Globofobia e globofilia interpretazioni a confronto 4 maggio milano

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Globofobia e globofilia: interpretazioni a confronto 4 maggio 2017, Fondazione Bassetti, Milano, Laboratorio

Introduzione: la globalizzazione come problema Il concetto di globalizzazione rimane uno dei più complessi (e dibattuti) tanto in ambito scientifico, quanto nei contesti generalisti. La stessa origine etimologica del termine non è del tutto chiara, ed è molto difficile identificare precisamente il momento della “nascita” di tale concetto, men che meno individuarne un inventore. Tale vaghezza manifesta un’altra indeterminatezza, quella riferita alla storia della globalizzazione, sia da un punto di vista concettuale sia da un punto di vista effettivo, storico in senso proprio. A quello che ha già detto la Professoressa Fazzi nella prima lezione introduttiva, aggiungo solo che secondo alcuni studiosi dal punto di vista teorico uno dei primi utilizzi del termine “globale” va rintracciato già negli anni 20 del ‘900, ma teorie “globali” – cioè che si relazionino al “globale” pur magari non utilizzando il concetto nel modo in cui lo intendiamo noi – siano già quelle di Kant, Hegel, Marx e Simmel (a questo proposito vi invito a leggere un saggio molto interessante di Fred Dallmayr pubblicato nell’ultimo numero della rivista Glocalism, che dovrebbe uscire a breve, dedicato a rintracciare la relazione tra globale e locale nel pensiero di Heidegger). Ciononostante, la piena elaborazione dell’idea di “globalizzazione” come noi oggi la intendiamo va posticipata almeno agli anni ’50 del ‘900, e poi dagli anni ’80 e ’90 quando il concetto di globalizzazione ha fatto la sua comparsa (o per meglio dire irruzione) nel dibattito mondiale e ha identificato quel processo di continua interconnessione tra le diverse aree del mondo che anche noi oggi osserviamo e viviamo, soprattutto. Non si tratta, dunque, di una nozione semplice, lineare. Al contrario fin da subito si è presentato come un concetto talmente dibattuto che secondo i già citati Hirst e Thompson si tratterebbe di un concetto prescrittivo, più e prima che descrittivo: cioè più che descrivere una realtà effettiva, il concetto di globalizzazione – secondo questi teorici – tenterebbe di imporre, o imporrebbe effettivamente in diversi casi, questa stessa realtà. Come abbiamo


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già osservato a partire dalla prima lezione, persino da un punto di vista storiografico è complesso definire i punti cardinali della globalizzazione. Insomma, ci troviamo di fronte a posizioni molto diversificate e a un dibattito estremamente ampio. Se seguiamo uno dei maggiori teorici della globalizzazione (e soprattutto della glocalizzazione, di cui parleremo dopo), ovvero Roland Robertson, possiamo definire teoricamente e storicamente la globalizzazione come un processo di interconnessione tra le varie aree del mondo che si è evoluto, con alcune interruzioni, nel corso dei secoli, anche se nel corso del ventesimo secolo, e in particolare negli ultimi 30-40 anni del ‘900 ha subito una decisa accelerazione. Le tendenze principali di un processo di questo tipo seguono due direzioni fondamentali, ovvero l’aumento della connettività globale e l’aumento della coscienza globale, che Robertson definisce come “un sentimento condiviso di comprensione del mondo come un tutto”. La globalizzazione come considerata da Robertson si compone, si struttura su quattro elementi principali della vita umana, ovvero l’elemento culturale, quello politico, quello sociale e quello economico. Questa complessità e stratificazione indica che di per sé la globalizzazione non è né buona né cattiva, o meglio, né sempre e comunque buona, né sempre e comunque cattiva. Nonostante questo, e la complessità della questione che ci troviamo di fronte, nell’affrontare la problematica relativa alla globalizzazione (cause e conseguenze) e relativa a cosa significhi “globale” e quale sia il suo rapporto con il “locale”, molto spesso nel corso degli anni e all’interno di questo dibattito si sono sviluppati due approcci tra loro opposti, ma ugualmente problematici, che hanno oscurato la complessità della globalizzazione riducendola a qualcosa da “amare” o “odiare”, da “promuovere” o “combattere”: da una parte la globofilia, dall’altra la globofobia. Esaminare e analizzare più da vicino questi due approcci teorici e riconoscerne i limiti permette di evitare l’errore banale del “doversi schierare” nei confronti della globalizzazione, e permette inoltre di comprendere da una parte che il processo di globalizzazione è in realtà molto più complesso e stratificato di quanto queste teorie ci vorrebbero far credere, dall’altra che in questo processo la relazione tra globale e locale non è mai univoca, né tantomeno è possibile appiattirla su relazioni unidirezionali. Quello che farò sarà quindi proporvi due definizioni di “globofilia” e “globofobia”, che verranno poi verificate in alcuni esempi di teorie che riflettono questi


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due approcci. La prima parte sarà dedicata alla globofilia, la seconda alla globofobia, e infine nella terza e ultima parte proporrò una “teoria critica della globalizzazione” (approfondiremo poi questa definizione) che, a mio parere, ma non solo mio, è in grado di evitare le semplificazioni rappresentate dai due estremi – globofilia e globofobia – e quindi di rappresentare un processo – la globalizzazione nel nostro caso – per quello che è, ovvero un insieme eterogeneo in cui entrano in gioco elementi tra loro molto differenti. (Io invito fin da subito nel corso di questa esposizione a tenere in mente un termine chiave: ovvero “complessità”).

Globofilia e globofobia: definizioni basiche Partiamo da due definizioni, diciamo, basiche. La globofilia (2) riguarda coloro che affermano la necessità e la positività del “globale” – globalismo – in tutti i suoi aspetti (economico, politico, culturale). In generale, i teorici “affetti” da globofilia (3) ritengono che negli ultimi decenni il mondo abbia conosciuto: 1) sul piano politico un aumento di democrazia; 2) sul piano economico, maggiore ricchezza ed equità; 3) sul piano culturale, una ricchissima diversificazione e quindi una crescita; 4) sul piano sociale la crescita di una società civile “globale”. Dall’altra parte siedono i teorici “affetti” da globofobia, ovvero coloro che – indovinate un po’ – affermano che nel mondo contemporaneo 1) sia diminuito il livello di democrazia (piano politico), 2) siano aumentate le diseguaglianze: la ricchezza sia polarizzata all’interno degli Stati con l’impoverimento della classe media, e all’esterno con il divario tra paesi (o aree) del mondo ricco, e zone povere (piano economico), 3) che sul piano culturale si sia verificata una omologazione – secondo alcuni a traino occidentalecapitalista- e che 4) da un punto di vista sociale non solo non esista una “società civile globale”, ma addirittura si sia verificato un processo di atomizzazione che ha condotto allo smantellamento di quei costrutti sociali (famiglia, comunità, popolo) che stavano invece proprio alla base della società civile tradizionalmente intesa e che garantivano unità e forza ad un paese. In entrambi i casi il fuoco della definizione risiede nella globalizzazione: cioè, è la globalizzazione che si deve prendere il merito (globofiliaci) o la colpa (globofobici) dello stato di cose che viene descritto. Detto in altri termini, per i globofiliaci il mondo è come lo


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descrivono grazie alla globalizzazione, oppure – dall’altra parte – per i globofobici il mondo è come lo descrivono a causa della globalizzazione. Come vedremo, globofilia e globofobia sono due categorie che al loro interno riescono a tenere insieme posizioni tra loro molto diverse per presupposti e obiettivi, e teorici (o esponenti) che coprono uno spettro politico che va dal conservatorismo al progressismo, dall’anarco-capitalismo all’anti-capitalismo. Si tratta, insomma, di due categorie che in qualche modo fanno saltare i nostri schemi interpretativi classici, generando – soprattutto nel caso della globofobia – delle connessioni veramente…particolari. Date queste due definizioni generali, vediamo nello specifico alcuni casi di globofilia e globofobia.

Globofilia Abbiamo definito la “globofilia” come prospettiva per cui la globalizzazione sarebbe portatrice di consistenti effetti benefici nel mondo, maggiore democrazia, ricchezza, equità, diversificazione culturale e la crescita di una società civile globale. Richard Kahn, nella definizione (che ho proiettato prima) definisce la “globofilia” addirittura come una prospettiva ideologica. Lui, ma anche molti altri, e io penso si possa concordare su questo, legano la globofilia al cosiddetto “washington consensus” (4) e in generale all’appoggio a politiche neoliberali. [Immagino sappiate tutti e tutte cosa si intenda con “washington consensus” – ci si riferisce a un vero e proprio programma politico-economico (ideato nel 1989 da un economista britannico, John Williamson) che i cosiddetti “paesi in via di sviluppo” avrebbero dovuto adottare per migliorare le loro performance. Questo programma, composto da dieci punti, venne poi promosso – e imposto in molti casi – da FMI, WB e dipartimento del tesoro degli Stati Uniti – tutte organizzazioni con sede a Washington, da cui “washington consensus”. Si tratta di un programma di politica economica che poggia sulle teorie neoliberali (Von Hayek, Milton Friedman e la scuola di Chicago), quindi (semplificando) sul “mantra” più mercato e meno Stato, tendente quasi allo zero lo Stato, dove per mercato si intende una relazione di scambio tra individui. Questo si traduce in riduzione fino al minimo possibile della spesa pubblica, nella spinta alla privatizzazioni in tutti i settori, alla


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deregolamentazione e via dicendo]. Ad ogni modo, nella stragrande maggioranza dei casi teorici globofiliaci sono sostenitori del liberalismo o neoliberalismo. Thomas Friedman (5) è un giornalista nordamericano, vincitore di tre premi Pulitzer. Si occupa di relazioni internazionali, politiche e commerciali, di medio oriente, questioni ambientali e di globalizzazione, a cui ha dedicato due saggi diventati molto noti e molto commentati. Il primo si intitola The Lexus and the Olive Tree: Understanding Globalization (1999; in italiano è stato tradotto da Mondadori nel 2000 con il titolo Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l’ulivo: che cos’è la globalizzazione e quanto conta la tradizione), il secondo si intitola invece The World is Flat: A Brief History of the Twenty-first Century (2005, tradotto nel 2007 sempre da Mondadori con il titolo Il mondo è piatto – Breve storia del ventunesimo secolo). In The Lexus and the Olive Tree Friedman espone una sua teoria della globalizzazione (che poi integrerà nel secondo saggio). Qui Friedman parla essenzialmente di due globalizzazioni, una prima che va dal 1800 al 1920, caratterizzata dalla riduzione della dimensione del mondo (nella concezione generale) da grande a medio, e una seconda che va grossomodo dagli anni 80 al 2000 caratterizzata dalla riduzione del mondo da medio a piccolo (il saggio è del 1999). Questa seconda globalizzazione è molto diversa dalla prima sia per quantità, sia per qualità, soprattutto da un punto di vista tecnologico e da un punto di vista politico. La prima parte del libro, “Seeing the System”, è quella che ci interessa maggiormente, perché qui Friedman espone la sua raffigurazione. Secondo Friedman la globalizzazione è

1) un nuovo sistema di relazioni internazionali che ha soppiantato il sistema della guerra fredda (6), ovvero è caratterizzata da una inesorabile integrazione di mercati, stati e tecnologie ad un livello mai sperimentato finora. Si tratta, in sostanza, dell’estensione globale del libero mercato capitalistico. La parola chiave di questo nuovo sistema di relazioni è web, rete (tanto a livello concettuale, quanto effettivo, la rete internet);

2) questo nuovo sistema si fonda su tre tipi di equilibri: a) equilibrio tra Stati, dove gli Stati Uniti emergono come superpotenza; b) l’equilibrio tra Stato e mercati, con l’emergere


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di super-mercati, ovvero di un mercato globale realmente transnazionale e in grado di esercitare influenza sia all’interno degli Stati, sia nei loro rapporti internazionali; c) l’equilibrio tra Stati e individui, dove gli individui acquisiscono maggiori poteri. In sintesi, si definisce per l’emergere di una super-potenza (USA), di super-mercati, e super-individui, e queste tre figure interagiscono tra loro.

3) si tratta di un sistema globale che interagisce però con aspetti tradizionali il cui principale è quello dell’identità (soprattutto socio-politica, rappresentata bene dall’idea di nazione). Da qui il titolo del saggio, dove la Lexus rappresenta il nuovo sistema e la sua accelerazione globale, la globalizzazione, e l’ulivo il mondo tradizionale, dell’identità nazionale. Secondo Friedman l’ulivo è importante, ma produce divisioni non più attuali. Friedman fa una serie di esempi di contrasti tra la Lexus e l’ulivo, ma afferma in ultima istanza che dalla Lexus non si scappa, e prima o poi essa ti raggiunge (7). È quindi necessario un bilanciamento che deve però pendere in qualche modo a favore del globale. Come a dire, la tradizione è importante nel momento in cui riesce a farsi valorizzare dalle potenzialità del globale.

4) questo nuovo sistema si origina in un mondo senza muri, per il cui crollo a partire dagli anni ’80 hanno concorso tre tipo di democratizzazioni: a) la democratizzazione della tecnologia, diventata più accessibile e permette una connessione maggiore con gli altri e uno scambio più veloce ed efficace di soldi, conoscenze, informazioni e via dicendo; b) la democratizzazione della finanza, ovvero un cambio nel modo in cui si investe tale per cui dal monopolio delle grandi banche che operavano su mercati in qualche modo consolidati per via delle loro divisioni, si passa agli investimenti di individui (tramite mutui, fondi pensione ecc.) su mercati talmente aperti che oggi questi individui detengono il debito sovrani di molti paesi; c) la democratizzazione dell’informazione, ben rappresentata dalla liberalizzazione del mercato televisivo e da ciò che Friedman chiama, appunto, la “globalizzazione della televisione” (p. 83) che ci permette di conoscere come vivono gli altri. Questi tre fattori interagiscono tra loro e volente o nolente tutto il mondo è investito da queste democratizzazioni. Chi tenta di resistervi, lo fa in modo fallimentare, senza successo.


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(8). Queste tre democratizzazioni si sono unite negli anni ’80 e hanno spazzato via i muri e le alternative possibili al libero mercato capitalista: oggi “there is no alternative”, soprattutto per via del fatto che queste tre democratizzazioni hanno alzato gli standard di vita e ci hanno abituato a qualcosa che in passato, o in altri sistemi socio-economici non è pensabile. Gli Stati che riconoscono questa necessità indossano quella che Friedman chiama la “camicia di forza dorata” (9). Che cosa fa questa camicia di forza? O meglio, che cosa comporta? Friedman lo spiega molto chiaramente: privatizzazioni, deregolamentazione, riduzione spesa pubblica e via dicendo (10). E torniamo, come vedete, al “Washington Consensus”, al neoliberalismo (non a caso la “camicia di forza dorata” nasce con Margaret Tatcher e poi con Ronald Regan). Si noti bene: tutti i paesi, dice Friedman, prima o poi indosseranno questa camicia, come abbiamo visto nella citazione precedente. I benefici di questa camicia di forza dorata riguardano principalmente l’economia, e nello specifico un aumento della ricchezza media, i difetti riguardano invece la politica, perchè determinano un assottigliarsi delle scelte possibili nell’azione di governo, il che comporta una minore differenziazione tra le forze politiche. Alla “camicia di forza dorata” si somma l’azione di quella che Friedman definisce la “mandria elettronica”, composta da investitori professionisti da una parte, e multinazionali dall’altra, ovvero da chi è in grado di muovere capitali e cicli produttivi da un capo all’altro del mondo in tempo immediato o comunque relativamente molto breve. Per questo tipo di movimenti è fondamentale la rete, Internet, cui infatti è dedicata la seconda parte del saggio (“Plugging into the System”) che noi affrontiamo qui molto velocemente. Friedman in sostanza porta una serie di esempi che servono a spiegare quanto ha esposto nella prima parte del libro. Dobbiamo segnalare solo tre cose:

1) Friedman ribadisce che la “mandria elettronica” e la globalizzazione contribuiscono a una diffusione della democrazia nel mondo e a un incremento qualitativo di essa.

2) da segnalare la teoria degli archi d’oro per la prevenzione dei conflitti, (11) che dimostrerebbe in sostanza che la globalizzazione muta la geopolitica, pur non eliminandola


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(NB: nella seconda edizione del libro, del 2000, F. riconosce una eccezione a questa teoria rappresentata dalla guerra nei Balcani del 1999. Per come si è conclusa, però, secondo l’autore non è altro che una riconferma di questa teoria – la guerra termina quando a Sarajevo viene impedito il regolare svolgimento della vita metropolitana).

3) infine, tramite una serie di esempi tratti dal divario di redditi tra i giocatori dell’NBA, F. afferma che sì, la globalizzazione aumenta il gap tra ricchi e poveri in termini relativi, ma in termini assoluti aumenta la ricchezza e basta. Ovvero, senza globalizzazione la società sarebbe più povera nel suo complesso, quindi il gap che si verifica parte comunque da uno scalino più alto rispetto a prima (ovvero: è vero che i ricchi diventano sempre più ricchi, ma è altrettanto vero che i poveri sono meno poveri di prima).

La terza parte del saggio (“The Backlash against the System”) è dedicata al “contraccolpo” contro il sistema, cioè alle resistenze di chi si oppone alla globalizzazione. Secondo Friedman il problema risiede in chi non vuole o non riesce a cogliere le opportunità che la globalizzazione presenta, e nel caso di un governo questo condanna un paese all’arretratezza1. Infatti la diffusione del capitalismo ha aumentato gli standard di vita, nonostante il gap di cui parlavamo prima (12) e in sostanza è bene che i paesi, e gli individui ne prendano coscienza e si comportino di conseguenza. Infine nell’ultima parte (“America and the System”) Friedman afferma che gli USA si sono trovati in una posizione ottimale per cogliere tutte le opportunità della globalizzazione (il che li ha resi una superpotenza), posizione ottimale tanto da un punto di vista geografico quanto culturale, sociale e via dicendo, e che le tre democratizzazioni di cui si parlava prima sono state perlopiù “coltivate” negli Stati Uniti proprio per questo motivo (a causa di questa posizione particolare assunta dagli States, molti associano la globalizzazione all’americanizzazione, il che genera risentimento nei confronti degli USA). In chiusura Friedman ritorna sulla questione del bilanciamento tra la Lexus e l’ulivo e cita proprio gli Stati Uniti come esempio riuscito di questo equilibrio (13).

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Vedi pp. 364 e 391


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Passiamo adesso invece a The World is Flat. La tesi di Friedman afferma che il mondo sia diventato piatto, non è più possibile pensarlo come rotondo, e si è appiattito nel corso di quella che definisce la globalizzazione 3.0, dal 2000 in poi. Piatto significa senza segmentazioni, agile da percorrere in lungo e in largo. The World is Flat è una integrazione di The Lexus and Olive Tree, la teoria della globalizzazione (le tre democratizzazioni ecc.) rimane quella, in più qui Friedman aggiunge una divisione della globalizzazione in tre, invece che in due come nel saggio precedente:

1) la globalizzazione 1.0, dal 1492 al 1800 dove il “fuoco” del processo risiede nel posizionamento dello Stato-nazione, o comunque di una precisa area geografico-politica in un contesto globale;

2) la globalizzazione 3.0, dal 1800 al 2000 (con le dovute interruzioni nel corso del ‘900 che conosciamo), dove il fuoco è sul posizionamento dell’impresa, della società aziendale in un contesto globale;

3) la globalizzazione 3.0, dal 2000 dove il fuoco è sul posizionamento dell’individuo, e degli individui in un contesto globale (con la caratteristica che questi individui sono sempre più non-bianchi e non-occidentali).

La globalizzazione 3.0 poggia su una decina di “fattori di accelerazione” (che Friedman chiama “flattener”, appiattitori), che sono (14): a) il crollo del muro di Berlino; b) la comparsa di Netscape; c) la comparsa di una “work-flow phase” con la complicazione delle interazioni sulla rete; d) l’open-sourcing; e) l’outsourcing – l’appaltare a terzi – di alcuni rami produttivi; f) l’offshoring – la delocalizzazione; g) la supply-chian ing., ovvero la “scienza della logistica”; h) l’insourcing (internalizzazione) di altre mansioni; i) l’informing (web search, google, yahoo ecc); l) gli “steroidi” – i dispositivi. Questa nuova fase della globalizzazione, la 3.0, poggia su questi fattori e su tre tipi di convergenze che si sono verificati da metà degli anni ’90 fino a deflagrare dal 2000 in poi (15):


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1) la convergenza di tutti e 10 questi fattori che giungono a lavorare insieme;

2) la convergenza di questi 10 fattori che lavorano insieme e di chi (manager, CEO ecc.) ha acquisito le abilità e capacità necessarie per fare lavorare al meglio questi 10 fattori, per sfruttare al meglio la contingenza che si sta verificando;

3) la convergenza tra questi due elementi (10 fattori e chi ha le capacità di sfruttarli) e l’apertura di mercati prima chiusi (dagli anni ’90, est europa).

Tutto questo comporta una nuova fase, quella della globalizzazione, la 3.0, e il relativo passaggio da un modello verticale di gestione della catena di comando (a tutti i livelli) a un modello orizzontale. Questo essenzialmente è quanto ci interessa da The World is Flat, il resto del libro è dedicato ancora una volta a una analisi del posizionamento degli Stati Uniti (e del mondo occidentale in generale) in questo mondo piatto, e poi del collocamento invece dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”. Unica nota da aggiungere: in The World is Flat la “teoria degli archi dorati” di cui parlavamo prima viene aggiornata e sostituita dalla “Dell theory” per la prevenzione dei conflitti (16), nella sostanza non cambia di molto. Friedman poi conclude affermando di essere consapevole che nel mondo esistono anche zone “non piatte”, ma che la tendenza anche per quelle zone è di andare verso l’appiattimento dati i benefici oggettivi che il mondo piatto (ovvero il mondo della globalizzazione 3.0) offre. Ora, se ritorniamo con la mente alla definizione di globofilia vediamo come si applichi bene alla teoria di Friedman. Il cuore di ogni convinzione globofiliaca risiede nel fatto che la globalizzazione abbia portato benefici tangibili come maggiore democrazia, ricchezza, equità, diversità, crescita…ripensiamo a Friedman, il mondo piatto senza muri poggia su tre democratizzazioni, è più ricco per tutti, persino per i poveri, nonostante il gap tra ricchi e poveri, è un mondo in crescita e via dicendo. Addirittura quel fenomeno che da alcuni è stato usato in senso negativo per indicare un effetto omogeneizzante della globalizzazione, ovvero la cosiddetta “McDonaldizzazione” (Ritzer) in Friedman diventa elemento di pacificazione internazionale e prevenzione dei conflitti. È facile concludere che in Friedman il


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mondo piatto è auspicabile e migliore di quello precedente, e questo grazie ai benefici portati dalla globalizzazione. L’attenzione di Friedman è tutta proiettata sulla sfera globale, l’unica che conti davvero oggi e nel futuro. L’ulivo, la sfera locale, viene preso in considerazione fino al momento in cui non è d’impiccio per la Lexus, per la sfera globale; cioè il locale diventa una sorta di orpello per il globale. (Apro una parentesi molto sintetica su quello che potremmo definire un altro approccio globofiliaco, anche se non si tratta di una vera e propria teoria, ma di un “manifesto”, come è stato definito. Sto parlando del “manifesto” di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che il 16 febbraio 2017 tramite il suo (in tutti i sensi) social network ha diramato un post che addirittura secondo alcuni commentatori prelude a un impegno politico – ben oltre l’America – dello stesso Zuckerberg. Ora, Zuckerberg nella sostanza afferma la necessità di creare una comunità globale poiché le nostre maggiori opportunità oggi esistono a livello globale. Quindi passa ad illustrare il modo in cui Facebook può contribuire alla costruzione di una comunità globale, un “nuovo livello” di civilizzazione dopo il passaggio dalla tribù, alla città, alla nazione. Questo nuovo livello altro non è che il livello pienamente globale).

Globofobia Veniamo ora all’altro estremo, la globofobia. Prima abbiamo osservato che secondo questo approccio (sintetizzando) la globalizzazione comporta meno democrazia, più disuguaglianze, omogeneizzazione e atomizzazione sociale. Il primo caso di globofobia che affrontiamo è rappresentato da Patrick Joseph Buchanan (17) (o “Pat” Buchanan), paleoconservatore statunitense (oggi diremmo esponente dell’Alt-Right), già consigliere di Nixon e Reagan e ultimamente sostenitore dentro il partito repubblicano della candidatura di Donald Trump alle presidenziali del 2016, attivista di spicco e punto di riferimento teoricopolitico di quella che potremmo definire la destra conservatrice anti-liberale. Buchanan è intervenuto (e interviene tutt’ora) nel dibattito politico statunitense tramite giornali e televisioni (oggi se non sbaglio tiene una rubrica fissa su Fox News). Noi qui prendiamo in considerazione tre saggi che ha scritto tra il 2001 e il 2012. Il primo, del 2001, si intitola The Death of the West: How Dying Populations and Immigrant Invasions Imperil Our Country and Civilization (“la morte dell’occidente: come la morte delle popolazione e le invasioni


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degli immigrati mettono a repentaglio il nostro paese e la nostra civilizzazione”). In sostanza, secondo Buchanan l’occidente si trova minacciato da quattro elementi (18): 1) invasione di migranti provenienti dal terzo mondo; 2) il crollo demografico delle popolazioni occidentali; 3) il multiculturalismo; 4) la perdita delle sovranità nazionali da parte dei singoli Stati. Teniamo presenti questi elementi perché ritornano costantemente nel suo pensiero. Il punto, però, è che questi 4 elementi poggiano sulla debolezza di un occidente che ha abbandonato le sue radici per sposare una “nuova fede” (che, si noti bene, deriva dai movimenti sociali degli anni ’60. È singolare che B. consideri, per esempio, la Scuola di Francoforte e soprattutto Marcuse tra i maggiori responsabili del diffondersi di questa “nuova fede”2.). Ora, da un punto di vista politico questa “nuova fede” si traduce nel globalismo3. Qui la questione è appena accennata, ma vediamo come si sviluppa in un suo secondo lavoro: State of Emergency: The Third World Invasion and Conquest of America, del 2006. La tesi, ancora una volta, afferma che le migrazioni (e l’ibridazione che ne consegue) stanno uccidendo gli Stati Uniti e la loro potenza. E, ancora una volta, “l’arma” di coloro che propugnano il crollo dell’Occidente è il globalismo: contro questa prospettiva (interpretazione del mondo) va condotta una battaglia senza esclusione di colpi, afferma Buchanan. In questo lavoro, assume piena centralità la questione della nazione e dei suoi confini, ovvero la questione della sovranità (19). La nazione in senso identitario, il suo popolo, i suoi confini, la sua sovranità sono gli arci-nemici del globalismo e della globalizzazione, sostiene Buchanan. Questa questione è centrale anche nell’ultimo lavoro di Buchanan che prendiamo in considerazione (il penultimo che ha pubblicato), ovvero Suicide of a Superpower: Will America Survive to 2025? pubblicato nell’ottobre 2011, la cui tesi centrale è la seguente: gli Stati Uniti si stanno disintegrando, e così anche la civiltà occidentale. Di chi è la colpa? Qui la risposta è molto chiara e netta: della globalizzazione, che dissolve l’identità e l’unità politica, culturale, sociale, comunitaria, morale, religiosa (e via dicendo) dei popoli riuniti nell’architettura organizzativa delle nazioni. Conseguenza della globalizzazione, afferma Buchanan, è stato un impoverimento economico, culturale, sociale, religioso, morale del popolo

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americano (e Occidentale in genere, ma soprattutto americano) che viene minacciato, aggredito da migrazioni, multiculturalismo e via dicendo. Ritornano, come dicevo, le quattro minacce che abbiamo osservato prima. La differenza rispetto al 2001 (anno di pubblicazione di Death of the West) è che oggi il globalismo ha perso il suo lustro, e il nazionalismo è risorto e sta risorgendo per “riprendersi ciò che gli è stato tolto dal globalismo” – potremmo dire (20). Su questa rinascita va basato il programma politico di un buon presidente nord-americano, uno che voglia evitare che si compia il “suicidio della superpotenza”: su questa rinascita del nazionalismo o, se vogliamo, su questa rinascita del locale contro il globale, poiché, conclude Buchanan4, l’identità – elemento fondamentale per la costruzione di un popolo, di una nazione – è sempre locale, mai globale (21). (Tradotto in termini di programma politico: no immigrazione, patriottismo economico e via dicendo (o nazionalismo economico, come lo definisce lo stesso Buchanan, poiché afferma che la nazione viene prima dell’economia, e l’economia esiste per il popolo5). Allora, la dicotomia che sviluppa Buchanan è precisamente tra globale e locale, dove “globale” sta per multiculturalismo/invasione-immigrazione/crollo della potenza statunitense/impoverimento del popolo americano e via dicendo, mentre “locale” sta per identità e tradizione/nazione/popolo/sovranità. Vediamo ora un altro esempio di approccio globofobico, che si colloca però all’altro estremo dello schieramento politico. Pat Buchanan è un paleo-conservatore della destra statunitense, ma la globofobia affligge anche l’estrema sinistra che su questo aspetto arriva a delle conclusioni che su alcuni aspetti si avvicinano a quelle di Buchanan. Takis Fòtopulos (22) è un filosofo politico, economista greco e attivista di base a Londra dove dal 1966 ha studiato alla London School of Echonomics e dove poi fino al 1989 ha ricoperto il ruolo di Senior Lecturer (più o meno l’equivalente del nostro professore associato) presso il “Polythechnic of North London”, oltre che essere stato editorialista di “Eleftherotypia” (importante quotidiano greco). Dalla fine degli anni ’80 ha iniziato a dirigere una rivista intitolata “Society & Nature” che poi ha cambiato titolo in “Democracy & Nature” e ultimamente in “International Journal of Inclusive Democracy”. Il titolo non è casuale, perché Fòtopulos è il teorico della “Democrazia inclusiva” (appunto), che non è solo teoria perché esiste un Riprende qui questa citazione di (citazione di Jude Dougherty, “National Identity,” Nationale und kulturelle Identität im Zeitalter der Globalisierung, ed. Anton Rauscher, vol. 18 of the series Soziale Orientierung (Berlin: Duncker & Humblot, 2006), 23. 5 Conferenza del 1998. 4


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network internazionale di attiviste e attivisti, gruppi di intervento politico presenti in più di dieci paesi del mondo tra nord, sud, ovest e est del globo6. Ad ogni modo, due parole veloci sulla “Democrazia inclusiva”. Fòtopulos cerca una sintesi tra il socialismo libertario e teorie della democrazia radicale. Esprime il suo pensiero in un saggio del 1997 intitolato Toward An Inclusive Democracy. The Crisis of the Growth Economy and the Need for a New Liberatory Project (è stato tradotto in italiano da Eleuthera nel 1999 con il titolo Per una democrazia globale, anche se la versione italiana è la metà di quella originale. Un saggio che è stato tradotto in molte lingue). Sintetizzo al massimo, giusto per farvi capire quali sono i punti che ci interessano. Il modello della Democrazia Inclusiva teorizza una democrazia diretta su più piani: politico, sociale, economico ed ecologico. In questo modo, si riuscirebbe a superare la crisi “multidimensionale” che ci troviamo a vivere, e che il prodotto della concentrazione del potere nelle mani di poche, ma differenti élite (vedremo meglio poi), che tramite il ricorso alla democrazia rappresentativa alienano questo potere dai reali detentori, ovvero i soggetti, cittadini, gli individui. Sono quindi necessarie assemblee autogestite locali in grado di prendere decisioni su tutti gli ambiti della vita sociale tramite la pratica della democrazia diretta che si articola come potete vedere qui (23). Questo il nocciolo della teoria della “Democrazia Inclusiva”. Ora, quale sia il rapporto tra il modello della Democrazia Inclusiva e la globalizzazione Fòtopulos lo spiega in un saggio del 2005 intitolato The Multi-Dimensional Crisis and Inclusive Democracy (la “crisi multi-dimensionale” è riferita alla crisi economica, politica, sociale e culturale di cui parlavamo prima, determinata dalla sottrazione di potere e sua concentrazione nelle mani di queste élite). Nel saggio viene ribadito il significato di Democrazia Inclusiva (vengono riprese le argomentazioni di Toward an Inclusive Democracy) con un elemento particolare che qui sottolineiamo: l’ambiente in cui si può concretizzare la democrazia inclusiva (24). La democrazia inclusiva viene quindi presentata in contrasto con la gestione del potere delle “élite transnazionali” che sono responsabili di dirigere la globalizzazione7. A me sembra che Fòtopulos qui riproduca una dicotomia globale/locale simile a quella di Buchanan, dove il globale è negativo a prescindere, e il locale invece positivo di per sé, come luogo della liberazione, della resistenza e

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Numeri dichiarati dallo stesso network – inclusivedemocracy.org. p. 59.


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della rivalsa. Vediamo infatti che la sfera del globale è quella in cui le “élite transnazionali” dirigono la globalizzazione sottraendo potere (leggasi anche: sovranità, arriveremo poi anche a questo) ai cittadini, laddove la democrazia inclusiva ha il merito di localizzare immediatamente questo potere all’interno di una dimensione gestibile perché piccola e locale (come vediamo in questa slide). Il globale aliena il potere locale, e il modo per uscire da questa crisi è la riappropriazione da parte del locale del suo potere contro il globale. Se poi osserviamo come viene intesa e interpretata la globalizzazione, constatiamo che essa è sempre un elemento negativo, e concepita in senso riduzionista come schiacciata sul piano esclusivamente economico8. E questo nonostante in alcuni suoi lavori Fòtopulos affermi esplicitamente che l’economia è solo uno degli aspetti della globalizzazione. Ma d’altronde, anche quando considera questi altri aspetti della globalizzazione, la sua definizione è puramente negativa (25). Se poi volessimo addentrarci negli ultimi (in senso cronologico) scritti di Fòtopulos (26), dedicati ad una analisi della Brexit, dell’elezione di Trump, o ad una critica di Diem25, il movimento fondato dall’ex ministro greco Varoufakis noteremmo come ricorra costantemente il concetto di “vittime della globalizzazione”, e come Fòtopulos consideri – positivamente – il movimento di sostenitori di Trump, così come il movimento in sostegno alla Brexit come movimenti in grado di battersi effettivamente contro la globalizzazione. E non è casuale (e qui torniamo alla questione della sovranità) che l’“International Network for Inclusive Democracy” di cui parlavamo prima si sia legato politicamente a una realtà denominata FNSL (Front for National and Social Liberation) che si propone di formare “nuove unioni politiche ed economiche di nazioni sovrane” contro la “globalità attuale” al fine di “rompere con la globalizzazione e le sue istituzioni” (27 - qui vediamo la homepage del sito di riferimento di questa rete, notare il nome del dominio e le parole d’ordine, che richiamano continuamente la democrazia inclusiva e lo stesso Fòtopulos). Ritorna, anche qui, la dicotomia globale/locale (la sfera globale è abitata dai “vincitori” della globalizzazione, che poggiano però su una sfera locale zeppa di “sconfitti”) e ritorna centrale anche qui – come per Buchanan – la questione della sovranità, della nazione. Se ripensiamo alle caratteristiche della globofobia possiamo vedere come esse si possano ritrovare tanto nell’opposizione al globale di Buchanan quanto in quella di Fòtopulos.

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p. 32, 44.


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[Vorrei citare ora solo di passaggio un “caso italiano”, che si ricollega a questo discorso. Sto parlando del dibattito che è nato nella sinistra più o meno istituzionale o movimentista intorno alla questione del sovranismo. Alcuni, come Carlo Formenti nel libro La variante populista ritengono per esempio importante recuperare “da sinistra” la questione della sovranità, declinata nel senso di sovranità popolare, e giocare su questo terreno la possibilità di una trasformazione radicale della società. È singolare, credo, da una parte che recuperando la questione della sovranità queste formulazioni teoriche sono costrette a recuperare la questione dello Stato-nazione – lo stesso Formenti afferma che proprio lo Stato-nazione è l’unico spazio possibile in cui agire la lotta di classe – dall’altra che questo recupero comporti in modo quasi del tutto automatico una “dichiarazione di guerra” nei confronti della globalizzazione tout court. La relazione tra Stato e globalizzazione viene presentata come oppositiva, mentre sappiamo, anche grazie alla bella lezione che la settimana scorsa ha tenuto Sabino Cassese, che le cose stanno in un modo diverso e molto più complesso].

Oltre le semplificazioni: per una “Teoria critica della globalizzazione” Dunque, cerchiamo di tirare un po’ le fila del nostro discorso. Possiamo ricondurre la differenza principale tra globofilia e globofobia a un approccio opposto nella considerazione del rapporto tra globale e locale. La globofilia privilegia il piano globale, e considera la sfera locale come un elemento accessorio che può e deve arricchirsi grazie alle potenzialità offerte dal globale. Al contrario, la globofobia privilegia il piano locale, e considera il globale come un elemento distruttivo che impoverisce il locale. Per i globofiliaci il globale è il luogo in cui si può produrre un avanzamento progressivo del genere umano, mentre i globofobici considerano il locale come il piano dove si condensa la resistenza al globale e dove ottenere una rivalsa, una liberazione dall’appiattimento e l’alienazione prodotti dal globale. Schematicamente (28) potremmo aggiungere che i globofiliaci considerano il rapporto tra globale e locale come un processo di “bottom up”, dal basso, di emancipazione, mentre per i globofobici il processo è di “top down”, calato dall’alto, è di tipo oppressivo. Il problema, a mio parere, è che entrambe queste prospettive osservano e privilegiano solo un estremo


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del rapporto tra globale e locale, e risultano quindi viziate nella loro interpretazione della globalizzazione. Quello che vorrei proporre, in chiusura, è allora la necessità di complicare queste prospettive grazie ad un terzo approccio, che definiamo “Teoria critica della globalizzazione”, e che sia in grado di rendere conto della complessità del processo che ci troviamo ad analizzare, tralasciando le semplificazioni. Riprendo il concetto di “Teoria critica della globalizzazione” da Douglas Kellner, filosofo e docente all UCLA. Kellner è considerato uno degli esponenti della “terza generazione” della Scuola di Francoforte, anche se nella sua formazione che è avvenuta anche in Francia ha avuto modo di incontrare in maniera approfondita il post-strutturalismo francese. Kellner è autore di un articolo che forse qualcuno/a di voi ha letto, intitolato Theorizing Globalization. Kellner definisce la “Teoria critica della globalizzazione” come un modo di comprendere nel processo di globalizzazione sia elementi oppressivi, sia emancipatori, e quindi come una sintesi tra gli schemi che abbiamo visto prima (top down-bottom up) (29). Si tratta di comprendere la globalizzazione come un processo dialettico, in cui le sfaccettature, gli agenti, le direzioni (e le possibilità) sono molteplici. “La mia intenzione”, (30) afferma Kellner, “è presentare la globalizzazione come conflittuale, contradditoria e aperta alla resistenza e all’intervento di democratizzazione, e non solo come un colosso portatore di progresso o dominazione”, come invece fanno globofiliaci e globofobici. Ora, data questa definizione, lo stesso Kellner cita un’opera molto importante della teoria politica contemporanea e degli studi sulla globalizzazione come un esempio di “Teoria critica della globalizzazione”: l’opera in questione è Empire, pubblicata nel 2000 e scritta durante gli anni ’90 da Antonio Negri e Michael Hardt (31). Vale la pena allora vedere, anche se in maniera sintetica, come e perché questo saggio (cui ne sono seguiti altri due, nel 2004 e nel 2009) rappresenta un ottimo esempio di “Teoria critica della globalizzazione” in grado di evitare sia le semplificazioni dell’estremo globofiliaco, sia quelle dell’estremo globofobico. Empire descrive la globalizzazione come un’aquila a due teste. Le due “facce” della globalizzazione sono l’impero, da una parte, e la moltitudine, dall’altra. Sono le due figure che rappresentano quella che potremmo definire la dialettica della globalizzazione.


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Ora, vediamo di spiegare brevemente cosa significa “impero” e cosa significa “moltitudine”. Il concetto di “impero” indica una nuova sovranità “postmoderna” in grado di governare l’accumulazione di capitale nell’era del mercato globale. È presentato come un concetto in grado di superare le dottrine classiche dell’imperialismo (inapplicabili al mondo segnato dalla globalizzazione), ma questo adesso a noi interessa relativamente. Quello che ci interessa è osservare che l’“impero” si caratterizza come “la richiesta di un ordine sovrano sopra la globalizzazione economica” (Negri 2006: 3), un “processo di costituzione di sovranità, una nuova sovranità, sul mercato globale” (Negri 2006: 9). Si tratta della governance “dall’alto” della globalizzazione. L’impero rappresenta l’elemento “oppressivo” – se volessimo usare una categoria cara a Negri diremmo l’elemento costituito – della globalizzazione, ma non è la globalizzazione. O meglio, la globalizzazione non si risolve nell’impero. I due elementi sono distinti. Sovrapposti, ma distinti: l’impero rappresenta una forma di governo sulla globalizzazione. Ma – e qui emerge l’altra testa della globalizzazione – l’idea di globalizzazione in realtà è emersa ben prima dell’instaurazione di questo impero (che Negri e Hardt individuano a partire dalla crisi del fordismo dei primi anni ’70 e dalle decolonizzazioni degli anni ’60), ed è scaturito precisamente “dal basso”, ovvero dal desiderio di una globalizzazione delle relazioni da parte delle “masse in rivolta” (33) e dei loro desideri “costituenti” – per usare un’altra categoria cara a Negri. Il termine “moltitudine” indica precisamente queste “masse in rivolta”: banalizzando diremmo i soggetti sfruttati dentro l’Impero (ma anche prima della costituzione dell’Impero). Inoltre, secondo i due autori è stata proprio questa tendenza, questa spinta “dal basso” alla globalizzazione delle relazioni sociali che ha giocato un ruolo fondamentale nell’emergere dello stesso “impero” (che si caratterizza infatti come “una risposta alle lotte di liberazione” praticate dalle moltitudini – non entriamo qui nello specifico perché altrimenti dovremmo affrontare la questione delle “radici” dell’opera, che devono essere ricondotte all’operaismo da cui Negri proviene, ma non ne abbiamo qui ora il tempo). Queste “masse in rivolta” quindi sono ciò che gli autori chiamano “moltitudini” (o “moltitudine” – termine spinoziano).


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Quindi, da una parte l’impero, dall’altra la moltitudine: terreno comune, la globalizzazione. Che cos’è infatti la globalizzazione per Hardt e Negri? “La globalizzazione”, cito (34), “non è certo una realtà semplice e i molteplici processi con i quali la identifichiamo non sono unificati, e tanto meno univoci”. La questione viene esplicitata ulteriormente in un saggio del 2004 che segue la pubblicazione di Empire, intitolato, appunto, Multitude. Qui Negri e Hardt affermano che (cito) (35) “esistono due aspetti della globalizzazione. Da una parte, l’impero diffonde globalmente la sua rete di gerarchie e divisioni, che mantiene l’ordine attraverso nuovi meccanismi di controllo e costante conflitto. Globalizzazione, però, significa anche la creazione di nuovi circuiti di cooperazione e collaborazione che si muovono oltre le nazioni e i continenti, e ci permettono un numero illimitato di incontri. Questo secondo aspetto della globalizzazione non implica che tutto nel mondo diventi uguale (una omogeneizzazione); piuttosto il contrario, ci permette, pur restando nelle differenze, di scoprire la comunione che ci permette di comunicare e agire insieme”. Allo stesso modo, nella terza opera della “triologia” iniziata con Empire, ovvero in Commonwealth (2009), Negri e Hardt affermano che (36) “uno dei primi effetti della globalizzazione è la creazione di un mondo comune, un mondo che, bene o male, tutti condividiamo”. Questo significa considerare il processo di globalizzazione non in modo riduzionistico, o semplicistico, schiacciandolo solo sul piano economico, e attribuendogli etichette positive o negative tout court. Significa prendere in considerazione l’esistenza di più piani (culturale, politico, sociale, economico - Robertson) su cui si manifesta questo incremento della connettività globale e della coscienza globale (sempre nel senso in cui lo intende Robertson e che abbiamo visto prima, “considerazione del mondo come un tutto che, volente o nolente, tutti condividiamo). Significa anche considerare dentro il processo di globalizzazione il rapporto tra globale e locale come un rapporto dialettico, di continua relazione e interazione dei due piani: tanto che essi già nel 2000 (in Empire) affermano di opporsi a quelle strategie politiche che (soprattutto al volgere del millennio) intendevano contrapporsi alla globalizzazione attraverso l’opposizione al “globale” e la difesa del “locale” (37). Ecco, questa definizione del rapporto tra globale e locale, inteso come un rapporto dialettico di mutua e continua interrelazione, di scambi e di conflitti anche, ma dove i due termini si confrontano


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in modo multidirezionale e biunivoco, così come questa prospettiva di analisi della globalizzazione credo rendano il significato di “Teoria critica della globalizzazione”, e penso permettano di affrontare la questione della globalizzazione lasciando da parte riduzionismi o semplificazioni di sorta, quindi al di là dei limiti manifestati tanto dagli approcci globofobici quanto da quelli globofiliaci. Ecco, di fronte alla complessità che ci troviamo a vivere credo servano strumenti analitici sempre più raffinati e penso che invece sarebbe il caso di tralasciare semplificazioni che nella migliore delle ipotesi sono sterili, ma nella peggiore possono essere finanche dannose.

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