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Alla ricerca di una nuova sostenibilità nelle bonifiche

PER APPLICARE UN MODELLO DI INTERVENTO DI RISANAMENTO AMBIENTALE EFFICACE E SOSTENIBILE È NECESSARIO UN APPROCCIO TECNICO, AUTORIZZATIVO E GESTIONALE CHE TENGA CONTO DELLA PARTICOLARITÀ DELL’INQUINAMENTO DEI SITI CONTAMINATI. L’ANALISI DI RISCHIO SUL SINGOLO CASO VA VALUTATA IN UN’OTTICA TERRITORIALE GENERALE.

Dato l’ormai frequente richiamo alla sostenibilità anche nel campo dei siti contaminati, e data la contrapposta ricorrente difficoltà nell’individuare cosa voglia dire effettivamente per le bonifiche, proviamo a seguire un percorso concettuale che possa prendere una fruttuosa direzione in tal senso. Partiamo dalla base con una domanda meno scontata di quello che possa sembrare: cos’è una bonifica? È un’opera oggetto di autorizzazione ambientale come tutte le altre del pacchetto in cui la legge l’ha inserita, oppure è per sua natura una cosa più simile all’intervento dei vigili del fuoco nello spegnere un incendio? Probabilmente dopo ormai molti anni di applicazione della materia possiamo dire che siamo a metà tra le due opzioni: potremmo forse associare alla bonifica l’immagine di un incendio che richiede qualche anno di attività per essere spento. Un intervento di questo genere si gestisce con un sistema tecnico-giuridico emergenziale? Non esattamente. Un intervento di questo genere si gestisce come un’autorizzazione ambientale per un impianto? Non esattamente. Allora come si fa? Ecco, forse la risposta a questa domanda è proprio la strada per cominciare a definire, intanto, cosa sia davvero una bonifica, e poi anche cosa voglia dire eseguire un intervento di risanamento ambientale in maniera sostenibile.

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Le bonifiche tra normativa, criteri tecnici e gestione

Il ragionamento sta vagamente prendendo la strada della critica alla norma vigente, che non vuole essere l’obiettivo del discorso, anche perché il tanto bistrattato Testo unico ambientale sui siti contaminati ha gestito il difficilissimo problema della traduzione dei concetti giuridici in tecnici, e viceversa, in maniera sofisticata, mettendo a disposizione uno strumento adatto a evitare che ci si perdesse in un ambito scientifico nuovissimo e di difficile gestione. Come spesso capita non è la norma in sé ad essere il vero problema, peraltro tutt’altro che carente rispetto agli altri paesi europei, ma il basso tasso di pragmaticità (e a volte lucidità) con cui la si gestisce. Abbandoniamo quindi la mera critica delle disposizioni vigenti e concentriamoci su aspetti specifici. Torniamo al nostro ostico incendio a lentissimo spegnimento e alla sua essenza ibrida tra l’intervento d’emergenza e la contingentata autorizzazione ambientale. Va da sé che per essere efficace una bonifica deve seguire dei criteri tecnici da rispettare e tenere sotto controllo, non derogabili alla sola volontà del proponente, dato anche l’impegno finanziario che spesso comporta, ma è anche vero che se un proponente presenta un progetto di intervento per spegnere l’incendio e questo non “va bene”, il diniego dell’istanza come se fosse un impianto da non poter costruire perché non conforme al territorio, mentre il fuoco è acceso, perde evidentemente la gran parte del significato che la norma gli affida, sicuramente almeno dal punto di vista operativo.

Sostanzialmente la natura ibrida delle bonifiche mette in stallo il classico meccanismo istanza-verifica/ requisiti-risposta su cui si basa il sistema autorizzativo. Soprattutto è la discrezionalità dell’istante a essere messa in crisi, trattata dalla legge come se fosse il caso di un imprenditore che vuole costruire un’attività per proprio business e chiede se può essere autorizzato. In realtà la scelta di cosa presentare nell’istanza di bonifica è molto più in mano all’autorità competente rispetto a qualsiasi altra autorizzazione e, attenzione, si parla di discrezionalità nel contenuto dell’istanza, non di criteri e requisiti all’interno del quale la richiesta deve stare, sono due cose diverse.

Quando lo spegnimento dell’incendio passa nelle mani delle autorità, sfuggendo magari all’impianto di sicurezza privato regolarmente autorizzato, i Vigili del fuoco non chiedono più a nessuno come e cosa fare su impianti e proprietà di soggetti terzi, lo fanno e basta per raggiungere l’obiettivo finale dell’estinzione del fuoco. Le bonifiche viaggiano verso quella condizione, se i sistemi di sicurezza hanno fatto quello che dovevano, o i sistemi non ci sono perché si tratta di un incidente in contesti non controllati, e le matrici sono state contaminate, per i soggetti coinvolti in realtà c’è ben poco di discrezionale su quello che occorre fare: è l’autorità competente che di fatto conduce il treno anche dal punto di vista propositivo. Ribadiamo che si parla della discrezionalità del contenuto della prima istanza, non dell’autorità che gli enti preposti hanno nell’imporre che un’istanza rientri tra i paletti previsti dalla legge, sono cose differenti.

Il ruolo dell’Autorità di controllo e la natura effettiva della bonifica

Per virare su una gestione sostenibile del risanamento bisognerebbe quindi probabilmente partire da inquadrare correttamente il ruolo e la posizione dell’autorità che le controlla, e non nel senso di avere la libertà di far fare arbitrariamente quello che si vuole al soggetto coinvolto, che sarebbe ancora peggio, ma nel senso che l’autorità dovrebbe prendere coscienza di essere indirettamente fautore della scelta dell’istanza stessa dei progetti, cosa che consentirebbe di allargare l’ottica di approvazione degli stessi anche oltre il confine del singolo sito e della singola procedura, requisito imprescindibile se

si vuole gestire il territorio in maniera sostenibile, con una visione complessiva. “Bruciare” ingenti quantità di risorse in un singolo sito perché imbrigliati in quello che diventa un gioco delle parti nel meccanismo istanza-risposta, con magari decine di altri siti a risorse zero, è certamente una modalità di gestione non sistemica, quindi anche poco sostenibile. L’accanimento terapeutico delle bonifiche è uno degli effetti anomali di questa situazione, palesemente ma invisibilmente in contrasto con i principi di base della sostenibilità. I siti contaminati hanno notoriamente un doppio target di valutazione: quello sanitario e quello ambientale/ecologico. Mentre per il primo ci sono generalmente meno difficoltà nell’individuarne i confini, sul secondo sopravvengono maggiori problemi, perché va a confondersi col punto di vista assoluto delle valutazioni ambientali. L’ottica assoluta fa parte dei sistemi di valutazione delle autorizzazioni ambientali canoniche, con presupposti chiaramente diversi da quelli del modello concettuale dei siti contaminati, e la fusione delle due cose porta a paradossi nascosti. Uno degli esempi concreti è quello della massa di inquinante immesso nell’ambiente. I siti contaminati si occupano di sorgenti inquinanti a massa costante, o al limite in riduzione, spesso in concentrazioni medie nell’ordine dei microgrammi per litro di suolo multimatrice; lo studio si occupa di queste sorgenti secondarie, per capire dove vanno nel sistema e cosa possono comportare, e quindi permettere di decidere se serve intervenire (in estrema sintesi è questo che fanno le bonifiche). Non c’è alcun confronto con, ad esempio, un impianto che emette costantemente un flusso di materia nel tempo seppur a concentrazioni consentite, si parla di ordini di grandezza enormemente diversi ed è per questo motivo che nelle bonifiche è fondamentale non perdere mai la traccia del modello concettuale e di quali siano i margini decisionali. Se il campo di valutazione esce da quello del modello bisogna tenerne debitamente conto, altrimenti le decisioni sono certamente “anti”-sostenibili. Grande attenzione è quindi da porre sugli ambiti delle bonifiche che viaggiano sul confine del modello concettuale, a volte superandolo marginalmente, come ad esempio il cosiddetto target ambientale degli acquiferi, surrogato con grande difficoltà dalla nostra norma nel concetto di punto di conformità. Con grande difficoltà, perché il cosiddetto Poc (punto di conformità) è il tentativo strumentale di valutare l’impatto di una sorgente contaminante sulla condizione di qualità generale di una matrice, cosa classicamente oggetto del sistema di valutazione assoluto non appartenente ai siti contaminati. Il Poc non si occupa di un vero target specifico appartenente al modello concettuale, ma di fatto avrebbe la pretesa di stimare quale sia l’impatto assoluto sulle acque sotterranee di un sistema basandosi sulla concentrazione istantanea in un punto (o anche più di uno) derivante dal mero spostamento di una sorgente a massa costante (spesso anche in degradazione). Come si può confrontare questo con un’emissione di massa costantemente in aumento nel tempo di un impianto? Non si può, sono due cose molto diverse, e il falso target produce attività di accanimento di intervento con grande spreco di risorse e bilanci certamente poco sostenibili.

Dell’accanimento terapeutico fa parte anche la pratica di “sterilizzazione del sistema”, causata anche questa dal falso target ambientale. Il consumo di suolo è un tema di larga scala che comprende anche la contaminazione, una problematica estremamente seria per la stabilità dell’ecosistema. Gli aspetti pedologici del suolo, di grande rilevanza per la sostenibilità degli interventi, fanno parte di quei target ambientali non correttamente percepiti nelle valutazioni di rischio per i siti contaminati, generando la non inusuale pratica di spingere le bonifiche fino a limiti estremi per tendere a questi falsi target, con la conseguenza di sterilizzare le funzioni ecosistemiche pedologiche. Detta in maniera diretta, in molti casi sarebbe molto meglio lasciare nella matrice un residuo di contaminante già inserito nel sistema, e magari in progressiva degradazione, piuttosto che stravolgere i meccanismi del suolo per raggiungere dei target artificiosi ed eliminando le preziose funzioni ecologiche della pedosfera.

Per parlare concretamente di sostenibilità delle bonifiche bisognerebbe quindi evolvere concettualmente sulla natura effettiva dei procedimenti di decontaminazione, non necessariamente con manovre normative, ma primariamente intervenendo sull’aspetto culturale, consentendo all’autorità che tutela il bene pubblico di valutare i singoli casi agganciandoli a tutti gli altri in un’ottica territoriale generale. Bisognerebbe inoltre articolare correttamente le sfaccettature contenute nel target ambientale delle valutazioni di rischio, inappropriatamente compresse in un falso target di conformità, sviluppando il fronte dell’analisi di rischio ecologica attualmente di fatto al palo nel nostro Paese.

Igor Villani

Dg Cura del territorio e dell’ambiente, Regione Emilia-Romagna

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