Genova. L’Architetto Ighina e il suo gruppo di lavoro sul quartiere (dall’alto, in senso orario, Laura Valla, Francesca De Rege e Caterina Ansaldo)

gni unitari e interpretazioni lineari. La sfida è ritrovare l’armonia di una nuova complessità: una architettura responsabile, capace di anticipare risposte e manifestarne rinnovate identità plurali». Recentemente il Sindaco di Genova l’ha chiamata come consulente onorario per il difficile recupero del quartiere della Maddalena. Cosa la stimola particolarmente di questo lavoro? «Quello della Maddalena è un quartiere di grande valore storico ed artistico, nel cuore della città, ma scivolato, negli anni, in un forte degrado fisico e sociale. La sfida è appassionante, perché richiede di lavorare non solo sul tessuto del quartiere e il suo intorno, ma anche con l’immaginario della gente, per stabilire nuovi sistemi di coerenza. È una situazione in cui non c’è spazio per proposte eclatanti, ma occorre riguadagnare dignità ur-

bana con azioni puntuali e la chiarezza di un disegno d’insieme. È interessante perché i soggetti in campo e i punti di vista sono molti, perché la gente è coinvolta e la volontà politica è concreta e onesta». Come vi siete mossi, finora? «Stiamo mettendo a punto interventi a varie scale . Nel frattempo lavoriamo sulla percezione, per accrescere il senso di sicurezza, l’orientamento, il decoro urbano. Abbiamo ri-animato i percorsi con installazioni evocative che stanno già dando i primi risultati. Mi piace molto che ognuno le veda in modo diverso: arredi, segnali, illuminazioni, manifesti d’arte. Questo conferma quanto sia straordinaria, anche nelle piccole “architetture”, la forza espressiva della stratificazione dei significati, in cui ciascuno trova ciò che cerca, vede ciò che gli serve, sente ciò che gli corrisponde».

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Un dialogo a distanza. Tra un architetto di oggi, Alberto Ballestrero, e le parole profetiche di Adolf Loos. Che già un secolo fa intuì una grande verità: i canoni estetici sono una chimera. E non esiste il cattivo gusto. Solo il gusto personale di Agata Bandini

>plasmando il proprio spazio

«L’ideale è un’architettura che sappia comunicare e garantire un’alta qualità di vita negli spazi costruiti dall’uomo. Compito dell’architetto, quindi, è cogliere e tratteggiare lo stato d’animo di chi abita uno spazio. Cercando di soddisfare, in ogni lavoro, i semplici aforismi che Adolf Loos, un grande maestro del passato, delineò già nei primi del 900». Sono questi i principi che guidano l’architetto Alberto Ballestrero, titolare dello studio omonimo a Santa Margherita Ligure, ispirati al pensiero originale e controcorrente di uno dei pionieri dell’architettura moderna. «La ricerca che nell’arco di quasi trent’anni il mio studio ha portato avanti sia in ambito abitativo che commerciale – spiega – trova in effetti il suo riscontro più autentico in un articolo del celebre architetto austriaco, il cui intento era spingere le persone, senza indugi, verso il proprio, personale “cat-

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Alcuni dei lavori realizzati dallo Studio Ballestrero-Ottonello (b.o.architettura@virgilio.it). In alto, la sala e la toilette del ristorante “L’altro eden”, a Santa Margherita Ligure (Ge). In basso, particolari di un’abitazione privata a Milano


VISIONI

tivo gusto”». Chi vuol imparare a tirare di scherma, scriveva Loos, deve “prendere il fioretto in mano”. Perché “nessuno ha mai imparato a tirare di scherma solo assistendo a un combattimento”. «Fuor di metafora – chiarisce Ballestrero – significa che chi vuole costruire la propria abitazione deve partecipare personalmente a ogni aspetto. Perché è questo l’unico modo per imparare a farlo». Ovviamente, continua, «in questo modo il risultato finale sarà imperfetto, pieno di errori. Ma sono “errori vostri”, diceva Loos. Errori che presto si impara a riconoscere, attraverso l’esercizio paziente dell’autodisciplina e della modestia. Cambiare e migliorare, insomma, era questo il suo messaggio: “la vostra casa cresce con voi e voi con la vostra casa”». Una visione provocatoria, che rovescia con un colpo di mano il buon gusto universale in un gusto che è “cattivo” solo perché personale, particolare. «Non bisogna temere che la propria casa appaia di cattivo gusto – avverte l’architetto, parafrasando ancora il maestro austriaco –. Perché il gusto è una questione controversa, su cui nessuno può avere l’ultima parola. L’unica persona che ha sempre ragione sulla propria casa è chi la abita. E nessun altro». Di certo non “i portavoce degli architetti moderni”, impegnati a far credere di voler arredare l’abitazione secondo la personalità di chi la vive. “È una menzogna”, scriveva Loos. “Esiste certamente chi tenta di farlo, come esistono persone che intingono il pennello nel barattolo dei colori e dipingono la loro tela secondo il gusto del probabile acquirente. Ma non possiamo certo definirli artisti”. Al contrario, una casa dovrebbe sempre essere arredata con la totale partecipazione di chi la abiterà. Perché solo così sarà davvero “la sua casa”. «Se sarà un altro a occuparsene – spiega Ballestrero –, il risultato non sarà un’abitazione, ma la sua caricatura, o nel migliore dei casi qualcosa di simile a una camera di albergo». Scriveva Loss: “Quando entro in una casa di questo genere, compiango sempre chi la abita. Queste case vi stanno addosso come un costume di Pierrot preso in affitto!”. Ma quale ruolo resta, allora, all’architetto? La risposta di Loos è, anche qui, semplice e chiara. E tuttora attuale, come ricorda Ballestrero. «Chi vuol imparare a combattere ha bisogno di un maestro d’armi. È questo il compito dell’architetto: “essere il vostro maestro nelle vostre case”». All’architetto, insomma, spetta di far fronte agli inevitabili errori, rispondere ai dubbi, correggere il tiro, «in modo che lo spazio soddisfi effettivamente un bisogno, suscitando determinati stati d’animo». Perché, come scriveva Loos, “La stanza deve apparire accogliente, la casa abitabile. Il palazzo di giustizia deve apparire al delitto come un gesto di minaccia. La sede della banca deve dire: qui il tuo denaro è custodito saldamente e con oculatezza da gente onesta”.

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L’uomo come fine. E l’architettura come mezzo sociale. Per innalzare la qualità di vita. Con la nuova scuola di Cavernago lo Studio Arco ha tradotto l’etica in realtà. In nome della “cultura di relazione” e del benessere sociale di Daniela Panosetti

>sintes i e ident it à

Gli architetti Marco Carlo Castelli e Maria Cristina Fontana e, a destra, un plastico della scuola materna di Cavernago (Bg). In alto, interni ed esterni della scuola e il team dello Studio Arco al lavoro

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Spazi con una funzione sociale, e non solo estetica. Concepiti per realizzare «una migliore qualità della vita», grazie a un’architettura che guardi all’uomo come fine e non come mezzo e che contribuisca «concretamente, nel reale, e non nell’utopico o nell’immaginario» alla costruzione dell’identità culturale di una comunità. Quella perseguita dallo Studio Arco di Caravaggio (Bg) non è solo una filosofia progettuale. È una vera e propria etica del costruire, che ha trovato una felice traduzione nella scuola materna di Cavernago. Un progetto in cui gli architetti Marco Carlo Castelli e Maria Cristina Fontana, partner nella vita oltre che nel lavoro, hanno cercato di infondere un’idea di architettura, spiega Castelli, «fatta dall’uomo per l’uomo, nella complessità delle sue azioni quotidiane e della sua integrità psicofisica». Compito delicato, a maggior ragione quando si rivolge ai bambini: “piccoli uomini”, ma già persone a tutti gli effetti. Già consci delle proprie identità e già alle prese con il difficile compito di districarsi tra le opposte spinte di differenza e appartenenza, individuo e comunità. Di qui la necessità di creare «una sorta di percorso orien-


VISIONI

IL CORRIDOIO CONTINUO SFOCIA IN UN GRANDE SPAZIO POLIVALENTE, PUNTO DI APPRODO DELLE DIFFERENZE, ACCOLTE E ARMONIZZATE IN UN’IDENTITÀ CONDIVISA IN CUI CIASCUNO È CHIAMATO A ESPRIMERE IL PROPRIO RUOLO

tato, in cui le differenze vengono prima affermate per poi risolversi in un’unità che, tuttavia, le salvaguardi». Un percorso che si è tradotto nella creazione di un corridoio continuo, su cui affacciano le varie aule, caratterizzate ciascuna da un diverso colore che, sconfinando come un cuneo al di sotto delle porte nello spazio comune, funge al contempo da richiamo di appartenenza e da indice di diversità. Al centro di questo anello comune, precisa Fontana, «a richiamare il porticato dei conventi, spazio per l’incontro e il confronto», si apre un patio-giardino interno, «cuore verde della struttura, incastonato da ampie vetrate come un diamante in una teca». La gestione del rapporto interno-esterno è del resto essenziale, in questo progetto. «In ogni aula, grandi vetrate ad altezza bambino permettono una continua visione del giardino esterno, assicurando un costante contatto con la natura. Il corridoio infine, sfocia in un grande spazio polivalente, refettorio e sala pittura, punto di approdo delle differenze in grado di accoglierle in un’identità condivisa, in cui ciascuno è chiamato a esprimere il proprio ruolo e le proprie potenzialità». Potenzialità, nel caso del bambino, soprattutto emozionali e creative, che trovano spazio nella sala museo, «una sorta di piazza aperta, dove si realizza l’integrazione fra scuola e famiglia e l’esposizione del lavoro artistico dei bambini al resto della comunità». La vera chiave del progetto, però, è il colore: «Elemento da dosare con mano attenta e sapiente – riprende Castelli – per attutire attraverso una modalità immediata, sensoriale e non verbale, di comunicazione l’impatto delicato del bambino con il luogo della prima socializzazione». Giallo e rosso all’esterno, dunque. Tinte tenui e gradazioni pastello, invece, all’interno delle aule, «per creare un effetto di benessere diffuso e avvolgimento, una sorta di calore che emula, sorregge e amplia l’amore materno». Un colore, insomma, che sia «parte e cornice di un mondo fatto di gioco, gesti, musica, movimento: abbraccio e insieme trasporto per la vita di gruppo – conclude – ma anche stimolo per la mente, la creatività e la fantasia».

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Tre progetti. Tre situazioni. Tre storie. Valter Bordini, spiega come, e perché, una buona architettura deve prima di tutto saper narrare. Non solo i desideri di chi la abita, ma anche il carattere del luogo e il contesto culturale in cui prende vita di Daniela Panosetti

>l’architettura racconta

Alcuni progetti dell’architetto Valter Bordini. Sotto, concorso europeo di progettazione per la nuova sede comunale di Santa Marinella (con A. Abatecola, L. Ferroglio). In alto, esterno e interni della casa unifamiliare a Castelgandolfo (Roma) e Casa Busso a Civitacastellana (Vt)

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C&P

Un’intenzione narrativa. Un impulso a raccontare. È questo che bisogna ricercare nell’espressione di un’opera architettonica. Parte da qui, dall’idea di un’architettura intenzionata, dotata di desiderio, la visione progettuale di Valter Bordini, professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso la Prima Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. Soggetto attivo e vivo e desiderante, lo spazio architettonico non è puro gioco di linee e volumi, bilanciamenti e simmetrie. È, invece, voce narrante. «La presenza di una forte intenzionalità è un presupposto necessario per ogni architettura espressiva – spiega Bordini –. E tra le varie intenzioni che muovono l’atto del costruire, c’è sempre un desiderio di tipo narrativo». E quello che l’opera di architettura racconta, secondo Bordini, è prima di tutto la sua funzione, l’uso a cui è destinata. Ma non solo, nel gioco di simboli e delle metafore dell’opera, «a essere narrata è anche la cultura del


FILOSOFIE

proprio tempo e dei committenti, il luogo dove nasce, la sua storia e la sua natura fisica e paesaggistica». Una narrazione complessa, dunque, che ha come scopo finale quello di suggerire «un nuovo, migliore e più piacevole ambiente in cui vivere. O meglio, in cui accogliere, come un grembo, diverse situazioni di vita. Perché, come sosteneva Hans Scharoun, l’architettura è proprio questo: “un involucro di atti di vita”». Così, nel realizzare una casa unifamiliare a Castelgandolfo, nel cuore dei colli romani, l’imperativo primario è stato il rispetto del contesto circostante, un terreno vulcanico e boscoso, molto articolato dal punto di vista planimetrico. «Nessun albero è stato eliminato e nessun dislivello è stato colmato – spiega Bordini –. Uno scavo realizzato durante la guerra per una vecchia postazione dell’artiglieria tedesca è diventato un laghetto con ninfee e pesci rossi, mentre una stradina che conduceva a una cava di pozzolana ora passa sotto la casa, che come un ponte collega le due aree più elevate del giardino. Dal tetto, infine, in parte terrazzo, in parte giardino pensile, si può intravedere in lontananza il mare di Tor San Lorenzo». Del tutto diverso lo scenario di Civita Castellana, nei pressi di Viterbo, dove Bordini ha progettato Casa Busso. «Qui il paesaggio è punteggiato di querce

cedue – spiega –. La casa è molto aperta verso sud e piuttosto chiusa e più bassa verso nord. Una rampa permette di accedere al tetto formato da comodi gradoni con ampie lastre di peperino». Salendo più in alto, invece, si giunge a un’altana, «da cui lo sguardo è libero di spaziare tutto intorno, oltre le chiome delle querce, verso un paesaggio ricco di coltivazioni arboree, noccioli, ulivi, castagni, su cui campeggia il profilo del mitico monte Soratte, di cui cantò anche Orazio, nei suoi Carmina: “vides ut alta stet nive candidum Soracte?”». Materiali e colori, invece, sono l’elemento chiave del progetto per il nuovo municipio di Santa Marinella. «In questo caso – precisa Bordini – la destinazione d’uso è di natura pubblica e gestionale». Di qui, un concept progettuale in cui l’elemento direzionale è fondamentale. «Dall’ingresso decisamente segnato da un portico molto alto un percorso sale lentamente all’interno del complesso edilizio, distribuendo il flusso del pubblico verso i luoghi deputati alle varie funzioni». Culmine e meta di questa sorta di strada interna, la sala del Consiglio comunale, «che rappresenta, simbolicamente e formalmente, il centro della composizione, emergendo come il luogo di una possibile amministrazione democratica, cuore di una comunità».

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>il se gno dinamico del design

© Foto Enrico Basili per Dogma

Una creatività fluida, proiettata verso la contemporaneità ma che non esclude la tradizione. Massimo Iosa Ghini non è noto solo come designer ma anche come l'architetto che ha progettato la stazione centrale della metropolitana di Hannover in occasione di Expo 2000 di Concetta S. Gaggiano

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Massimo Iosa Ghini, nato a Bologna, dopo aver studiato architettura a Firenze ed essersi laureato al Politecnico di Milano, dal 1985 è attivo nel campo del design: è stato tra i fondatori del gruppo Bolidismo e ha collaborato con il gruppo Memphis fondato da Ettore Sottsass. Nella foto grande, Full Circus, complesso residenziale a Cipro

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TRATTI DA MAESTRO

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In questa pagina, cucina Gioconda progettata per Snaidero, i vasi Modanato per Listone Giordano; lo sgabello Alo, disegnato per poltrona Frau; nella pagina successiva, la sedia Otello, disegnata per Memphis nel 1986; e il divano Newtone bianco per Moroso

Saper pensare, ma anche saper realizzare un oggetto o uno spazio. Rappresentare e rinnovare questo mondo, o vederlo come una articolazione e anche un’apertura di quello esistente. In architettura così come nel design. Separati ormai da un confine sempre più fluido. La distinzione tra architetto e designer, infatti, è un vezzo italiano. «All’estero non esiste questa categorizzazione netta. Senza dimenticare che i padri del design italiano come Gio Ponti, Vico Magistretti e Achille Castiglioni si sono formati nelle facoltà di architettura – precisa Massimo Iosa Ghini –, come del resto io stesso ho fatto». Diviso a metà tra il suo studio bolognese e quello di Milano, aperto subito dopo la laurea e una prima esperienza con il gruppo Memphis di Ettore Sottsass, Iosa Ghini tiene insieme con la linea del suo tratto di design la pura ricerca espressiva culminata con il Bolidismo, «i cui oggetti sono estremamente dinamici, modellati dal vento, liberi, proprio perché tendono a rappresentare una complessità legata all’idea di velocità» e quella che in gergo tecnico si chiama la “corporate identity”, cioè l’immagine di diverse aziende verso il loro pubblico. Architettura e design, quindi, che ritornano

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nelle carte dell’architetto in un gioco di rimandi e humus creativo comune. Prima è stato tra i fondatori del Bolidismo, poi ha collaborato con il gruppo Memphis di Ettore Sottsass. Qual è stato l’apporto di queste avanguardie? «Nel design c’è sempre stata l’idea di fare innovazione culturale attraverso la progettazione, e le avanguardie nascono da una concettualizzazione artistica, quindi creativa, il cui obiettivo è proprio quello di guardare avanti e proporre una “rivoluzione”. La loro funzione principale è stata quella di dare una spinta all’impossibilità del design di essere ancora incisivo come lo era stato nella Rivoluzione industriale. Negli anni 80 la spinta propositiva di gruppi come il Bolidismo si confrontò con il mondo della moda, il risultato fu una specie di rivoluzione che tendeva a colorare il mondo e a imprimere un modo di lavorare diverso e l’idea di una velocità nuova legata a un mondo virtuale». Il design dovrebbe essere più innovazione o funzionalità? «Direi entrambi perché insieme rappresentano i due elementi su cui fare leva nella progettazione. Se viene meno l’innova-


TRATTI DA MAESTRO

zione allora c’è anche un coefficiente di inutilità nello sviluppare un progetto. La funzionalità, poi, è assolutamente importante e deve essere interpretata come la necessità di dare un senso, una ragione di esistere agli oggetti proposti. E il designer di oggi ha una responsabilità in più, che è quella di costruire questo senso insieme agli imprenditori». Design e creatività. A che livello siamo in Italia? «In Italia c’è un forte coefficiente di creatività, anche per ragioni storiche: Michelangelo, Leonardo da Vinci sono figure importanti che hanno innovato e resteranno sempre nell’immaginario collettivo italiano. La creatività, però, deve essere coltivata scientificamente, nel senso che per fare innovazione ci vuole coraggio perché c’è da sostenere il peso del normale conformismo della società. La creatività richiede un certo esercizio e coraggio». Siamo grandi esportatori di pezzi unici che contribuiscono, da sempre, a fare la storia del design. Al medesimo tempo siamo un popolo di esterofili. E ormai i designer italiani sono diventati la minoranza nelle aziende. Secondo lei perché? «Le ragioni di questa apparente minoritaria presenza di designer italiani nelle aziende sono un po’ banali. Innanzitutto in Italia abbiamo tante imprese, a volte anche piccole, che offrono sul mercato infinite proposte e iniziative ma, tra queste, c’è qualcuna che riesce a emer-

gere mentre molte altre si spengono. Inoltre, buona parte dei fatturati di queste stesse imprese è prodotta all’estero per cui, anche per esigenze di avvicinare la cultura di questi Paesi, gli imprenditori decidono di collaborare con i designer e i creativi di quel mercato. Il risultato, non negativo a mio avviso, è che questa situazione non ha diminuito la componente di italianità nel design ma ha aggiunto internazionalità. Anche il profilo del progettista italiano è cambiato, ormai si lavora sempre più all’estero, quindi è importante che il designer sia aperto verso nuovi orizzonti». Lei ha affermato che nell’artigianalità c’è la radice del modo di pensare all’oggetto, quella di trasformarlo in corso d’opera. Ma questo valore ha ancora senso di fronte a una gestione elettronica della progettazione? «Vedo nell’artigianalità la capacità di progettare in progress, di vedere in corso di lavorazione come si può migliorare il prodotto. Trovo che questa idea si sposi molto bene con la gestione elettronica della progettazione. Attraverso l’uso del computer sarà possibile una gestione non seriale ma per pochi, con la possibilità di avere innumerevoli variazioni dello stesso oggetto. La computerizzazione della produzione e della progettazione ha consentito maggior flessibilità, il cui risultato è un oggetto non massificato ma customizzato, il più possibile specializzato».

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Sopra, Alessandro e Francesco Mendini. Sotto, da sinistra: Poltrona di Proust (1978), Cavallino di Venini (2008) e divano Murillo, create da Alessandro Mendini

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PROSPETTIVE

>l’ir onia oltr e la for ma Definisce le sue opere una «utopia visiva». Perché «il senso va cercato nella progressiva ipotesi utopica di raggiungere una sintesi impossibile». È Alessandro Mendini, che dall’universo visivo coglie l'anima degli oggetti di Concetta S. Gaggiano

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«Copiare non è un delitto, lo faccio anche io». Come dire, un oggetto una volta uscito dalla penna di un creativo è di tutti, non più solo suo. Chi parla è Alessandro Mendini, milanese, designer, architetto, studioso, giornalista, ma soprattutto, uno dei principali promotori del rinnovamento del design italiano degli anni Ottanta. L’oggetto del contendere è una delle sue creazioni più note, e forse, quella che lo ha sdoganato al grande pubblico: la poltrona Proust. Classe 1978, diviene subito un oggetto cult del design post-moderno, entrata a far parte della collezione permanente del MoMa di New York. Una sintesi di stili diversi, impressi da una tavolozza di colori. Segni e colori eclettici nello stile Mendini, attratto dal colore ma anche dagli aspetti emozionali e utopici del progettare che trascendono il puro gesto artistico. Personaggio poliedrico e duttile, Mendini in quarant’anni di attività ha progettato oggetti, mobili, ambienti, installazioni, architetture; collaborato con aziende internazionali, anche nell'Estremo Oriente, scritto saggi di design; diretto riviste come Domus e Casabella e Modo, allestito mostre, dipinto quadri. Attraverso questo suo labirintico itinerario, Alessandro Mendini è riuscito a dar forma a una nuova immagine, dal contro-design al post-moderno. Acuto provocatore e ironico sperimentatore, si è guadagnato la fama di progettista sofisticato e pop. Storica la sua collaborazione con Alessi, da cui nasce tra gli altri, il cavatappi Anna G, che poi assume altre forme i cucina; e a cui Mendini affianca Sandro M, autoritratto ironico di un cavatappi al maschile. La poltrona Proust, da lei disegnata con lo studio Alchymia nel 1987, è stata spesso citata come simbolo ed emblema del postmoderno. Come gli è venuta in mente? «La Poltrona di Proust corrisponde a un’intenzione teorica: quella di ottenere un oggetto nuovo e forte, non disegnandolo ma accostando cose già esistenti. In questo caso, una finta poltrona barocca e il puntinato estratto da un quadro divisionista di Signac. Questa poltrona è un collage». Negli anni sono state realizzate diverse copie della Proust. Si è arrabbiato? «Non mi dà alcun fastidio se vengo copiato, le cose pubblicate sono di tutti. E poi vuole dire che interessano». C’è un segreto per evitare di essere copiati? «Non capisco il problema. Ci sono certi oggetti di riferimento che sono capostipiti di stili e di infinite varianti.

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Esistevano le scuole, le copie, già nel Rinascimento, era il modo di imparare. Diversa poi invece è la copia rispetto al falso». Ogni designer ha la sua poetica. La sua qual è? «La mia poetica è basata sull'attenzione, sulla cura, sul cercare lo spirito delle cose messo in relazione alla psicologia delle persone». Quali sono gli elementi della realtà di oggi che influenzano la sua vena creativa? «Il mondo di oggi è violento, io cerco di lavorare con interventi di buona energia, di calma, di spiritualità e con mentalità artistica». Quanto conta il gioco e quanto la funzionalità nelle sue opere? «Mi interessa rappresentare: il rapporto fra cose e persone deve essere un fatto teatrale. A seconda degli oggetti si deve spingere più sulla funzione o sull’espressione. Un vaso per i fiori è fondamentalmente diverso da un’automobile». Tutte le riviste di settore straniere promuovono i propri designer, se si sfoglia una rivista italiana, invece, si trovano molti artisti stranieri. Come mai? «È chiaro che oggi molti designer stranieri sono di


PROSPETTIVE

SediaScivolavo, collezione Short Stories (2004) e, accanto, vaso Diderot (2007).Sotto, cavatappi Anna G (19941996). Nell’altra pagina, dall’alto, cucina Agreste, cucina Sinuosa (Valcucine 2006) e Proust Swatch (1994)

grande importanza, bravissimi. Per quanto riguarda l’Italia, dopo tanto splendore, siamo in un periodo introverso e di attesa. Ma le riviste italiane fanno male a essere troppo nazionaliste». A proposito di editoria, ha dichiarato di considerarsi un designer di riviste, considerandole come: “Un oggetto di design industriale prodotto in migliaia di copie”. Alla fine degli anni 70 è tornato alla progettazione attiva dichiarando di non voler più dirigere una rivista e di voler tornare a progettare davvero. Scrivere di design l’ha delusa? «L’esperienza di dirigere delle riviste è stata per me bellissima, è stato un momento importante della mia vita. Ma tutto passa, e a un certo punto volevo concentrarmi nella progettazione. Quanto a scrivere di design non ne sono deluso, continuo a farlo ed è parte del mio lavoro». Nel 1989 fonda, con suo fratello Francesco, l’Atelier Mendini a Milano. Avete ruoli ben definiti? «Lavoriamo molto bene insieme, siamo affiatati, France-

sco con ruoli più direzionali e tecnici, io più legati agli esiti stilistici. Ma siamo anche intercambiabili e reciprocamente necessari». Perché proprio Milano è la capitale del design? «Il design a Milano è stato, ed è, un miracolo di congiunzioni stellari, fra architetti, riviste, industrie, artigiani, Triennale, moda. Insomma, un sistema magico di costellazioni brillanti». È considerato un provocatore per via del suo metodo di lavoro basato sul paradosso, la metafora, lo spiazzamento e il grottesco. Si rispecchia in questa definizione? «Il mio modo di lavorare è slegato da intenzioni accademiche o retoriche, e anche dal desiderio di fare grandi progetti. Lavoro sui frammenti, sul patchwork, su cose anche tenui e delicate. La visione totale è un caleidoscopio di oggetti, un pulviscolo energetico dove, appunto, gli elementi progettuali sono l'ironia, la metafora, lo spiazzamento. Non sono provocazioni, ma sono un modo di comunicare dei contenuti».

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>ba gliori cr eati vi Da una semplice intuizione nasce una delle aziende simbolo del design e del made in Italy nel mondo. Ernesto Gismondi, suo fondatore, ricorda gli inizi di Artemide. «Era un periodo di grande fervore, difficilmente ripetibile oggi» di Sarah Sagripanti

Un’azienda che in quasi cinquant’anni di Negli anni 60 inizia l’epoca d’oro del design italiano, attività – «Era l’11 gennaio del 1960», prespinto e sostenuto da una congiuntura di fattori che gioca a cisa l’ingegnere – è diventata un leader suo favore: la voglia di rinnovare dopo un periodo storico mondiale per l’illuminazione, puntando su difficile, l’istinto di una generazione imprenditoriale che tecnologia, innovazione e qualità. E soprattutto guardava con ottimismo al futuro, la rinascita dell’archisulla collaborazione con alcune delle firme più tettura, che trainava con sé la necessità di creare nuovi importanti del design italiano e mondiale. arredi più consoni alle nuove forme scarne, bianche e Come nasce l’idea di dare vita a questo progetto pulitissime, dei nuovi edifici. «La gente c’era, era torimprenditoriale? nata dalla guerra, e voleva finire quello che aveva «Dalla voglia di fare qualcosa. Questa è la cosa più iminiziato prima. Si doveva ricostruire e lo si fece portante. In quel periodo stava rifiorendo l’architettura continuando con il razionalismo italiano, che non e alla fine del 1959 io e il mio socio (Sergio Mazza, ndr) era morto» ricorda Ernesto Gismondi, imprenpensammo che quei vecchi mobili da ufficio degli anni 40, ditore e designer che in quegli anni dà vita, o le lampade degli anni 30, non erano assolutamente cominsieme a Sergio Mazza, ad Artemide.

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© Tutte le foto sono di Fazel Ramak

IDEE

A sinistra, Ernesto Gismondi, presidente di Artemide. In questa pagina, Eclisse di Vico Magistretti (1967), premio Compasso d’Oro 1967. Nell’altra pagina, in alto Mesmeri di Eric Solè (2005), premio iF Produkt Design Award 2006; sotto, Itis di Naoto Fukasawa (2006), Reddot Design Award “Best of the Best” 2007

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Da sinistra, Mercury di Ross Lovegrove (2007), Tian Xia di Carlotta de Bevilacqua (2003), premio Reddot Design Award 2004, Pipe di Herzog & De Meuron (2002), premio Compasso d’Oro 2004, Pirce di Giuseppe Maurizio Scutellà (2008). In basso, Cadmo di Karim Rashid (2007)

patibili con la nuova architettura razionalista. Avemmo l’intuizione di vedere se quegli stessi grandi architetti che stavano rivoluzionando il panorama dell’architettura, fossero anche interessati a disegnare l’arredo e l’illuminazione degli interni. Iniziò così la collaborazione con Gio Ponti, Gae Aulenti, Vico Magistretti. Ricordo che Magistretti fu il primo: venne nella nostra vecchia sede e io gli chiesi di fare lo schizzo di una lampada. Ancora oggi c’è da rimanere sbalorditi dalla semplicità delle forme che tracciò. Così semplice che, come dice lui stesso, “il buon design si può disegnare anche telefonicamente”. La nostra, insomma, fu un’intuizione che ebbe successo». Insieme ad Artemide, in quegli anni l’intero mondo del design era in grande fermento. «In quegli anni nascono almeno una decina di aziende con le nostre stesse intenzioni: rinnovare il design di interni, per inseguire il rinnovamento dell’architettura. È stato un periodo effervescente, che vedo difficilmente ripetibile oggi. Sono cambiate molte visioni ed esigenze, ed è necessario rinnovare il modo di fare pro-

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gettazione: abbiamo capito, ad esempio, che le risorse del nostro ecosistema non sono infinite. Oggi è anche tutto molto più veloce: molti brillano rapidamente, ma poi non reggono al mercato e subito chiudono. Tra le aziende storiche, alcune sono riuscite a cavalcare questo nuovo modo di progettare, altre invece non ce l’hanno fatta. Per andare avanti occorre rinnovarsi». E Artemide lo fa? «Noi abbiamo saputo rinnovarci, seguendo sempre la nostra filosofia “the human light”. Continuiamo a disegnare lampade secondo il nostro obiettivo che, a parte il successo, è fare qualcosa che sia un servizio per l’uomo. La persona deve stare bene negli ambienti in cui vive e lavora e quindi non è più sufficiente creare semplicemente un apparecchio di illuminazione. La scoperta del colore come parte integrante dell’arredamento e dello spazio ha portato alla tecnologia Metamorfosi. Dalla ricerca sul rapporto tra uomo, oggetto e ambiente nasce a.l.s.o., apparecchi che possono fornire contemporaneamente luce, suono e aria. Da una domanda nasce invece il progetto My White Light:


IDEE

RICORDO CHE MAGISTRETTI FU IL PRIMO: VENNE NELLA NOSTRA VECCHIA SEDE E IO GLI CHIESI DI FARE LO SCHIZZO DI UNA LAMPADA. ANCORA OGGI C’È DA RIMANERE SBALORDITI DALLA SEMPLICITÀ DELLE FORME CHE TRACCIÒ

“Siamo sicuri che esiste una sola luce bianca?”. Alla base di tutto, però, c’è sempre la ricerca sull’influenza della luce sulla persona. Su queste tematiche abbiamo anche lavorato molto con l’ospedale San Raffaele di Milano». È possibile conciliare design e tematiche come il risparmio energetico? «Già da molti anni la gran parte dei nostri apparecchi di illuminazione sono stati concepiti per essere utilizzati non solo con lampadine a incandescenza, ma anche con lampade a basso consumo. E le dirò che fino a qualche anno fa realizzavamo questi apparecchi con grande scoraggiamento, perché presentavamo un prodotto che illuminava bene e consentiva di consumare sei volte meno energia, ma il consumatore preferiva ancora le lampadine tradizionali. Oggi però la sensibilità è molto più forte su queste tematiche e le cose sono molto cambiate. Da parte nostra, la ricerca va avanti per ottenere prodotti sempre più a basso consumo, con la massima resa. La nuova frontiera è la ridu-

zione del costo energetico della produzione degli apparecchi di illuminazione, in tutta la filiera: dalle materie prime, alla produzione in azienda, alla distribuzione, fino al recupero e allo smaltimento dei prodotti che sono arrivati alla fine del loro ciclo di vita. Meno energia consumiamo, più vinciamo tutti». Che cosa desidera per la sua azienda in futuro? «Il nostro obiettivo è oggi quello di riuscire a essere sempre più conosciuti all’estero. Già oggi esportiamo in tutto il mondo, ma vogliamo ampliare la nostra presenza all’estero, puntando su design ed eco-sostenibilità». Ma il made in Italy è ancora una bandiera all’estero? «Il made in Italy ha ancora un grossissimo peso. La concorrenza dei Paesi dell’Estremo Oriente, che molti pensavano ci avrebbe messo in difficoltà, sa fare solo ottime copie, che non hanno paragone con gli originali. I consumatori alla fine cercano il prodotto di classe e di qualità. È questo quello che vince».

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Una scenografia arricchita dal Taif Barovier&Toso contenuta nel volume Taif Mythologie curato da Enrico Morteo e Marco Strina, pubblicato da Electa Mondadori. A fianco, le quattro configurazioni standard di Tropico, progetto d’illuminazione creato da Giulio Iacchetti per Foscarin

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FORME D’AUTORE

>la for ma della luce Andromeda. Barovier&Toso. Foscarini. Seguso Vetri d’Arte. Aziende capaci di alimentare la cultura del lighting design in vetro artigianale. Con creazioni adatte a valorizzare molteplici contesti architettonici, funzionali e abitativi. Sovvertendo canoni espressivi consolidati di Francesca Druidi

Trasparenze e riflessi impalpabili. Materiche sensazioni generate da forme e volumi innovativi, in cui confluiscono design, arte e illuminotecnica. La qualità formale del vetro muranese si unisce, nei lampadari e nelle creazioni delle principali aziende veneziane del settore dell’illuminazione e della produzione vetraria, all’abilità di intercettare gli stili

e le tendenze moderne, formulando nuovi linguaggi. Così il Taif made in Barovier&Toso assurge a paradigma di “classico già moderno”: una compiuta sintesi dei processi di sottrazione e di sostituzione, di semplificazione e di arricchimento dell’archetipo del lampadario veneziano. Disegnato da Angelo Barovier

nel 1980 per la reggia del sovrano dell’Arabia Saudita, il Taif si sviluppa in una gabbia metallica portante, rinunciando al corredo di foglie e di fiori per i soli ‘pastorali’, elementi ritorti di grandi dimensioni, presentando pendagli in cristallo di Boemia e candele portalampade in lucido

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acciaio cromato. È la forza della composizione monocromatica però a segnare lo scarto maggiore dai tradizionali canoni muranesi, modificando la percezione stessa del lampadario visto come forma solida e unitaria. Oggi la gamma di colori del Taif abbraccia non solo l’anticonvenzionale nero e il rosso, ma anche l’arancione, il bianco opaco e il recente bluastro. L’impatto scenografico non è però a esclusivo appannaggio di un modello-icona quale il Taif. Barovier&Toso conferisce raffinatezza agli ambienti anche attraverso collezioni di lampade da tavolo, da terra e sospensione. La collezione Eva, ad esempio, la cui lampada, slanciata e leggera, viene esaltata da ogive che rievocano le bolle di sapone. Particolarmente coinvolgente è anche la lampada a muro della serie Vento della Seguso Vetri d’Arte. Frutto dell’ingegno di Giampaolo Seguso, questa creazione sembra voler trattenere e rappresentare l’attimo in cui un soffio di vento accarezza dolcemente le foglie, piegandole in maniera sinuosa. Così una delle più classiche forme dell’oggettistica illuminotecnica veneziana si veste di movimento, «prediligendo – come afferma lo stesso

Giampaolo Seguso – l’idea alla ricerca del dettaglio». Vicina dal 1998 al design contemporaneo, Andromeda, società protagonista nel settore di lusso del design dell’illuminazione in vetro artigianale, concentra oggi i suoi sforzi soprattutto verso l’elitario mercato dei progetti contract. Conquistando importanti riconoscimenti. L’ultimo dei quali arriva dagli European Hotel Design Awards 2008, dove il premio Best Lobby è stato assegnato al progetto del Trianon Palace Hotel de Versailles. A occuparsi dell’illuminazione decorativa in diverse aree dello storico palazzo, è stata proprio Andromeda, artefice di soluzioni in grado di condensare l’unicità esperienziale scaturita dall’accoglienza in hotel. Fulcro della lobby è la struttura plasmata da Andromeda, che impiega per la prima volta il design dell’elemento Knit, nato dall’intuizione di Karim Rashid e inserito in un concept strutturale e decorativo ideato da Michela Vianello, art director di Andromeda. Sono quattro le strutture, sospese a due metri di altezza e pesanti 150 Kg ognuna, che puntellano la main entrance e gli oltre trenta metri della galleria, individuando suggestive fonti di energia

In alto, una scenografia esaltata dal Taif di Barovier&Toso. Sopra, l’opera Dynamei, la linea degli istanti e la sua creatrice Michela Vianello. Nella paghina a fianco, progetti di illuminazione decorativa di Andromeda per Trianon Palace Hotel de Versailles e la lampada da tavolo della collezione Eva di Barovier & Toso

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FORME D’AUTORE

e luminosità diffusa. Composte da 1300 Knit, la particolare combinazione di colori, dal grigio fumo al grigio chiaro, dal cristallo trasparente a un esclusivo effetto specchio antico, caratterizza ciascuna struttura con un motivo decorativo: ora a spirale, ora a strisce verticali, ora a macchia di leopardo. Per il ristorante, Andromeda ha optato per un’anticipazione della collezione Perle. Il concept, disegnato da Michela Vianello, comprende sei strutture di 4 metri di altezza, in calate a spirale e

a piani irregolari, composte ciascuna da 220 sfere in cristallo trasparente, realizzate a mano in tre distinte misure e decorate con tre diversi rilievi: a ballottòn, rigate e a coste. Diametro, decoro e distribuzione creano un complesso gioco di luci, conferendo notevole leggerezza estetica allo spazio. La lavorazione del vetro di Murano spesso si carica di connotazioni che non riguardano solo l’arte, ma anche la filosofia, la scienza, la teologia e la fisica. Ne è un esempio emblematico Dynamei, la linea degli istanti: un’opera di Michela Vianello che si inserisce nella corrente dell’optical art, formata da duemila sfere soffiate e sagomate a mano, con tre diametri diversi e nove colori, alta 3,2 metri per 600 Kg di peso, che incarna le riflessioni dell’artista sul fluire del tempo. Altrettanto rivoluzionario, nel comparto dell’illuminazione, è il progetto Tropico sviluppato da Foscarini con il designer Giulio Iacchetti, che materializza un inedito percorso di ricerca: lo studio sulla modularità e sulla componibilità, integrato alle esigenze di personalizzazione in funzione delle caratteristiche dell'ambiente. Sono

ispirati ai paralleli della Terra gli anelli su cui si agganciano gli elementi a losanga che formano Tropico, un corpo luminoso di nuova concezione: un sistema modulare che, partendo da un elemento base che non è solo componente estetico-formale, ma anche strutturale, offre la possibilità di ottenere molteplici combinazioni e costruire lampade di forme e dimensioni diverse. Quattro sono le configurazioni standard, Sphera, Vertical, Bell, Ellipse, che evidenziano le ampie possibilità di impiego del modulo, in interventi di piccole e grandi dimensioni, fino a diametri importanti, anche di due metri. La collezione è perfetta sia per ambienti domestici sia per i progetti contract, grazie alle ampie possibilità di ideare soluzioni arredative diverse per differenti destinazioni d'uso. «La scelta di proporre un corpo luminoso ispirato al tradizionale lampadario in vetro di Murano – commenta il designer Giulio Iacchetti – fa parte di una visione, che mi spinge a progettare oggetti ponte ben radicati nella contemporaneità e che attingano a una memoria condivisa, creando un collegamento con il passato».

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Ghiaccio che vibra. Materiale multiforme. Il cristallo si piega a tutti i capricci dell’immaginazione e dell’estro artigiano. Come quello della maison francese Lalique di Concetta S. Gaggiano

>tr aspar enze di fuoco

SENZA TEMPO Lalique

Ouvrier. La mano dell’uomo modella il pezzo e si adatta alla plasticità del cristallo, che nel corso della fabbricazione, raffreddandosi si indurisce. Una lotta contro il tempo e il calore in cui la raffinatezza e l’eleganza del cristallo passa dalle mani esperte dei migliori maestri vetrai della Francia. La maison Lalique ha fatto una scelta: rispettare la tradizione. E allora nessun designer di fama internazionale, ma gli ouvrier appunto, gli operai del vetro e del cristallo della fabbrica di Wingensur-Moder, in Alsazia. La manifattura di Lalique impiega una manciata tra i migliori artigiani di Francia, e si mormora che solo pochi altri potrebbero tentare qui la loro fortuna. Infatti il titolo, che è riconosciuto in tutto il mondo, viene rilasciato ogni

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tre anni al fior fiore dei maestri, testimonianza della competenza e dell’alta padronanza della tecnica attraverso la creazione di un capolavoro. Un riconoscimento che equivale alla perseveranza e alla garanzia dell’eccellenza. Oggi più che mai gli ouvrier Lalique mettono il loro talento e la loro esperienza a servizio della manifattura della Maison che ha mantenuto le proprie fornaci originali. Sono loro, dunque, i creativi della casa francese fin dal 1885, anno in cui partì l’avventura di René Lalique con le parure Art Nouveau e le eleganti geometrie Decò, oggi pezzi da collezione e presenti in diversi musei. È con René Lalique, vetraio geniale dello stile Liberty, creatore eclettico di un’opera immensa e diversificata realizzata nei suoi atelier di Combs-la-Ville vicino a Parigi, creatore della “Fontaine Merveilleuse” esposta all’Expo di Parigi del 1925, colui che realizzò la decorazione di molti vagoni per la “Compagnie International des

Vagon-lits” e della sala di prima classe del piroscafo Normandie, colui che osò ornare le lussuose automobili degli “anni folli” di mascotte in vetro, che musei e collezionisti si disputano le sue grandi opere. Oggi è ricordato come l’artigiano che rovesciò le tradizioni e inaugurò la rivoluzione estetica del XX secolo, meritando la qualifica di “inventore del gioiello

OGGI, LE COLLEZIONI LALIQUE COMPRENDONO PIÈCE DIVENUTI VERI E PROPRI CLASSICI E ALTRI DESTINATI SENZA DUBBIO A DIVENTARLO. È PROBABILMENTE QUESTA MODERNITÀ SENZA TEMPO LA CARATTERISTICA DISTINTIVA DELLO STILE LALIQUE, CHE SARÀ PROTAGONISTA NEL FUTURO, PER MOLTI ANNI ANCORA

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moderno”. Grazie all’introduzione di nuove tecniche, alla fusione di materiali fino a quel momento non molto usati e all’invenzione di un repertorio iconografico ampio, il suo genio creativo fu in grado di sviluppare una singola forma d’espressione, nata dall’incrocio tra arti applicate, la poesia, la pittura e la letteratura. Maestria e ricerca portano Lalique alla realizzazione di capolavori come il mitico Vaso Baccanti. Di lui oggi conosciamo i gioielli creati per Eleonora Duse, i flaconcini per profumi commissionatigli da Coty, i suoi primi vetri opalescenti. «Come molti altri amanti dell’arte in tutto il mondo, da anni sono affascinato dall’inconfondibile passionalità e maestria delle creazioni di René Lalique – spiega Silvio Denz, neopresidente della maison francese dopo l’acquisizione, nel febbraio 2008, da parte della svizzera Art & Fragrance –. Uno spirito di avanguardia ha contraddistinto da subito le sue prime creazioni della gioielleria e di flaconi portaprofumo ed egli non ha mai cessato di animare la Maison». Con la seconda generazione della dinastia arriva il cristallo, fu Marc Lalique a introdurlo e a farlo conoscere nel mondo. Nascono vasi, coppe, candelieri, tavoli, lampade, collezioni di calici e bicchieri degni di essere chiamati capolavori. «Per me Lalique è l’emblema dell'eleganza e dello chic francese». È l’omaggio di Andrée Putman, una delle designer d’interni più note. Oggi Marie Claude Lalique, nipote di Renè, prosegue nella tradizione del nonno con spirito innovativo. Congiungere tradizione e innovazione, non è affatto semplice. Bisogna amare la nobiltà e la magia del cristallo caldo e freddo, i contrasti delle trasparenze, delle satinature vellutate, sabbiate per capire che la storia della vita con


SENZA TEMPO

Nelle immagini alcuni pezzi storici della casa francese e gli ouvrier, i maestri artigiani, mentre forgiano il cristallo

i forni riscaldati a 1400 gradi, con l’aria che viene soffiata a bocca dai silenziosi maestri vetrai, con l’acqua nella quale le canne ruotano per “calmare” il cristallo in fusione e con la terra, quella dei Paesi di Bray, con la quale vengono forgiati i crogioli nei quali avviene l’alchimia. «Sono affascinata e sbalordita dalle tecniche di lavorazione del cristallo o del vetro, dalla potenza di questi materiali riflettenti. La loro iridescenza e la loro trasparenza rivelano qualcosa di magico, prezioso e misterioso, qualcosa che mi impressiona – dice la designer milanese Paola Navone –. Lalique è un mito, emblema di

un’artigianalità da ammirare e rispettare». Bisogna amare l’arte come l’ha amata appassionatamente un uomo geniale qual’è stato René Lalique, per ricreare, in questa materia preziosa e trasparente, i corpi di donna, le dee alate, le maschere sorridenti, gli animali, oggetti conosciuti in tutto il mondo. Le creazioni di questa grande maison, frutto del talento di tre generazioni di artisti, sono grazia e raffinatezza nelle loro forme e linee, purezza e finezza del cristallo. Dal 1990, ha inizio la storia della diversificazione con la creazione di una collezione di gioielli. Ai gioielli ha fatto seguito la

creazione di una linea di scialli e foulard in seta pura e, successivamente, di borse e cinture raffinate ornate da preziosi motivi in cristallo satinato. Dal 1992 sono stati introdotti profumi per donna e per uomo. «Oggi, le collezioni Lalique comprendono pièce divenuti veri e propri classici e altri destinati senza dubbio a diventarlo. È probabilmente questa modernità senza tempo la caratteristica distintiva dello stile Lalique, che è nel cuore dei collezionisti e parte del lifestyle contemporaneo – conclude Denz –. Lalique sarà protagonista nel futuro, per molti anni ancora».

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>la f a b brica dei so gni Nel design italiano è presente un fattore costante riconoscibile in tutte le sue migliori espressioni. «È una disciplina creativa globale di matrice artistica e poetica, una delle forme d’arte tipiche dell’epoca che stiamo vivendo». Come spiega Alberto Alessi di Concetta S. Gaggiano

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MADE IN ITALY

A destra, Alberto Alessi. Nella foto grande, alcune delle caffettiere più celebri. Tra cui, La Cupola, La conica e la caffettiera 9090, compasso d’oronel 1979

All’inizio erano il rame, l’ottone e l’alpacca. In seguito è l’acciaio inossidabile a prendere il posto dei metalli nella produzione di oggetti per la casa e la cucina. Infine, negli anni 80, ha fatto il suo ingresso nel mondo Alessi la plastica. L’azienda di Omegna è parte integrante delle “Fabbriche del Design Italiano”, come le chiama Alberto Alessi, il nipote del fondatore Giovanni. Industrie con una tradizione forte e per cui il design non è solo un aspetto dei prodotti, ma è una missione, una ragione d’essere, una disciplina creativa che pervade tutto il processo produttivo. In questo humus sono nati i pezzi storici dell’azienda, che l’hanno resa famosa in tutto il mondo, come la caffettiera 9090, il servizio di posate Dry, il cavatappi Anna G, lo spremiagrumi Juicy Salif, firmato Starck. «Queste impronte hanno contribuito in modo determinante a fare di noi uno dei

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mediatori artistici nel campo del design» spiega Alberto Alessi, oggi a capo dell’azienda. Alcuni dicono che la fantasia si manifesti nell’andare contro corrente. Si ritrova in questa definizione? «Certamente. Dalla rivoluzione industriale in poi questo tema è diventato di particolare attualità, fino ad arrivare al fenomeno delle Fabbriche del design italiano, nato negli anni del Dopoguerra e tuttora vivace. Credo che queste realtà siano contraddistinte da una forte connotazione culturale e intellettuale e da una componente trasgressiva, intesa come opposizione alle regole tecnologiche, di marketing o estetiche del tessuto economico in cui si trovano a operare. Noi riteniamo che la nostra vera natura somigli più a un laboratorio di ricerca nel campo delle arti applicate,

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contraddistinto dalla massima apertura e disponibilità verso il mondo della creazione, che non a un’industria nel senso tradizionale del termine». Il mondo Alessi è diviso in Officina Alessi, Alessi, A di Alessi. Quali esigenze vi hanno portato a questa scelta? «Nel 2006, prendendo atto della nuova segmentazione dei mercati internazionali, abbiamo deciso di classificare tutta la produzione in tre marchi diversi, capaci di declinare il miglior design contemporaneo in fasce di prezzo e occasioni di acquisto diversi. Per la verità, intendiamo questi tre marchi come varianti della stessa identità aziendale, dotati ognuno di una sua precisa fisiono-

mia ma tutti chiaramente riconducibili alla stessa missione di design excellence. Al nostro marchio storico Alessi, destinato a proseguire la sua missione di “fabbrica dei sogni”, si sono affiancati due nuovi marchi: Officina Alessi, destinata a accogliere i prodotti più raffinati, sperimentali e innovativi e A di Alessi, più inclusivo, destinato ad accogliere i prodotti più accessibili e di fasce di prezzo decisamente più basse». Tra i progettisti dell’azienda ci sono molti grandi nomi. Cosa hanno lasciato e cosa Alessi pensa di aver dato loro? «Contiamo su un network di circa 200 autori. A ognuno di essi offriamo un contesto più o meno ideale nel quale esprimere la loro creatività: penso di poter dire che in nessuna altra azienda del design essi trovino tanto rispetto per il loro difficile mestiere e professionisti così ben attrezzati per seguirli e per aiutarli a esprimersi. Dal punto di vista economico sono retribuiti con una royalty sulle vendite, cosa che nei casi fortunati può rendere abbastanza ricchi». Cosa significa portare la creatività nella quotidianità? «Penso che lo scopo del design in futuro, o perlomeno il nostro scopo per il futuro nel mondo del design, dovrebbe essere proprio questo: trasformare il destino di gadget degli


MADE IN ITALY

Sopra, un set da tè, sotto, Juicy Salif, disegnato da Philippe Stark; nell’altra pagina, il servizio da tavola Tonale, le fruttiere La Rosa e il bollitore con fischietto 9093 capostipite di una grande e fortunata famiglia di oggetti disegnata da Graves

oggetti nella nostra società dei consumi in un’opportunità transizionale, vale a dire in un’opportunità per i consumatori di crescere e di migliorare la loro percezione del mondo. Si tratta di un’attività dalla natura tipicamente paradossale, esattamente come è paradossale il gioco dei bambini. Nel senso di para, contro, doxa, opinione. Quindi, a fianco della regola, della norma, dello standard, al fine di cogliere appieno la cosiddetta realtà del mondo». Originalità e ironia sono i vostri cavalli di battaglia. Come si cattura l’essenza della contemporaneità attraverso questi due elementi? «Nell’ultimo quarto del XX secolo la nostra fabbrica dei sogni è diventata un laboratorio di ricerca nel campo delle arti applicate che, lavorando con i migliori talenti del design internazionale, ha saputo mettere insieme poesia, creatività, cultura, visionarietà, sincerità, attua-

lità, design excellence come nessun altro organismo industriale nel mondo. E che spero saprà continuare a dar vita a oggetti davvero nuovi, pensati per il pubblico evoluto del secolo XXI, caratterizzati da quel mix di eccentricità e stile, ludicità e cultura, ironia ed eleganza che è tipico degli oggetti Alessi: un gioco di opposti su cui nessun altro marchio, credo, può vantare un presidio altrettanto stringente e una vocazione così precisa». Con il centro studi Alessi sono entrate in azienda l’antropologia, la semiologia e la psicanalisi. Qual è la finalità? «Alla fine degli anni 80 avevamo cominciato a interrogarci più a fondo sulla cosiddetta struttura affettiva degli oggetti. Abbiamo così costituito un centro studi a Milano e sviluppato un nuovo meta progetto utilizzando il pensiero di alcuni psicoanalisti, tra cui Franco Fornari e

Donald Winnicott, proponendoci di lavorare appunto sugli aspetti affettivi che gli oggetti comunicano ai loro utenti. Per una felice coincidenza abbiamo trovato una nuova generazione di giovani designer che si sono sintonizzati spontaneamente su questo approccio. Ne è nata la collezione “family follows fiction” con il linguaggio ludico e l’uso della plastica, che ha fatto la sua prima comparsa nei nostri cataloghi».

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In apertura, la camera da letto del 54 metri disegnato da Luca Dini per Admiral e, in basso, particolare del bagno. In alto, il 40 metri disegnato per Admiral

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YACHT DESIGN Luca Dini

>la riconoscibilità del tr atto italiano «Una barca è come una bella automobile. Deve dare un’emozione». Parola di Luca Dini, famoso designer di yacht, che punta su linee pulite e ricerca nuove soluzioni. Ma senza sfociare nell’autoreferenziale. E per sé, sceglie un 19 metri in alluminio per essere in stretto contatto con il mare di Laura Pasotti

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È il più giovane (e il più noto) designer italiano di yacht. Fiorentino, 39 anni, uno studio sulle colline di Marignolle vicino a Firenze e una predilezione per le barche che risale ai tempi della scuola dove, a differenza dei compagni che optavano per soggetti più classici, come la mamma o la casa, Luca Dini disegnava barche. «Certo, erano disegnate in maniera elementare – spiega –, ma erano il sintomo di una passione forte. Che ho da sempre. Come quella per il mare. E per le automobili». Un binomio, quello tra barca e automobile, che ritornerà nel corso della sua carriera. «Quando si disegna una barca si deve pensare a un oggetto rivendi-

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bile perché – spiega Dini –, come accade per le macchine, anche per le barche, dopo un certo numero di anni, arriva la voglia di cambiare». E allora è meglio non avere nella propria darsena un oggetto unico e talmente particolare da non interessare a nessuno. E poi quando si parla di design italiano il primo pensiero va alle automobili, alla Ferrari o alla Lamborghini, perché «gli italiani hanno una marcia in più. Ed è innegabile che una barca disegnata da un italiano sia assolutamente diversa da una disegnata da un olandese». Una questione di stile? Probabilmente sì, ma «anche di cultura e attenzione al bello». Prova ne sono i 22 anni di atti-


YACHT DESIGN Luca Dini

In queste pagine, interni ed esterni di uno yacht disegnato per Mondomarine. Nella pagina accanto, ritratto di Luca Dini nel suo studio sulle colline vicino a Firenze

vità di Luca Dini che, dopo la prima barca realizzata per Cbi Navi, ha collaborato con i più grandi cantieri italiani, da Admiral a Mondomarine, senza dimenticare Tecnomar e Isa, e ha conquistato gli armatori internazionali alla ricerca dello “stile italiano”. Ma qual è lo stile Luca Dini? Pulizia delle linee, è questa la prima cosa che salta agli occhi a chi guarda uno degli yacht che ha progettato. E poi ricerca di nuove soluzioni, ma «senza sfociare nell’estremismo e senza essere autoreferenziali, cercando sempre di mantenere lo stilema del cantiere». Per gli interni, invece, la regola è seguire le indicazioni del cliente e, soprattutto, il

gusto personale. Da 10 anni a questa parte, poi, c’è stato un salto generazionale nella progettazione degli arredi per gli yacht. «Se prima gli interni erano interamente in legno – afferma Dini – tanto che se si decideva di cambiare il letto o il comodino era necessario tagliare mezza barca, oggi i clienti hanno capito che possono comprare il divano da un’azienda che fa solo divani e poi portarlo sulla barca». Una rivoluzione. E un segno dei tempi. Che deriva anche dall’abbassamento dell’età degli armatori, «se fino al 97/98 non c’era un armatore che avesse meno di 60 anni, oggi hanno un’età compresa tra i 38 e i 55». Generazioni diverse e gusti di-

versi. Che hanno portato un cambiamento anche nel design del proprio yacht. «Sono persone che magari si sono rivolte a un architetto per la propria casa – continua –, che frequentano locali fashion e hanno un’attenzione particolare allo stile. Perché chi compra una Ferrari non lo fa per la comodità o perché ha un bel bagagliaio, ma perché dà un’emozione. Per la barca è lo stesso». Ecco perché, per sé, Luca Dini sceglierebbe una barca piccola, un 19 metri interamente in alluminio, come quello che ha progettato per il cantiere di Roberto Mancini, «ha lo stile dello yacht, ma in miniatura – spiega Dini – . Secondo me è la barca del futuro».

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>specc hi di per sonalità Negli ultimi quarant’anni, il design d’interni e il mercato dell’arredo italiano sono cresciuti e si sono evoluti. Molta più offerta e molta più libertà di scelta. Perché oggi vige solo una regola: non ci sono regole. Tranne quelle del gusto personale. Parola di Antonia Astori di Sarah Sagripanti

Il suo nome è indissolubilmente legato al marchio Driade. Un sodalizio professionale che prosegue ormai da alcuni decenni. Per l’azienda piacentina, Antonia Astori ha disegnato mobili, oggetti, sistemi contenitori come lo storico Driade Uno, del 1968, ma ha soprattutto realizzato il design degli showroom e numerose esposizioni e allestimenti d’interni in tutto il mondo. Progetti d’interni che sono vere e

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proprie «metafore di case» e che rispecchiano, nel loro mutare, il mutare dei gusti, delle tendenze, della stessa società. «Oggi c’è molta più libertà e ognuno può creare l’ambiente di vita che più rispecchia la propria personalità» dice la designer. Showroom e allestimenti: spazi vivibili o esposizioni che sottostanno all’unico canone estetico? «Nel corso della mia lunga collaborazione con Driade mi sono trovata spesso a realizzare allestimenti che fossero metafore di una casa perfettamente abitabile. Ogni volta si trattava di conciliare la mia personale interpretazione dell’abitare con l’idea di arredo espressa dalla marca. Su uno spazio di duecento metri quadrati, ho ricreato gli ambienti di una in villa, compreso il patio». Qual è una sua personale idea dell’abitare? «Per quanto è possibile, cerco sempre di creare spazi che si compenetrano, senza locali chiusi, né corridoi o porte. Non sempre è possibile farlo, ma preferisco cercare di ispirare i miei progetti a un concetto di casa che si avvicini alla cultura giapponese. La casa in Giappone non ha spazi aperti, ma compenetrati, con ante scorrevoli a suddividerli. Un’interpretazione molto diversa da quella propria

Antonia Astori, product e interior designer. Nella foto, simulazione al vero Casa del collezionista (2000), dettaglio del passaggio tra zona giorno e zona notte


ARTE DELL’ABITARE Antonia Astori

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ARTE DELL’ABITARE Antonia Astori

Antonia Astori nasce a Melzo. Studia industrial e visual design all’Athenaeum di Losanna e nel 1968 inizia, come designer, la collaborazione con Driade, contribuendo anche alla definizione dell’immagine aziendale. Nel 1984 inizia la collaborazione con gli stilisti francesi Marithé e François Girbaud progettando il negozio di Parigi, seguito da quello di Bruxelles, Montréal, San Francisco, Milano e Aix En Provence. A partire dagli anni 90 progetta gli showroom dadriade nel mondo. Il ruolo di Antonia Astori sulla scena nazionale e internazionale si completa con la presenza a importanti eventi, quali Eurodomus a Torino nel 1971, sotto l’egida di Gio Ponti, la mostra Design Donne nel 1985 a Tokyo, e numerose partecipazioni alla Triennale di

Ph. Gabriele Basilico

Milano e alla fiera Abitare il tempo a Verona.

della casa borghese europea». Il suo primo allestimento al Salone del Mobile risale al 1968. Che cosa è cambiato da allora nel settore? «Prima di tutto nel 68 c’erano poche aziende che disegnavano e producevano mobili moderni. Quasi tutti facevano ancora arredi in stile, legati a una tradizione italiana borghese, e pochi si dedicavano al design. Oggi sono molte le aziende specializzate nel design. L’altra grande differenza emersa negli anni è la presenza, oggi, di una pluralità di linguaggi: non esiste più un’unica tipologia di casa e di arredo, ma una gamma vastissima di possibilità e modi di vivere, espressioni diverse di designer, di aziende, ma anche del gusto personale di ciascuno. Oggi, insomma, c’è molta più libertà di scegliere, mescolare gli stili e creare la casa più adatta alla propria personalità». Come orientarsi in queste infinite possibilità? «Forse può sembrare più difficile orientarsi, ma le persone sono molto più attente, si informano di più, anche attraverso riviste specializzate, ma soprattutto sono più libere di muoversi liberamente. Scegliere una casa, come scegliere un abito, è diventato un vero e proprio modo per rispecchiare la propria personalità, al di là dei cliché». Come conciliare, invece, i desideri della persona e le

Nell’altra pagina, sopra appartamento via Dei Chiostri (1989), vista dallo studio verso il patio-soggiorno. Sotto, Casa del collezionista, vista verso ingresso e veranda

scelte stilistiche proposte dall’architetto? «È molto importante prima di tutto una conoscenza reciproca, perché un progetto di interni nasce da un dialogo tra il progettista e il cliente. Quando disegno un interno, so che ho una poetica da esprimere, ma so anche che devo fare da specchio alle persone che mi stanno di fronte. Nel progettare un oggetto, mi figuro un pensiero universale che possa colpire il pubblico, progettare invece un interno, è come studiare un abito su misura per la persona. Ciò non significa rinunciare alla propria poetica, ma creare una sinergia tra un desiderio altrui e il proprio modo di progettare». Nella sua casa, quindi, poetica e desiderio coincidono? «Il luogo in cui vivo rispecchia quali erano le mie esigenze personali nel momento in cui lo pensai. Allora avevo tre bambini piccoli e pensai una casa semplice e pratica, dove la vita di tre bambini potesse svolgersi in modo armonico. Ma la cosa più difficile è progettare la propria casa, perché fare da specchio a se stessi è una grande sfida». Le viene ogni tanto il desiderio di sperimentare nuovi progetti? «Le sperimentazioni le lascio ai lavori per gli altri. La mia casa è inamovibile».

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Plasmare spazi e interni che lascino affiorare l’identità del committente. Soddisfando le sue richieste estetiche, funzionali ma soprattutto emotive. È un processo architettonico articolato quello compiuto dallo Studio i.d.&.a. Senza porre freni alla sperimentazione. Anche quella offerta dalla computer grafica di Alice Vincenzi

>comun icar e l’es s enza

Progettare spazi vocati al lusso. La gioielleria Stephen Webster a Londra, la gioielleria Jahan a Ginevra, gli spazi Azal a Jeddah e Dubai oltre agli showroom e flagship store della maison Bulgari a New York, Parigi e all’interno della Ginza Tower a Tokyo, questi ultimi in collaborazione con lo studio Sclavi, rappresentano soltanto alcuni dei progetti firmati dallo Studio i.d.&.a, in via Reno 22 a Roma. «Nel corso di questi ultimi anni, ricchi di esperienze progettuali – spiega uno degli associati – lo studio ha maturato design caratterialmente differenti anche grazie alle capacità del project manager di stabilire uno stretto contatto con i suoi collaboratori, promuovendo un dialogo aperto e uno spiccato senso critico: elementi fondamentali per un buon gioco di squadra». Per il team di architetti e interior designers dello studio romano è importante evitare di fossilizzarsi su schemi manieristici, promuovendo sia la sperimentazione che la conseguente esplorazione delle opportunità emergenti nella fase progettuale. Anche perché risulta complesso definire una volta per tutte il percorso con cui i progetti evolvono dalla fase di ideazione all’effettiva attuazione. «Impossi-

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bile stabilire con esattezza quale sia il processo creativo “unico” e quindi codificare un percorso cognitivo relativo a una materia così complessa quale l’architettura. Approcci e filosofie differenti danno luogo a una serie di eventi indispensabili che fertilizzano e alimentano il nostro processo di creazione». La filosofia dello Studio i.d.&.a consiste nel coinvolgere attivamente la committenza attraverso una serie di incontri che prevedono uno scambio di informazioni su livelli sia concettuali che pratici, al fine di tracciare un quadro ben definito delle esigenze funzionali ed emotive dell’interlocutore: propellenti indispensabili al progetto. L’obiettivo prioritario è quello di esprimere ed esaltare l’identità di ogni singolo brand o cliente al fine di comunicarne al meglio l’essenza. «I materiali utilizzati, oltre che per le loro caratteristiche funzionali e strutturali, sono anch’essi considerati mezzi di comunicazione capaci di marcare fortemente lo spazio e di interagire con esso. Gli accostamenti cromatici, le valenze visive e tattili dei materiali, insieme alla qualità dell’illuminazione, generano l’immagine dello spazio e ne connotano il linguaggio. Il progetto si concretizza, quindi,


INTERNI

Nelle foto, gli interni curati dallo Studio i.d.&.a per il flagship store di Bulgari a New York

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Nella foto, rendering degli interni progettati dallo Studio i.d.&.a per il flagship store Stephen Webster di Londra. Sotto, a sinistra, gli interni per il negozio Bulgari situato all’interno della Ginza Tower di Tokyo. A destra, gli interni del flagship store di Parigi.

attraverso vari livelli di comunicazione, dal conscio all’inconscio, canali fondamentali per veicolare e condividere un’emozione, sottolineare un ambiente e suscitarne l’interesse». Molte sono le possibilità offerte dall’uso della computer grafica, che ha arricchito attivamente le esperienze legate alle tecniche tradizionali. «L’uso del computer non solo fornisce un mezzo per il controllo tridimensionale del progetto, visualizzando in tempo reale uno spazio o una superficie, ma permette di generare e suggerire idee che danno luogo a un susseguirsi di eventi creativi successivamente mediati e selezionati dal designer. Il computer non va inteso come macchina per redigere un disegno esecutivo, ma bensì come valido mezzo di sperimentazione che ci permette di prescindere dai confini disciplinari. Questa libertà è necessaria alla creatività per non precludere strade potenzialmente prolifiche». Si affida alle immagini il racconto di due recenti esperienze progettuali dello Studio i.d.&.a che, poste agli antipodi nelle loro premesse, rappresentano uno spaccato esemplificativo del lavoro del team. Lo spazio “immaginato” per il negozio flagship di Stephen Webster a Londra si svolge in modo virtuale, ma del tutto compiuto. Ogni arredo, angolo e ambiente è stato declinato, visualizzato e in seguito definito nel dettaglio, interpretando la forte per-

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sonalità creativa del cliente/designer e, allo stesso tempo, rispettando le particolarità architettoniche tipiche degli edifici a schiera londinesi. Il risultato è uno spazio non convenzionale, pieno di suggestioni, organico e immaginifico, che rispecchia fortemente l'approccio di questo Brand di successo e in forte espansione. Al contempo e in antitesi, gli spazi progettati in collaborazione con lo Studio Sclavi di Roma per il negozio Bulgari di Tokyo deve considerarsi il risultato di una elaborazione progettuale frutto di anni di esperienza con il medesimo cliente. L'evoluzione della griffe romana e le sue costanti esigenze di rinnovamento formale, dettate da una sempre maggiore penetrazione nei mercati mondiali, hanno portato all'elaborazione approfondita di un design concettuale e allo sviluppo di una serie di stilemi architettonici di forte impatto e, al contempo, di una immagine formale altamente riconoscibile. La ricerca approfondita di materiali unici e preziosi consoni a questo tipo di spazi, il loro impiego formalmente originale si traduce in uno spazio classico, “museografico”, ma fortemente contemporaneo. L'esperienza maturata nell'ambito dei negozi di lusso si traduce, inoltre, nella progettazione di interni di pregio, sia residenziali che per l'ospitalità oltre che di spazi di lavoro e nel design di arredi e oggetti unici.



>se guendo la stella Il nuovo Milano Convention Center non sarà soltanto il più grande polo congressuale d’Europa. Diventerà un profilo inconfondibile del landmark cittadino. Grazie alla Cometa disegnata dal grande architetto Mario Bellini. Segno tangibile di un profondo cambiamento che farà del Portello un’area pronta ad accogliere l’Expo. E di una visione urbana più ecosostenibile di Francesca Druidi

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EXPO 2015

L’architetto Mario Bellini, laureatosi al Politecnico di Milano nel 1959, fonda lo Studio Mario Bellini Architects all’inizio degli anni 80

Rischiava di essere archiviato nell’archeologia industriale dopo soli undici anni dalla sua realizzazione. E, invece, il complesso espositivo del Portello è l’oggetto di un articolato intervento di “chirurgia” che lo collocherà tra i principali attori di Milano Expo 2015. A firmarne il progetto, così come avvenne per l’originario agglomerato, è Mario Bellini. «Capita molto raramente a un architetto – confessa – di poter dare una seconda vita a una sua creatura». Il processo di rifunzionalizzazione interessa i padiglioni 5 e 6, prevedendo la fusione con l’attuale Mic (Milan International Conference Center) a essi adiacente. L’edificio più a sud rappresenterà nel 2011 il più grande polo congressuale d’Europa, dai numeri altisonanti: 18.000 posti a sedere, un auditorium da 1.500 persone, una plenaria da 4.500 posti totali, 73 sale modulari da 20 a duemila posti, 54.000 mq espositivi a supporto. «La sfida maggiore è rendere la struttura capace di esprimere e di comunicare la sua nuova identità in maniera

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forte, non rivolgendosi soltanto agli addetti ai lavori ma anche e soprattutto ai cittadini», invitati a memorizzarne la posizione alla stregua delle altre aree pulsanti di Milano. L’obiettivo sarà raggiunto grazie all’«innesto di corpi metallici e vetrati, tre affusolati foyer a livelli diversi, con spettacolari viste a 180 gradi sul cuore di City Life, che stravolgono e concludono la vecchia testata sino a oggi rimasta incompiuta. Un grande volume squadrato escresce e violenta la copertura esistente, mentre un inatteso asteroide-auditorium galleggia a fianco su una corona di colonne preesistenti». Per Mario Bellini, il complesso identificherà un grande ponte abitato: 800 metri di pergolato urbano, mai fino a ora sfruttato in modo efficace, corre lungo il nuovo Centro Congressi e i due rimanenti edifici del Portello, costellato dal verde degli arbusti, dei glicini e del prato e attraversato da una pista

ciclo-pedonale protetta da una tensostruttura in telo impermeabile. Del resto, il nuovo Mic si innesterà proprio in prossimità del Raggio Verde numero 7, uno dei percorsi verdi che dal centro si dirama verso punti significativi della corona periferica. In questo caso, il raggio raccorderà Piazza del Duomo con l’area Expo e, più da vicino, l’isola verde di City Life con quella del nuovo quartiere “Portello Nord” già in costruzione. Per ridare unità e significato a un edificio modificato dall’inserimento di nuovi volumi, ma del quale non si vuole cancellare l’impronta precedente, occorreva secondo l’architetto Bellini, «un gesto forte». Ed ecco la Cometa. La sintesi risolutiva. Concepita

come un assieme di ottomila metri di raggi scintillanti di giorno e luminiscenti di notte, che si staccano dal nucleo più denso della testata fino a diradarsi e formare una coda lunga 200 metri, la struttura «sormonta e abbraccia la nuova testata, assieme con parte dei fianchi e della copertura dell’edificio, trasformandolo in una creatura nuova. Insolita, eppure ancora coerente con l’intero complesso. La sua realizzazione non ha comportato un intervento greve, ma piuttosto leggero e fluido». Con un’ala, la Cometa scende ad appoggiarsi a terra, alla stregua di un uccello in volo che tocca momentaneamente il suolo, quasi a trattenere la solidità del complesso.

L’INNESTO DI CORPI METALLICI E VETRATI, TRE AFFUSOLATI FOYER A LIVELLI DIVERSI, CON SPETTACOLARI VISTE A 180 GRADI SUL CUORE DI CITY LIFE, STRAVOLGONO E CONCLUDONO LA VECCHIA TESTATA SINO A OGGI RIMASTA INCOMPIUTA. UN GRANDE VOLUME SQUADRATO ESCRESCE E VIOLENTA LA COPERTURA ESISTENTE


EXPO 2015

Nelle foto, i rendering del progetto di Mario Bellini Architects relativi alla rifunzionalizzazione dei padiglioni 5 e 6 del Portello e dell’adiacente Mic, riunificati sotto alla “Cometa” che si estende per 200 metri di lunghezza e 140 metri di larghezza, con una superficie totale di 15.000 metri quadri, a un'altezza di 46 metri

La Cometa è il frutto di una lunga ricerca compiuta da Mario Bellini. «Destinata a diventare un simbolo». Perché come tradizione religiosa vuole, «la cometa annuncia l’arrivo di un evento straordinario». Ogni raggio è sostenuto da leggere strutture reticolari tridimensionali in acciaio, al centro delle quali corrono ottomila

metri di luce canalizzata prodotta da sorgenti luminose di Led a basso consumo. Lungo ogni nastro profilato è, inoltre, possibile inserire un pannello fotovoltaico in silicio amorfo, sensibile alla luce anche in assenza di sole, come capita spesso a Milano. Se si rivestisse l’intera Cometa di pannelli fotovoltaici, si pro-

durrebbero 800mila Watt, anche se per rendere luminosa la Cometa, a costo zero, sarebbe sufficiente installare 400 metri di pannelli. Il carattere altamente sostenibile del progetto consolida gli scenari futuri di un’architettura sempre più attenta alle energie rinnovabili e all’impatto dei progetti sul paesaggio urbano e sulla vita delle persone. «Oggi – conclude Mario Bellini – non è più possibile progettare o costruire nuove parti di spazio abitato senza tener conto della sostenibilità e del bilancio energetico». Non a caso, il progetto di riqualificazione del Portello si inserisce armonicamente nel più ampio processo di trasformazione dell’area nord-ovest di Milano, dialogando con i quartieri adiacenti, realizzando una continuità d’azione del Raggio Verde e ricucendo la distanza tra il capoluogo, i cittadini e le aree verdi.

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>nuovo splendor e alle case del sa per e

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C&P © Le foto dell’Unicersità di Ferrara sono di Enrico Geminiani


CONDIVIDERE I nuovi atenei

© Le foto della Bocconi sono di Paolo Tonato / Camera Work

L’edificio che ospita la Nuova Bocconi all’angolo tra via Röntgen e viale Bligny a Milano. Nella pagina accanto, la facciata di Palazzo Tassoni a Ferrara che ospiterà la Facoltà di architettura

Uno ha origini rinascimentali. L’altro è puro design contemporaneo. Uno ospiterà la Facoltà di Architettura di Ferrara. L’altro il campus cittadino della Bocconi di Milano. Entrambi hanno un obiettivo: essere in simbiosi con la città che li ospita di Laura Pasotti

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© Foto di Enrico Geminiani

Continuità tra la città e il suo ateneo. Se dovessimo cercare un comune denominatore tra i nuovi spazi della Facoltà di Architettura di Ferrara (Fef) e la nuova Bocconi, forse, potrebbe essere proprio la scelta di creare nuovi spazi per la vita universitaria nel cuore della città, anziché cercarli in zone periferiche. Milano ha, infatti, scelto di sviluppare il campus intorno alla sede storica di via Sarfatti, in un edificio posto all’angolo tra via Röntgen e viale Bligny, mentre Ferrara ha destinato alla Facoltà di Architettura gli spazi di Palazzo Tassoni in Contrada della Ghiara.

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Un concetto, quello di incastonare il campus nella città, che è stato ben espresso da Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi, il quale, in occasione del “taglio del nastro per via Röntgen”, ha affermato, «nessuno degli edifici della Bocconi è mai stato costruito con il solo scopo di creare nuovi spazi per la vita universitaria. Ciascuno di essi, al contrario, si è posto come parte integrante dell’area cittadina. Il campus – continua – è l’espressione urbanistica e architettonica della visione culturale della Bocconi, caratterizzata da innovazione e avanguardia, ma


CONDIVIDERE I nuovi atenei La Nuova Bocconi. L’edificio è stato progettato da Yvonne Farrell e Shelley McNamara dello studio irlandese Grafton Architects. Nella pagina accanto, due sale di Palazzo Tassoni il cui progetto di restauro è opera di un gruppo di docenti composto da Pietromaria Davoli, Claudio Alessandri e Sante Mazzacane

anche da una vocazione internazionale che ha in comune con la città di Milano». Entrambi gli edifici sono stati inaugurati nel 2008 (a ottobre la Bocconi e a dicembre Palazzo Tassoni) e, a parte il comune denominatore suddetto non potrebbero essere più diversi tra loro. Costruito durante l’Addizione borsiana (metà del XV secolo), Palazzo Tassoni fu confiscato da Ercole I d’Este al fattore ducale Bonvicino dalle Carte per farne dono ai Conti Tassoni nel 1476 e rimase dimora dei Tassoni fino al

1858. In quell’anno venne destinato a sede dell’ospedale provinciale e la sua struttura fu modificata con trasformazioni e aggiunte che ne snaturarono il carattere di “grande residenza”. Da una decina di anni, ovvero da quando è entrato a far parte del patrimonio dell’Università, Palazzo Tassoni è oggetto di studi e ricerche da parte della Facoltà di Architettura. Il progetto di restauro è stato redatto da un nucleo di docenti composto da Pietromaria Davoli, Claudio Alessandri e Sante Mazzacane con la collaborazione di neolaureati e numerosi studenti nonché il coin-

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© Foto di Enrico Geminiani

SE DOVESSIMO CERCARE UN COMUNE DENOMINATORE TRA I NUOVI SPAZI DELLA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI FERRARA E LA NUOVA BOCCONI, FORSE, POTREBBE ESSERE PROPRIO LA SCELTA DI CREARE NUOVI SPAZI PER LA VITA UNIVERSITARIA NEL CUORE DELLA CITTÀ, ANZICHÉ CERCARLI IN ZONE PERIFERICHE

volgimento del Centro operativo di Ferrara della Soprintendenza ai Beni ambientali e architettonici. Il nuovo edificio dell’Università Bocconi è un progetto di Yvonne Farrell e Shelley McNamara dello studio irlandese Grafton Architects, la cui capacità di cogliere e restituire in modo innovativo lo spirito della città ha convinto la giuria internazionale del World Architecture Festival di Barcellona, che ha assegnato alla Nuova Bocconi il World Building of the Year Award al termine di un concorso a cui hanno partecipato 722 opere di tutto il mondo. Come

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hanno dichiarato i due architetti, «il nuovo edificio si rifà al carattere di molti palazzi milanesi, duri all’esterno e amichevoli all’interno. È per questo che abbiamo costruito un contorno simile a una crosta in ceppo di Gré, una pietra locale presente nelle facciate di molti edifici della città. Lo abbiamo poi lavorato per dare il senso di profondità, densità e massa». Definito “una metafora della metropoli e degli scambi che la animano”, il nuovo campus è dichiaratamente influenzato dal Broletto, luogo pubblico in cui convivono cortili e volumi sopraelevati. L’ingresso affaccia


CONDIVIDERE I nuovi atenei

sul trafficato viale Bligny con una sorta di piazza che porta alla vetrata trasparente a precipizio sul foyer posto al primo e, in parte, al secondo livello sotto terra. Il foyer è il vero e proprio simbolo di apertura dell’università alla città: da esso è, infatti, possibile vedere tutto ciò che accade all’esterno e immergersi quasi totalmente (quasi perché si tratta di un’area perfettamente isolata sotto il profilo acustico) nella vita cittadina. Il primo progetto di recupero e sviluppo dell’area di via Röntgen risale al 1987 quando fu presentato da Luigi Guatri, presidente dell’Istituto Javotte

Bocconi, all’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri. Da allora sono trascorsi 21 anni ma, come afferma lo stesso Guatri, «il buonsenso e il desiderio di Comune e Regione di aiutarci hanno finito per prevalere». Vecchio e nuovo. Rinascimento e contemporaneo. Ma con un obiettivo simile. Quello di dare spazi all’università e integrarli sempre più nella città che li ospita. La Facoltà di architettura di Ferrara ha cercato fin dall’inizio di diventare un centro di conoscenze e parte integrante di un sistema sinergico di crescita e valorizzazione

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© Foto di Enrico Geminiani

del territorio. A quindici anni dalla sua fondazione il radicamento è dato per acquisito e l’apertura degli spazi di Palazzo Tassoni non è che una conferma del rapporto di simbiosi che lega l’ateneo alla città. Dagli studi su Palazzo Tassoni è nato il progetto di restauro scientifico per l’ampliamento della funzione universitaria attraverso un’intensa attività multidisciplinare: oltre che per le attività didattiche e di ricerca, le sale del palazzo, in particolare il grande salone al piano terra e quello di rappresentanza al primo piano, potranno essere utilizzati per ospitare mo-

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stre ed eventi culturali, riunioni, tavole rotonde e seminari aperti all’esterno della società civile in specifici open day o open week per iniziative promosse in collaborazione con istituzioni, committenze pubbliche o private, organizzazioni di produzione, associazioni culturali sia ferraresi che nazionali e internazionali. La Nuova Bocconi si estende, invece, su una superficie di oltre 68mila metri quadrati distribuiti su nove piani (dei quali sei sono fuori terra e tre interrati) e si propone di ospitare i sette dipartimenti e i 24 centri di ricerca del-


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l’Ateneo, stimolando il lavoro intellettuale e creativo. Il nuovo edificio consente all’università di riunire un campus cittadino arrivato in passato, a contare ventisette sedi e costituisce l’ingresso (affacciato verso il centro cittadino) di un’area che comprende edifici attigui di pregio architettonico, come la sede di via Sarfatti, progettata da Giuseppe Pagano e realizzata nel 1941, il pensionato e la biblioteca di Giovanni Muzio, la Chiesa di San Ferdinando di Ferdinando Reggiori, la Sda Bocconi di Vittore Ceretti e l’edificio ellittico ad aule del 2000 realizzato da Ignazio

Gardella. Severino Salvemini, ordinario di organizzazione alla Bocconi sostiene che «il palazzo è un’operazione architettonica sofisticata, ancora da personalizzare come un abito sartoriale, ma già chiaro nella sua struttura coraggiosa e azzardata. L’azzardo doveroso di un’istituzione che deve dimostrare di saper rompere gli schemi, osare ed essere pioniera anche nel campo degli spazi lavorativi». Enfatizzare le caratteristiche pubbliche e sociali della vita accademica e la sua capacità di coltivare relazioni con la città.

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Interni del Maserati Museum, progettato dallo studio londinese Future Systems. A lato, il cavallino rampante, simbolo della casa automobilistica modenese

>il mito ri vi ve Una bandierina a scacchi e uno sparo d’inizio. Prima e dopo, la storia di un uomo innalzato a mito. Enzo Ferrari. La realizzazione del complesso museale firmato da Jan Kaplicky riapre le porte della casa che ha visto nascere “il cavallino rampante” e coniuga la storia di un idolo alla rivisitazione tecnologica dell’automobilismo sportivo di Adriana Zuccaro

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Tenacia oltre ogni limite. Ambizione ossessiva. Un’adrenalinica passione di chi tra i fumi di motori rombanti riconosce le proprie pulsazioni vitali. Un nome e una storia, quella di Enzo Ferrari, che l’automobilismo internazionale ha assorbito e incarnato. E che fin dagli esordi hanno alimentato quella sicurezza che ha fatto di un uomo un idolo e di quattro ruote delle ineguagliabili icone. A rinnovare l’orgoglio della città che diede respiro e sfogo alla genialità motoristica di Enzo Ferrari, a innalzare la memoria storica oltre le bellissime autovetture, entro il 2011 un complesso espositivo di oltre cinquemila metri quadrati emergerà dalla ristrutturazione della casa natale del pilota imprenditore e dalla realizzazione di una adiacente galleria, il Maserati Museum. «L’obiettivo che il comune di Modena si era preposto con questo progetto – afferma Mauro Tedeschini, presidente della Fondazione Casa Natale di Enzo Ferrari e direttore di Quattroruote – si identifica nel concreto tentativo di ridare vita e valore a un edificio emblema di una parte della storia e dell’identità

del territorio, attraverso un complesso museale che attirerà oltre duecentomila visitatori l’anno e diventerà luogo simbolo della città». Il progetto porta la firma dello studio londinese Future Systems e del suo fondatore recentemente scomparso, Jan Kaplicky, un architetto che, come solo raramente accade, ha concepito la funzionalità e il rispetto per l’ambiente in maniera indissolubile e priva di compromessi formali. Una concezione ravvisabile in soluzioni di geotermia e di building automation che migliorano il comfort “sacrificando” i consumi energetici. La perenne sfida alle nozioni tipiche di spazio e il costante equilibrio ricercato tra l’edificazione preesistente e la ricerca hanno sempre spinto Kaplicky verso i massimi limiti del progettare. Il complesso museale dedicato alla casa automobilistica Ferrari è prova dell’ineffabile originalità di un architetto che, nella sua ultima “firma”, ha donato alla città di Modena un’oasi mnemonica del cavallino rampante, che oltre a essere un brand è un’identità che tutto il mondo segue con appassionata ammira-

zione. La riqualificazione della casa in cui Enzo Ferrari mosse i primi passi non modificherà l’aspetto esterno originario dell’edificio; l’interno verrà invece adattato alla linea di un coinvolgente impianto museale in cui numerose immagini, filmati e cimeli si tradurranno nella narrazione della vita dell’uomo che creò l’intramontabile mito delle “Rosse”. Attraverso un mirabile connubio tra spiccate tendenze tecnologiche e riflessi di un’indelebile tradizione, in virtù dell’ubicazione che ne definisce il senso, la realizzazione del progetto dell’attigua galleria dedicata all’automobilismo sportivo lascerà senza fiato anche i curiosi più scettici. L’immensa copertura in pannelli d’alluminio risulta stupefacente: folgorante nella lucentezza e nella forza del colore giallo. L’elaborazione formale dell’intero edificio è chiaramente ispirata al mondo dei motori da dodici cilindri: l’ingresso, in un parallelismo di elementi curvilinei e orizzontali di vetro e acciaio, richiama esplicitamente la linearità di un radiatore; la copertura che taglia lo spazio a un’altezza non eccessiva presenta

Ancora un render degli interni del museo e sopra il complesso museale dedicato alla Ferrari: la casa natale di Enzo Ferrari e, in giallo, l’edificio del nuovo Maserati Museum


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invece delle luminose aperture che ricordano le prese d’aria di un’auto da corsa. Jan Kaplicky ha qui saputo interpretare con entusiasmante intelligenza la necessità di un’eleganza antagonista alle umane vicissitudini, un’esperienza di rimando formale acuto ma non spregiudicato, un abbaglio circoscritto all’ermetico significato di un sogno, perseguito e realizzato da chi, come Enzo Ferrari, conosce l’incertezza ma soprattutto il coraggio. Tra motori e pneumatici, tra carburatori e cambi, il “Drake” ha fatto sentire il rombo della vittoria, della passione, della rivoluzione oltre ogni meccanico approccio. La duplice struttura museale è stata infatti pensata per documentare e narrare le fasi storiche e carrieristiche della vita di Enzo Ferrari, dalla sua infanzia agli esordi come pilota, dalla nascita della Scu-

deria ai suoi trionfi sui circuiti di tutto il mondo. Appare quindi chiaro l’ideale raccordo con l’esposizione permanente custodita alla Galleria Ferrari di Maranello. Ma non solo. La casa e la galleria del nuovo complesso museale faranno da palcoscenico alla ricostruzione storica anche di altri protagonisti dell’automobilismo modenese, come la Maserati, che trasferitasi nel 1939 da Bologna a Modena, congiunse due vertici della medesima “corsa” verso il riconoscimento della città come la capitale della profonda essenza dei motori “fiammanti”, in ogni loro partenza, in ogni loro traguardo. Lo sviluppo dell’area espositiva della galleria parte da un ingresso posto al livello del terreno per poi discendere verso due piani inclinati a una profondità di cinque metri. Un open space di studiata

semplicità in cui solo le autovetture, i motori e i telai marchiati da uno stile inimitabile, sono i protagonisti indiscussi della definizione dei percorsi espositivi da intraprendere. Ad abbracciare l’ampio ambiente principale, due moduli laterali ospiteranno uno spazio per allestimenti temporanei e conferenze, una caffetteria, un centro studi corredato di biblioteca e archivio, una sala per le proiezioni cinematografiche. Attraverso la rivisitazione funzionale dello stabile preesistente e l’autenticità di un progetto di raffinata originalità che Jan Kaplicky ha lasciato come eredità di altissimo valore culturale, il nome di Enzo Ferrari suonerà ancora una volta fin oltreoceano portando in eco l’identità e l’essenza della terra che gli ha dato vita, fierezza, forza e successo. Dall’inizio alla fine.

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PASSIONI Nuovo Delle Alpi

Ecco come apparirà il Delle Alpi a partire dal 2011. L’opera non riguarderà solamente lo stadio, ma un’area urbana complessiva di 355 mila metri quadrati. Nei riquadri in basso, da sinistra, i designer Paolo Pininfarina e Fabrizio Giugiaro, che hanno collaborato al progetto

>la cur v a dello stile Riconcepire lo stadio Delle Alpi all’insegna della sicurezza e del design. È questo il più grande progetto della Juventus. Un’opera straordinaria e simbolica, che unisce per la prima volta la creatività di Paolo Pininfarina e di Fabrizio Giugiaro Andrea Moscariello

Il boato dei tifosi, il canto dagli spalti, gli incitamenti che sin dal tempo dagli antichi romani hanno scandito alcuni dei momenti maggiormente impressi nell’immaginario storico collettivo. Lo stadio, arena contemporanea dove una società sempre più individualista rie-

sce ancora a creare dei momenti di aggregazione di massa. Un luogo emblematico e strutturalmente complesso. Per la città di Torino, quello che sorgerà sulle fondamenta dell’attuale Delle Alpi, sarà uno stadio elegante, interamente concepito attorno allo spettacolo

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Nelle immagini alcuni rendering relativi alle aree interne ed esterne del nuovo stadio realizzato per la Juventus. I lavori per la costruzione del nuovo progetto avranno inizio ad aprile 2009

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del calcio, capace di offrire una visione eccellente del campo da ogni angolazione. In primis, l’obiettivo preposto è quello di garantire i più alti standard tecnologici e di sicurezza, creando un’opera moderna ma, al tempo stesso, legata alla memoria architettonica del precedente impianto e strategicamente integrata all’area urbana adiacente. Un lavoro di squadra che vede coinvolti alcuni grandi nomi dell’architettura e dell’ingegneria internazionale. Se Hernando Suarez e Gino Zavanella hanno progettato l’impianto, Alberto Rolla ne ha concepito la contestualizzazione urbanistica. «Abbiamo progettato uno stadio con una propria dimensione polifunzionale – sostiene Zavanella – con spazi pensati per rispondere a diverse esigenze e con servizi per tutta la famiglia. Un luogo condiviso, un punto di incontro quotidiano per persone di tutte le età: in altre parole un’agorà del XXI secolo». Un capolavoro architettonico leggero ed essenziale, che trova nel suo unico profilo a semicerchio una linea di continuità con gli elementi circostanti. Lo stadio, privo di barriere architettoniche, potrà ospitare oltre quarantamila spettatori che raggiungeranno gradinate e tribune tramite sedici passerelle distribuite nei diversi settori, tutti sospesi sugli spazi che costituivano il vecchio Delle Alpi. La copertura degli spalti, studiata in galleria del vento, verrà realizzata ispirandosi alle ali degli aerei, trovando in una membrana in parte trasparente e in parte opaca, una fonte di luce che garantirà una visione ottimale sia nelle ore diurne, sia in quelle notturne. Un progetto ambizioso per la Juventus, che vede per la prima volta la collaborazione di due mostri sacri dello stile italiano, Giugiaro Desing e Pininfarina Extra. Per la prima volta in Italia uno stadio riuscirà a contenere elementi dal concept sofisticato, funzionale e distinguibile, grazie so-


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PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA UNO STADIO RIUSCIRÀ A CONTENERE ELEMENTI DAL CONCEPT SOFISTICATO, FUNZIONALE E DISTINGUIBILE, GRAZIE SOPRATTUTTO ALLE DUE PRESTIGIOSE FIRME COINVOLTE PER VALORIZZARE UN SIMBOLO COSÌ IMPORTANTE PER LA CITTADINANZA TORINESE E CELEBRE IN TUTTO IL GLOBO

prattutto alle due prestigiose firme coinvolte per valorizzare un simbolo così importante per i torinesi e celebre in tutto il globo. Un lavoro monumentale che conferma il capoluogo piemontese come una delle nuove capitali europee del design. La partecipazione di Giugiaro Design, in particolare, riguarda le aree esterne. Un intervento che gli amanti dello stile Giugiaro riconosceranno nel profilo della struttura, specialmente nell’angolo di curvatura che collega le pareti esterne alla copertura, oltre che dal disegno dei due pennoni, la cui geometria riporta la mente alle montagne che circondano la città. «Con il progetto Juventus – spiega Fabrizio Giugiaro, vicepresidente e direttore Stile Italdesign Giugiaro – abbiamo cercato di rivalutare non solo un edificio, ma un’area urbana più estesa». Partendo dai nuovi pennoni, viene ribadito lo spirito del nuovo stadio, che vive di modernità pur mantenendo una continuità con la tradizione. «Una delle caratteristiche più rilevanti del nuovo stadio – interviene nuovamente Giugiaro – è il rivestimento delle pareti esterne, che viene replicato in tutte le strutture che circondano l’arena, per ribadire la coesione con l’intera area urbana interessata». A firmare gli interni, dall’illuminazione all’arredo fino ai pavimenti e i posti a sedere sugli spalti, è il team messo a punto da Pininfarina Extra. Il genio, in questo caso, si scopre nella concezione dei sedili per il pubblico, particelle di un’immensa fotografia che a stadio vuoto mostreranno immagini evocative di grandi campioni della storia della Juventus Football Club. «Collaborare alla realizzazione del nuovo stadio – ha dichiarato Paolo Pininfarina, presidente e amministratore delegato di Pininfarina Extra – è motivo di grande orgoglio, perché ci permette di esprimere ancora una volta la nostra creatività su un’icona della città di Torino». Dopo

il Braciere Olimpico, quindi, Pininfarina getta nuovamente il suo stile su un luogo che, evidentemente, suscita una forte emotività. «Nell’elaborazione dell’impianto – conclude – siamo stati avvantaggiati dalla corrispondenza tra la brand identity della Juventus e quella di Pininfarina, entrambe all’insegna dell’eleganza, dell’essenzialità e di quel tocco di italianità che diventa un segno distintivo».

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>non c’è bellezza senza sostenibilità L’impatto energetico degli edifici non è solo un discorso tecnico, ma offre occasioni interessanti anche per la creatività dei progettisti. È questo il messaggio di Mario Cucinella, che spiega le nuove sfide del costruire di Sarah Sagripanti

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PROTAGONISTI

Mario Cucinella, fondatore di Mario Cucinella Architects, società di progettazione creata a Parigi nel 1992. La sua sede principale è a Bologna Render della casa “A basso costo, a misura di desiderio, a basso impatto ambientale” progettata da Mario Cucinella Architects in collaborazione con la Italcementi

Mario Cucinella è noto per essere uno dei professionisti più attivi nel campo dell’architettura sostenibile. In ogni edificio che progetta, la tecnologia sposa l’ambiente e l’estetica va di pari passo con una grande attenzione al risparmio energetico. Ma non c’è stato un momento preciso in cui l’architetto ha scelto di specializzarsi su questi argomenti. «Ho sempre considerato ovvio il fatto che un edificio debba essere costruito rispettando alcuni semplici criteri, come il rapporto con l’ambiente circostante, con l’aria, il sole, la terra. L’architettura è sempre stata questo, già Vitruvio ne parlava». Il suo ultimo progetto di ricerca è per una casa low cost di 100 metri quadrati a zero emissioni di CO2: una realizzazione in grado di restituire il piacere dell’abitazione e ripagare il costo dell’investimento con l’energia che è in grado di autoprodurre. Un progetto affascinante, che potrebbe rispondere alle esigenze di tanti e che sembra incarnare a pieno quella «funzione sociale dell’architettura» che Cucinella auspica

di ritrovare nella società, «in reazione al malessere diffuso di un’architettura globalizzata». Architetto, il suo progetto per la casa low cost verrà realizzato? «Il comune di Settimo Torinese si è mostrato molto interessato al progetto, mettendo a disposizione un’area in una zona del centro della città. Stiamo avviando la realizzazione del progetto insieme a una cooperativa». Un appartamento di 100 metri quadrati costerà veramente 100mila euro? «I 100mila euro non si allontanano dai costi reali di un altro immobile residenziale, con le stesse finiture. Il progetto vuole dimostrare come possano esistere operazioni immobiliari fattibili anche con costi relativamente bassi, perché quello immobiliare è un ambito di grande speculazione economica, soprattutto sul costo dei terreni. Per questo crediamo che spetti all’ente pubblico ritrovare un ruolo importante nella grande questione della residenza, cedendo ad esempio delle aree per costruire case a basso costo».

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foto Daniele Domenicali

Oltre all’aspetto economico, il progetto si presenta “a misura di desiderio” e “a basso impatto energetico”. Cosa significa? «Il mercato immobiliare italiano, a differenza di molti Paesi del Nord Europa, offre un prodotto già finito, costringendo le persone a comprare case, che spesso non si adeguano né ai desideri né alle esigenze economiche personali. Nel nostro progetto, invece, la casa diventa flessibile e personalizzabile, oltre che a basso costo energetico. La tecnologia del fotovoltaico permette oggi di fatto di produrre reddito, perché in questa casa si produce più energia di quella che se ne consuma. È l’idea dell’indu-

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stria verde: con edifici sani e puliti, usando tecnologie innovative, si può anche guadagnare». Progettare i nuovi edifici secondo questi criteri è sicuramente importante. Come intervenire, invece, nell’immenso patrimonio edilizio già esistente? «Proprio questa è la vera sfida. Per quanto continueremo a costruire, il nuovo sarà sempre meno di ciò che è già stato fatto, soprattutto nel periodo del grande sviluppo del Dopoguerra, quando si sono create zone urbane e periferie di scarsa qualità. Ma nessuno sembra muoversi in questo senso. Una spinta dovrebbe venire dal fatto che l’Italia dal 2008 paga oltre 4 milioni di

euro al giorno di ammenda per il mancato raggiungimento degli obiettivi di Kyoto. Invece di pagare ammende, dovremmo investire in operazioni fiscali per la salvaguardia energetica dei nuovi edifici e la qualità di quelli esistenti. Attraverso l’energia, abbiamo l’opportunità di mettere mano alle nostre periferie e renderle qualitativamente ed esteticamente migliori». Se dovesse pensare a una riqualificazione in termini sostenibili di un’intera città, da dove partirebbe? «Credo che le grandi opportunità in questo senso le abbiano le città tra i 300 e i 500mila abitanti, come Bologna, perché hanno una dimensione tale da permettere di intervenire prima


PROTAGONISTI

Paradossalmente c’è da auspicare la scomparsa del dibattito su questi temi, quando l’architettura sostenibile diventerà finalmente l’unica architettura possibile. «L’idea che l’architettura sostenibile sia una specialità è terribile. Ma per questo, insieme all’impegno dei pro-

gettisti, serve quello del sistema formativo e delle amministrazioni. È necessario riscoprire la funzione sociale del mestiere dell’architetto, abbandonare l’idea che l’architettura sia un prodotto e capire che il tema dell’energia offre molte opportunità, anche dal punto di vista creativo».

Due dei più recenti lavori di Cucinella all’estero: il Sieeb, centro italo-cinese per l’ambiente e l’energia, all’interno della Tsinghua University di Pechino, e il Centro per le tecnologie per le energie sostenibili a Ningbo, sempre in Cina

foto Daniele Domenicali

di tutto sulla mobilità. Da noi mancano ad esempio le piste ciclabili protette. Sembra un dettaglio, ma è dimostrato che nei Paesi dove i percorsi ciclabili sono sicuri, cambia di molto l’approccio alla mobilità. Si dovrebbe poi intervenire per ridurre le superfici di asfalto, creando più aree verdi. Su questo Bologna ha grandi potenzialità. E infine punterei sulla comunicazione, creando un centro di informazione sulle politiche energetiche e di sostenibilità». Dal punto di vista normativo, come giudica il quadro nazionale? «Gli strumenti ci sono, anche se parziali. La mancata approvazione della legge sull’obbligo della certificazione degli immobili è scoraggiante, perché senza obbligatorietà, il mercato non si muove, soprattutto nel “Paese dei furbi”. Quello che manca è una visione complessiva sul tema energetico. Invece i cittadini sono molto più attenti; una ricerca del Wwf sul risparmio energetico dimostra come l’Italia sia seconda solo ai Paesi Scandinavi per conoscenza della tematica». Tra i suoi colleghi architetti, invece, c’è attenzione a queste tematiche? «Nel panorama internazionale l’attenzione è molto forte, anche perché i grandi soggetti attuatori di architettura, i governi o le grandi società, hanno posto condizioni in questo senso. Esiste quindi un dibattito sul tema, che ultimamente coinvolge anche gli archistar, al quale però non sempre corrisponde la stessa attenzione nelle realizzazioni, forse perché esiste un problema di tipo normativo. In Italia, al contrario, il tema è poco discusso, ma la generazione dei giovani architetti nel suo lavoro quotidiano si dimostra molto attenta al riguardo, forse più che gli architetti affermati».

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L’innovativa Alpine Capsule progettata dall’architetto Ross Lovegrove. A destra, l’architetto insieme a Moritz Craffonara, titolare del noto Club Moritzino sul Piz la Ila, che ha finanziato il progetto

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>atmosfer e d’alta quota Alpine Capsule è il nuovo rifugio hi-tech creato dal designer industriale di fama mondiale Ross Lovegrove. Una sfera tecnologica ed energeticamente autosufficiente pronta ad accogliere e proteggere gli appassionati delle alte quote, per una notte a contatto con la natura a trecentosessanta gradi di Irene Guzman

L’amore per il design biomimetico di Ross Lovegrove è stato da sempre la sua arma vincente: innovazione e design organico sono i tratti distintivi con i quali firma tutti i suoi progetti. L’ultima idea nata dalla mente del designer inglese, già creatore dell’iMac Apple e del Sony walkman, è l’Alpine Capsule: un vero e proprio rifugio hi-tech totalmente ecologico che sarà posizionato sul Piz La Ila – Dolomiti, a oltre 2100 metri. La capsula dalla forma ellittica sospesa nell’aria (a pochi centimetri da terra grazie a campi elettromagnetici) occuperà infatti nel 2010 la cima della celebre pista Gran Risa, famosa per il gigante di Coppa del mondo dell’Alta Badia. L’Alpine Capsule è caratterizzata da un design che

ricorda una goccia di mercurio, ma che all’interno appare come un esclusivo rifugio totalmente isolato termicamente dall’ambiente circostante. Otto i metri di diametro per una struttura a doppio vetro, ricoperta da un coating riflettente, che diffonde e rispecchia l’ambiente circostante con effetto mimetico, senza però precludere agli occupanti la vista del paesaggio esterno, in ogni condizione ambientale e atmosferica. La finitura riflettente è anche in grado di schermare la maggior parte dei raggi infrarossi, proteggendo l’interno da eccessivi accumuli di calore. Una nuova condizione architettonica con un look da navicella spaziale che punta sull’innovazione tecnologica ed eco-sostenibile. La posizione di Piz

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La Ila offre infatti possibilità straordinarie di estrarre energia da fonti energetiche rinnovabili. I dati meteorologici raccolti dimostrano che l’ubicazione geografica della capsula è adatta per lo sfruttamento di energia eolica e solare che andrà a soddisfare la richiesta energetica interna. In questo modo l’Alpine Capsule sarà completamente autosufficiente grazie alle power-plant, unità remote disseminate nelle immediate vicinanze della capsula, che con essa condividono il linguaggio e i materiali. Le power-plant dispongono di un sistema integrato che si basa su pannelli fotovoltaici e turbine ad asse verticale: la sovrapposizione di queste due tecnologie assicura un sufficiente apporto di energia in ogni condizione ambientale. I panelli fotovoltaici retrattili reagiscono infatti automaticamente alle condizioni meteorologiche in caso di vento forte o pesanti nevicate: i “petali” possono rientrare nell’involucro protettivo e ridurre così la superficie esposta. In queste condizioni estreme, la maggior parte di energia catturata proviene dalle turbine eoliche ad asse verticale situate nella sommità delle power-plant. Il disegno della turbina stessa facilita il pescaggio del vento proveniente da direzioni molteplici, e la semplicità e la leggerezza della turbina garantiscono bassi costi di manutenzione. Durante la stagione estiva, al contrario, quando la velocità del vento cala drasticamente, l’energia solare diviene maggiormente accessibile, contribuendo in gran parte al fabbisogno.

Sopra ancora Lovegrove e Craffonara con il prototipo della capsula. Qui accanto, le “powerplant”, sistemi di raccolta energetica per il mantenimento della capsula

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ESCLUSIVO

ALPINE CAPSULE RAPPRESENTA IL PROTOTIPO PER UN NUOVO STILE DI VITA SOSTENIBILE, UNA NUOVA AMBIZIONE PER IL VENTUNESIMO SECOLO, CHE ESPLORA IL CONCETTO DI DEMATERIALIZZAZIONE DELL’ARCHITETTURA E I SISTEMI DI SOPRAVVIVENZA IMPORTATI DALLA TECNOLOGIA SPAZIALE

Gli interni sono realizzati in stile minimale con forme organiche e continue, per assicurare il massimo relax e un’integrazione perfetta esterno-interno. Pensato per supportare un’idea di connessione con la natura, l’interior design dà forma a uno spazio intimo e nel contempo permeabile verso il paesaggio esterno. Alpine Capsule può ospitare fino a due persone, con altissimi standard di confort, nelle due aree principali in cui è suddiviso lo spazio: zona soggiorno e notte posizionate a piani sfalsati, pur mantenendo un carattere di open-space, e un bagno separato, con una finestra privata sulle Dolomiti. Questi diversi volumi e livelli vengono fusi in modo fluido e continuo, creando un paesaggio tridimensionale interno completamente rivestito in pelle bianca con imbottitura soft. Si tratta in definitiva di nuovo concept turistico che espande il potenziale della vita moderna, con i suoi confort e la connessione tecnologica, e lo proietta in una visione lontana dagli spazi urbani e vicina al paesaggio naturale. È una visione che lega in modo sensuale immaginazione ed equilibro: l’Alpine Capsule appare infatti

come un santuario di pace e tranquillità, uno spazio in cui pensare e immaginare, grazie al costante cambiamento del paesaggio naturale, dall’estate all’inverno, dal giorno alla notte. «Si tratta di un incredibile spazio etereo – dice Lovegrove –. Distesi in questa capsula, magari ascoltando musica classica che stimola i sensi, si può godere del fantastico panorama dolomitico a trecentosessanta gradi. L’idea è quella di piazzare un letto sotto le stelle, una stanza senza pareti né soffitto, nel mezzo delle Dolomiti. Non posso immaginare un modo migliore per svegliarsi la mattina». Il progetto rappresenta il prototipo per un nuovo stile di vita “off-grid”, sostenibile, una nuova ambizione per il ventunesimo secolo, adattabile a diversi scenari, che esplora il concetto di dematerializzazione dell’architettura e i sistemi di sopravvivenza importati dalla tecnologia spaziale, ma adattati per il confort terrestre. Per saperne di più su Alpine Capsule, l’appuntamento è fissato alla prossima Biennale di Venezia, dove sarà la prima opera di tipo turistico a essere ospitata dalla manifestazione della città lagunare.

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>un’idea di liber tà Il ruolo educativo dell’artista. Le dinamiche che lo spingono a sperimentare differenti linguaggi espressivi. L’importanza della casualità nella realizzazione di un’opera. Sono le riflessioni di Mimmo Paladino, l’intellettuale di altri tempi proiettato verso il futuro di Stefano Russello

L’arte come possibilità di scrutare e conoscere il mondo. È da questo semplice concetto che si può far partire la poetica di Mimmo Paladino, uno degli artisti italiani contemporanei più famosi nel mondo. Pittore e scultore, prima di tutto. Ma anche scenografo teatrale e cinematografico, fotografo e sperimentatore di stili. Un artista poliedrico, che non perde occasione per intraprendere progetti e collaborazioni importanti. Dalla passione giovanile per la Pop-art americana, fino ai recenti interventi in ambito di opere pubbliche, passando per le grandi sculture in bronzo degli anni Ottanta. Da quel periodo, caratterizzato da lavori di forte impatto visivo, Paladino è passato negli ultimi anni a un’estetica più semplice, nelle tecniche e nelle strutture. Nella sua carriera ha sempre voluto dare spazio al proprio “mondo interiore”, mettendo sempre in primo piano la funzione educativa dell’arte. Qual è la poetica di fondo che fa da filo conduttore alla sua arte? «La poetica è quella del fare quotidiano, che è la più

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grande curiosità possibile sugli strumenti espressivi. Ovviamente tra regia cinematografica e dipinto esiste una notevole ed evidente differenza. Però alla fine le cose possono anche coincidere». Quali sono i motivi della scelta di materiali così diversi tra loro come mezzo espressivo? «Non c’è una scelta a monte. A volte si tratta di un incontro casuale, come è successo per la scultura. Non mi ero mai accostato a questa forma d’arte prima dell’83, all’improvviso mi fu data la possibilità di entrare in una fonderia e cominciare a pensare la materia plastica. Spesso ci troviamo di fronte a delle coincidenze, non c’è mai un’idea progettuale di fondo». Le sue opere rispondono più a un progetto artistico, o vengono concepite sull’onda di un’emozione? «C’è sempre un controllo, un inizio d’opera, anche se non strettamente progettuale. Un ciclo di dipinti, o una scultura, sono cose che si programmano, ma poi tutto si sviluppa in attesa dell’incidente, della casualità. Sono questi


MAESTRI Mimmo Paladino

gli elementi che possono spostare il OGGI L’ATTENZIONE È ORIENTATA VERSO LINGUAGGI VISIVI MUTUATI piano d’azione su altre forme e altre DALLA TECNOLOGIA O DAL SOCIALE, MA SPESSO IL RISULTATO È UN idee, attraverso un bilanciamento tra MIX DI STILI CHE SI ESPRIME ATTRAVERSO LA PITTURA controllo e attesa. Si può partire da una tela bianca, o da un oggetto troguaggi artistici che meglio rappresentano la sua poetica? vato in un angolo di strada, ma la casualità è sempre rela«Vengono dettati dalla quotidianità. Negli ultimi tempi ho tiva, perché quando le cose entrano nell’opera, significa combattuto quelle che chiamo le mie grandi battaglie. Nel che erano già lì ad attenderci. Vuol dire che la strada che campo architettonico sono stato coinvolto in un progetto abbiamo intrapreso ci ha portati dritti a quei determinati complesso a Vinci, dove ho realizzato una magnifica oggetti». piazza. Poco tempo fa ho collaborato con la produzione di In questo momento quali sono le forme espressive e i lin-

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Un esempio opposto, ma non secondario, è quello del un film su Don Chisciotte, e infine ho concluso le illustrarapporto con lo spazio naturale. In questo caso cito la zioni per un’edizione speciale di Tropici di Levi Strauss. Porta che ho realizzato a Lampedusa, in memoria dei caSono queste le avventure che poi restano e hanno un duti in mare. Ho voluto far posizionare quest’opera in uno senso». dei luoghi più appartati e più estremi dell’isola, lontano Come nasce il suo interesse per la regia teatrale e per il dal centro abitato. Solo in quel modo potevo esaltare il cinema? suo carattere simbolico, il rapporto diretto con lo spazio «In teatro ho semplicemente curato alcune scenografie, naturale del mare e dell’infinito, privo di condizionamenti dietro l’invito degli stessi registi. Il cinema, invece, è una dall’esterno. Volevo che emergesse l’idea di assoluto». mia antica passione, sono sempre rimasto affascinato dalDopo una serie di esperienze l’aspetto corale del lavoro per questo mezzo. Il pittore pre- OGGI IL PITTORE DOVREBBE FAR RIFLETTERE artistiche e dopo l’incontro stato all’arte cinematografica LE PERSONE SU LORO STESSE E SULLA con il critico Bonito Oliva lei può uscire dallo spazio privato POSSIBILITÀ CHE HANNO DI GUARDARE E ha aderito al gruppo della del suo studio e entrare a far CONOSCERE IL MONDO. COME DICEVA DON Transavanguardia. Cosa riparte di una coralità, un po’ CHISCIOTTE, UNA DELLE FIGURE PIÙ corda di quegli anni e quanto, secondo lei, quella lezione ha come un direttore d’orchestra RAPPRESENTATIVE PER NOI ARTISTI contribuito a influenzare il che deve assemblare il registro mondo dell’arte contemporanea? di una sonorità, in questo caso visiva. Il cinema è molto in«Ho conosciuto Bonito Oliva nel 68, quando lui era anteressante, perché dopo il montaggio tutto si trasforma». cora un poeta visivo e io mi dedicavo ai primi collage. Come scultore lei ha installato parecchie opere in spazi Eravamo due artisti indipendenti, ancora lontanissimi pubblici. Che rapporto deve intercorre tra opera, artista dalla transavanguardia, il movimento che sarebbe nato e spazio urbano? dopo qualche tempo senza una precisa volontà struttu«Nello spazio urbano il rapporto con l’elemento architetrale e ideologica. Non c’era adesione a un manifesto, tonico è inevitabile, sia esso antico o contemporaneo. Nel come accadeva con le avanguardie, quanto piuttosto progettare il lavoro all’Ara Pacis, per esempio, ho tenuto una coincidenza concettuale: un ritorno all’arte figuraconto del monumento storico, ma anche della recente artiva, necessaria per riprendersi la libertà di utilizzare gli chitettura. Nella parte nuova ho realizzato un mosaico perstrumenti che sembravano scomparsi, nella pittura come manente, in cui è stato fondamentale il rapporto tra nella scultura. Un processo che si sviluppò prima in Itaarchitettura, luce e la spazialità messa in campo da Meier.

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MAESTRI Mimmo Paladino

lia, ma che dopo abbracciò l’interesse di artisti di tutto il mondo. Di quel periodo è rimasto un messaggio importante, presente anche nelle giovani generazioni. Oggi l’attenzione è orientata verso linguaggi visivi mutuati dalla tecnologia o dal sociale, ma spesso il risultato è un mix di stili che si esprime comunque attraverso la pittura». Da una parte sembra che oggi si vada affermando, specialmente in Europa, un ritorno a forme espressive più legate alla tradizione e alla figura. Dall’altra, però, molti artisti vengono accusati di muoversi su coordinate individuali, rivolte più alla spettacolarizzazione che a un progetto artistico. Qual è il suo parere? «Io penso sia ancora presente la cosiddetta linea deschampiana, attenta a molti tipi di artisti, quindi anche alle forme artistiche più stravaganti, spiazzanti e sconvolgenti. D’altra parte si fa avanti l’idea di filtrare il sociale attraverso i mezzi di comunicazione, e di conseguenza alcune forme pittoriche vanno verso un realismo eccessivo, in alcuni casi anche più radicale della fotografia. La linea iniziata da Deschampe, invece, è una filosofia più attenta al concetto dell’opera». Lei come si definisce oggi? «Mi sento essenzialmente un pittore, come si diceva una volta, anche se spesso non maneggio più olio e tela. Purtroppo il pittore non può più avere una sua identità pre-

Paladino è tra i principali esponenti della Transavanguardia. Le sue opere sono collocate in permanenza in alcuni dei più importanti musei internazionali

cisa, come avveniva in antichità, quando gli venivano commissionate le immagini sacre, o gli si chiedeva di veicolare importanti concetti di ordine politico e religioso. A mio parere oggi il pittore dovrebbe far riflettere le persone su loro stesse e sulla possibilità di guardare e conoscere il mondo, come diceva don Chisciotte. Un personaggio che rappresenta tutti gli artisti, perché era in grado di vedere quello che gli altri non potevano nemmeno immaginare». Ogni artista desidera trasmettere attraverso le sue opere una particolare visione del mondo. Quanto l’arte influenza la società? «Personalmente non ho mai progettato nessun messaggio. Spero solo di lasciare un frammento lungo la mia strada, in modo che la gente possa riflettere. Ritengo che l’arte possa incidere sulla realtà solo in tempi molto lunghi e l’esempio ci è dato da Caravaggio. Un artista che noi osserviamo sempre con occhi nuovi, il nostro interesse per lui non è storico o critico, quanto piuttosto intellettuale: perché l’arte deve essere soprattutto un’idea di libertà». Qual è la sua previsione sul futuro delle arti figurative in Italia e nel mondo? «Il futuro dell’arte è imprevedibile, ma ho sempre grande fiducia, perché questo mestiere esiste da 10.000 anni. Le speranze per il futuro saranno rosee fino a quando ci sarà qualcuno che fa dei segni in terra, dimostrando la sua reale identità. Finché c’è l’arte c’è speranza, verrebbe da dire. Perché l’arte è l’unica cosa che non è mai tramontata al mondo».

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>l’ar te si f a es ser e

© M. Scattaro

© M. Spiluttini

La creatività artistica che, come ogni atto umano, nel suo farsi si espande all’esterno. E che, come l’acqua, riflette l’altro da sé. Mentre scorre e dilaga in tutti gli ambiti del vivere. Partendo da questa visione, Michelangelo Pistoletto, tra i grandi maestri dell’arte contemporanea, è approdato all’impegno sociale di Marilena Spataro

Michelangelo Pistoletto è tra i maggiori rappresentanti dell’arte italiana del 900. Nato a Biella, è stato tra i protagonisti della stagione dell’Arte Povera. Accanto, Venere con gli stracci 1967-74

Protagonista negli anni Sessanta del movimento dell’Arte Povera, e oggi uno dei più famosi artisti italiani, Michelangelo Pistoletto l’interesse per l’arte lo manifesta fin da adolescente frequentando lo studio paterno. «Mio padre era pittore, ma guardava soprattutto all’arte classica, io invece ho seguito un’altra strada» racconta. Andando a Milano per frequentare la scuola di pubblicità grafica con Armando Testa, infatti, il giovane artista prese a guardare con interesse l’arte contemporanea, scoprendo in essa una libertà di espressione che gli consentiva di esprimere attraverso le arti figurative le sue più profonde attitudini e il suo senso poetico ed estetico in rapporto al suo mondo interiore e a quello circostante. Perché, per il maestro Pistoletto, l’arte costituisce un elemento di conoscenza e di rive-

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OGGI NON C’È UN SISTEMA ARTISTICO CHE PREVALGA SULL’ALTRO. RITENGO CHE ATTUALMENTE CI SIA PIÙ ATTENZIONE VERSO UNA CONCEZIONE POETICA E AUTOREFERENTE DELL’ARTE FIGURATIVA, COSÌ COME AVVIENE ANCHE NELLA MUSICA E NELLA LETTERATURA


POETICHE Michelangelo Pistoletto

lazione dell’esistente attraverso cui soddisfa il suo bisogno innato «di riconoscere la vita e la realtà». Vita e realtà che oggi, nella sua visione, più che mai incrociano l’arte, «la quale si distende come acqua incontrando la politica, l’economia, la comunicazione, l’educazione e tutti quegli elementi che hanno come sfondo la creatività umana». Secondo questo artista è proprio su questo filone della capacità creativa umana che l’arte si trasforma in altrettanta capacità di agire, muoversi, produrre, creare, formare. Un’idea alla quale Pistoletto ha voluto dare concreta attuazione realiz-

zando a Biella, sua città natale, la Cittadellarte Fondazione Pistoletto, una grande struttura formativa finalizzata a un lavoro «che quotidianamente porta l’arte all’incontro con i vari ambiti del sociale e con la vita». All’inizio della sua carriera quali erano, maestro, i suoi modelli artistici ed estetici di riferimento? «I miei modelli di riferimento all’inizio erano rivolti al Rinascimento, in particolare Piero della Francesca, un artista che attraverso la sua straordinaria capacità di proiettare il reale attraverso la prospettiva, mi dava un senso di possibilità prospettiche che potevano essere

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© E. Amici

riprese. Poi naturalmente guardavo C’È SEMPRE UNA COMBINAZIONE TRA IL SÉ E IL MONDO. ANCHE LE agli artisti dell’800 e del 900 e soTENSIONI, I DRAMMI CHE L’ARTE È CAPACE DI EVIDENZIARE SONO prattutto agli espressionisti astratti». VIBRAZIONI CHE PARTONO DALL’INTERNO, MA CHE PROVENGONO Lei è stato uno dei protagonisti delDALL’ESTERNO. L’ESTERNO E L’INTERNO DELL’INDIVIDUO NELL’ARTE l’Arte Povera. Quali sono stati i moDEVONO COLLEGARSI, CONGIUNGERSI venti artistici da cui nacque quel movimento? soggettiva. Questi sono aspetti che vengono ricono«La definizione Arte Povera non nasce con il movisciuti come elementi di fondo dal senso comune. Oggi mento, è stata fissata successivamente da Germano i giovani, pur introducendo una nuova individualità nel Celant. Quanto a me, volevo fare dell’arte qualche lavoro, mantengono questo fondo di oggettività, di recosa di molto vicino alla realtà, molto vicino alla vita e lazione con il vero, in senso non solo rappresentativo, legato alle fenomenologie primarie dell’esistenza. ma come fenomeno naturale». Che sono poi sono i motivi ispiratori di molti altri artiCome giudica il panorama artistico di oggi? sti in quel momento: si cercavano dei materiali, dei «In un certo senso è un panorama molto più libero di prodotti, delle concezioni che fossero fenomenologiqualche anno fa, in quanto i giovani non sono più lecamente primari». gati a un’attività di corrente o non la ricercano. Sono A suo parere qual è la lezione lasciata da questo movipiù sparsi e autonomi. C’è quindi un panorama molto mento alle successive generazioni? meno “inquadrato” di quello esistente nel ventesimo «C’è un’oggettività nel lavoro dell’Arte Povera, una resecolo. Oggi non c’è un sistema artistico che prevalga lazione oggettiva col mondo, con le cose, con le masull’altro. Ritengo che attualmente ci sia più attenzione terie e non soltanto una posizione individualistica e

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POETICHE Michelangelo Pistoletto

Nella pagina a fianco, Arte al Centro di una Trasformazione sociale responsabile 2008: Architettura di Svolta. Esempi di architettura naturale in Italia presentati all'interno del simbolo del Terzo Paradiso (di Michelangelo Pistoletto), realizzato in paglia. A lato, Michelangelo Pistoletto con Achillle Bonito Oliva

verso una concezione poetica e autoreferente dell’arte figurativa, così come avviene anche nella musica e nella letteratura. Personalmente sono interessato a figure di artisti che in qualche modo seguono una strada meno autoreferenziale, più eterodossa nella loro ricerca. Il mio stesso lavoro di oggi si è evoluto in una direzione ancor più oggettiva di prima, che è quella di un impegno dell’arte verso quelle che sono le problematiche della vita nella società». Quale contributo può derivare alle arti dalle tecnologie di frontiera e dall’informatizzazione dei saperi? «L’arte è un fenomeno pubblico, anche se esprime a volte sentimenti molto privati. Quindi, questo bisogno di comunicare attraverso i nuovi mezzi mi sembra necessario, persino ovvio. Essere coerenti con il nostro tempo vuol dire anche utilizzare i mezzi del nostro tempo». Nell’atto creativo, a suo parere, c’è anche una valenza sociale o è un atto individuale? «Credo ci sia sempre una combinazione tra il sé e il mondo. Anche le tensioni, i drammi che l’arte è capace di evidenziare sono vibrazioni che partono dal-

l’interno, ma che provengono dall’esterno. L’esterno e l’interno dell’individuo nell’arte devono collegarsi, congiungersi». La sua poetica, specialmente quella degli specchianti, si può considerare come anticipatoria rispetto al percorso poi da lei intrapreso con Cittadellarte? «Sono partito dall’autoritratto, che non è più solo il ritratto dell’artista, ma, attraverso la trasformazione della tela in superficie specchiante, è il mondo stesso che entra nell’autoritratto, per cui il mondo, la gente, la società entrano a far parte direttamente dell’opera e la penetrano. A questo punto l’opera riflette il mondo e a sua volta si rifletta sul mondo: l’artista non è più solo e l’autoritratto dell’artista è anche l’autoritratto del mondo. Questo sentirsi immerso nel grande spazio del vissuto e nella grande comunità umana è il passo naturale che porta alla Cittadellarte». Come e perché nasce questa struttura? «Nell’arte moderna sono avvenuti grandi sconfinamenti, io addirittura ho fatto delle opere negli anni 70 in cui il quadro spezza anche la cornice ed esce da quello che è lo schema tradizionale del quadro. Quando la cornice si spezza, il quadro “dilaga”, invade lo spazio, gli ambiti e gli ambienti. E quando ci si trova davanti a un quadro dilatato, esso diventa come l’acqua che non è più solo specchio, ma qualcosa che si va stendendo su tutti i territori. Quanto alle finalità della struttura, esse sono di far germogliare, nel rapporto tra sentimento e ragione, nuove visioni del mondo, partendo non dal calcolo economico o politico, ma da una sensibilità e da un bisogno di tipo culturale». E la teoria del “terzo paradiso” sviluppata in collegamento con questa realtà in cosa consiste? «È l’incontro tra il primo paradiso, quello naturale, e il secondo, quello artificiale creato dall’uomo. Oggi quest’ultimo rischia di sopraffare violentemente il primo con pericolose ripercussioni sulla natura e sullo stesso uomo. Il terzo paradiso riunisce la responsabilità umana alla realtà naturale, ricongiungendo l’artificio alla natura. È il nostro futuro, perciò va costruito con grande impegno».

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© Foto di Patrick Morisson

Concetto Pozzati, 73 anni di Vò (Padova), è uno dei protagonisti della Nouvelle Figuration. Nella pagina accanto, particolare de Il pittore è il burattinaio, 2002, smalto su tela


LINGUAGGI

>a polo gia del dub bio Lo diceva De Chirico. E lo ripete Concetto Pozzati che al maestro della Metafisica guarda e guardava. Perché l’arte, da sempre, «mette il dito» nelle piaghe dell’essere. O almeno dovrebbe. Il punto sul mondo dell’arte insieme a uno dei protagonisti della Nouvelle Figuration di Laura Pasotti

«L’arte è produzione critica. Mentre quello che vedo oggi è la mancanza della critica del mondo da parte dell’arte e degli artisti». Concetto Pozzati, uno dei protagonisti della Nouvelle Figuration, movimento pittorico assimilabile alla Pop Art americana, spalanca i suoi occhi sul mondo dell’arte e il quadro che ne esce è tanto amaro quanto veritiero. L’arte vive un momento difficile a causa della globalizzazione che, sarà anche stato un percorso probabile per l’economia, ma è stata drammatica dal punto di vista artistico. Il risultato? «Oggi tutto è boutique e apparenza – spiega Pozzati –. Il mondo è indifferenziato, mentre sappiamo che l’arte produce differenza». Come vede il futuro delle arti figurative? «Sarebbe troppo facile dire che quando la forbice tecnologica non sarà più unita a quella artigianale ci sarà un ritorno a una nuova pittura e a un artigianato post-tecnologico. Perché dico questo? Perché esiste un’altra forbice data da estetica e artistica. Oggi tutto il mondo è diventato estetico. Come si fa a dire che non è bello un frigorifero o una Ferrari o un bel televisore? È bellissimo, ma non è artistico. Perché non propone dubbi, ma solo certezze». Oggi molti artisti realizzano le proprie opere senza sporcarsi le mani, ma avvalendosi di sofisticate tecnologie. Cosa ne pensa? «Come diceva Heidegger: “Non occorre praticare la tecnologia o vivere il mondo della tecnica, basta capirne l’essenza”. Bisogna chiedersi che cosa fa la tecnica per noi o cosa noi facciamo della tecnica. Io la considero un materiale e quindi il mio desiderio è assoggettarla al mio “credo”». Secondo lei l’arte anticipa la società o ne è il riflesso? «Né l’uno, né l’altro. Esiste la contemporaneità e l’arte vive sempre sulla punta del nuovo. Le risponderò con

una frase di Giorgio De Chirico, e pertanto al di sopra di ogni sospetto, il quale diceva, “devi andare oltre la crosta del mondo”. Ed è chiaro che l’arte mette il dito nelle piaghe del mondo». Quali sono i moventi della sua ispirazione? «Non esiste un problema di ispirazione. Così come non


A sinistra, Biblioteca di segni col mio K. Harring. Sopra, Ciao Roberta, 2007, olio, acrilico e smalto su tela. In basso, a sinistra, Torture, olio e smalto su tela, e, a destra, A casa mia, olio, acrilico e smalto su tela. Nella pagina accanto, un ritratto di Pozzati

credo che si debba aspettare il momento magico. Ai nostri tempi se dicevi che eri un pittore professionista ti guardavano in modo strano e ti chiedevano “ma allora volete essere come tutti gli altri?”. Non facciamo parte del sistema impiegatizio, ma attendiamo l’attimo, per poter lavorare. Oggi, invece, sembra che il lavoro sia diventato secondario. I giovani parlano di strategie, di presenzialismo, ma mai di quello che stanno facendo e perché. Non c’è più questa domanda perché il lavoro artistico è un punto esclamativo per le nuove generazioni, mentre noi sappiamo che deve essere un punto interrogativo». Qual è la visione del mondo che trasmette attraverso le sue opere? «Noi venivamo dall’informale, dalla faccia contro un muro sgretolato, venivamo dopo Hiroshima. E avevamo una specie di cecità. Eravamo affetti da cataratta e non ci eravamo accorti di com’era fatto il mondo. Il nostro era un informale dolce, non drammatico o ferito dalla guerra. Il mio mondo ha cercato di trasportarsi da un soggetto in-

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formale e organico, ma pur sempre soggettivo, a un mondo esterno. È nata così la Pop Art, il concetto che a occhi spalancati si scoprono il mondo e cose mai viste: strisce pedonali, segnali stradali, scritte al neon. Vivere il mondo all’interno del mondo stesso perché tutto è sensibile. Noi però da linguaggio basso, come poteva essere la cartellonista, l’abbiamo fatto diventare alto. Ecco la differenza tra europei e americani». Le sue opere nascono dalla mente o dal cuore? «Se non esiste l’ispirazione, non esiste nemmeno un palpito del cuore. È chiaro che poi ci sono delle cose che piacciono di più ed esistono ferite. Credo che la forma di un’azione sia sempre la forma di un pensiero. E quindi l’arte è produzione di pensieri oltre che di interrogazioni». Qual è il suo primo approccio con l’idea? «La storia di un pittore non è solo ginnastica delle mani e degli occhi, che è già una cosa molto alta. Perché per dirla come i grandi filosofi “le mani pensano”. Ma noi dicevamo anche “le mani vedono”. Però sotto ci deve essere un’idea forte. E l’idea è che se io non riesco ad


© Foto di Vittorio Valentini

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andare oltre la crosta del mondo, devo almeno criticare il mondo. E quindi se l’arte è merce, anche se merce non vuol dire mercato, noi, proprio perché ne eravamo consapevoli, volevamo poter criticare la merce ovvero la nostra stessa produzione». Oltre alla pittura esistono altri linguaggi espressivi che ha sperimentato o vorrebbe sperimentare? «La Neoavanguardia. Tutti abbiamo avuto il momento avanguardista, anche se oggi credo che non ci sia più, ma faccia tutto parte della cosiddetta “società liquida”. I miei linguaggi nascevano da un pensiero e credo che un segno non sia solo un segno, ma un pezzo di lingua così come l’immagine, che insieme a un’altra immagine crea un linguaggio. I linguaggi espressivi derivano anche dall’uso di materiali diversi. Quando usavo la paglia, il neon o gli specchi per dimostrare che il mondo si rifletteva su se stesso, lo specchio era un linguaggio espressivo e non semplice materia». Quali sono gli artisti del passato che sono stati per lei fonte di ispirazione o i suoi preferiti? «Gli artisti freddi. Non posso non citare Piero della Fran-

cesca, che non è certo freddo, ma posso dire Crivelli che mi faceva rimbalzare su Magritte. I miei amori sono stati De Chirico, Magritte appunto e poi Gorky e i miei compagni di viaggio, ai quali devo tutto. La mia generazione è l’unica, e non sto parlando di qualità, ad aver copiato se stessa. Mentre tutte le altre hanno avuto bisogno di un referente, la nostra si è mangiata la coda, nutrendosi». Come ama collocarsi nel panorama della storia dell’arte contemporanea? «Io mi voglio collocare out. Questo è certo. Siamo dei dinosauri e, probabilmente, la critica, che deve sempre far finta di scoprire un artista, non ha più bisogno di noi perché non le diamo energia. La critica rampante, quella che fa della bassa ermeneutica, non ha bisogno della mia generazione, ma di scoprire qualcosa o di inventarla. Oggi io vedo passare critici che non sanno niente di quello che è successo negli anni 60 e quando passano nel mio studio per un’intervista non guardano neanche le opere. Loro sì che sono affetti da cataratta. Almeno le guardassero con un giudizio negativo. Sarebbe già qualcosa».

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Š Francesco Gioana


SCULTURA Adolf Vallazza

>liber o l’anima del le gno Della materia lignea l’artista Adolf Vallazza utilizza le venature, le tarlature, i segni impressi dal tempo. Ma anche la consistenza materica differenziata e perfino il colore. Parallelamente all’universo tecnologico in cui viviamo, grazie ai suoi totem arcaici e arcani, lo scultore riesce ancora a rievocare emozioni antiche primordiali, in una sola parola, eterne di Federico Massari

Artista gardenese per eccellenza, Adolf Vallazza è attualmente uno dei maggiori interpreti italiani della scultura lignea. Figlio d’arte, suo padre e il padre di suo padre furono pittori e scultori, così come ora lo sono i suoi fratelli e i suoi figli. Il laboratorio dove esercita da una vita si trova, solitario, tra le alte montagne di Ortisei. Sembra un luogo fatato. Un ambiente dove i raggi del sole irradiano di luce tiepida le sue creazioni e fanno risaltare le venature del legno, restituendo così alla realtà, mediante la forza della matita, le forme di soggetti dalla forte componente allegorica. «Nel legno esistono molte possibilità di rappresentazione — spiega lo scultore — tra queste è significativa la relazione con l’immaginario favolistico fortemente simbolico, fatto di forme animali e vegetali e di strumenti musicali». Sempre secondo Vallazza, si tratta di composizioni che trovano origine nell’inconscio di ciascuno noi. «La forma diviene allora totem — sottolinea — dove totem è l’archetipo, l’antenato, l’albero, l’animale. È espressione del mondo dell’artista, quello ladino, quello della Val Gardena, quello dei miti e delle leggende, quello dove i racconti nascondono una morale universale, abilmente sottesa». Adolf Vallazza, durante il suo percorso artistico, è riuscito impulsivamente a trattenere dalla tradizione artistico artigianale valligiana, una modulazione d’arte pura, originale, del tutto nuova, dove i suoi “vecchi legni” riescono a contenere l’assonanza e l’interezza dell’anima gardenese. Quando si pensa alla scultura si è portati a immaginare opere in bronzo, marmo, terracotta. Lei, invece, è tra i pochi scultori contemporanei che scolpiscono il legno.

Adolf Vallazza, scultore ligneo nato a Ortisei

Adolf Vallazza nasce a Ortisei in Val Gardena da Ermanno e Gisella Moroder. È il terzo di otto figli. In famiglia si respira arte — il padre è scultore in ferro, la madre figlia del pittore Giuseppe Moroder Lusenberg — e questo clima porterà anche negli altri fratelli di Adolf, a intraprendere la strada artistica. Dopo aver terminato gli studi, il Liceo-Ginnasio a Merano e Bolzano, la scuola d’arte a Ortisei, frequenta assiduamente lo studio dello scultore Luigi Insam. In seguito apre lo studio ed esegue su commissione ritratti e sculture. Realizza il ciclo dedicato alla Via Crucis, ed espone in diverse collettive: a Ortisei e in tutta la regione del Trentino Alto Adige.

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Da cosa nasce questa scelta e come mai non ha mai sentito la necessità di scoprire altri linguaggi espressivi utilizzando materiali diversi? «Oltre al legno ho lavorato anche la creta e, circa vent’anni fa, ho effettuato su ordinazione anche delle sculture in bronzo. Ma la scultura lignea, che è in auge dal Settecento e che è nata da queste parti, è sempre stata dentro di me. Ho sempre amato la materia. Negli ultimi anni mi sono specializzato sul legno antichissimo, quello di cinquecento anni fa. Legno che possiede una sua storia e una sua funzione. Questo mi ha dato talmente tanta gioia che lavoro a ritmi sostenutissimi sin da quando ero un ragazzino: precisamente da quando ero l’apprendista di uno scultore molto famoso. Oltre al legno però, devo ammettere che l’esperienza con la creta è stata molto importante per la mia crescita professionale». Quanto la tradizione artigianale della lavorazione del legno della sua terra ha inciso in questa sua scelta? «I primi anni svolgevo la professione di artigiano ed ero costretto a effettuare lavori su ordinazione, soprattutto a tema religioso. Dentro di me però ero un continuo vulcano in eruzione perché capivo che potevo dare di più, e così, piano piano, mi sono staccato da quell’universo». Tradizionalmente, infatti, il legno è il materiale deputato per realizzare lavori sacri. La sua dimensione artistica è improntata in qualche modo al senso del sacro? «Sì certo. Anche perché nelle mie creazioni i critici vedono anche richiami legati alla sfera religiosa. Si tratta di emozioni che campeggiano dentro di me e che riesco a trasmettere alla gente unicamente attraverso la mia arte, il mio istinto». Tornando al totem. Cosa significa per lei? «Sono sculture arcaiche che rappresentano il mio mondo. Riferimenti a vecchi strumenti antichi. Questo è il mio mondo interiore che esprimo mediante l’arte, grazie alla simbologia della semplicità». Pensa che nella società odierna questo senso del sacro sia andato smarrito? «Direi proprio di sì. Noto solo provocazione negli artisti di oggi. Personalmente sono molto deluso dall’arte attuale». Il legno per lei è fonte di ispirazione artistica o è solo uno strumento per realizzare le sue idee e la sua visione del mondo? «Nel legno vecchio ho trovato la mia forza espressiva. Il richiamo del totem, la mia simbolo-


© Francesco Gioana

SCULTURA Adolf Vallazza

TUTTA QUESTA TECNOLOGIA RIVOLTA ALL’ARTE MI FA EFFETTO. LA GENUINITÀ, LA SINCERITÀ E LA VERITÀ, ANCHE SE ATTUALMENTE CONSIDERATI DEI VALORI PRIMITIVI, QUASI NAIF, SONO I PUNTI CARDINE CHE HANNO SEMPRE SOSTENUTO IL MONDO DEGLI ARTISTI. ANCHE ACCOMPAGNATI DA QUALCHE SBAGLIO

gia che non ha niente a che fare con quella africana e asiatica. La semplicità delle forme, l’arcaismo, la geometria. Tutte queste cose mi hanno portato al grande successo in campo nazionale e internazionale». Lei si considera più un artista o più un artigiano? «Il vero artista deve essere anche artigiano perché il mestiere, l’abilità, la velocità di esecuzione e la perfetta conoscenza della materia è molto importante. Ultimamente queste doti mi sembrano un po’ troppo trascurate dall’arte moderna. La scuola del vedere è molto importante. Personalmente mi ha aiutato tantissimo». Nei suoi lavori utilizza, magari mettendoli insieme, legni antichi, vecchi, a volte tarlati. Si tratta di una scelta estetica o poetica? «Tutte e due le cose. Sono sempre stato colpito dal colore. Questi vecchi legni emanano dei colori fantastici. Grazie a ciò, mi viene naturale accostare le sculture in modo da donare loro anche un certo qual senso di bellezza pittorica». Quali sono i suoi riferimenti artistici del passato e quali

sono gli artisti cui si sente più vicino? «Ho passato il Novecento al fianco di grandi scultori come Ettore Burna e Lino Marini. Negli anni Sessanta ho fatto l’apprendista. In seguito ho trovato il mio linguaggio personale, che mi ha regalato il successo e la mia forma espressiva». Pensa che il mondo delle arti figurative di oggi, sempre più attento alle nuove tecnologie e all’utilizzo di materiali e di forme espressive di contaminazione artistica, possa recuperare in futuro un’attenzione maggiore nei confronti di forme d’arte più tradizionali? «Oggi come oggi, con rispetto parlando, devo dire che ci sono anche troppi materiali e un impiego del computer eccessivo. Non capisco. Tutta questa tecnologia rivolta all’arte mi fa un po’effetto. La genuinità, la sincerità e la verità, anche se attualmente considerati dei valori primitivi, quasi naif, sono i punti cardine che hanno sempre sostenuto il modo degli artisti, anche magari accompagnati da qualche sbaglio. Se devo dire la verità, le cose perfette mi disturbano».

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>una continua ricer ca La solitudine dell’uomo di oggi è anche la solitudine dell’artista. Che privo di progettualità e ormai orfano di ogni illusione, intraprende un percorso dentro di sé. E nei luoghi più remoti del suo immaginario. Ed è da questi luoghi, e da questa visione esistenziale, che emergono come fantasmi strani personaggi di rara suggestione poetica e artistica. Che prendono vita nelle opere di Sergio Zanni di Marilena Spataro

Arte colta, ricca di riferimenti filosofici e di rimandi antropologici, quella di Sergio Zanni, lo scultore ferrarese che negli anni si è fatto conoscere a livello nazionale per una dimensione delle sue opere di grande suggestione poetica e originalità. Dal suo immaginario, infatti, sono scaturite e continuano a scaturire misteriose figure ieratiche che, nella loro imponenza, appaiono in una sospensione magica senza tempo e senza storia. Sono i palombari, i kamikaze, i viandanti, i camminatori delle pianure, i funamboli e altre immagini, sempre e comunque maschere. «Figure che forse inconsapevolmente mi appartengono – spiega l’artista – e alla cui base c’è una ricerca della condizione dell’esserci, in senso heiddegheriano, non ontologico ma ontico». Partito negli anni 60 dalla pittura, Zanni opta per la scultura quando sente che la forma gli appartiene più intimamente rispetto al colore. Pur avendo aderito nella giovinezza a movimenti artistici di avanguardia, specie di ambiente bolognese, da oltre quindici anni si esprime attraverso la figura. Del suo esser oggi scultore dice «è qualcosa che nasce dallo stomaco più che dalla testa». Lei è di Ferrara, una città che ancora porta una forte impronta rinascimentale sia dal punto di vista della

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struttura architettonica e urbanistica che dal punto di vista culturale, quanto ha inciso sulla sua visione artistica essere ferrarese? «Ferrara è senz’altro la mia musa inconscia. Ha inciso sotto vari aspetti nella mia personalità artistica. Mi ha influenzato sia per quanto riguarda la materia che ho scelto di lavorare, la terracotta, che è la decorazione tradizionale delle cornici e dei portali di Ferrara, ma anche in altro. La maggiore influenza è sulla poetica, essa deriva da quella atmosfera metafisica della città che io ho senz’altro assorbito e trasportato nel mio mondo artistico. Credo che se fossi nato a Milano forse non farei quello che oggi faccio a Ferrara. Possedere delle forti radici è importante per la formazione e l’identità di ciascuno di noi». Le sue sculture escono dalla mente o dal cuore? «Per dirla con Hegel, ritengo che “l’arte sia una manifestazione sensibile dell’idea”. A mio parere la manifestazione sensibile dell’idea contiene sia il cuore sia la mente, un equilibrio che è indispensabile anche per quanto riguarda la creazione artistica». E i suoi viandanti dove sono diretti? «I miei viandanti non hanno un punto di arrivo, altrimenti sarebbero dei viaggiatori. Il viandante, a diffe-

Sergio Zanni è nato a Ferrara, dove vive e lavora. In alto, Ulisse e le Sirene, 2008, teatro Hera di Pontedera. Nella pagina a fianco Auriga cieco. Nella pagina successiva la scultura Dall'Auriga di Delfi


ESPRESSIONI Sergio Zanni

renza del viaggiatore, non ha un inizio né una fine, è il viaggio in sé. L’idea di questo ciclo di sculture è nata più o meno inconsciamente, è stata un’idea importante, perché si tratta di lavori che sono un po’ dei prototipi, dei segni di un passaggio culturale. Facendo una loro lettura successiva ho capito che l’idea da cui sono nati corrisponde a quella del viandante di Nietzsche: con la morte di Dio non c’è più un riferimento, per cui siamo un po’ abbandonati a noi stessi. Per me il viaggio è anche un modo di andar via, di sfuggire da questo processo di omologazione che ci coinvolge tutti in questa società». Qual è la connotazione esi-

stenziale delle altre sue opere? «Si tratta sempre di un viaggio, di un percorso, che nel mio caso si esprime bene con la definizione del far arte di Foucault, secondo cui “l’arte è una metodologia del sé”. Quindi una ricerca di se stessi, dove la componente esistenziale è forte: da quando l’arte ha perso la sua funzione tradizionale di veicolo tra la terra e il cielo, siamo rimasti soli, a raccontarci, e purtroppo questo comporta una soggettività che sebbene, a volte, venga scambiata come un valore di libertà, da me invece

viene percepita come una forza più che altro distruttiva». Quindi secondo lei quello che oggi manca nella società, come nell’arte, è la presenza del sacro? «In parte sì, ma non come sacro in senso assoluto. Credo che l’arte assolva sempre a una funzione di trascendenza rispetto alla vita materiale, anche se non in funzione di una precisa religione. Il senso del sacro non è altro che qualcosa che appartiene alla nostra esperienza di vita e alla nostra ricerca di vita». Cosa si prova nell’assistere all’idea che prende forma attraverso la materia? «Considerando che io lavoro in genere con la terra creta, si parte proprio dal vuoto, che non è come partire dal ceppo dello scultore del legno, oppure dal blocco di marmo. Qui si parte letteralmente dal vuoto,

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ESPRESSIONI Sergio Zanni

per cui nasce una esigenza molto forte di riempirlo. Il che comporta che quando il lavoro ha preso corpo ed è finito si prova una grande soddisfazione nel vedere come esso sia nato dal vuoto. Anche se si è partiti da un’idea ben precisa c’è sempre come una sorpresa. In genere adesso lavoro su un’idea mentale e visiva, mentre prima facevo dei bozzetti. Comunque il piacere che si prova davanti all’opera finita è del genere “anche questa volta ce l’ho fatta, è apparso al mondo” è un po’ come partorire. Dopo per me c’è sempre una fase di tristezza, finito il lavoro mi chiedo: e adesso?». Molto spesso le sue opere sono di dimensioni monumentali, si tratta di una scelta estetica o è la risultante di una scelta poetica, o di altro? «Entrambe le cose. I miei lavori, anche quelli più piccoli, avendo la testa piccola non rendono l’idea di quello che sono realmente: tendono così a creare una specie di dimensione illusoria, la testa piccola nasce volutamente per creare questo effetto. Essere piccole, ma dare un’idea di grandezza è un po’ patetico, perché più le cose sono piccole e più hanno voglia di essere grandi. Una volta acquisita questa tecnica, alcune opere le ho realizzate veramente in grande, anche per sottolineare che io non credo al pensiero debole, ma a un pensiero forte. Questo pensiero forte, forse rientra anche nell’esigenza di rappresentare “cose” di grandi dimensioni. Alcuni miei lavori più grandi, infatti, si pongono come rappresentativi di “qualcosa” che sovrasta la dimensione umana e che esiste, anche quando l’opera è ben descritta. Ed è un’apparizione inconscia».

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Come scultore lei è un figurativo, una scelta che fino a qualche anno fa andava abbastanza controcorrente. Come accoglie il rinnovato interesse di una parte del mondo dell’arte nei confronti della figura? «Si tratta più che altro di un ritorno a un’arte di tecnica, ma, secondo me, lo si fa più che altro per dimostrare che si è in grado di dipingere o di scolpire, poi è anche in reazione a quanto è stato realizzato precedentemente per anni con il “poverismo” il “minimalismo” e quant’altro. In conseguenza a ciò è tornata di moda anche la figura, ma anche qui tutto è finalizzato a dimostrare quella capacità tecnica, in senso neo-accademico e non certo in funzione di un discorso sull’uomo». In una società come la nostra, basata su tecnologie di frontiera, su una sempre maggiore informatizzazione dei sistemi comunicativi e su una spettacolarizzazione mediatica delle immagini, quale è, secondo lei, il futuro delle arti figurative? «Credo che i mezzi tecnologici abbiano ormai preso il sopravvento.

Ancora esistono manifestazioni e mostre d’arte perché c’è ancora un mercato. Ma chi è in grado di capire il valore intrinseco di certi linguaggi vede che c’è ben poco di sentito. Ormai viviamo in un mondo dove tutto è immagine, comunicazione, estetismo. Non si è mai visto un bombardamento simile di immagini, di musica, di rumore. Solo che la quantità ha sempre distrutto la qualità. Molta gente è attratta da queste cose, ma sempre in maniera più superficiale. Perciò credo che l’arte oggi abbia un valore individuale: è una ricerca di sé, una celebrazione della propria vita, un percorso. Tutti, secondo me, in un modo o nell’altro sono degli artisti: la differenza è che c’è chi possiede un linguaggio e chi un altro. Per me questo è la scultura. È chiaro che l’artista abbia bisogno di un consenso, ma stando così le cose, come oggi stanno, personalmente sento che questo consenso diventa sempre meno importante, o per lo meno non determinante rispetto al mio bisogno di esprimermi, sempre e comunque».



>la nuov a fisionomia di Milano Un innovativo concetto di quartiere. Quasi una “città nella città”. È quella che stanno realizzando Luigi Zunino, con Risanamento Spa, e Lord Norman Foster, l’architetto che ha ridisegnato lo skyline di Londra, nell’area dove un tempo sorgevano la Montedison e le Acciaierie Redaelli. Con un solo principio ispiratore in mente: l’integrazione tra uomo, ambiente e innovazione. E un solo obiettivo: uno stile di vita sostenibile e pulito di Laura Pasotti

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SPAZI E CITTÀ Norman Foster

Una delle piazze che si aprono sulla promenade di Milano Santa Giulia, l’elegantissimo viale di 600 metri su cui si affacceranno ristoranti, caffè e boutique di grandi stilisti. Nelle pagine seguenti, il progetto di recupero dell’area ex Montedison e Acciaierie Redaelli

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SPAZI E CITTÀ Norman Foster

Cathedral, e ha realizzato il più grande terminal aeroportuale mai costruito al mondo, a Beijing. Sono stati numerosi i progetti di riqualificazione che hanno interessato l’area ex Montedison, ma l’unico che ha avuto l’intuizione di ripensare Montecity e Rogoredo in modo unitario e omogeneo è stato proprio Zunino. La filosofia del progetto è chiara: valorizzare un’area industriale abbandonata, creando una nuova città dentro la città, autonoma ma perfettamente integrata nel contesto urbano grazie anche alla vicinanza di Milano. La location è, in effetti, strategica e si presenta come una delle “porte della città”: comoda alla rete autostradale grazie alla presenza della Tangenziale Est e delle Autostrade A1 e A4, a pochi chilometri dall’aeroporto di Linate e dallo scalo dei voli privati dell’Ata, vicina alla stazione di porta della rete ferroviaria prima fermata milanese dei treni ad alta velocità da e per Bologna e Roma, alla fermata Rogoredo della linea 3 della metropolitana e alla Strada Statale Paullese. I progetti di Foster sono caratterizzati da uno stile fortemente high tech e si concentrano sugli aspetti tecnologici e strutturali. Una caratteristica confermata dal progetto di Milano Santa Giulia. Il principio ispiratore del complesso residenziale firmato dall’architetto britannico sarà, infatti, far convivere in modo armonico innovazione e ambiente. Un obiettivo perseguito tramite il ricorso alla domotica: tutte le funzioni vitali di ogni singolo alloggio (riscaldamento, illuminazione, NON È ANCORA ULTIMATO, MA È GIÀ STATO PARAGONATO AL audio, sistema anti-intrusione, sistemi BATTERY PARK DI NEW YORK E AI CANARY WHARF DI LONDRA. E NON frangisole, accesso controllato) saA CASO, VISTO CHE MILANO SANTA GIULIA VIENE GIÀ INDICATO COME ranno regolabili attraverso un touch IL PIÙ GRANDE PROGETTO DI RIQUALIFICAZIONE DI UN’AREA screen con lettura dell’impronta digiDISMESSA D’EUROPA tale collegato a un sistema controllaNon è ancora ultimato, ma è già stato paragonato al Battery Park di New York e ai Canary Wharf di Londra. E non a caso, visto che Milano Santa Giulia viene già indicato come il più grande progetto di riqualificazione di un’area dismessa d’Europa. I numeri lo confermano. Quando vedrà la luce, Milano Santa Giulia ospiterà circa 60mila abitanti su una superficie di 1,2 milioni di metri quadrati di cui 316mila dedicati a parco urbano, 270mila a residenziale, 100mila a commerciale, senza dimenticare il terziario (162mila mq), il ricettivo (80mila mq), le residenze temporanee o d’affitto (52mila mq), i parcheggi, il centro civico, le scuole e la chiesa. Una vera e propria “città nella città” al cui centro ci sono l’uomo e il suo equilibrio con l’ambiente. Insomma, un luogo in cui la qualità della vita viene prima di tutto. Ma chi c’è dietro Milano Santa Giulia? I nomi da tenere a mente sono due: Luigi Zunino, fondatore dell’omonimo Gruppo, che ha avuto l’idea di “riempire l’immenso vuoto urbano” lasciato dalla chiusura dello stabilimento Montedison e delle Acciaierie Redaelli nella zona sud-est di Milano e Lord Norman Foster, l’architetto che ha firmato il progetto per la ristrutturazione del Reichstag di Berlino, ha disegnato il Millennium Bridge di Londra che congiunge Bankside, dove si trovano il Globe e la Tate Modern, con la City, arrivando proprio davanti alla Saint Paul

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© Narinder Sagoo

Il molo di 300 metri che, nella proposta di Foster & Partners, collegherà il centro storico di Rimini direttamente con il lungomare

>passeggiando sul lungomare di Fellini Julien de Smedt, Jean Nouvel e Norman Foster reinterpretano il rapporto tra Rimini e la sua passeggiata in tre proposte di riqualificazione del lungomare. Un molo di 300 metri, un hotel torre (che ospiterà la Fondazione Fellini) e impianti fotovoltaici per illuminare i sette chilometri di costa

Celebrare la tradizione dei viali alberati che da sempre la caratterizzano. E instaurare un legame forte tra la città e il suo lungomare. Per dar vita a un nuovo polo turistico attivo tutto l’anno e non più solamente nei mesi estivi. È questo l’obiettivo della proposta che Foster & Partners ha presentato per la riqualificazione del lungomare di Rimini. Oltre a quella di Norman Foster (che ha presentato il progetto insieme a Gecos Generale Costruzioni Spa), sono due le proposte pervenute al Comune di Rimini, entrambe per il bando relativo al tratto piazzale Boscovich-piazzale Kennedy: una presentata dall’architetto belga Julien de Smedt con Studio Altieri, che mira a creare “un nuovo paesaggio marino” contraddistinto da un movimento curvilineo che richiama le immagini delle onde e delle dune di sabbia, e una di Jean Nouvel con Co-

opsette, per il quale il lungomare deve essere un omaggio a Rimini e alla sua storia. «Ho voluto considerare il progetto come una sequenza urbana — ha spiegato De Smedt — una sequenza lineare di fotogrammi raccordati in una passeggiata di attività interne ed esterne. Il segno segue il leggendario lungomare di Copacabana, ma lo reinterpreta tridimensionalmente con un motivo potente che evoca le increspature della sabbia e le onde del mare e ha la capacità di permettere connessioni longitudinali e trasversali». L’obiettivo del progetto è, infatti, quello di facilitare l’insinuarsi dei passanti a passeggio per il lungomare e integrare le direttrici stradali che provengono dalla città. Anche per Nouvel l’architettura è un “sistema a dune” nell’intento di riprodurre il paesaggio tipico della costa adriatica e, come spiega lo stesso architetto, «di mediare la

transizione dalla città verso il mare attraverso una frantumazione del costruito». Il progetto di Foster interessa, invece, il tratto piazzale Kennedy-piazza Marvelli e prevede un molo di 300 metri che collega il centro storico di Rimini direttamente al lungomare e un hotel torre, situato all’inizio del molo proprio al centro di piazzale Kennedy, in stile arabeggiante, che ospiterà al piano interrato la Fondazione Fellini. Il molo, così come i viali alberati, costituisce un richiamo alla tradizione riminese. In questo caso si tratta di una sorta di prolungamento del parco Cervi con un pontile che estende la passeggiata ben oltre la spiaggia. È stata prevista, inoltre, la creazione di sistemi per la raccolta di acqua piovana e l’installazione di impianti fotovoltaici che consentiranno l’illuminazione degli oltre sette chilometri di lungomare.

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SPAZI E CITTÀ Norman Foster

bile anche a distanza di migliaia di chi- I PROGETTI DI FOSTER SONO CARATTERIZZATI DA UNO STILE lometri tramite Internet o cellulari FORTEMENTE HIGH TECH E SI CONCENTRANO SUGLI ASPETTI Wap. Il complesso residenziale realiz- TECNOLOGICI E STRUTTURALI. CARATTERISTICA CONFERMATA DAL zato da Foster sarà composto da 600 PROGETTO DI MILANO SANTA GIULIA. IL PRINCIPIO ISPIRATORE DEL appartamenti suddivisi in 8 edifici diCOMPLESSO RESIDENZIALE SARÀ, INFATTI, LA DOMOTICA sposti a mezzaluna, dal monolocale al superattico, che su carta si presentano già come piccoli (o grandi, visto che alcuni raggiungono i 350 metri quadrati di superficie) capolavori di interior design in cui l’architetto ha curato ogni minimo particolare: dalle camere padronali con bagno privato e cabina armadio alle camere per bambini con armadi a muro e bagno collegato, dalla scelta di materiali caldi e preziosi come il legno per i pavimenti e la copertura delle terrazze ai colori freddi ed essenziali per le pareti e gli arredi. Senza contare che Foster ha disegnato personalmente anche gli accessori, i tavoli, le maniglie delle porte, e i sanitari. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un progetto ambizioso e con tempi di realizzazione molto lunghi. La previsione per l’ultimazione dei lavori è il 2012, anche se per alcune aree si parla del 2010, ma già nel marzo del 2007 è stato e attrezzate, le automobili dovranno seguire percorsi decompiuto un passo importante con la sottoscrizione, da dicati, i pedoni potranno usufruire di ampie aree a loro riparte di Risanamento Spa, la società responsabile della servate, gli spazi pubblici daranno un importantissimo realizzazione del progetto, di un contratto di finanziaspazio all’arte a partire dall’ingresso della “città” che acmento ipotecario per 726 milioni di euro per il comcoglierà una delle sfere in bronzo di Arnaldo Pomodoro plesso residenziale di prestigio di Foster (la cui all’area dell’ex centrale elettrica in cui hanno trovato spacostruzione è già iniziata). zio i murales di Sol Lewitt. Non si tratterà però solamente di un centro residenziale Milano Santa Giulia vuole essere anche un esempio per per ricchi, anche se sulla promenade, il viale di 600 metri i futuri piani urbanistici che non potranno prescindere dal realizzare nuovi standard di vita che tengano conto che attraversa gli otto edifici a mezzaluna sulla quale si afdelle esigenze di lavoro, mobilità, tempo libero, natura, faccia (non a caso) la piazza denominata Luxury Square, amicizia, città e famiglia. Tutte unite in un perfetto equisi sono già prenotati alcuni tra i marchi più prestigiosi dellibrio qualitativo. Sostenibilità, rispetto ambientale e l’alta moda italiana, tra cui Dolce&Gabbana, convinti che qualità della vita sono valori imprescindibili nella pro“Milano debba darsi nuove aree vitali dove far confluire gettazione di un’abitazione come di una città e non è un attività commerciali, ma anche cultura, divertimento e caso che il tema della prossima Esposizione Universale sport”, e la Rinascente aprirà un nuovo department store che si terrà a Shanghai nel 2010 sia proprio better city, di circa 6.400 metri quadrati con un’offerta merceologica che comprende i più prestigiosi brand del panorama itabetter life. Perché le città del mondo hanno bisogno di liano e internazionale. Milano Santa Giulia vuole, infatti, un nuovo approccio all’habitat umano e di uno sviluppo essere un’opportunità per molti, una città in cui i servizi sostenibile tra differenti comunità. Milano Santa Giulia sono pensati con attenzione, le aree verdi saranno vaste va proprio in questa direzione.

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© Riccardo Chioni / FOTOGRAMMA

L’ingresso del New York Times Building a Times Square, tra la quarantesima e la quarantunesima strada di Manhattan. A destra, l’architetto genovese Renzo Piano

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Foto Stefano Goldberg / Pubblifoto

>le g ger e la città Leggero, trasparente, dinamico, funzionale, comunicativo. Una struttura in continuo dialogo con la città. Come il giornale che in esso prende vita quotidianamente. Benvenuti nella sede del New York Times firmata da Renzo Piano di Andrea Pietrobelli

Un edificio in costante comunicazione con la città. Capace di interpretarla e rifletterla. Di cambiare, in continua osmosi con essa. Raccontandola. È stata questa l’idea da cui è partito Renzo Piano per dare vita al progetto della nuova sede del New York Times. «Il grattacielo e New York – ha spiegato l’architetto genovese – si leggono a vicenda e dialogano. Mi è sembrata una buona metafora del concetto di redazione e di giornale, una struttura che si alimenta della città». In

questo lavoro Piano ha giocato con i concetti di trasparenza e di leggerezza. Una scelta precisa che indica la direzione che sta assumendo la poetica dell’architetto genovese. Perché le metropoli stanno divorando sempre maggior territorio e i grattacieli saranno sempre più numerosi. Quindi i nuovi skyscraper dovranno diventare strutture sottili, slanciate, aperte, centro di vitalità e attività per la comunità, attente all’ambiente e ai problemi climatici ed energetici. Concetti che Piano

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Un modello della sede del NY Times. Con i suoi 228 metri di altezza per 52 piani è oggi il terzo edificio più alto della città

IL GRATTACIELO E NEW YORK SI LEGGONO A VICENDA E DIALOGANO. MI È SEMBRATA UNA BUONA METAFORA DEL CONCETTO DI REDAZIONE E DI GIORNALE, UNA STRUTTURA CHE SI ALIMENTA DELLA CITTÀ

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è riuscito a sintetizzare in questo lavoro. Perché proprio la leggerezza è la caratteristica più evidente del New York Times Building. Al contrario di diverse torri che ospitano uffici e che mirano a essere simbolo di potere e denaro, o a destare attenzione, l’architettura della torre del famoso giornale newyorkese, nella sua sobrietà, racconta una storia di apertura e di accuratezza di particolari costruttivi. Un risultato ottenuto grazie a un utilizzo diverso di materiali come vetro e acciaio, oltre che al ruolo importante che assume la ceramica. La struttura è in acciaio con assemblaggio a secco di solai e partizioni. I quattro angoli dell’edificio sono svuotati, dando così alla pianta una forma cruciforme. Il rivestimento esterno è un unico curtain-wall in vetro che dà trasparenza all’edificio. A 61 cm dalla facciata vetrata è sistemata una “doppia pelle” formata da tubicini in ceramica. Si tratta di barre orizzontali che fungono da elementi frangisole. Ne risulta una sorta di barriera che riflette i mutevoli colori del paesaggio di una città che lo stesso autore del progetto ama definire «fotosensibile». Gli elementi in ceramica creano infatti un involucro rifrangente che protegge le vetrate interne dall’incidenza diretta dei raggi. L’impiego di vetro trasparente, poi, combinato con modelli di ceramica, permette al palazzo di adattarsi ai colori della Grande Mela. Una città che, per la sua particolare posizione geografica e per la sua conformazione urbanistica, è da sempre una metropoli atmosferica, capace, come un camaleonte, di fare suoi i colori dell’aria che la circonda. Sempre nel segno della leggerezza, l’intera costruzione levita sul piano strada. Una scelta in controtendenza rispetto alla maggior parte dei grattacieli di New York,


© Riccardo Chioni / FOTOGRAMMA

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che solitamente scendono in maniera aggressiva fino al suolo. L'ingresso dell'edificio, anch’esso coerente con lo spirito del progetto, è ampio e trasparente. Nel piano terra trovano spazio luoghi pubblici, un atrio, un giardino con sei betulle alte 16 metri, il Times Center e le due strade, la 40ma e 41ma, risultano collegate. La mobilità tra un piano e l’altro è assicurata da 28 ascensori e dalle scale localizzate nel perimetro esterno dell’edificio e visibili dall’esterno. Vero cuore del New York Times Building è la newsroom, distribuita sui primi tre piani collegati da scale e aperti uno sull’altro intorno a un patio centrale che si allarga come il tronco di una piramide rovesciata. È questa la “fucina” dove lo storico quotidiano prende vita ogni giorno. Per quanto riguarda l’organizzazione degli uffici il progetto della torre è ispirato principalmente dalle condizioni di lavoro: trasparenza, flessibilità, facilità di movimento tra i vari livelli, cercando di privilegiare il senso della comunità e ottemperando, allo stesso

tempo, alle esigenze della privacy. L’idea è stata quella di costruire una struttura in acciaio puntiforme, per garantire flessibilità degli spazi, e di una facciata modulare schermata in modo differenziato, a seconda dell’altezza e della destinazione d’uso. Nel complesso, i 2.500 impiegati del New York Times occupano i piani compresi tra il secondo e il ventottesimo, mentre gli altri uffici sono collocati sul mercato degli affitti. L’edificio è costruito con tutti i crismi della progettazione sostenibile e del risparmio energetico: esempio di questo è l’utilizzo di centraline geotermiche per la produzione di elettricità. Riscaldamento e raffrescamento a pavimento evitano sprechi dovuti al forzare l'aria dal soffitto mentre un impianto suppletivo di cogenerazione a gas produce quasi il 40% dell'energia necessaria al complesso mentre una centrale geotermica sfrutta il calore della terra per fornire acqua calda. Si tratta di una delle espressioni più compiute della bioarchitettura applicata a un grattacielo.

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>una Punta di rinascita Un lembo di terraferma. Crocevia di antichi commerci su Venezia. Il monumentale magazzino della Punta della Dogana riapre i battenti sotto spoglie intrise di nuovo. Il moderno restauro di Tadao Ando ne mantiene l’originario impianto, ne riqualifica i dettagli con sobria eccellenza. E, ancora una volta, la François Pinault Foundation mostrerà al mondo eccellenti esempi di contemporaneità artistica

© Graziano Arici

di Adriana Zuccaro

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RIQUALIFICAZIONE Punta della Dogana

© Foto di Graziano Arici

A sinistra, l’edificio di Punta della Dogana a Venezia. A destra, Tadao Ando con il plastico del progetto di ristrutturazione

È nella ricerca dell’equilibrio tra memoria, contemporaneità e profezia che Venezia pone in essere una scommessa col futuro. Forte di un’eredità storica coniugata inevitabilmente alla Laguna, mantiene e ripristina ogni singola traccia dell’antica magnificenza. La rivalsa di vestigia patrimoniali si rinnova nel restauro del magazzino della “Punta di Sale”, oggi Punta della Dogana da Mar, il lembo occidentale dell’isola di Dorsoduro che galleggia di fronte a Piazza San Marco fin dal 1414, quando veniva utilizzata dai mercanti della Serenissima per scaricare e daziare le merci in arrivo via mare. Durante

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© Foto di Graziano Arici

il XX secolo lo Stato ha concesso l’uso dell’antico fondaco alle responsabilità comunali con lo scopo di realizzare un’area espositiva in linea con la considerevole tradizione museale veneziana. A seguito di una lunga selezione, che ha visto coinvolte le più importanti istituzioni cittadine, l’accordo trentennale è stato siglato tra il comune e lo staff del magnate francese François Pinault. Quasi a inaugurare un inedito exploit d’arte e cultura, il prossimo 6 giugno, lo storico edificio del XV secolo verrà infatti aperto ufficialmente al pubblico come Centro d’arte contemporanea Punta della Dogana-François Pinault Foundation. «Proprio come la bellezza, anche la coerenza non si decreta ma si costruisce – ha affermato Pinault, uno dei maggiori collezionisti al mondo –. A Venezia vorrei più che mai vedere all’opera la continuità di una politica d’eccellenza al servizio della creazione artistica». Il progetto di riqualificazione dell’antico crocevia del commercio marittimo è stato affidato a Tadao Ando, uno dei nomi più prestigiosi dell’architettura mondiale, già presente in città per gli interventi di restyling apportati a Palazzo Grassi. Un altalenante rimando alla memoria storica e alla necessità di percorsi innovativi rende più ardita la realizzazione di un progetto che nella cucitura artistica

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Sopra, presentazione del progetto con il sindaco Cacciari, François Pinault, Tadao Ando e Monique Veaute. Tre bozzetti del progetto realizzati dall’architetto


RIQUALIFICAZIONE

tra passato e avvenire imprime il proprio leitmotiv. L’edificio di Punta della Dogana è strutturalmente semplice e razionale. Il volume è perfettamente armonizzato alla forma triangolare della punta dell’isola che lo ospita, mentre gli interni sono ripartiti in lunghi rettangoli e pareti in serie parallele. Preso atto della delicata realtà urbana della città lagunare, nel tentativo di testimoniare la capacità di accogliere interventi di grande modernità, la ristrutturazione degli ambienti qui si SU PROGETTO DI TADAO ANDO, IL RIUTILIZZO DELLA PUNTA DELLA consegue attraverso l’annullaDOGANA COME NUOVO POLO INTERNAZIONALE D’ARTE mento delle partizioni aggiunte CONTEMPORANEA, È PERFETTO ESEMPIO DI COME SI STIA CONCRETANDO durante i precedenti restauri e il IL DISEGNO DI UNA VENEZIA “POSSIBILE”, CAPACE DI COMBINARE IN SÉ diligente ripristino delle forme originali della primissima costruMEMORIA E INNOVAZIONE, EREDITÀ STORICA E MODERNITÀ zione. Sobrio e rigoroso, semplice ed essenziale, lo stile di Tadao Ando tuttavia propone di volta in volta indici d’innovazione che riqualificano il preesistente e rivoluzionano gli spazi in esplosioni di “nuovo”, di “mai visto prima”. Esternamente lo stabile manterrà l’originaria struttura, fatte salve le aperture che saranno completamente sostituite. Il design delle nuove porte e finestre, nonostante la modernità degli elementi in vetro e acciaio, di fatto attinge al tradizionale artigianato locale. Una coppia di obelischi di calcestruzzo alti undici metri si erige in prossimità dell’ingresso, ottenuto con la conversione di un’apertura esistente su Campo della Salute. Sul tetto, liberato dalle tegole, l’installazione di nuovi impianti tecnologici del museo verrà mascherata dalla copertura attuale in pieno rispetto delle normative volumetriche stanziate dalle sovrintendenze comunali. A firmare l’atteso minimalismo dell’architetto giapponese, e il simbolo materico del XX secolo, sono le pareti in cemento armato realizzate fuori opera e recentemente introdotte all’interno del monumentale stabile tra le pareti in muratura del complesso seicentesco del Benoni, lasciate intonse. Questo cubo di Portland cement, con muri di circa quindici centimetri di spessore, costituisce la nuova ossatura dell’area espositiva del centro d’arte contemporanea Punta della Dogana. Oltre centoquaranta delle duemilacinquecento opere d’arte che compongono a oggi la collezione Pinault sono già state individuate per essere collocate nella prua di questo vascello di pietra di oltre quattromila metri quadrati. Un innesto di spiritualità e concretezza, eco di un’eredità da attualizzare e presagi di un futuro interrogativo, animerà l’atmosfera dell’entourage artistico veneziano, intriso ancora una volta di stupefacenti raffinatezze. La Punta della Dogana è il nuovo polo internazionale d’arte contemporanea. Tadao Ando ha magistralmente definito un’operazione moderna di restauro in cui l’obbligato conservatorismo ha finito per creare un trampolino di lancio verso un futuro di alto spessore culturale. D’ora in avanti saranno le opere d’arte a rappresentare, indiscusse, l’incarnazione dell’eterna bellezza nella quale Venezia non può far altro che specchiarsi, fiera.

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NUOVE DESTINAZIONI

>i ntr ecci di e poc he Uno scenario suggestivo, tra il vintage e l’avveniristico. A due passi da Testaccio, nel cuore pulsante della Roma piÚ autentica, antichi capolavori hanno trovato una dimora inusuale e affascinante. Tra arte classica e archeologia industriale, alla scoperta del Museo della Centrale Montemartini di Daniela Panosetti

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Busti candidi che si stagliano su imponenti apparecchiature ferrose, dal vago sapore retrò. Un mosaico policromo ricostruito al centro di una sala macchine dall’altissima volta. Fregi di epoca imperiale circondati da turbine a vapore e termoalternatori, che sembrano piombare davanti agli occhi del visitatore direttamente da una cartolina futurista in toni seppia. Il museo della Centrale Montemartini, a Roma, è senza dubbio unico nel suo genere. Un esempio piuttosto raro di riuscito matrimonio tra archeologia industriale e archeologia tout court. Una centrale elettrica dei primi del Novecento, abbandonata negli anni 60, restaurata alla fine degli anni 80, e nel 1997 scelta come provvisoria dimora di alcune collezioni ospitate in Campidoglio, allora in ristrutturazione. Un incontro nato casualmente, con la mostra “Le macchine e gli Dei”, ma così felice e inaspettatamente riuscito che quella che doveva essere una sistemazione temporanea è diventata, dal 2005, uno spazio espositivo permanente. Del tutto nuovo, e assolutamente peculiare. Riqualificare e reinventare Incastrata tra le rive del Tevere e i gloriosi Magazzini Generali, simbolo del quartiere Testaccio e della Roma più sanguigna e popolare, la Centrale Montemartini fu, nel 1912, il primo impianto pubblico di produzione elettrica della capitale. Basterebbe questo a farne un monumento della storia urbana recente. E tuttavia, una volta inattivo, ha vissuto anni di decadenza, finché l’Acea ha deciso di destinarlo a uso culturale, dando il via alla riqualificazione, che ha permesso di conservare il corpo centrale e diversi imponenti macchinari, tra cui i tre enormi motori diesel e una turbina a vapore del 1917. Tecnologie agli albori, seducenti nella loro maestosa fisicità, che nell’epoca delle strutture aeree e immateriali

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NUOVE DESTINAZIONI

In alto, la Centrale Montemartini e la zona industriale del quartiere Ostiense vista dal Tevere, 1940 circa; sotto, ritratti provenienti dalla domus di Villa Rivaldi davanti a uno dei motori della Sala Macchine, A sinistra, dall’alto, statue di Igea e Hestia davanti a un quadro di manovra e statua di Potos, nella Sala Caldaie. Nelle pagine precedenti, visione panoramica della Sala Caldaie

provocano un effetto inevitabilmente straniante, ma proprio per questo ricco di fascino. È in questo scenario che hanno trovato posto le più recenti acquisizioni dei Musei Capitolini. Un intervento delicato, che ha integrato le strutture espositive con gli impianti già in loco, conservando intatta l’architettura originaria, grazie anche all’uso di materiali compatibili a quelli preesistenti. Cortocircuito tra mondi Del resto, non c’è dubbio, è proprio da questo cortocircuito che emana la suggestione del luogo. Dall’accostamento inedito di due mondi, due epoche. Tanto lontane nel tempo, quanto vicine nell’effetto estetico, nell’intreccio riuscito delle rispettive plasticità: quella ora sinuosa, ora austera delle curve marmoree e quella solida e possente delle anse ferrose degli impianti. Nella Sala Colonne al piano terra, i grandi pilastri che sorreggevano le caldaie sovrastanti sono ora affiancati da corredi funerari, arredi domestici, e ritratti repubblicani dove schiavi e liberti si ritrovano accanto a figure borghesi e personaggi come Cesare, Augusto e Agrippa. Nella Sala Macchine, al piano di sopra, busti di illustri romani, imperatori e imperatrici sembrano far la guardia a uno dei due enormi motori diesel, risalenti al 1933, quasi a proteggerne l’imponenza, accanto ai fregi del tempio di Apollo Sosiano e un colossale acrolito recuperato a

Largo Argentina. Un percorso cronologico insomma, che termina nell’attigua Sala Caldaie, dove l’intreccio di tubi, mattoni e passerelle metalliche dell’unico impianto sopravvissuto fa da sfondo a cimeli tardoimperiali, rinvenuti per la maggior parte da complessi residenziali e celebri parchi, come gli Horti Sallustiani. Ultimo, originale matrimonio celebrato in questo luogo unico. Restituito alla cittadinanza, dopo anni, con un nuovo cuore, una nuova anima, un nuovo valore.

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