Il cinema di Michael Haneke

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{la visione negata} Il cinema di

Michael Haneke Fabrizio Fogliato

EDIZIONI

FALSOPIANO

{la visione


VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


al piccolo Pietro



EDIZIONI

FALSOPIANO

Fabrizio Fogliato

LA VISIONE NEGATA IL CINEMA DI MICHAEL HANEKE


Š Edizioni Falsopiano - 2008 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Falsopiano Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui Terme Prima edizione - Dicembre 2008


INDICE Nota editoriale di Fabio Francione

p. 11

Capitolo primo: La visione negata

p. 13

Esercizi crudeli Frammenti dal passato Austria Infelix

Capitolo secondo: Michael Haneke

Ritratto di un regista “contro” Spostamenti progressivi del dolore

p. 13 p. 17 p. 20

p. 25

p. 25 p. 28

Capitolo terzo: La trilogia glaciale

p. 34

Capitolo quarto: Der Siebente Kontinent

p. 45

“Guerra civile” minuto per minuto Apartament complex Il limite estremo dell’interazione

La strada maestra che conduce alla morte Architettura della solitudine Il logaritmo della follia Capitolo quinto: Benny’s video

Programmato per uccidere L’ossimoro dello sguardo Transmediatico

p. 34 p. 36 p. 42 p. 45 p. 48 p. 50

p. 54 p. 54 p. 57 p. 61


Capitolo sesto: Die rebellion

Der Letzte Mann Österreich decadence

Capitolo settimo: 71 Fragmente einer chronologie des zufalls

Amore e morte nel giardino della quotidianità Il diavolo probabilmente... Trans-europe-express

Capitolo ottavo: Das schloss

Partitura incompiuta per un passaggio televisivo Il puzzle dell’assurdo

Capitolo nono: Funny Games: l’archetipo della crudeltà

p. 65

p. 65 p. 69

p. 76

p. 76 p. 81 p. 83

p. 85

p. 85 p. 88

p. 91

Quando “i clowns” bussano alla tua porta Irreversible

p. 91 p. 95

Giocare con il Male La morte ha fatto l’uovo Reality horror show

p. 97 p. 100 p. 105

Capitolo decimo: Funny Games

Capitolo undicesimo: Code inconnu

Good news: la follia della normalità Import/export XYZ: il codice del nulla Capitolo dodicesimo: La pianiste

L’occhio del sesso L'immagine Malattia = normalità Il sorriso della iena

p. 97

p. 108

p. 108 p. 116 p. 119

p. 122

p. 122 p. 127 p. 130 p. 133


Capitolo tredicesimo: Le temps de loup

Ils Profondo nero No man’s land

Capitolo quattordicesimo: Caché

p. 135

p. 135 p. 144 p. 149

p. 152

Schegge di paura Blow-up Black-out – progressiva frammentazione familiare

p. 152 p. 157 p. 159

American Replay? Il resto di niente: il ri-vedibile American family’s war

p. 162 p. 169 p. 173

Capitolo quindicesimo: Funny Games U.S.

p. 162

Capitolo sedicesimo: Leahcim Ekenah

p. 176

Note al testo

p. 178

Io, Haneke – Scritti d’autore

p. 185

Nota biografica

p. 228

Filmografia

p. 231

Bibliografia

p. 236

Io, Haneke – Interviste

p. 207



Nota editoriale di Fabio Francione

L’aver accolto nel palinsesto editoriale della collana “Viaggio in Italia” il libro di Fabrizio Fogliato La visione negata. Il cinema di Michael Haneke consente alcune riflessioni sul modo d’intendere la critica cinematografica oggi. Già da qualche anno, dopo la dissacrazione operata nei confronti dei formati (il libro non si riconosce più dalle misure e dalla grafica “fissa”, ma dal contenuto che crea la sua forma “pubblica”) o la teorizzazione della critica cinematografica come curatela (formula sintetizzata nella figura del curautore che ha trovato applicazione fortunata in più occasioni e fatta peraltro propria in tempi recentissimi dalla critica letteraria militante che si raduna su fogli come Alias del “Manifesto”), la collana è riuscita a mettersi al passo con i tempi superando la propria vocazione esclusiva tutta italiana apparentemente dettata dal suo “eponimo” cinematografico. Infatti, mai quanto ora il capolavoro rosselliniano svela compiutamente la propria dimensione internazionale, europea e mondiale. Non sono più i due coniugi stranieri che guardano il Belpaese, ma è l’Italia che cerca di scorgere un appiglio alla modernità che le due esistenze in disfacimento sembrano poter ancora esprimere. Insomma, i valori già individuati dalla nouvelle vague francese che consacrò il film di Rossellini in anni ormai lontanissimi, in questo pieno primo decennio del 2000 trovano piena residenza in molti cineasti e cinematografie. Questa è la prospettiva critica e storica nella quale si inscrivono ad esempio la panoramica sulla cinematografia americana dal muto all’underground degli anni Sessanta (a tal proposito chi ricorda più l’operazione più creativa che critica cortocircuitata da Marco Melani con Stefano Beccastrini tra questo cinema e il Rossellini televisivo?) e la monografia sul cinema sociale e rigoroso di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Ora, provocata, quest’onda lunga trascina con sé anche il cinema di Michael Haneke. Invero l’obiettivo su Michael Haneke ha una gestazione lunga e lontana dallo stesso progetto proposto e realizzato da Fogliato che è ancora motivo per il sottoscritto di grande rammarico. Infatti, il mancato concludersi di un progetto editoriale legato al cinema di Ulrich Siedl – fortunatamente terminato altrove, dunque disponibile ai più – avrebbe consentito alla collana di esporre in vetrina un dittico formidabile sull’Austria e su una delle cinematografie più in vista del “vecchio continente” . In un brogliaccio perso chissà dove, in una ricreazione di ruoli del ’900 europeo, riferito dapprima alle dissoluzioni della “Felix Austria” e poi alla frattura dell’Anschluss e della seconda guerra mondiale fino all’esplosione mediatica sessantottina (data spartiacque della modernità 11


sulla quale non si smetterà mai di fare i conti nemmeno in questo ravvicinatissimo trentennale:1968-2008), Ulrich Siedl si considerava, in una genealogia creativa à rebours, come il prodotto di due snodi culturali fondamentali del “secolo breve”: i saggi freudiani di Totem e tabù e le performance dell’Orgien Mysterien Theater (Gunter Brus, Hermann Nitsch, Otto Muhl) e del Wiener Aktionismus. Alle due opposte estremità di questa linea si ponevano la pittura di Egon Schiele e la letteratura del premio nobel Elfriede Jelinek. Proprio la scrittrice della Pianista è il fuso dal quale stavolta per diritto si percorre la linea che produce il cinema di Haneke, che trova ancora sulla sua strada i citati scritti del padre della psicoanalisi e non più però al suo capo gli “zombie” schieliani, ma la preveggenza dell’architetto e critico del costume, Adolf Loos (leggere per farsi un’idea della brevità delle distanze lo scritto centenario di Degenerazione della civiltà, per l’appunto datato 1908). Mentre, la cesura moderna si consegna nelle mani di Haneke attraverso i referti cinematografici di Peter Handke, qui considerato nella sua dimensione di sceneggiatore e cineasta più che di scrittore e polemista. Anche se la contemporaneità ha insegnato che tali steccati sono stati abbattuti dalla forza concettuale dell’atto dello scrivere. Riprendendo Handke: la trasposizione televisiva del Castello di Franz Kafka o i tanti ritratti femminili disseminati lungo tutta la filmografia di Haneke sono inequivocabilmente debitori dell’opera dell’autore della Donna mancina. Dopotutto, è acclarato da moltissimi - anche dalla stessa Jelinek - come Handke sia un intellettuale tanto eclettico quanto capace di esprimere valori assoluti. Questi riferimenti teoricopratici, insieme alla più smaccata cinefilia (Bresson, Antonioni, ecc.), consentono al regista di Niente da nascondere di dar sfogo alla propria vocazione internazionale che lo ha portato addirittura a lavorare con Hollywood nel remake di Funny Games. Infatti, al contrario del collega Siedl, più ancorato e ne sono testimonianza i tanti documentari, ad una sintesi cinematografica della realtà che si soffoca nel tentativo di far emergere le contraddizioni esistenziali dell’Austria d’oggi, il tentativo di Haneke è quello di attraversare suggestioni mediatiche e letterarie che gli confezionino un’idea di cinema mondiale che non sia solo il calco fallimentare, su scala maggiore, del suo mondo d’appartenenza.

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Capitolo primo

LA VISIONE NEGATA Il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzioni, ma di volontà albero di volontà che avanza tornerà. È stato, tornerà. Perché la grande menzogna è stata quella di ridurre l’uomo a un organismo. Ingestione, assimilazione, incubazione, espulsione, creando un ordine di funzioni latenti che sfuggono al controllo della volontà deliberatrice. La volontà che decide di sé ad ogni istante. Antonin Artaud

Esercizi crudeli

Il cinema di Michael Haneke è fatto di apparenze e suggestioni che nel momento in cui prendono forma sullo schermo vengono immediatamente confutate dalla messa in scena di una realtà rarefatta e immobile, deprivata di emozioni e carica di provocazioni. Ad una prima visione dei suoi film tutto appare artefatto, volutamente asettico, freddo e distaccato, e di conseguenza i corpi dei personaggi che popolano il suo cinema sembrano automi meccanizzati e privi di anima piegati alle esigenze crudeli del regista demiurgo. Tutto ciò è solo apparenza però, perché il principio che sta alla base della poetica di Haneke è quello del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Un teatro nato per restituire al palcoscenico una convulsa e coinvolgente concezione di vita con una messa in scena di violento rigore ed estrema condensazione degli elementi scenici che diventano ostacolo al movimento degli attori, attraverso la quale va intesa la crudeltà sulla quale il teatro stesso si fonda. Elementi questi, ampiamente riscontrabili nei film del regista austriaco che da Artaud deriva anche la concezione dei corpi attoriali posizionati su un palcoscenico esistenziale dove il corpo senza organi è quel corpo totale e compatto che non accetta ferite, che non intravede né possibilità né speranza, che non “permea tutte le cose, ma tutte le cose sospinge”, ma che è monolitico e indivisibile. Provocatoriamente, ma consapevolmente è lo stesso regista austriaco ad affermare: 13


“I miei film sono una forma di consapevole omissione del lato bello della vita” 1.

Teorizzando questo punto di vista non si può che considerare, che la volontà di Haneke è quella di scavare nei gangli di una società, quella contemporanea, dove benessere e consumismo apparentemente sono indici di evoluzione e progresso, ma nella realtà dei fatti stanno conducendo l’uomo verso un imbarbarimento involutivo e primordiale. I personaggi del suo cinema sono divisi sostanzialmente in due categorie: vittime colpevolmente inconsapevoli nel rutilante mondo contemporaneo, o automi meccanizzati e talvolta radiocomandati privi di ogni emozione e di intelligenza. Il corpo nel cinema di Haneke è quindi si una rivisitazione delle concezioni artaudiane, ma nello stesso tempo ne prende le distanze per intraprendere una via nuova e sconosciuta. È qualcosa di post-organico e diversamente crudele che deviando dalla compattezza del teatro di Artaud si presenta sgretolato e frammentato. È un immagine metallica e controllata in un soggetto post-umano appesantito e oppresso dal gravame della carne. Il soggetto post-umano è fissato nella sua più consumata disaggregazione molecolare, destituito della sua compattezza ed erra indefessamente alla ricerca di una sua reiscrizione soggettivizzante 2.

Quest’idea dell’umano è incarnata in personaggi che spesso diventano archetipi e rappresentanti di un orrore della società ampiamente condivisibile, ma che talvolta può risultare indigesto ai palati più fini ed edulcorati. Nel suo cinema c’è qualcosa di Baconiano, sono frammenti che si annidano nelle pieghe di inquadrature rigorose e geometriche, in spazi claustrofobici e agorafobici all’interno dei quali si muovono personaggi falsi e ingannevoli. Come nella pittura di Francis Bacon, Haneke costruisce i suoi “quadri” con rigore geometrico e maniacale divisione dei volumi, entro cui inserisce in una “gabbia” contemporaneamente simmetrica e distorta, figure normali e quotidiane che dietro ad un’esistenza irreprensibile e a un’apparente perbenismo nascondono menzogna e crudeltà.

Intensamente viventi i personaggi di Bacon lasciano a volte vedere i propri denti, pezzetti di scheletro, stalattiti e stalagmiti rocciose che spuntano davanti alla caverna della bocca... perché, per conoscerla meglio e gustarne tutte le bellezze non si potrebbe esplorare la vita con accanimento senza arri14


vare a mettere a nudo – almeno a sprazzi – l’orrore che si nasconde dietro i paludamenti più sontuosi 3.

Questa concezione falsa e inquietante dell’essere umano vive nel cinema di Michael Haneke sulla dialettica tra angoscia e perturbante. L’angoscia è quella continuamente trasmessa a livello sensoriale dal divenire delle situazioni e dalle azioni compiute dai personaggi. È un’angoscia intesa in senso Sartriano, cioè con un essere che è organizzato nel mondo con una realtà umana intesa da un lato, come continua emergenza “dell’essere nel non-essere” e dall’altro come un mondo sospeso nel nulla. Il nulla è all’origine del giudizio negativo, perché “fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere” 4. In base a ciò la volontà del regista austriaco di “omettere il lato bello della vita” diventa una dichiarazione di intenti, la necessità di fare un cinema rigoroso ed essenziale per fare emergere la malattia e il disagio dell’uomo contemporaneo nel quotidiano, costruendo un “nulla” dove l’unica certezza possibile è quella di una realtà mistificata attraverso la manipolazione delle immagini. Il perturbante invece è ciò che Freud definisce come “quell’emozione risultante dalla trasformazione impercettibile di ciò che è familiare in qualcosa di sinistro”. Questa condizione nel cinema di Haneke è un basso continuo che attraversa tutte le sue opere e trova la sua compiutezza nei luoghi, negli spazi e nei microcosmi descritti e raccontati nei suoi film, dove da situazioni iniziali di calma apparente, attraverso rarefatti movimenti di macchina e progressivi spostamenti della tensione, il regista guida lo spettatore in esperienze da incubo che via via assumono forme sempre più crudeli e asettiche. Egli è fautore di un cinema che si rifiuta di dare risposte ma che pone continuamente domande. La sua è una “visione negata” perché non ottimizza mai il rapporto con lo spettatore ma anzi lo negativizza coinvolgendolo in un esercizio crudele e sadomasochistico, dove i ruoli di “servo” e “padrone” sono continuamente invertiti. La sua è un’arte della visione “altra”, riconducibile all’esperienza di Aldous Huxley, basata sul principio: sensazione + selezione + percezione = visione.

Quando noi vediamo, la nostra mente entra in rapporto con gli eventi del mondo esterno per mezzo degli occhi e del sistema nervoso. Nel processo della visione, mente, occhi e sistema nervoso sono strettamente associati in un tutto unico. Influenzando uno di questi elementi si influenzano tutti gli altri 5. 15


Anche Haneke coinvolge, attraverso il suo cinema, questi tre elementi agendo continuamente sulla mente attraverso una messa in scena interattiva che pone lo spettatore in uno stato di continua tensione psichica ed emotiva. È un sadico inteso nel suo valore più alto, cioè quello impersonale che identifica la violenza psicologica con un’idea della ragione pura, con una dimostrazione terribile in grado di subordinare a sé l’altro elemento. Manipola cioè a proprio piacere lo spettatore così come racconta che i media manipolano la realtà, al fine di portare ogni persona che si pone davanti alla visione di un suo film ad una reazione estrema: di amore incommensurato o di odio viscerale. È un provocatore per vocazione e intelligenza, che non teorizza ma che conosce molto bene la psicologia umana e di conseguenza sa come urtare la sensibilità dello spettatore per mettere a nudo al sua ipocrisia. Nell’unico suo film dichiaratamente a tesi, Funny Games (id. 1997), gioca continuamente a rimpiattino con la crudeltà solleticando nello spettatore gli istinti più bassi e portandolo incredibilmente ad abbracciare “il Male” attraverso un sottile e impercettibile gioco di specchi in una messa in scena teatrale che è l’archetipo della crudeltà artaudiana.

“Come autore ho l’obbligo di prendere sul serio i problemi delle figure che sto cercando di descrivere. È ciò che intendo quando parlo di amare i propri personaggi. Certo che non amo Paul in Funny Games ma come autore devo cercare di farlo agire il più brillantemente possibile” 6.

L’intenzione di Michael Haneke è quella di abituare lo spettatore ad un nuovo modo di interpretazione fino a portarlo a sfondare i suoi limiti e a costringerlo comunque ad una reazione. Secondo il cineasta austriaco lo spettatore va al cinema e paga il biglietto per assistere deliberatamente ad una menzogna, per poter dimenticare la propria vita almeno per un paio d’ore. Su questo presupposto Haneke agisce invece in maniera simmetricamente opposta con il fine di condurre lo spettatore alla presa di coscienza che la realtà quotidiana è perennemente controllata e costantemente deformata dai media. Teoria questa applicata alla sua opera attraverso la fissità della macchina da presa e con la lunghezza esasperante di alcune inquadrature, oltre ad un utilizzo del nero come spazio mentale di elaborazione testuale del significato. In controtendenza rispetto a gran parte del cinema contemporaneo, in Haneke l’utilizzo del montaggio è rarefatto e quasi impercettibile al fine di manipolare il meno possibile la narrazione. “Le sequenze lunghe e ferme non manipolano almeno per quanto riguar16


da il fattore temporale. Il montaggio invece tende ad abbreviare o a prolungare; per questo scelgo la forma che manipola il meno possibile e che trasmette allo spettatore l’illusione di un realismo quasi documentario” 7.

È quindi, quello del cineasta austriaco un cinema che agisce sul doppio binario del piacere e del dolore con la tendenza dichiarata e programmatica di spingersi Freudianamente “al di là del principio del piacere”:

Perché se tale dominio esistesse quasi tutti i nostri processi psichici dovrebbero accompagnarsi al piacere o portare al piacere, conclusione invece smentita dalla generale esperienza 8.

Partendo da questa consapevolezza Haneke costruisce, attraverso il suo cinema l’intelaiatura di una società che in maniera irresponsabile e fallimentare è tesa verso la conquista di un piacere momentaneo ed è costantemente sospesa in uno spazio-altro inesistente, ma enucleato e parcellizzato dal continuo bombardamento di immagini false che producono stereotipi standardizzati e banalizzati di una possibile, ma irraggiungibile, esistenza. Le componenti sociologiche, psicanalitiche, sadiche e crudeli del suo cinema sono il compendio necessario per poter porre lo spettatore di fronte ad uno specchio dove egli non si vuole riconoscere. Uno specchio incrinato dalla spasmodica ricerca dell’effimero e dove non esiste più differenza tra realtà e finzione tanto che i due piani sono inesorabilmente destinati a confondersi spiazzando e irritando continuamente chi guarda. Per tutti questi motivi quello del cineasta austriaco è un cinema destinato a dividere sempre e comunque e che pone l’incauto fruitore di fronte ad una visione pericolosa e traumatica. È un esercizio crudele che lascia allo spettatore un’unica alternativa: prendere o lasciare. Frammenti del passato

Un regista come Michael Haneke, con una poetica talmente radicale e rigorosa da sfiorare la patologia, porta con se in realtà la dote di tre grandi maestri: Robert Bresson, Alfred Hitchcock e Pier Paolo Pasolini. Se dai primi due prende sicuramente la perfezione della messa in scena e l’eleganza formale, e dal poeta-regista italiano che viene più influenzato nella rappresentazione dell’estetica e della violenza. 17


“L’unico che, a mio avviso, è riuscito a rappresentare la violenza in maniera responsabile, è stato Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma. Lì la violenza era quello che è e questa violenza non si può consumare, a meno che non si abbia qualche serio problema. Se ci si sente responsabili per il film come opera d’arte questa è l’unica possibilità. Se, invece, il cinema è, per definizione, merce, allora è giustificato qualsiasi cinismo e tutto può essere rappresentato, tutto è legittimo e diventa solo una questione di bravura tecnica. Ma questa è una posizione con la quale non mi voglio neanche confrontare, perché la trovo fatale” 9.

Come Pasolini quindi, anche Haneke rifiuta dichiaratamente l’uso consumistico della violenza nel cinema. Egli non vuole confrontarsi con un discorso estetico e plastico della rappresentazione della violenza, ma raccontarla semplicemente per quello che è: un istinto primordiale che provocatoriamente, nel suo cinema, assume con malcelato sadismo un aspetto ludico e/o metaforico. Nel cinema di Haneke anche le immagini più banali possono assumere da un momento all’altro risvolti sinistri ed esplodere in atti di violenza messi in scena con freddezza e distacco e realizzati con la cura di un entomologo. L’occhio di Haneke osserva, viviseziona e trasferisce nel fuori campo l’atto di violenza che attraverso questo espediente assume connotati estremi e talvolta insostenibili. Il regista porta quindi lo spettatore ad essere cosciente di quel che è successo: ne vede le cause, sente il dolore ma gli è stato impedito di vedere l’azione violenta… e questo per lo spettatore moderno è veramente qualcosa di inconcepibile. Secondo il cineasta austriaco, la nostra società è messa in pericolo dall’accumulo di immagini violente e deprivate di contesto e di realtà, che vengono presentate dal cinema e dalla televisione senza una scala di valori che permetta loro di poter essere selezionate e percepite per quello che sono. Così, riconducendosi a Pasolini anche Haneke è convinto che la realtà innocente del corpo è violata, manipolata, manomessa dalla forza inarrestabile del consumismo e che anzi la violenza sui corpi, diventati merce è il dato più macroscopico della società contemporanea. “Le vite sessuali private hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia” 10.

Haneke racconta, quindi, la banalità del quotidiano attraverso l’orrore di una violenza ghignante senza più codici né dialettica, utilizzando personag18


gi/archetipi così come faceva Robert Bresson. Come il regista francese, a cui Haneke qualche anno fa ha anche dedicato un saggio, sa scorgere le caratteristiche dell’organizzazione poetica dell’esistenza oltrepassando i limiti di una logica rettilinea per esprimere la complessità stratificata dei legami umani e la verità della vita. Lo fa attraverso la negazione, e cioè l’omissione della felicità, al fine di fare emergere lo sguardo di personaggi la cui malvagità ha qualcosa di gratuito e di necessario allo stesso tempo, come se fossero inclini e costretti al Male senza averne coscienza.

Esaurita l’apologia, ma non la ricognizione, dell’inferiorità antagonistica, l’occhio del regista si posa sul mondo, e sulla trasparenza di negatività e di orrore che ne promana. La negazione non assume più la forma dell’azione, del gesto del comportamento ma si trasmette tutta e soltanto allo sguardo…11

La “visione negata” di Haneke è quindi riconducibile ad un’astrazione necessaria per poter distogliere il reale dalla matassa inestricabile della finzione e della menzogna e ciò può avvenire solo attraverso lo sguardo. Sguardo che, come in Bresson si risolve nella fissità dell’immagine che porta con se un ritmo nascosto. Ciò è esplicitato nella estrema essenzialità delle inquadrature all’interno delle quali il rapporto spazio-tempo crea una pressione ritmica che non rende necessario l’utilizzo del montaggio. In questa direzione si spiega anche l’utilizzo diegetico che Haneke fa della colonna sonora, perché egli come Tarkowskij è convinto che:

“Il mondo risuona in maniera tanto meravigliosa di per sé che, se imparassimo ad ascoltarlo nella maniera dovuta, la musica non sarebbe affatto necessaria al cinema” 12.

Questa essenzialità bressoniana legata alla sequenzialità delle immagini costruisce una sensazione in divenire di tensione costante mutuata direttamente dalla poetica di Alfred Hitchcock. C’è nel cinema di Haneke una perenne sensazione di minaccia imminente che incombe sull’uomo che da un lato è cosciente che il primo significato dell’esistenza è quello di combattere il male che è dentro di sé, ma dall’altro è consapevole della sua inclinazione verso la malvagità che lo conduce ad una degradazione spirituale. Questa ambigua minaccia assume toni hitchcockiani attraverso l’uso inconsueto della suspense, che nel caso di Haneke non dilata mai i tempi dell’azione, ma amplia le attese e a volte perfino gli spazi all’interno di 19


una sola inquadratura. Azioni banali e apparentemente insignificanti assumono nel contesto della narrazione impensabili aspetti di minaccia pronta a scaricarsi improvvisamente su uno o più personaggi o destinata a crescere spasmodicamente per poi restare cinicamente inevasa. Si può quindi dire che la poetica di Michael Haneke ha sì dei padri nobilissimi, ma da essi prende contemporaneamente le distanze per frammentarsi in una serie di spunti riveduti e corretti e più spesso piegati alle proprie esigenze narrative. La sottile intelligenza di Haneke sta infatti nella sua capacità di costruire una messa in scena perturbante, in apparenza semplice ed essenziale ma che in realtà è assai complessa e stratificata, e in cui le cose non dette e non esplicitate sono il vero corpo sommerso del suo iceberg cinematografico. Austria infelix

L’immagine idilliaca dell’Austria, con le sue splendide montagne innevate e l’incantevole paesaggio alpino, nasconde dietro di sé un passato represso che più volte è stato preso come punto di partenza per una critica violenta alla società da parte di scrittori autoctoni come Thomas Bernard e Elfriede Jelinek. Haneke come regista si è in un primo tempo inserito in questa linea di pensiero continuando il lavoro sia di illustri predecessori del cinema muto quali Erich Von Stroehim e Joseph Von Sternberg, sia di famosi documentaristi quali Ulrich Seidl. Recentemente il giornale tedesco “Frankfürter Allgemeine” si è spinto addirittura a parlare di una renaissance cinematografica austriaca in considerazione dei premi conferiti da vari festival cinematografici ad opere come Hundstage (Canicola, 2001) di Ulrich Seidl, Lovely Rita (id., 2002) di Jessica Hausner e Die Klavierspielerin (La pianista, 2001) di Michael Haneke. Inoltre, a questi film di alto profilo vanno aggiunte una serie di opere minori che in patria hanno sbaragliato i botteghini con incassi superiori ad ogni aspettativa; tra questi, degni di nota sono l’interessante commedia grottesca Der Uberfall (La rapina, 2000) e il giallo caratterizzato dal più tipico milieu viennese Komm, Süßer Tod (Vieni, dolce morte, 2000). Tutti questi film, che fanno da corollario all’opera di Michael Haneke, indiscusso leader artistico, raccontano un “Austria Infelix” fatta di brutture, di degrado, di solitudine e violenza, lontana parente dell’immagine da cartolina raccontata nei film dell’imperatrice Sissi, tanto cara agli abitanti della terra di Mozart. Per capire quindi, questo nuovo cinema austriaco, ma anche l’immagine sconcertante di questo paese che ci viene fornita da una pellicola come 20


Canicola, bisogna tornare indietro nel tempo e ripercorrere la storia. L’impero austro-ungarico era immenso e culturalmente molto attivo ad inizio secolo, ma dopo la prima guerra mondiale non restò più niente di questo antico splendore che era perfino in grado di mettere Vienna in competizione con Parigi. L’Austria svuotata della sua popolazione e amputata dei suoi territori, continua però a vivere con l’idea dell’impero e una struttura sociale da anciènne regime: clero, nobiltà, stato. Nasce allora nella popolazione un insopportabile senso di frustrazione che la porta ineluttabilmente ad abbracciare la Nazionalpolitik di Adolf Hitler. Con Hitler l’Austria si illude di tornare a essere la grande potenza che era stata, poiché con l’anschluss diventa parte del grande impero tedesco, e per il popolo austriaco avere un loro concittadino (Hitler era originario di Braunau) a capo del Terzo Reich, è motivo di orgoglio da grande potenza. Nel 1938, quando Hitler tornò in Austria venne acclamato da una folla immensa: uomini, donne e giovani ebrei furono costretti a pulire i marciapiedi con degli spazzolini da denti per accogliere il Führer. Alcune foto lo testimoniano. Questa infatuazione incondizionata per Hitler si spiega col fatto che fa emergere negli austriaci ciò che diventa l’animo umano quando viene lasciato libero dopo secoli di addomesticamento. Dopo il trauma della seconda guerra mondiale, nel 1955 l’Austria viene dichiarata “vittima di guerra” il che è un’enorme menzogna fatta passare dagli alleati. Tutto ciò ha portato gli austriaci a non porsi mai il problema delle loro colpe, tanto che i vecchi nazisti hanno tranquillamente continuato a fare la loro vita e a lavorare in patria. In questo contesto ipocrita e in un’atmosfera che si fa sempre più irrespirabile, nasce in Austria un movimento artistico estremo di cui Haneke non può non aver tenuto conto durante la sua formazione: la Vienna direct art. Gli Azionisti (questo è il nome degli autori di questa avanguardia estrema), Hermann Nitsch, Otto Muehl, Günter Brüs… sono i protagonisti di performances, realizzate a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, dove il corpo è lo scenario dell’azione. Si tratta di messe in scena estremamente crude e destabilizzanti (incluse la rappresentazione esplicita di atti sessuali e il reciproco cospargersi di fluidi corporei) che hanno l’obiettivo di rivolgere un violento attacco estetico ai tabù autoritari e mostrare la valenza liberatoria della natura degli istinti.

“La distruzione è la premessa stessa di qualsiasi costruzione. La libertà dell’arte si afferma attraversala distruzione delle barriere intellettuali, morali e sociali che impediscono questa libertà. Per poter creare bisogna prima di tutto distruggere” 13. 21


Queste esperienze scioccanti, violente e brutali, sono il sintomo di un forte attacco ad una società, quella austriaca, implosa e narcisa che continua a specchiarsi in un passato ormai inesorabilmente tramontato e che vive in una incomunicabilità in continua espansione, trasversale a tutte le classi sociali e dalla quale lo stesso Michael Haneke non rimane immune.

“L’incapacità di comunicare è un’esperienza centrale della mia vita, sia professionalmente che personalmente. Credo che l’incomunicabilità sia una delle esperienze più formative dell’uomo moderno. […] L’esperienza della freddezza, del non-amore, l’incapacità di comunicare sono immagini formative, indelebili e molto forti” 14.

Haneke quindi, riesce a far tesoro degli aspetti più negativi del mondo contemporaneo e anzi a valorizzarli come elementi formativi: cosa questa peraltro molto presente nel suo cinema e che fonda le sue origini ancora una volta nella storia di un paese che a ben guardare è molto diversa da ciò che crediamo. All’inizio degli anni ’80 in Austria resiste la Grosse Koalition tra Partito Socialdemocratico e Partito Cristiano Sociale Popolare, che nel corso del decennio porta al raggiungimento di un elevato standard di vita, ma anche ad un disinvestimento della popolazione nell’interesse politico e ad un atteggiamento di totale delega verso le istituzioni. Negli anni ’90 però la situazione cambia drammaticamente sia in Austria che in Europa. Con la caduta del socialismo reale, il capitalismo acquista nuovo vigore e si spinge verso il neoliberismo con proposte di “ammodernamento” dello stato sociale e tante privatizzazioni. Con l’entrata nell’Europa il governo austriaco ha condotto una politica antisociale e antipopolare tagliando settanta miliardi di scellini dagli aiuti sociali e determinando contemporaneamente una riduzione sostanziale dei lavoratori dipendenti. In questo contesto di sbandamento socio-politico si inserisce la figura sinistra di Jörg Haider, recentemente scomparso in un incidente automobilistico. Nato a Bad Goisern nel 1950 da una famiglia pesantemente collusa con il nazismo, Haider diventa leader, sin da giovane sul finire degli anni ’70, del movimento liberale FPÖ (Partito Liberale Austriaco) nella sezione della Carinzia. Grazie al suo carisma nel 1986 diventa segretario nazionale, abbandonando il capitalismo per una sorta di populismo nazionalista che lo porta alle politiche del 1999 ad ottenere quasi il 30% dei voti. Sale quindi al governo dell’Austria stringendo alleanza tra il suo FPÖ e i popolari del ÖVP, con un accordo contestatissimo dall’Unione Europea e rimasto in vigore fino al 2002, quando Haider ritira la fiducia al governo guidato dal popolare Wolfgang Schüssel; atto, questo, che segna l’inizio della 22


sua parabola discendente. Questa figura di leader populista e xenofobo, che porta con sé il culto delle “piccole patrie” che odia gli intellettuali e che si presenta come se fosse un maestro di sci è l’archetipo del fascista contemporaneo europeo, frutto del crollo delle ideologie e sintesi di un vuoto politico che non è solo austriaco. Non è quindi una figura marginale come si potrebbe pensare tanto che la stessa Elfriede Jelinek gli ha dedicato un caustico ritratto nel monologo L’Addio, la giornata di delirio di un leader populista, e che lo stesso Michael Haneke ha più volte sintetizzato nei caratteri di alcuni protagonisti dei suoi film. “I miei film sono stati commentati spesso dal partito di Haider, ma io lo considero come un complimento, non mi disturba. Intorno al mio ultimo film scatteranno sicuramente tante discussioni e polemiche, anche perché la FPÖ non perderà l’opportunità di scagliarsi nuovamente contro l’autrice Elfriede Jelinek” 15.

Il suo cinema glaciale quindi, affonda le radici nella storia di un paese che ancora oggi non sembra riconoscersi per quello che è e che inconsapevolmente si sta dirigendo verso un primitivismo dei sentimenti e un individualismo becero e ottuso. Questo è frutto di anni di repressioni, ipocrisie, e finte illusioni e rappresenta il delirio di una nazione, centro di un Europa che a poco a poco si sta lasciando contagiare dallo stesso male.

“Cerco di non legare i miei film a luoghi geografici particolari. Cerco di dar loro una significatività a prescindere dal posto in cui vengono visti” 16.

Questa dichiarazione rilasciata da Michael Haneke al festival di Cannes nel 1989 è la risposta ad una giornalista che gli domandava dopo aver visto il film Der Siebente Kontinen (Il Settimo continente, 1989): “Ma l’Austria è davvero così orribile?”. Il regista è quindi consapevole che l’orrore non è esclusivo del suo paese ma è qualcosa di serpeggiante in tutto il continente. Analizzando il suo percorso artistico è più che evidente la volontà del regista di rendere irriconoscibili le location dei suoi film. Linz, Vienna, Parigi… sono nel cinema di Haneke città anonime e mai caratterizzate, luoghi universali che rappresentano il tentativo di raccontare un continente privo di identità e che non si riconosce in valori comuni ma che si vuole ostinatamente considerare unito. Quella descritta dal regista austriaco è un’ Europa da incubo, assimilabile a quella raccontata da Eli Roth nell’incompreso e sottovalutato Hostel (id., 2005). In questo film il giovane regista americano costruisce 23


un continente-lagër dove “puoi pagare per fare qualunque cosa”: questo è ciò che fanno annoiati e boriosi manager o falliti e frustrati commercianti, che pagano ingenti somme di denaro per torturare e uccidere giovani vittime. I carnefici però sono solo l’ultimo anello di una catena composta da ambigui gestori di ostelli, giovani e disinibite ragazze dell’est, e apparentemente innocui viaggiatori, che sono invece il veicolo “fantasma” che conduce gli ignari e ingenui stranieri verso una morte orribile. Nell’Europa di Hostel le ragazze concedono sesso e morte contemporaneamente e i bambini uccidono per una gomma americana. Il film di Roth quindi, non è altro che un’esplicitazione dell’orrore contemporaneo, lo stesso che Haneke preferisce mantenere implicito. Entrambe i registi raccontano un’Europa senza speranza né per i carnefici, né per le vittime: lo fanno senza dare risposte, ma lasciando allo spettatore il compito ingrato di affrontare il valore politico delle loro opere, altrimenti sospeso in un’inquietante ambiguità. L’Europa per Haneke è un calderone di etnie non integrate, di persone che non vivono ma che compiono azioni, ed è un posto dove le immagini hanno più potere delle parole e dove la comunicazione è un “codice sconosciuto”. L’Europa è figlia della sua storia che in un secolo l’ha portata dall’anciènne regime all’Unione Europea ma che non ha mai mutato il proprio conservatorismo e che vive sospesa in una “permanenza del possibile” che è destinata a rimanere tale. Questo disincanto del regista austriaco è figlio della rabbia degli Azionisti viennesi che distruggevano per ricreare, illudendosi di destabilizzare uno status quo inossidabile. Haneke sostituisce all’evidenza provocatoria dello shock degli azionisti un cinema glaciale e definitivo che cerca di frantumare i tabù del mondo contemporaneo come il culto del denaro e il politically correct, attraverso una visione-off radicale, che costringe comunque lo spettatore a ragionare sul proprio vissuto e sulle proprie scelte, ma che vuole spingersi ambiziosamente a porre domande e a riportare in luce questioni represse e/o dimenticate della storia recente. Da Der Siebente Kontinent (Il Settimo Continente, 1989), fino all’ultimo Caché (Niente da nascondere, 2005), c’è un lungo filo rosso legato a doppio nodo con un passato mai riconciliato e con una storia forzatamente rimossa che è pronta a saltar fuori all’improvviso con il suo carico di orrore per destabilizzare tranquille famiglie apparentemente indifese, chiuse in moderne abitazioni hi-tech, inconsapevoli che un giorno qualunque la storia può suonare alla porta e chiedere loro conto di colpe commesse da altri. Haneke in definitiva è autore di un cinema moderno che racconta realtà contemporanee che sono le conseguenze di un passato storico che appartiene a tutti ma che nessuno si sogna mai di analizzare per cercarne la verità. 24


Capitolo secondo

MICHAEL HANEKE La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio

Michael Haneke

Ritratto di un regista “contro”

La carriera di Michael Haneke si può ricondurre ad un percorso di ricerca e innovazione continua, inevitabilmente teso ad un orientamento cinematografico. In Austria i mezzi principali di sperimentazione sono il teatro e la televisione. Questi due “opponenti” per storia e tradizione sono il veicolo più fruibile per i giovani che si vogliono avvicinare all’arte della rappresentazione. La maggior parte dei registi, ma anche dei tecnici austriaci, impara il mestiere lavorando per la televisione, da quella nazionale ai piccoli canali regionali dove spesso si cimentano nell’allestimento di spettacoli teatrali e dove nella maggior parte dei casi vi rimangono imprigionati dal punto di vista lavorativo. Molto di rado capita che il riconoscimento culturale di un regista passi da uno di questi due mezzi a quello cinematografico. Il cinema austriaco paradossalmente vive, per motivi economici ma anche di opportunità, all’ombra di quello che ovunque e quasi sempre, è considerato il “figlio di un Dio minore”: la televisione. Partendo da questi presupposti Michael Haneke può essere quindi considerato un regista “contro” non solo per il suo modo di fare cinema, ma anche per il suo percorso culturale e di formazione. Nasce il 23 Marzo 1942, quando per motivi di lavoro i genitori si trovano a Bad Gastein e l’ospedale più vicino è quello di Monaco di Baviera. Il padre Fritz Haneke è figlio di un commerciante di Düsseldorf e lavora prevalentemente e limitatamente in Germania. Sin da giovane intraprende la carriera di attore che lo accompagnerà per tutta la vita, accanto a quella di regista teatrale. Sposa in seconde nozze Beatrix Von Dagenschild, futura mamma di Michael Haneke. Beatrix ha origini nobili ed è anche lei attrice presso il Burgtheater di 25


Vienna. Il mestiere e l’esperienza di vita di questi genitori marchiano indelebilmente la volontà e le scelte del piccolo Haneke, che volente o nolente si trova spesso e inconsapevolmente in contatto con famiglie e personalità austriache di alto livello. Sin da piccolo Haneke si trova a contatto con personaggi illustri passati e futuri della scena artistica Viennese. Ha solo tre anni quando incontra a Salisburgo una sua coetanea dal luminoso avvenire: l’incontro con Romy Schneider avviene grazie all’amicizia tra le due madri e alle frequentazioni familiari del più alto milieu viennese. Nel 1946 il giovane Haneke si trasferisce a Wiener Neustadt, in campagna dove frequenta il liceo tra non poche difficoltà, portandolo a termine in ritardo soltanto nel 1962. In questo lungo periodo viene praticamente cresciuto dalla zia che lo ospita, poiché la madre va a trovarlo soltanto la domenica. L’immersione totale in un mondo artistico a 360° non può che contagiarlo, e così mentre frequenta la scuola, va di nascosto a Vienna per studiare pianoforte ma vede naufragare il suo desiderio di diventare pianista a causa della sua mancanza di talento. “Da giovane ero molto interessato alla musica e alla letteratura. Volevo infatti diventare un pianista, però mi sono reso conto che non possedevo sufficiente talento e allora mi sono buttato sulla letteratura con la ferma intenzione di diventare scrittore” 17.

A diciassette anni si reca quindi a Vienna per dare l’esame di ammissione al Reinhardt-Seminar (Accademia d’arte drammatica di Vienna), ma viene respinto. Naufragata anche l’ipotesi di intraprendere una carriera d’attore si iscrive all’università alla facoltà di Filosofia e scienze teatrali. Questo è il periodo più fertile per la sua formazione che comincia a delinearsi in due ambiti distinti ma complementari: la scrittura e il cinema. La prima gli offre la possibilità di dare corpo alle influenze di D. H. Lawrence e Lawrence Durrel che lo appassionano in quegli anni e che ispirano il racconto Persephone che viene anche premiato alle Jugend kulturtagen (giornate culturali della gioventù). Il secondo invece, rimane un desiderio e un obiettivo alimentato da una impulsiva cinefilia che lo porta per alcuni anni ad andare al cinema anche tre o quattro volte al giorno. A questo periodo di immersione totale nell’arte ne segue uno nettamente contrapposto dove le necessità e le responsabilità familiari prendono decisamente il sopravvento. “Poi mi sono sposato, mia moglie aspettava un bambino e perciò sono 26


stato costretto ad accettare i lavori più diversi: in una fabbrica di pentole, alla posta ecc. Era come cambiare mondo, lì non si parlava affatto di cinema e letteratura; e io non avevo più tempo per dedicarmi ad esse. Ho cercato poi di lavorare per una casa editrice. Ho dato ad Hans Weigel dei testi che avevo scritto perché li passasse alla Residenz di Salisburgo” 18.

In questo periodo di difficoltà anche economiche, Haneke scrive la sua prima sceneggiatura: Wochenende (Weekend) che racchiude dentro di sé l’embrione delle tesi enunciate nel futuro Funny Games. Ottiene 300.000 marchi di sovvenzione per la realizzazione del film ma non riesce a portare a termine il progetto per mancanza di conoscenze in ambito cinematografico e deve quindi restituire i soldi. È il 1967 e ad Haneke, che nel frattempo scrive recensioni cinematografiche e letterarie, viene offerto un posto al canale televisivo Südwestfunk di Baden-Baden. Qui realizza alcune trasmissioni radiofoniche sugli allestimenti teatrali che gli valgono una scrittura come drammaturgo televisivo. I tempi sono maturi ormai per l’agognato salto alla regia: prima teatrale e poi passando attraverso la televisione, verso quella cinematografica. È il 1971, Haneke lascia il posto alla Südwestfunk per dirigere l’allestimento di Giorni interi tra gli alberi di Margherite Duras, allo Stadttheater di BadenBaden. A questo primo lavoro ne seguono altri in Austria, e poi in Germania a Berlino e ad Amburgo dove mette in scena La notte delle lesbiche di Enquist. L’esperienza della regia teatrale consolida le conoscenza letterarie e gli permette di acquisire la necessaria sicurezza per controllare la messa in scena oltre a fortificare le sue capacità relazionali bypassando la sua timidezza. Questi sono piccoli passaggi che preparano il suo futuro dove vedrà realizzati i suoi desideri e le sue aspettative. L’anno della svolta definitiva è il 1974. Haneke ha 32 anni e raggiunge il primo obiettivo per il grande salto verso il cinema: la regia televisiva. È ancora la Südwestfunk, cui è sempre rimasto legato, ad offrirgli l’opportunità di dirigere il film per la televisione Und was kommt dannach (After Liverpool); un film grezzo e “povero” dove prevalgono le inquadrature fisse e un impianto fortemente teatrale. Haneke continuerà a lavorare per una quindicina d’anni per la televisione con lavori come: Lemminge (Lemming, 1979), Variation (Variazione, 1983) e Fraülein – Ein deutches Melodram (Ragazza - Un melodramma tedesco, 1986 ). “Quando ho iniziato a fare cinema sono stato costretto ad abbandonare 27


l’attività teatrale soprattutto per mancanza di tempo. Ma alla fine è stato sempre il cinema che mi ha dato più soddisfazioni, perché mi ha permesso di realizzare le mie idee e di avere il controllo totale sui miei progetti. In teatro invece la regia è maggiormente condizionata dalla capacità degli attori, e dalla necessità di controllarli. La mia forza consiste nell’inventarmi qualcosa e trasmetterlo, sia alla gente che lavora con me, si agli spettatori che vanno a vedere i miei film” 19. Arriva quindi il 1989, Michael Haneke esordisce nel cinema a 47 anni e fa subito rumore. Il suo Der Siebente Köntinent (Il Settimo Continente, 1989) spiazza contemporaneamente critica e pubblico e getta le basi provocatorie e destabilizzanti per il suo cinema a venire. Un cinema d’arte che fa della “negazione” il suo asso portante e dell’”opposizione” alla regola alla sua linfa vitale. Spostamenti progressivi del dolore

La scelta è o mente che desidera o desiderio che ragiona e tale principio attivo è l’uomo Aristotele

Il senso dell’immagine nel cinema di Michael Haneke è un concetto estremamente dinamico che si regge su un equilibrio instabile fatto di percezioni e piccoli e invisibili spostamenti dello sguardo. L’occhio del cineasta vive attraverso un punto di osservazione “esterno” alla situazione narrata, in una posizione strategica in grado di mettere in scacco lo spettatore e le sue consolidate certezze. Haneke si interroga continuamente sul possibile disagio che si crea nell’uomo quando viene posto di fronte al dolore degli altri. Il fluire interminabile di immagini che avvolge la vita dell’uomo contemporaneo ottunde la percezione e annulla il senso critico delle singole persone che sotto l’incessante bombardamento di pixel televisivi vivono in una realtà aliena e virtuale. In questo, il pensiero del regista austriaco coincide esattamente con quello della sociologa Susan Sontag che in un suo saggio sulla fotografia e sulle immagini di guerra sostiene che: Possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documenta28


no grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare realmente ciò che esse mostrano. Non tutte le reazioni provocate da tali immagini sono controllate dalla ragione e dalla coscienza 20.

La perdita del controllo sulle immagini è quindi l’elemento cardine attorno a cui ruota l’atteggiamento dell’uomo verso di esse. Se da un lato prevale l’assuefazione ad aver ormai già “visto tutto”, dall’altro il fermare lo sguardo, e quindi la macchina da presa, sull’orrore e sui tabù della società, provoca irritazione e sdegno in chi guarda, a causa del senso di colpa “incosciente” che vive dentro ogni spettatore. Questa oppressione indotta dalla colpa si concretizza in una claustrofobia onnipresente nel cinema di Michael Haneke. Paure e ansie alimentano una sindrome da accerchiamento generata dal restringimento delle storie e dal confinamento dei personaggi in spazi asfittici e soffocanti, vittime di nevrosi o stati d’animo indotti da situazioni di chiusura impreviste. Il mondo quotidiano, le abitazioni, gli uffici, e quindi gli spazi dove “si vive” sono privi di qualità emozionale: le pareti sono scarne, l’arredamento spesso segue geometrie pre-definite, i colori freddi e le “vie di fuga” spesso non esistono, tanto da suscitare una situazione di ingabbiamento che inevitabilmente genera nei personaggi emozioni negative e stati di depressione. La figura a cui spesso rimanda il cinema di Haneke è quella della tana, della caverna, e quindi del rifugio primordiale, cioè di un luogo facilmente difendibile e controllabile finché le sue dimensioni non oltrepassano un certo limite. Sono spazi entro i quali esplode una violenza insensata e assurda e dove paradossalmente, ma perfettamente in linea con le ansie di sicurezza e il vivere odierno, il pericolo non viene dall’esterno, ma da un interno sempre più familiare e intimo. Ecco quindi che l’indice di imbarbarimento dell’uomo contemporaneo, secondo Haneke, si manifesta nella necessaria esiguità di spazi su cui esercitare un maniacale controllo che diventa però inutile quando la tragedia e il dolore sfondano gli argini dell’emotività e deflagrano sulla scena in tutto il loro criptico orrore.

L’emersione della violenza nella situazione-trappola dipende in gran parte dal disagio per il mancato rispetto della nostra bolla personale, cioè lo “spazio nostro” da non invadere attorno a noi 21.

Diventa quindi fondamentale nella costruzione dell’immagine hanekiana la condizione del rapporto uomo-ambiente dove il corpo-unico dell’individuo 29


si trova in contrapposizione ontologica con il corpo-multiplo della società, ma dove non trovando vie di scampo per evadere e fuggire dall’orrore quotidiano, sceglie la regressione barbarica e la discesa verso una relazione primitiva con le persone, gli spazi e gli oggetti. Haneke che individua nella manipolazione dell’immagine e nell’impossibilità umana di contenere il dolore l’origine scatenante di questo ritorno al primitivismo, e che ha una visione apocalittica delle conseguenze possibili, costruisce le sue immagini attorno a due soli elementi: il tempo e il nero. Il tempo dilatato delle inquadrature del regista austriaco ha uno scopo ben preciso: quello di portare lo spettatore a osservare la scena e non semplicemente a vederla. C’è la volontà di spingere il pubblico ad una visione “attiva” scevra di effetti e/o sovrastrutture, che attraverso gli occhi attiva il cervello e si connette al sistema nervoso. Paradossalmente questo avviene nel cinema di Haneke attraverso la rappresentazione della negatività insita nell’uomo, che a differenza di quanto accadeva invece per Bresson, non sfocia mai in una redenzione, bensì approda quasi sempre a d una tragedia e a uno stato delle cose sospeso sulla “permanenza del possibile”. Robert Bresson apre il suo Un condameé a mort s’est éschappe (Un condannato a morte è fuggito, 1956) con le parole del dialogo tra Cristo e Nicodemo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo spirito” 22.

e consegna il film alla speranza. Haneke apre il suo Der Siebente Köntinent sulla targa di un’auto chiusa tra le spazzole di un autolavaggio e consegna il film tra le braccia della morte sin dalla prima inquadratura. La “visione negata” del regista austriaco è quindi connaturata con il tempo in cui egli vive. Oggi chi vuole riflettere seriamente sui mali della società non può e non deve permettersi il lusso di concedere spazio alla speranza. Questo non per un intento banalmente provocatorio e supponente, bensì per irritare l’occhio e i nervi di una società abituata a tutto, che si può fermare a riflettere solo davanti ad un orrore senza fine e dove quindi, non può fare altro che interrogarsi su se stessa. In questo contesto assume grande importanza il secondo elemento costitutivo delle immagini e del cinema di Michael Haneke: il nero. Lo schermo nero domina gran parte della durata dei film della “trilogia glaciale”, mentre nel proseguo della filmografia del regista assume un ruolo più marginale e circostanziato, ma non meno importante. Nei primi tre film: Der Siebente Köntinent, Benny’s Video (id. 1992) e 71 30


fragmente einer chronologie des zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, 1994), il nero rappresenta lo spazio pensante. È un nero tranciante che interrompe l’azione e che piomba sulle immagini e sui dialoghi come una ghigliottina per spezzare la continuità, ponendo lo spettatore in attesa spasmodica per il ritorno delle immagini. Il nero che tronca l’azione è lungo e fastidioso e spinge lo spettatore ad una doppia reazione: quella di interrogarsi su che cosa sta succedendo e quella, una volta capito il meccanismo, di rilassare la vista e distendere i nervi. Il nero, inteso come spazio pensante in cui lo spettatore si pone domande e riflette sull’accaduto, ha la valenza di intervallo nel continuum delle immagini, e serve ad Haneke per comunicare allo spettatore la precarietà e la falsità delle relazioni e delle convenzioni sociali; inoltre riesce a trasmettere un fastidioso senso di disagio, che lo prepara al precipitare degli eventi imminenti. Il nero, inteso invece come momento di relax, che assumerà nei film seguenti, a partire da Code inconnu (Storie - Codice sconosciuto, 2000), una posizione sempre più circostanziata ed evidente, sembra derivare dalla pratica del palming descritta da Aldous Huxley.

La più importante di queste tecniche di rilassamento (prevalentemente) passivo è il procedimento che il Dott. Bates ha chiamato palming, nel quale gli occhi vengono chiusi e coperti con le palme delle mani. Per evitare di esercitare una qualsiasi pressione sui globi oculari (che non devono mai essere premuti, fregati, massaggiati o comunque manipolati) bisogna appoggiare la parte inferiore delle palme sugli zigomi e le dita sulla fronte. In tal modo, senza peraltro dover toccare i globi oculari, si impedisce alla luce di pervenire agli occhi. Il palming si esegue al meglio in posizione seduta con i gomiti appoggiati un tavolo oppure su un cuscino ben imbottito tenuto sulle ginocchia. Quando gli occhi sono chiusi e ogni luce viene schermata dalle mani, il campo sensoriale appare agli organi della vista così rilassati di un nero uniforme.

Michael Haneke, si rende conto della tensione insostenibile che i suoi film innestano nel sistema nervoso di chi guarda e spezza la continuità delle immagini con spazi dedicati alla distensione. Si allontana quindi dall’ossessione continuativa delle immagini televisive per mettere in guarda l’uomo sul fatto che la necessità di vedere può inconsciamente trasformarsi in una dipendenza. 31


André Bazin sosteneva che:

“L’uomo è spinto ad imbalsamare, a conservare, in qualche modo ciò che è destinato a perire. Ne deriva un’ossessione riproduttiva che viene prima di ogni esigenza estetica” 23.

Haneke riprende questa tesi e la destruttura spezzando, attraverso il “nero” questa tendenza ossessiva verso la riproducibilità. Lo fa parlando degli uomini: le sue sono storie quotidiane che presentano un progressivo spostamento del dolore. Uno spostamento impercettibile sviluppato attraverso una “regia che non si vede”, che approda ad un movimento subliminale dell’immagine che, spogliata di fronzoli e orpelli, appare lineare nella sua essenzialità e avvolta da una banalità inquietante. “Quello che cerco è un tipo di atmosfera riconoscibile per lo spettatore medio di un qualsiasi paese industrializzato. E poi lo distruggo” 24.

Questa tendenza alla distruzione è derivativa dell’Azionismo Viennese e del suo più importante rappresentante Otto Muhel, che nelle sue installazioni distrugge subito l’oggetto prima di trasformarlo in qualcosa di inedito. Attraverso la distruzione degli oggetti Muhel mette in scena la distruzione simbolica delle morali passatiste e sfonda i confini che delimitano i tabù falsi e ipocriti che incatenano l’uomo contemporaneo. Così Michael Haneke costruisce nei suoi film delle situazioni apparentemente serene e quotidiane pronte per essere distrutte e vivisezionate ipotizzando che se non si distrugge prima un oggetto ne resta sempre qualcosa. Questo qualcosa è il dolore, presenza costante e indispensabile nella cinematografia di Haneke che identifica l’uomo nel suo lato più debole e spaventoso. Il dolore è, per il regista austriaco, un magma incandescente che si allarga a macchia d’olio e che prima o poi travolge tutti i suoi personaggi. È una presenza ctonia e persistente che abita in ogni fotogramma e che alimenta il progressivo degradare dell’uomo verso il male, parallelamente al suo allontanarsi dalla spiritualità.

“Mi interessa l’uomo cosciente che il significato dell’esistenza consiste in primo luogo nella lotta contro il male che è dentro di noi, nell’elevarsi nel corso della propria vita sia pure di un solo gradino in senso spirituale. Un’unica alternativa, infatti, si contrappone al cammino dell’elevazione spirituale, ed è quella della degradazione spirituale, alla quale tanto ci predispongono l’esistenza di tutti i giorni e il processo di adattamento ad essa!...” 25 32


Come per Tarkovskij anche per Haneke l’uomo è in equilibrio su di un filo teso tra spirito e materia, ma il suo realismo prende nettamente le distanze dall’ascetismo del regista russo. Le immagini di Haneke, oltre che negare la felicità, costituiscono un sistema di “opposizione” che prevede la malattia mentale e fisica come l’unico baluardo che è possibile alzare contro gli orrori del quotidiano e le angosce esistenziali. Per Haneke l’uomo è incapace di provare sentimenti positivi: non sa più amare e si adagia apaticamente in una società di massa avida di successo e di denaro e che ha definitivamente abdicato verso il “criterio di scelta”. Per questo il suo cinema statico-dinamico, ci offre una ”visionenegata” delle cose positive e si anima di progressivi spostamenti del dolore, perché i suoi personaggi non fanno scelte e non sono protagonisti attivi della loro esistenza, bensì spettatori passivi che si lasciano condurre dal solo desiderio di alleviare e allontanare il dolore che li colpisce, senza ragionare né sulle cause, né sulle conseguenze. Il consumismo e la “società” di massa hanno definitivamente chiuso gli occhi e spento il cervello dell’uomo contemporaneo così che, paradossalmente per un’artista, l’unico modo per scuotere le coscienze rimane quello di negare quella felicità tanto agognata utilizzando immagini statiche ed esasperanti da interrompere bruscamente con uno schermo nero, che dentro il suo vuoto apparente racchiude l’essenza del pensiero e della riflessione.

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