Notiziario diocesano maggio 2018 5 (1)

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Anno VII – n. 71 – Maggio 2018

Papa Francesco e Vescovo Vito pag. 1


Saluto di Papa Francesco Cari fratelli e sorelle, sono giunto pellegrino in questa terra che ha dato i natali al Servo di Dio Tonino Bello. Ho appena pregato sulla sua tomba, che non si innalza monumentale verso l’alto, ma è tutta piantata nella terra: Don Tonino, seminato nella sua terra – lui, come un seme seminato –, sembra volerci dire quanto ha amato questo territorio. Su questo vorrei riflettere, evocando anzitutto alcune sue parole di gratitudine: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te (BOLLETTINO N. 0287 20.04.2018 2) ma che, proprio per questo, mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli»[1]. Capire i poveri era per lui vera ricchezza, era anche capire la sua mamma, capire i poveri era la sua ricchezza. Aveva ragione, perché i poveri sono realmente ricchezza della Chiesa. Ricordacelo ancora, don Tonino, di fronte alla tentazione ricorrente di accodarci dietro ai potenti di turno, di ricercare privilegi, di adagiarci in una vita comoda. Il Vangelo – eri solito ricordarlo a Natale e a Pasqua – chiama a una vita spesso scomoda, perché chi segue Gesù ama i poveri e gli umili. Così ha fatto il Maestro, così ha proclamato sua Madre, lodando Dio perché «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). Una Chiesa che ha a cuore i poveri rimane sempre sintonizzata sul canale di Dio, non perde mai la frequenza del Vangelo e sente di dover tornare all’essenziale per professare con coerenza che il Signore è l’unico vero bene. Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Don Tonino sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino a spossessarsi di sé. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l’indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l’incertezza del lavoro, problema oggi ancora tanto attuale. Non perdeva occasione per affermare che al primo posto sta il lavoratore con la sua dignità, non il profitto con la sua avidità. Non stava con le mani in mano: agiva localmente per seminare pace globalmente, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Infatti, se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra[2]. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe, là dove artigianalmente si plasma la comunione. Diceva, speranzoso, don Tonino: «Dall’officina, come un giorno dalla bottega di Nazareth, uscirà il verbo di pace che instraderà l’umanità, assetata di giustizia, per nuovi destini»[3]. Cari fratelli e sorelle, questa vocazione di pace appartiene alla vostra terra, a questa meravigliosa terra di frontiera – finis-terrae – che Don Tonino chiamava “terra-finestra”, perché dal Sud dell’Italia si spalanca ai tanti Sud del mondo, dove «i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno»[4]. Siete una «finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia»[5], ma siete soprattutto una finestra di speranza perché il Mediterraneo, storico bacino di civiltà, non sia mai un arco di guerra teso, ma un’arca di pace accogliente[6]. Don Tonino è uomo della sua terra, perché in questa terra è maturato il suo sacerdozio. Qui è sbocciata la sua vocazione, che amava chiamare evocazione: evocazione di quanto follemente Dio predilige, ad una ad una, le nostre fragili vite; eco della sua voce d’amore che ci parla ogni giorno; chiamata ad andare sempre avanti, a sognare con audacia, a decentrare la propria esistenza per metterla al servizio; invito a fidarsi sempre di Dio, l’unico capace di trasformare la vita in una festa. Ecco, questa è la vocazione secondo don Tonino: una chiamata a diventare non solo fedeli devoti, ma veri e propri innamorati del Signore, con l’ardore del sogno, lo slancio del dono, l’audacia di non fermarsi alle mezze misure. Perché quando il Signore incendia il cuore, non si può spegnere la speranza. Quando il Signore chiede un “sì”, non si può rispondere con un “forse”. Farà bene, non solo ai giovani, ma a tutti noi, a tutti quelli che cercano il senso della vita, ascoltare e riascoltare le parole di Don Tonino. In questa terra, Antonio nacque Tonino e divenne don Tonino. Questo nome, semplice e familiare, che leggiamo sulla sua tomba, ci parla ancora. Racconta il suo desiderio di farsi piccolo per essere vicino, di accorciare le distanze, di offrire una

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mano tesa. Invita all’apertura semplice e genuina del Vangelo. Don Tonino l’ha tanto raccomandata, lasciandola in eredità ai suoi sacerdoti. Diceva: «Amiamo il mondo. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Usiamogli misericordia. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza»[7]. Sono parole che rivelano il desiderio di una Chiesa per il mondo: non mondana, ma per il mondo. Che il Signore ci dia questa grazia: una Chiesa non mondana, al servizio del mondo. Una Chiesa monda di autoreferenzialità ed «estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé»[8]; (BOLLETTINO N. 0287 - 20.04.2018 3) non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso; mai assopita nelle nostalgie del passato, ma accesa d’amore per l’oggi, sull’esempio di Dio, che «ha tanto amato il mondo» (Gv 3,16). Il nome di “don Tonino” ci dice anche la sua salutare allergia verso i titoli e gli onori, il suo desiderio di privarsi di qualcosa per Gesù che si è spogliato di tutto, il suo coraggio di liberarsi di quel che può ricordare i segni del potere per dare spazio al potere dei segni[9]. Don Tonino non lo faceva certo per convenienza o per ricerca di consensi, ma mosso dall’esempio del Signore. Nell’amore per Lui troviamo la forza di dismettere le vesti che intralciano il passo per rivestirci di servizio, per essere «Chiesa del grembiule, unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo»[10]. Da questa sua amata terra che cosa don Tonino ci potrebbe ancora dire? Questo credente con i piedi per terra e gli occhi al Cielo, e soprattutto con un cuore che collegava Cielo e terra, ha coniato, tra le tante, una parola originale, che tramanda a ciascuno di noi una grande missione. Gli piaceva dire che noi cristiani «dobbiamo essere dei contempla-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell’azione»[11], della gente che non separa mai preghiera e azione. Caro don Tonino, ci hai messo in guardia dall’immergerci nel vortice delle faccende senza piantarci davanti al tabernacolo, per non illuderci di lavorare invano per il Regno[12]. E noi ci potremmo chiedere se partiamo dal tabernacolo o da noi stessi. Potresti domandarci anche se, una volta partiti, camminiamo; se, come Maria, Donna del cammino, ci alziamo per raggiungere e servire l’uomo, ogni uomo. Se ce lo chiedessi, dovremmo provare vergogna per i nostri immobilismi e per le nostre continue giustificazioni. Ridestaci allora alla nostra alta vocazione; aiutaci ad essere sempre più una Chiesa contemplativa, innamorata di Dio e appassionata dell’uomo! Cari fratelli e sorelle, in ogni epoca il Signore mette sul cammino della Chiesa dei testimoni che incarnano il buon annuncio di Pasqua, profeti di speranza per l’avvenire di tutti. Dalla vostra terra Dio ne ha fatto sorgere uno, come dono e profezia per i nostri tempi. E Dio desidera che il suo dono sia accolto, che la sua profezia sia attuata. Non accontentiamoci di annotare bei ricordi, non lasciamoci imbrigliare da nostalgie passate e neanche da chiacchiere oziose del presente o da paure per il futuro. Imitiamo don Tonino, lasciamoci trasportare dal suo giovane ardore cristiano, sentiamo il suo invito pressante a vivere il Vangelo senza sconti. È un invito forte rivolto a ciascuno di noi e a noi come Chiesa. Davvero ci aiuterà a spandere oggi la fragrante gioia del Vangelo. Adesso, tutti insieme, preghiamo la Madonna e dopo vi darò la benedizione, d’accordo? [Ave Maria e benedizione] [1] «Grazie, Chiesa di Alessano», La terra dei miei sogni. Bagliori di luce dagli scritti ugentini, 2014, 477. [2] Cfr S. Giovanni Paolo II, «Se cerchi la pace, va’ incontro ai poveri», Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, 1° gennaio 1993. [3] La terra dei miei sogni, 32. [4] «Il pentalogo della speranza», Scritti vari, interviste aggiunte, 2007, 252. [5] «La speranza a caro prezzo», Scritti di pace, 1997, 348. [6] Cfr «La profezia oltre la mafia», ivi, 280. [7] «Torchio e spirito. Omelia per la Messa crismale 1993», Omelie e scritti quaresimali, 2015, 97. [8] «Sacerdoti per il mondo», Cirenei della gioia, 2004, 26. [9] «Dai poveri verso tutti», ivi, 122 ss. [10] «Configurati a Cristo capo e sacerdote», ivi, 61. [11] Ivi, 55.

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[12] Cfr «Contempl-attivi nella ferialità quotidiana», Non c’è fedeltà senza rischio, 2000, 124; «Soffrire le cose di Dio e soffrire le cose dell’uomo», Cirenei della gioia, 81-82.

Saluto del Vescovo Mons. Vito Angiuli Beatissimo Padre, Le rivolgo il saluto a nome della Chiesa di Ugento-S. Maria di Leuca, dei confratelli Vescovi, delle Autorità religiose, istituzionali, civili e militari, dei familiari di don Tonino Bello, degli ammalati, dei migranti, dei giovani e di tutta la gente del Salento. Grande è la nostra gioia perché sappiamo di vivere oggi un giorno memorabile. L’incontro con Lei lascerà un segno indelebile nella nostra storia e rimarrà sempre vivo nella memoria del popolo salentino. La ringraziamo, Padre Santo, per questo Suo gesto di squisita paternità nei riguardi del Servo di Dio, Mons. Antonio Bello, nel XXV anniversario del suo dies natalis. La sosta orante presso la sua tomba è espressione di sincera ammirazione per l’esempio di vita evangelica che egli ha offerto, ma è anche un invito, rivolto a tutti noi, a seguire i suoi insegnamenti e a diventare, come lui, veri discepoli del Signore. Molto è stato scritto e detto in questi venticinque anni su don Tonino. La più bella testimonianza è quella offerta da lui stesso. Così egli scriveva: «Volevo diventare santo. Cullavo l’idea di passare l’esistenza tra i poveri in terre lontane, aiutando la gente a vivere meglio, annunciando il Vangelo senza sconti, e testimoniando coraggiosamente il Signore Risorto»1. Siamo persuasi che questa sua aspirazione si è pienamente realizzata ed è diventata per noi uno stimolo a incamminarci sulla via della santità; quella via che Lei ci ha invitato a percorrere con la Sua recente Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate. Il Cardinale Carlo Maria Martini, che ha conosciuto personalmente don Tonino, ha scritto che in lui brillava «la centralità assoluta del mistero di Gesù crocifisso e risorto»2. Anche Mons. Angelo Magagnoli, Rettore del seminario dell’Onarmo di Bologna, era convinto che don Tonino era stato «uno strumento docile per scuotere dal torpore tanti cristiani». E aggiungeva: «Non mi meraviglierei se domani la Chiesa lo dichiarasse santo»3. Non ce ne meravigliamo nemmeno noi. Anzi lo auspichiamo ardentemente. 1

A. Bello, Pietre di scarto, La Meridiana, Molfetta 1997, pp. 23-24. C. M. Martini, Introduzione, A. Bello, Ti voglio bene, La Meridiana, Molfetta 1994, p. 7. 3 A. Magagnoli, Non mi meraviglierei se la Chiesa lo dichiarasse santo, in A. Bello, La terra dei miei sogni. Bagliori di luce dagli scritti ugentini, a cura di V. Angiuli e R. Brucoli, Ed Insieme, Terlizzi (BA) 2014, p. 630. 2

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Una testimonianza particolarmente toccante è quella di due ragazzi, due ministranti, che mi hanno inviato una tenerissima lettera nella quale hanno scritto queste parole: «La visita del Papa sulla tomba di don Tonino è segno di forte unione tra loro due. L’episcopato di don Tonino e il pontificato di Papa Francesco hanno in comune la semplicità bella dell’umiltà. Speriamo di vedere presto don Tonino Beato!! Don Tonino è vivo esempio per i nostri pastori. È stato per tutti, don Tonino, prima che Vescovo, papà del suo popolo, mostrando una forte paternità». Testimonianza commovente: due ragazzi che non hanno conosciuto don Tonino, a distanza di venticinque anni dalla sua morte, avvertono il fascino della sua paternità e additano il suo stile di vita come un esempio per noi pastori. La Sua visita, Padre Santo, cade a dieci anni da quella di Papa Benedetto XVI. Sostando presso la Basilica di Leuca per venerare la Vergine de finibus terrae, egli ha esortato la nostra Chiesa a considerare i confini geografici, culturali, etnici, addirittura i confini religiosi come un invito al dialogo e all’evangelizzazione nella prospettiva della “comunione delle diversità”. La “convivialità delle differenze” è stato anche il programma di vita perseguito instancabilmente dal Servo di Dio, don Tonino Bello. Ed è anche l’esortazione che Lei continuamente ci rivolge. Seguendo i Suoi insegnamenti, contenuti in Evangelii gaudium e in Laudato si’, abbiamo compreso meglio la specifica vocazione della nostra Chiesa particolare e dell’intero territorio del Salento: essere un ponte di fraternità nel Mediterraneo. Lo scorso mese di agosto, per il secondo anno consecutivo, abbiamo organizzato un meeting internazionale al quale hanno partecipato giovani di varie nazionalità, culture e religioni provenienti da parecchi paesi che si affacciano sul Mediterraneo per dialogare e sottoscrivere la “Carta di Leuca”, un appello rivolto ai governanti per fare del Mediterraneo “un’arca di pace”. Nella circostanza, Padre Santo, Lei ci ha inviato un Suo Messaggio incoraggiandoci «a considerare la presenza di tanti fratelli e sorelle migranti un’opportunità di crescita umana, di incontro e di dialogo, come anche un’occasione per annunciare e testimoniare il Vangelo della carità». Santità, nelle Sue esortazioni all’amore verso i poveri, all’impegno per la pace, all’accoglienza dei migranti, ci sembra di riascoltare l’eco delle parole che più volte ci ha rivolto il nostro amato don Tonino. Nei Suoi gesti, ci pare di intravedere gli esempi di vita che don Tonino ci ha lasciato. Troppo evidente ci sembra la somiglianza. Ogni volta che Lei appare alla finestra del Palazzo Apostolico, a noi viene in mente il titolo di un libro di don Tonino: Alla finestra la speranza. Sì, Padre Santo, le Sue parole, come quelle di don Tonino, ci aiutano a non farci rubare la speranza. Ed è proprio la speranza che ci sostiene nell’affrontare alcuni gravi problemi che affliggono il nostro territorio: il flagello della xylella che ha devastato la bellezza dei nostri alberi d’ulivo; il ricorrente tentativo di deturpare il nostro mare; la precarietà e la mancanza di lavoro; la ripresa delle migrazioni di molti giovani e di interi nuclei familiari; il grido di dolore di tanti poveri umiliati nella loro dignità umana.

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La Sua presenza, oggi, in mezzo a noi mette le ali alla nostra speranza e ci sprona a seguire con più audacia il sentiero della pace indicato da don Tonino e richiamato dalla Sua Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate. In essa, Lei ci sollecita ad «essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza. Seminare pace intorno a noi, questo è santità» (n. 89). Per questo, Padre Santo, ci siamo uniti alla preghiera per la pace che Lei ha rivolto al Signore presso la tomba del Servo di Dio. La ringraziamo per le parole di esortazione che vorrà rivolgerci. Le vogliamo bene e Le assicuriamo la nostra filiale e costante preghiera. Ci custodisca nel Suo cuore di Padre e ci benedica. Le consegno, ora, il frutto della generosità del popolo di Dio, quale contributo alla Sua intensa opera di carità nei riguardi dei poveri. Grazie, Papa Francesco.

+ Vito Angiuli Vescovo di Ugento- S. Maria di Leuca

Del VESCOVO Don Tonino Bello e l’etica a doppio binario Gazzetta del Mezzogiorno 6 maggio 2018

Non c’è due, senza tre. E così, in continuità con gli altri due articoli, mi soffermo sul risvolto etico del pensiero di don Tonino Bello. Che egli sia ammirato da molti, è cosa nota. Che gli ammiratori conoscano bene e integralmente il suo pensiero, è cosa che mi lascia molto perplesso. Ma non mi meraviglio. Viviamo nel tempo della “liquidità”. Non è necessario essere veramente informati, basta una frasetta, letta sui social, per sentirsi seguaci di don Tonino. Sempre che la frasetta sia vera. Ma, per l’ammiratore, questa è una cosa secondaria, l’importante è che essa susciti un’emozione. Naturalmente, secondo la sua sensibilità e precomprensione. Con don Tonino, l’ammiratore si comporta come oggi si è soliti fare nei riguardi della religione cristiana. Ovvero come quando si fa la spesa al supermercato. Si prende ciò che piace e si lascia negli scaffali ciò che non attira. Insomma, si desidera una religione “fai da te”. C’è, poi, chi è indifferente. Chi si limita a criticare e a giudicare i comportamenti dei cristiani che, bisogna onestamente ammettere, non sono sempre secondo il Vangelo. E vi è anche chi, pur rifiutando qualsiasi dogma, pretende di insegnare ai cristiani come interpretare il Vangelo e come metterlo in pratica. Tra queste categorie di persone, non mancano quelli che sono affetti da un’ammirazione viscerale e sconfinata per don Tonino. Ovviamente, non per la Chiesa. Come se don Tonino fosse una specie di alieno, venuto da un altro mondo, e non un cristiano, un sacerdote e un vescovo che parla con audacia e parresia e si proclama figlio della Chiesa cattolica. Quasi tutti questi ammiratori sono colpiti dalla “sindrome di Giano bifronte”. Esaltano in don Tonino, fino alla noia e all’ossessiva ripetizione, i temi sociali (la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato ecc..) e nascondono sotto il tappeto i temi etici riguardanti la persona e la famiglia (il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, ecc..). I due aspetti, però, non si possono separare, né Don Tonino li ha mai divisi. Anzi, il criterio che lo ha guidato è quello di superare la morale del doppio binario, sia nel senso di non separare il piano privato da quello pubblico, sia nel senso di non disgiungere l’etica sociale dall’etica

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personale. Egli stesso afferma: «La morale del doppio binario circola a piede libero, perfino negli ambienti che del verbo di Cristo dovrebbero fare il principio architettonico di ogni scelta a costo di sbagliare per eccesso» (A. Bello, Non-violenza: etica a doppio binario? in “Piupolitica”, 1991, p. 1). Pertanto, se si considera don Tonino un profeta per il primo aspetto, bisogna ritenerlo un profeta anche per il secondo. Non è necessario che io mi diffonda a illustrate i temi sociali perché sono molto conosciuti. È opportuno, invece, colmare la lacuna circa le scottanti questioni dell’etica personale e familiare. Da parte mia, non faccio nessun commento. Mi limito solo a citare alcune frasi (vere!) di don Tonino. Quanto al divorzio, da sacerdote, egli scriveva: «Cosa diremo sul divorzio? Che è una frattura. È una rottura. È un regresso. È una involuzione. È lo sgretolarsi di un edificio. È il frantumarsi di una scultura. È l’inaridirsi di uno stelo. Pertanto è un male, è un disvalore. È una constatazione di morte là dove c’era la vita» (Tonino Bello, “La terra di miei sogni”, p. 223). Quanto all’aborto, ancora da prete, ammoniva: «È lecito l’aborto? La risposta è scontata. L’aborto procurato, cioè l’espulsione volontaria dall’utero materno di un feto vivo, ma non vitale è sempre un crimine. La ragione è semplice: l’aborto è la soppressione di un essere umano» (ivi, p. 327). Divenuto Vescovo, nella famosa preghiera, “Dammi, Signore, un’ala di riserva”, rincarò la dose: «L’aborto è un oltraggio grave alla tua (di Dio) fantasia. È un crimine contro il tuo genio. È un riaffondare l’aurora nelle viscere dell’oceano. È l’antigenesi più delittuosa. È la “decreazione” più desolante. È l’antipasqua» (vol. III, p. 316). Chiedo in modo provocatorio: cosa avrebbe detto e scritto don Tonino se fosse vissuto fino ai nostri giorni, dopo tutto quello che è accaduto in questi anni: unioni civili, maternità surrogata, eutanasia, ecc.? Lascio immaginare al lettore la risposta. Da parte mia, ribadisco che con don Tonino, come con il Vangelo, non si può fare come l’ape che succhia il nettare volteggiando fior da fiore. Non si può scegliere solo ciò che piace o fa comodo. O si prende tutto o non si prende niente. Dopo questa semplice precisazione, sorge in me un dubbio: gli ammiratori, seguaci della morale a doppio binario, continueranno ad ammirare? E da appassionati tifosi di don Tonino, diventeranno suoi coerenti imitatori? Oppure, come fecero alcuni discepoli con Gesù, diranno: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6,60). In questo caso, è possibile che, come Gesù, anche don Tonino risponda: «Questo vi scandalizza?... Volete andarvene anche voi?» (Gv 6, 61.67). + Vito Angiuli Vescovo di Ugento- S. Maria di Leuca

Solidarietà, educazione e politica in don Tonino Bello Articolo in “Nuovo Quotidiano di Puglia- Lecce”, domenica 6 maggio 2018, pp. 1 e 30.

Mentre in Italia siamo in una fase di stallo per i veti incrociati tra i partiti e la difficoltà di dar vita a un governo che sia capace di affrontare i gravi problemi della nostra società, può essere utile riprendere alcuni aspetti del pensiero di don Tonino Bello, anche per i risvolti che essi possono avere nella situazione che stiamo vivendo in questi giorni. In questo articolo, ne richiamo tre: la solidarietà con i poveri, l’educazione dei giovani, un’azione politica intesa come “arte nobile e difficile”. Dal suo ambiente, don Tonino ha attinto e sviluppato una spiccata sensibilità verso i problemi sociali, in modo particolare verso i temi del lavoro, dimostrata fin dagli scritti giovanili durante gli anni degli studi teologici presso il Seminario dell’Onarmo di Bologna. Ha considerato la precaria situazione dei braccianti di Puglia, l’instabilità e la precarietà del lavoro, la meschina retribuzione. L’educazione ricevuta durante la sua infanzia, in famiglia e nella comunità parrocchiale, è stata la scuola di vita da cui ha imparato l’amore a Cristo e ai poveri. Ha inteso la scelta preferenziale verso gli ultimi non come uno slogan, ma come una concreta attuazione del Vangelo. I poveri non sono solo i destinatari dell’annuncio,

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ma sono anche i depositari della fede e i soggetti privilegiati dell’evangelizzazione. Per questo ha scelto come motto episcopale l’espressione: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3). Ha preferito parlare di “ultimi”, volendo con questo indicare tutte le forme di povertà senza escludere nessuna e sottolineare che essi sono i protagonisti della storia di salvezza (cfr. vol. V, pp. 115-116). Ha vissuto, poi, il servizio ai giovani in due direzioni: mostrare a ognuno di loro il fascino di seguire Cristo e accompagnare i seminaristi a scoprire la bellezza della vocazione sacerdotale. Alle nuove generazioni ha insegnato a incamminarsi sulla via della santità, praticando la virtù dello stupore e della meraviglia, la capacità di sognare e di avere grandi ideali, la passione per la vita, la gioia di godere di ogni frammento di tempo, la bellezza di servire gli ultimi. Nella famosa preghiera Dammi, Signore, un’ala di riserva, li ha esortati a osare, a spiccare il volo come un gabbiano all’ebbrezza del vento, assaporando l’avventura della libertà, con la fiducia di chi sa di avere il Signore come partner del proprio sogno (cfr. vol. III, pp. 315-316). Ha invitato gli educatori a instaurare un rapporto di reciproco ascolto e fiducia, senza atteggiamenti paternalistici, ma scommettendo sulle sorprese di Dio e lasciando che i giovani siano liberi e protagonisti della loro esistenza (cfr. vol. II, pp. 352-353). Ai seminaristi ha mostrato che la vocazione è un’evocazione: un atto d’amore creativo e personale, una forza attrattiva che fa innamorare di Cristo, una capacità di sognare e di guardare in avanti verso il futuro con audacia, una coraggiosa decisione di decentrare la propria esistenza per metterla a servizio degli altri, un’esperienza di abbandono alla volontà di Dio, l’unico che è capace di trasformare la vita in una festa. Ha esorato gli accompagnatori vocazionali a mettersi a servizio dell’iniziativa educativa di Dio, praticando la “pedagogia della soglia” sostando cioè «sul portone della loro coscienza, senza invaderla» (vol. III, p. 220). E’ stato, infine, formatore di coscienze laicali mature attraverso la sua azione divulgativa e formativa dei temi conciliari, in particolare delle quattro costituzioni. Sapeva parlare ai più esigenti e farsi capire dai più semplici. Ha educato tutti a discernere con attenzione i segni dei tempi. Riteneva, infatti, essere sempre più necessario mettersi in ascolto del futuro, leggere in profondità le linee di tendenza dello sviluppo sociale per intuire quale tipo di servizio la Chiesa dovesse fornire ai giovani, ai lavoratori, al mondo della cultura. Ha suggerito di guardare con occhi nuovi la realtà perché «a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli “occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono “provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall’egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente» (vol. II, pp. 396-397). Ha invitato i laici ad essere animatori della carità, a farsi promotori di giustizia, a vivere forme di volontariato, a perseguire una seria formazione politica «senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale» (vol. V, p. 110 ). Agli uomini impegnati in politica ha ricordato che la politica è un’arte “nobile e difficile” che non deve essere deturpata da una pratica faccendiera, da manovre di basso profilo, ma deve essere sostenuta da una dimensione contemplativa della vita, valorizzando il silenzio e l’invocazione e mettendo al centro il bene comune e il supremo valore della persona. In conclusione, l’attenzione alle diverse forme di povertà, un rinnovato impegno educativo nei riguardi delle nuove generazioni e un’azione politica intesa come “arte nobile e difficile” non potrebbero essere tre punti intorno ai quali trovare una convergenza tra le diverse anime presenti nella società civile e, di conseguenza, giungere in fretta a un’intesa tra i partiti per promuovere una coesione sociale e dare vita a un governo stabile, duraturo ed efficace? + Vito Angiuli Vescovo di Ugento- S. Maria di Leuca

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POVERTA’, BELLEZZA E DON TONINO Gazzetta del Mezzogiorno 30 aprile 2018 Avverto il lettore di leggere questo articolo in continuità con il precedente, pubblicato su questo stesso giornale (giovedì, 26 aprile 2018, a pagina 2). L’intento è lo stesso, differente è il tema. Questa volta, intendo soffermarmi sulla visione ecclesiologica di don Tonino Bello. Più volte è stato sottolineato che, nell’esercizio del ministero pastorale, egli ha cercato di vivere l’ideale di mettersi a servizio di una Chiesa povera con i poveri, vicina agli uomini, spoglia di potere, gioiosa nel condividere le sofferenze degli ultimi; una Chiesa aperta a tutti e accogliente verso tutti; una Chiesa che scruta i segni dei tempi e compie un profondo discernimento per non camminare «con metodi scontati, con improvvisazioni pastorali, con ritmi di puro contenimento, con procedure di facile conservazione» (vol. II, p. 292), ma per agire nella consapevolezza che le sfide dei tempi impongono «d’urgenza non tamponamenti passeggeri, ma cambi radicali di mentalità, che si traducono in un’attitudine missionaria tesa a varcare il tempo più che varcare lo spazio» (vol. V, p. 96). Don Tonino ha disegnato la sua visione ecclesiologica con alcune immagini. La prima è la famosissima «Chiesa del grembiule». Forse non tutti sanno quale sia la sua origine. Vale la pena di raccontare l’episodio, richiamato più volte da don Giuseppe De Candia. Don Tonino era intento a scrivere un articolo, ma non gli riusciva di trovare la parola giusta per dire il suo pensiero. Per questo chiese a don Giuseppe che cosa stesse facendo. Questi gli rispose che era in cucina, intento a sbrigare alcuni servizi e per questo aveva cinto intorno ai fianchi il grembiule. «Finalmente - esclamò don Tonino – il grembiule è la parola giusta». Non è necessario che mi soffermi a illustrare il significato di questa immagine perché molto è stato detto. Forse con un’eccessiva enfasi rispetto alle altre immagini. Certo, va ribadito che, per don Tonino, stola e grembiule sono «un unico panno di servizio» (vol. V, p. 103). La seconda immagine è quella dell’albero che ha le radici piantate in cielo, nel terreno della comunione trinitaria. Di quest’albero, l’Eucaristia è la gemma preziosa e la Chiesa è il fiore che nasce dall’Eucaristia e spande i suoi frutti nel mondo e per il mondo. «L’Eucaristia è la prima gemma che spunta sull’albero della Trinità. Quando questa gemma scoppia, viene fuori la Chiesa. La Chiesa, quindi, non è altro che il sacramento eucaristico pienamente sbocciato. Ma c’è un altro passaggio da fare: che cosa è la Chiesa rispetto al mondo? Quel che è l’Eucaristia rispetto alla Chiesa. La Chiesa non è altro che l’inizio del mondo come Dio l’ha concepito. E il mondo non è altro che la Chiesa pienamente sbocciata» (vol. VI, p. 549). La terza immagine è quella del viaggio. La Trinità è la stazione di partenza della storia (Ecclesia de Trinitate), ma è anche la stazione di arrivo, il punto di approdo di tutto il cammino dell’umanità (Ecclesia ad Trinitatem). Lungo il percorso vi è una tappa intermedia: l’Eucaristia. Continuando il cammino si incontra un’altra stazione: il mondo. Orientata verso la Trinità, la Chiesa incontra il mondo, lo aggancia e lo spinge verso la Trinità. La quarta immagine è quella della tenda. Come lo Spirito Santo «ha gonfiato» il grembo della Vergine Maria rendendola feconda di grazia e generatrice del Verbo incarnato, così lo stesso Spirito «gonfia» la tenda della Chiesa facendola diventare madre di una moltitudine di figli. Senza la presenza e l’azione dello Spirito, la tenda comincia a svuotarsi e a rimpicciolirsi e assomiglia sempre più a un telo di parcheggio e di protezione invece di presentarsi come un accampamento di speranza e di missione. Lasciandosi animare dallo Spirito, la tenda si allarga e, da telo piantato saldamente a terra, diventa tenda che si arrotola per riprendere il cammino e raggiungere gli ultimi della terra, andando fino ai confini del mondo (cfr. vol. II, pp. 188-202). La quinta immagine è quella della Chiesa, popolo di Dio. Al termine del suo ministero episcopale, don Tonino ha sintetizzato il suo stile pastorale con queste parole: «Ho sperimentato una grande passione per il popolo. Mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente. Introdurre nel grande episcopio di Molfetta la gente che era diseredata, senza casa, povera, non per smania di esibizionismo [….] mi sentivo a mio agio, mi sentivo più in sintonia col mio ministero» (vol. VI, p. 508). La sesta immagine è quella del «pronto soccorso». Consapevole dei molteplici problemi che attraversano il mondo, la Chiesa deve adoperarsi, come il buon samaritano, a fasciare le ferite degli uomini con l’olio dello Spirito e il vino della speranza. In definitiva, la Chiesa disegnata e insegnata da don Tonino, non è una «povera Chiesa», ma una Chiesa povera e bella; una Chiesa che vive tra il cielo e la terra, felice di adorare Dio e condividere le gioie e le speranze del mondo; una Chiesa che è «l’icona della santissima Trinità, anzi, è la propaggine della comunità

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divina che si prolunga sui versanti della storia e della cronaca» (vol. VI, p. 547). *Vescovo di Ugento- S. Maria di Leuca

IL PAPA CI FA RISCOPIRE DON BELLO

Gazzetta del Mezzogiorno 26 Aprile 2018

Non c’è da meravigliarsi se i profeti non sono sempre compresi e accettati da tutti. Su don Tonino Bello, profeta amato da alcuni e frainteso da altri, credo sia giunto il momento di fare qualche precisazione. Qualcuno ha detto che i suoi scritti non hanno bisogno di interpreti, ma di lettori. Affermazione verissima, a patto che essi leggano integralmente quanto è scritto e mantengano intatto il fascino dei binomi essenziali senza sminuire il loro andamento dialettico. Mi riferisco soprattutto ai “temi scottanti” della vita, della pace, della misericordia, dei poveri e della Chiesa. Circa la questione della vita, è sufficiente far riferimento alla famosa preghiera “Dammi, Signore, un’ala di riserva”, composta sull’acrostico della parola vita. Con le prime tre lettere don Tonino compone un inno “all’ala di riserva”, nella quarta accenna, con parole inequivocabili, ai peccati contro la vita: l’aborto, il rifiuto della casa, del lavoro, dell’istruzione, dei diritti primari. Di solito, si recitano e si cantano solo le prime tre parti, mentre la quarta passa nel dimenticatoio. In verità, don Tonino chiedeva di planare dal piano poetico a quello, terra terra, della denuncia di tutte le forme di attentato alla vita. A differenza di qualche lettore e qualche interprete, egli coniugava insieme l’etica personale e l’etica sociale. Il testo, invece, viene tagliato a proprio piacimento per dire non il pensiero dell’autore, ma ciò che piace al lettore. Operazione scorretta per mancanza di fedeltà all’intenzione e alla lettera di quanto don Tonino ha realmente scritto. Il tema della pace è modulato sul versetto 11 del salmo 85: «Giustizia e pace si baceranno»; e sulle parole del profeta Isaia 32,17: «La pace è frutto della giustizia». In sintonia con la Parola di Dio, don Tonino coniuga insieme giustizia e pace senza scivolare in un pacifismo a buon mercato. La pace, per lui, è Cristo venuto a instaurare il «regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio). Le citazioni per avvalorare questa tesi sono molte. Invito, pertanto, a leggere l’intero quarto volume intitolato «Scritti di pace». Lo stesso versetto del medesimo salmo recita: «Misericordia e verità s’incontreranno». Per don Tonino, la misericordia non è sinonimo di buonismo senza verità, e la verità non è una proposta fredda e senza amore. Per questo, ai politici, egli ribadiva che «la più grande opera di misericordia che voi potete compiere è quella di rimanere fedeli a Dio e fedeli all’uomo. Chi non fa sintesi partendo da questi due punti di fuga, non potrà essere “uomo di misericordia” (vol. VI, p. 59). Ai sacerdoti e ai fedeli richiamava la necessità di un “oriz zontalismo verticale” (vol. VI, p. 66). Più in generale, contro la cultura nichilista abbarbicata sul pensiero negativo secondo il quale non vi è nessun principio, nessun centro, nessun fine, nessuna verità, don Tonino invitava a parlare con audacia «che non significa spericolatezza, temerarietà, ma parresia cioè libertà, franchezza di parola, capacità propositiva di dire le cose, proprio nel nome del Vangelo» (vol. IV, p.65). Il quarto binomio si riferisce al rapporto tra l’Eucaristia e i poveri. In questo caso, il Servo di Dio utilizzava due immagini strettamente collegate tra di loro: “il Signore del tabernacolo” (l’Eucaristia) e “il tabernacolo del Signore” (i poveri). In sintonia con l’insegnamento della Scrittura, dei Padri e del Magistero, egli ricordava che il cristiano non può celebrare l’Eucaristia dimenticando i poveri e non può soccorrere i poveri prescindendo dall’Eucaristia. In altri termini, il riferimento ai poveri non può essere solo espressione di un puro sentimento filantropico, e la celebrazione eucaristica è infruttuosa se non sfocia nell’amore verso i poveri. La liturgia e la carità sono due facce della stessa medaglia. «Se prima (si noti il primato dell’azione liturgica!) non si è stati a “tavola” (la tavola eucaristica!), anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo» (vol. V, p. 104). Il tabernacolo è duplice: l’Eucaristia e i poveri. Il Signore è lo stesso. Lo si adora nell’Eucaristia, lo si venera nei poveri. Sulla famosa locuzione “Chiesa del grembiule”don Tonino ammoniva a indossare “la stola e il grembiule” in quanto essi sono «quasi il diritto e il rovescio dell’unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo.

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La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe sterile» (vol. V, p. 103). Il servizio, pertanto, non va inteso come una “prestazione d’ope - ra”, ma come una relazione d’amore verso Dio e verso il prossimo. Servizio «significa abbandono a Dio: una Chiesa è credibile solo se è credente» (vol. VI, p. 412). Dopo questa sintetica precisazione, spero che, d’ora in poi, i lettori proveranno gioia nello scorrere integralmente gli scritti del Servo di Dio e gli interpreti, di tutti i tipi e di tutti gli orientamenti (“di destra”, “di sinistra” e anche “di centro”), comprenderanno che don Tonino ha usato il criterio supremo della dottrina cristiana ossia il principio calcedonese “dell’et-et” e non quello “dell’aut-aut”. Dopo aver ottemperato alla regola elementare della lettura integrale dei testi, come d’in - canto scompariranno tutte le interpretazioni non conformi alla verità. Questo cambiamento di prospettiva sarà uno dei frutti più belli e duraturi della visita di Papa Francesco ad Alessano e a Molfetta.

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Don Tonino Bello nel Seminario vescovile di Ugento (1958-1976) di Antonio Scarascia* Io credo che gli apprezzamenti rivolti al mio libro[1] devono essere indirizzati a don Tonino e alla traccia di sé lasciata su Antenna[2]. Perché sono le Sue parole e i Suoi gesti riemersi da quelle pagine, più che la mia ricostruzione, che sanno restituire al lettore, intatta e vivida, l’esperienza educativa che ha avuto luogo molti anni fa in questo seminario. Un’esperienza speciale. Che a dispetto del tempo che passa, resta viva nel cuore di tutti gli ex allievi. Un’esperienza innovativa. Nella quale oggetto dell’insegnamento non furono regole e comportamenti, ma stimoli esistenziali come la ricerca della gioia, la pratica dell’amicizia, il coraggio delle scelte, l’educazione all’entusiasmo. Un’esperienza felice. Che i suoi allievi ricordano in ogni occasione, raccontandola agli amici, alle mogli, ai figli, come una favola meravigliosa che hanno vissuto nell’adolescenza, una favola che toccò felicemente anche don Tonino perché egli stesso la rievocò finché visse con accenti commossi. Un’esperienza unica. Che non sarebbe stato giusto venisse dimenticata una volta passata la nostra generazione. Proprio questa preoccupazione ho avvertito durante il convegno per il decennale della morte di don Tonino tenuto in Assisi nel settembre del 2004, al quale partecipai con Mario Rizzo, mio compagno di corso in seminario, e con mio fratello Francesco, anch’egli alunno attento di don Tonino e poi fedele collaboratore a Tricase, quasi suo assistente personale. Mentre i relatori si avvicendavano sul palco, illustrando la figura di don Tonino a tutto tondo - il Suo impegno per la pace, il pensiero e la teologia del Pastore, l’assillo per l’emancipazione degli emarginati, le raffinatezze del Suo linguaggio profetico, la dimensione universalistica del Suo messaggio – mentre ascoltavamo tutto questo, ci veniva naturale osservare che nessuna delle relazioni dava conto, neppure brevemente, dell’esperienza vissuta nel seminario, e non una parola veniva dedicata all’entusiasmo con il quale don Tonino visse quella stagione, alla Sua innata attitudine a sorridere e scherzare che noi sperimentammo e che caratterizzò il rapporto privato con mamma Maria, con Trifone, Marcello, gli amici di Alessano e di Tricase. Stava accadendo che l’attenzione rivolta agli scritti, alla parola e ai gesti del Vescovo, non solo lasciava sullo sfondo tratti importanti della sua personalità, ma finiva per trascurare del tutto la prima parte del Suo ministero, avara di scritti e pubblicazioni, ma ricca anch’essa di gesti semplici e sublimi, e stava accadendo, di conseguenza, che biografi ed esegeti pensassero a quella stagione come a uno spazio minore della Sua vita, una parentesi priva di particolare interesse, tanto da poterla mettere da parte e quasi dimenticare.

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Di fronte a questo errore di prospettiva e, addirittura, di fronte al rischio dell’oblio ingeneroso dei primi anni del Suo ministero, qualcuno dei suoi alunni doveva decidersi a raccontare, a far rivivere i colori vividi che caratterizzarono quell’esperienza. Qualcuno di loro doveva decidersi a forzare il riserbo, a rispolverare i diari, riaprire le pagine dell’Antenna, rileggerle e farle leggere agli altri per far assaporare – come diceva Lui - il prolungamento di gioia che quei fogli sprigionano… Ma riaprire l’Antenna non era facile. Si avverava sì quello che Lui aveva detto…. rileggendo l’Antenna vi ricorderete - dovunque vi avrà condotti il misterioso turbinare della vita - che nella vostra giovinezza avete vissuto un periodo felice e sereno perché nel petto vi mormoravano le acque della grazia di Dio. Ma accadeva anche, ad un certo punto, che il prolungamento di gioia si trasformasse in nodo alla gola che ci costringeva presto a richiudere e riporre quelle pagine. Una sorta di sindrome emotiva da ricordo che attanagliava e attanaglia gli ex allievi davanti alle pagine dell’Antenna, sperimentata molte volte da me e descrittami con i medesimi toni da mio fratello Francesco, da Antonio e Giuseppe Benegiamo, da molti altri amici e da ultimo qualche sera fa, da Mario Rizzo nella telefonata di auguri di buon anno. Ha infine prevalso, com’era giusto che fosse, l’obbligo divulgativo, il dovere che incombeva su di noi di far conoscere la straordinaria vicenda di un giovane educatore che in un luogo sperduto della provincia salentina si relazionò con un gruppetto di ragazzini dai dieci ai quattordici anni suscitando in loro, in modo prodigioso, entusiasmo e amicizia. Ed ha prevalso il desiderio di far gustare al grande pubblico che segue don Tonino le pagine coinvolgenti, intrise di affetto e commozione, ma anche di poesia, che dedicò ai suoi ragazzi. Una volta completato il mio lavoro, non l’ho più riletto. Cercando anche di allontanare, finché ho potuto, serate come questa. Non per sgarbo nei confronti di chi le proponeva, ma per la sindrome che ho descritto prima e per la ritrosia di ritornare in pubblico su quelle emozioni, ma cedendo infine alla proposta di Renato Brucoli, alla cui cortesia - devo dire - è molto difficile resistere. Voglio chiudere il mio intervento rivolgendomi ora direttamente a Te, don Tonino, nello stile epistolare che molte volte hai utilizzato, perché ti permetteva di entrare in contatto diretto con l’interlocutore, come prediligevi Tu. Caro don Tonino, spesso mi chiedo se ho corrisposto con una vita esemplare al privilegio di essere stato Tuo alunno e se dopo il seminario ho saputo fare tesoro dei Tuoi insegnamenti. Il bilancio delle risposte è ahimè deludente, ma mi conforta il pensiero che i miei insuccessi non Ti hanno allontanato da me, perché Tu non misuravi le debolezze di chi incontravi sul Tuo cammino. Ricordo bene le Tue parole: io ti indico la strada dove dovresti andare perché la tua vita si possa realizzare in pieno, poi tu vai. Se succede un certo momento che su questa strada ti fermi perché sei stanco, oppure incespichi e cadi, non fa niente se ti rialzi e cammini. Sorvolavi sui nostri tentennamenti e rilanciavi verso nuovi obiettivi. “...Cerca pazientemente il centro. La cosa necessaria è cercare il centro e trovarlo”. Il centro per te era il contatto con il Signore, il tesoro nascosto che tu avevi cercato e trovato, rinunciando a tutto con il cuore colmo di gioia, come l’uomo della parabola che è “pieno di gioia” quando vende i suoi averi. Ai dubbi della nostra adolescenza rispondevi dandoci coraggio, spronandoci, chiamandoci alla responsabilità delle scelte, mettendosi in guardia, segnalandoci la rotta giusta. “ …abbi fiducia in te,… il tuo destino è nelle tue mani, nelle scelte che compi ogni giorno … e poi“…gioisci, inebriati di felicità, mantieni il contatto con Colui che solo può dare la gioia….”; e poi: “…coraggio…ti attendono tappe dure, faticose, estenuanti.” e ancora: “…la vita è bella, spendila a caro prezzo, al prezzo più alto”. Ci invitavi alla gioia, cioè alla vita di grazia, ma non ci nascondevi il difficile percorso per conquistarla, il caro prezzo di quella conquista, il duro scontro tra il bene e il male che avremmo dovuto affrontare, il rimedio per uscirne vittoriosi. Grazie, don Tonino, per quello che ci hai dato: per gli obiettivi alti che ci hai indicati, per l’aria rarefatta che ci hai fatto respirare, per l’entusiasmo che ci hai trasmesso, per l’amicizia che ci hai riservata, per gli amorevoli sfottò, per la giovinezza spesa tra noi, per l’esempio della tua vita. Grazie, don Tonino. A dispetto dei nostri passi incespicanti, ti promettiamo che, cadendo, ci alzeremo e riprenderemo il cammino segnato dalle tue orme, sforzandoci di seguire il tuo passo, il carezzevole fruscio del tuo passo rassicurante che noi - per primi - abbiamo avuto affianco mentre attraversavi le strade del mondo. *Già Segretario Generale della Provincia di Lecce

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** Note a cura di don Salvatore Palese [1] La vita è bella: Don Tonino educatore 1958-1976, con prefazione di Maria Luisa Di Natale e ulteriori postfazioni di mons. Felice di Molfetta e Agostino Picicco, Ed. Insieme, Terlizzi 2010, 241 pp. Questa è la riedizione di Don Tonino Bello educatore. Il suo entusiasmo e la sua verve, con presentazione di Donato Valli, Vasto, My&Book 2009, 124 pp. Dell’edizione 2010 Antonio Scarascia fu chiamato a fare una presentazione nel Seminario vescovile di Ugento il 7 gennaio 2011. Rimasta inedita l’autore ha autorizzato la pubblicazione. L’attenzione a questo testo è stata richiamata dal vescovo Vito Angiuli nel suo bel messaggio dell’8 dicembre 2017 per l’annuale “Giornata del seminario”. Infatti, quella attività ventennale di don Tonino, dal 1958 al 1976, fu la più lunga esperienza della sua vita, la meno ricordata, ma la più feconda per l’intera diocesi ugentina. Egli fu vicerettore con don Tito Oggioni Macagnino e mons. Antonio De Vitis negli anni dei vescovi Giuseppe Ruotolo, Gaetano Pollio, Nicola Riezzo e Michele Mincuzzi. Egli fu educatore di molti sacerdoti diocesani e di molti giovani come Antonio Scarascia. Questi ne ha fissato i suoi ricordi nel suo bellissimo volume. Circa 20 anni densi di tante iniziative pastorali: queste e quelle del seminario furono una semina benefica per il clero e per i laici; tutte volte a costruire l’avvenire della chiesa diocesana. Se ne incominciò a parlare nella seconda “primavera” (Don Tonino negli sviluppi ugentini prima e dopo il concilio Vaticano II), di cui sono editi i contributi in “Siamo la Chiesa” (13, 1995, n. 2, pp. 5-48). Testi di quegli anni sono ora raccolti in Antonio Bello, La terra dei miei sogni. Bagliori di luce dagli scritti ugentini, a cura di Vito Angiuli e Renato Brucoli, Ed Insieme, Terlizzi 2014, pp. 39-322. Anche la presentazione di Donato Valli all’edizione del 2009 merita di essere riletta per rivivere quella “primavera” che è stata l’incontro con don Tonino, a 25 anni dalla morte. [2] “L’Antenna”, pubblicazione ciclostilata del Seminario vescovile di Ugento, comparve il 31 maggio 1962, interamente scritta da don Tonino. La sua pubblicazione durò fino all’agosto 1968, senza regolarità periodica e con varietà del numero di pagine. “L’Antenna” contò complessivamente 12 numeri.

LA VICENDA DI “STOLA E GREMBIULE” DI DON TONINO DAL 1986 AD OGGI La metafora “stola e grembiule” è una delle tante che ricorrono degli scritti di don Tonino e vengono ripetute per la loro efficace risonanza. Anche papa Francesco le va ripetendo, sia pure non facendone citazione diretta. Stola e grembiule comparve nell’articolo firmato per la rivista «Presbiteri» del 1986, a commento del brano evangelico di Giovanni circa l’ultima cena4. Successivamente, sempre nel 1986, nella rivista «Via, Verità e Vita» comparve un secondo articolo dal titolo Il servizio degli ultimi nella Chiesa locale5. Per la stessa rivista, nel 1989, don Tonino pubblicò L’Italia terra di missione?6 Nel 1991, nella «Rivista di Scienze Religiose», uscì Servi nella Chiesa per il mondo. Riflessioni ed esigenze pastorali, articolato in tre parti La sfida della missione, Stola e grembiule e Ripartire dagli ultimi7. Di fatto quest

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«Presbiteri», 7, 1986 (settembre), pp. 512-520. Ora in A. BELLO, Articoli, corrispondenze, lettere, notificazioni (=Scritti di mons. Antonio Bello, 5), Mezzina, Molfetta 2003, pp. 40-49. 5 «Via, verità, vita», 35, 1986, n. 110 (settembre), pp. 45-50, ora in A. BELLO, Articoli, corrispondenze, cit., pp. 29-35. 6 «Via, verità, vita», 38, 1989, n. 124 (settembre-ottobre), pp. 5-10, ora in A. BELLO, Articoli, corrispondenze, cit., pp. 70-78. 7 «Rivista di Scienze Religiose», 5, 1991, pp. 217-237, ora in A. BELLO, Articoli, corrispondenze, cit., pp. 94-119.

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testo riprendeva quelli pubblicati negli anni 1986-1989. L’assemblaggio fu compiuto da don Pio Zuppa, con piccoli interventi integrativi con materiali dello stesso don Tonino. Egli aveva apprezzato il risultato e ne aveva autorizzato la pubblicazione nella sezione della rivista suddetta, “Chiesa-mondo”, Formazione e vita dei presbiteri, oggi, insieme con altri approcci storici, teologici, spirituali e pastorali, firmati rispettivamente da Maurilio Guasco, Antonio Barruffo e dallo stesso Pio Zuppa8. In siffatta maniera, a Molfetta, educatori e docenti prolungavano la riflessione compiuta dal sinodo dei vescovi sullo stesso argomento, convocato da Giovanni Paolo II nel 1990; riflessione alla quale, per altro, gli stessi superiori e docenti del seminario molfettese avevano partecipato nella fase preparatoria del sinodo stesso. Un’altra circostanza merita di essere rievocata: la nomina a vescovo di Sessa Aurunca del rettore del Seminario, Agostino Superbo, avvenuta il 18 maggio 19919. A lui che concludeva il suo mandato iniziato nel giugno del 1985, veniva donato in omaggio l’intero fascicolo della «Rivista di Scienze Religiose»10. Gli anni del rettorato Superbo (1985-1991) era stato un periodo ricco di progetti formativi interessanti, di fervide iniziative culturali e di più precise esperienze pastorali per i giovani che si andavano preparando al ministero presbiterale. Nell’anno 1985-1986 fu elaborato un nuovo piano di studi comprendente un sessegno filosofico-teologico e fu configurato l’Istituto Teologico Pugliese con propri Statuto e Regolamento. Nel 1987 iniziò la pubblicazione della «Rivista di Scienze Religiose» e negli anni seguenti l’Istituto fu aggregato alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale di Napoli (dicembre 1991 – giugno 1992). Frattanto, nel 1989, era stata pubblicata una chiara e organica proposta educativa che in maniera significativa recepiva gli orientamenti dati dai documenti conciliari e si intitolava Ad immagine di Gesù Buon Pastore11, e all’esperienze pastorali dei giovani nei territori diocesani era stata data una impostazione programmata, accompagnata e verificata. Senza dire delle esperienze che il seminario fece dell’accoglienza per alcuni mesi di oltre cento albanesi sbarcati nel porto della città. Purtroppo in quegli anni maturarono i progetti degli organi amministrativi della Santa Sede che portarono ad ulteriore ridimensionamento della proprietà che essa aveva del grande seminario molfettese che Pio XI aveva costruito negli anni ’20 12. La rivista era sorta nel 1987 ed esprimeva l’impegno scientifico e culturale dell’Istituto Teologico Pugliese, dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Puglia e del Pontificio Seminario Regionale Pio XI di Molfetta. Il comitato di redazione era composto dai docenti Giovanni Ancona, Vito Angiuli, Mauro Cozzoli, Marcello Semeraro, Agostino Superbo e Pio Zuppa, e il direttore era Salvatore Palese. La rivista con periodicità semestrale comprendeva studi, note, la menzionata sezione “Chiesamondo” e poi recensioni e segnalazioni. Si concludeva con la nota dei libri ricevuti. La «Rivista di Scienze Religiose» fu accolta con interesse crescente in Italia, in Europa e oltre, sicché fu accettato il cambio con oltre 100 periodici di istituzioni accademiche e di istituti culturali. La direzione editoriale nel 2008/2 passò a Luigi Renna e nel 2010/2 a Pio Zuppa. Con il fascicolo 2 del 2013 si concluse la sua pubblicazione. 8 Ivi, pp. 179-264. È bene ricordare i vari contributi di Maurilio Guasco, ordinario di Storia del pensiero politico contemporaneo nell’Università degli studi di Torino Seminari e clero tra crisi e rinnovamento, pp. 181-186. Antonio Barruffo, preside della Pontifica Facoltà Teologica dell’Italia meridionale di Napoli, Diventare preti oggi. Aspetti teologici e spirituali, pp. 197-215. Il menzionato contributo di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e in fine Pio Zuppa, La formazione al presbiterato nel postconcilio. Orientamenti bibliografici (pp. 239-264). 9 Agostino Superbo fu ordinato vescovo a Molfetta il 29 giugno 1991 da Sessa Aurunca fu trasferito alla sede vescovile di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, il 19 novembre 1994; nominato assistente dell’Azione Cattolica Italiana il 17 maggio 1996, promosso alla sede metropolitana di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo il 9 gennaio 2001, ora emerito dal 5 ottobre 2015. Egli è stato promotore della causa di canonizzazione di mons. Tonino Bello nella fase diocesana. 10 Nella dedica gli fu scritto «all’amico, fondatore insieme con altri della «Rivista di Scienze Religiose» e componente della redazione, le congratulazioni più cordiali […]. Al vescovo eletto gli auguri più fervidi e fraterni. Il lavoro apostolico “in dies” lo renda servus Ecclesiae con la sensibilità che il dono dello spirito e con la generosità che è fedeltà riscoperta nel dialogo con gli uomini. Come il buon pastore, guidi la Chiesa affidatagli verso la pienezza del Regno», p. 5. 11 PONTIFICIO SEMINARIO TEOLOGICO PUGLIESE, A immagine di Cristo Buon Pastore. Documenti formativi: orientamenti e itinerari per il presbiterato, a cura di V. ANGIULI e P. ZUPPA, Vivere in, Roma-Trani, 1989, 343 pp. 12 Cfr. S. PALESE, Per la storia della Conferenza Episcopale Pugliese in Vescovi e regione in cento anni di storia, 1892-1992. Raccolta di testi della Conferenza episcopale pugliese (=Società e religione, 16), a cura di Salvatore PALESE e Francesco SPORTELLI, Congedo, Galatina 1994, pp. XIII-LVII e particolarmente pp. LII-LIV e pp. 714-716.

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Il contributo di don Tonino alla «Rivista di Scienze Religiose» non sfuggì all’attenzione di Renato Brucoli che ottenne l’autorizzazione di farne una edizione specifica nella collana “Sentieri” della sua editrice “ED INSIEME” nel 1993. A questa egli diede il titolo Stola e grembiule, fortunata metafora del Ministero presbiteriale. E per questa prima edizione mi richiese la presentazione. Ad essa diedi una prospettiva storica, inserendo la nostra stagione post-conciliare di rinnovamento nella lunga evoluzione del clero occidentale nel corso del secondo millennio cristiano, con i recuperi spirituali e pastorali, ispirati dagli ideali “apostolici” nei secoli medievali e nell’età moderna ed oltre. Don Tonino gradì l’iniziativa e ne vide la realizzazione prima che il 20 aprile 1993 si concludesse la sua terribile lotta contro “il drago” che lo aggrediva da due anni. Così Stola e grembiule continuò a girare per il mondo cattolico suscitando riflessioni ed entusiasmi. Si contano almeno venti riedizioni che si sono succedute negli anni seguenti, e papa Francesco, il 20 aprile 2018, nel suo “pellegrinaggio” alla tomba di don Tonino nel cimitero di Alessano e alla chiesa Molfettese, nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario del dies natalis, ne ha ripetute espressioni e incoraggiamenti per i ministri ordinati, ma pure per tutti i battezzati, a diventare «servi della chiesa per il mondo». È vero che rimane vivo “nel migrare dei giorni” tutto ciò che è dono del Signore. Questa è la più vera storia del cristianesimo. «Mai si è discusso tanto sul prete come ai nostri tempi: sulla sua identità, sul suo ruolo nella comunità cristiana e nella società umana, sulla sua missione specifica tra gli uomini contemporanei, credenti o no. La riflessione di vario genere e la letteratura e il cinema o il teatro sono utili e importanti; ma io credo, sarà la vita degli stessi preti a risolvere i nodi problematici e a cogliere le nuove prospettive della loro missione. Non del prete in qualunque modo egli viva e comunque egli sia, ma dei preti santi, amati e seguiti dai ragazzini del paese e dagli anziani dei quartieri urbani; dei preti santi, vicini agli sposi che crescono nell’amore ed ai genitori che costruiscono gli uomini veri; dei preti santi che comprendono i dubbi e le “notti” di chi cerca il senso dell’esistenza, e capiscono le spinte di chi progetta convivenze armoniose ed opera per città vivibili; dei preti santi che sanno commuoversi dinanzi al letti del dolo e alle bare della morte. Insomma, dei preti che del “vangelo della carità” sono, non soltanto annunciatori, ma pure testimoni e ancor più “autori”. E grazie al cielo, ciascuno di noi conserva il ricordo di qualcuno di questi, ed anche l’eredità, nella sua vita, come quelli di un padre. Nella storia delle generazioni cristiane le proposte vincenti sono state quelle offerte dalla concreta esistenza di singoli preti e quindi di gruppi, che si sono messi ad operare in certo modo. Penso alla svolta rappresentata dalla regola di vita che si diedero i canonici medievali delle cattedrali episcopali; ricordo la vita comune e in povertà, inseguita per secoli e realizzata da preti tra i Domenicani e Francescani; considero la vita apostolica concepita come santificazione personale e sollecitudine per la salvezza delle anime, e vissuta dalle generazioni di preti ce si susseguirono dal Cinquecento, a partire da Teatini e Gesuiti, fino ai Vincenziani e ai Redentoristi; sottolineo lo slancio missionario di tante congregazioni sacerdotali dell’Ottocento, che aprì al vangelo le strade dei cinque continenti; indico le molteplici forme di presenza pastorale che hanno intuito alcuni gruppi e movimenti presbiterali in questo secolo conclusivo del secondo millennio cristiano. Sembra, quasi, che l’ideale di Gesù buon pastore sia inesauribile nella sua fecondità e nella ispirazione di continue e sempre più ricche modalità di perpetuare la sua presenza e di attualizzare la sua redenzione. Le acute considerazioni e i passaggi delineati da don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, sono dentro quegli sviluppi nuovi che partono dal Concilio Vaticano II e sono provocati dalla trasformazione radicale della antica cristianità. Gli scenari cambiano, ma gli uomini rimangono, con i grandi sogni e con le sincere speranze, con la fatica di diventare cristiani, per una vita intera. A questa fame di umanità e a questa sete di Dio, il prete è chiamato a dare il pane e l’acqua della sua bisaccia. Don Tonino lo dice chiaramente come deve procurarseli e come fraternamente donarli. Lo dice, non soltanto con le parole». Salvatore Palese

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Testimonianza di P. Rocco Marra missionario in Sud Africa (1) Si poteva incontrare don Tonino soprattutto nelle ore pomeridiane, quando passeggiava con i suoi seminaristi per le strade di Ugento (Le), o quando giocava all’oratorio, alla stazione, o nell’agro salentino: luoghi pregni di simboli storici della nostra cultura e della nostra fede. Con la sua fisarmonica accompagnava e incoraggiava la gente a cantare stornelli popolari. In alcuni momenti, la sua vita ricordava scene di film. Vedendolo, sembrava il gesuita che, in The Mission, suona il flauto per accattivarsi l’amicizia degli indigeni del Paraguay, o si presenta davanti alla Corona nel tentativo di presentare gli indigeni come persone umane, riconoscendo in loro la dignità dei figli di Dio. Sembrava a volte S. Filippo Neri, come appare in State buoni se potete, nel tentativo di trasmettere ai giovani abbandonati i valori fondamentali della vita. Oppure assomigliava a Giuseppe Allamano, nel film La partenza di Paolo Damosso, vero padre e formatore di missionari, vivendo la missione in pienezza nella sua Archidiocesi. Non operò mai in una missione geograficamente lontana, ma preparava e inviava chi era più giovane di lui. “Don Tonino”: l’abbiamo sempre chiamato così, affettuosamente, questo uomo buono, vero strumento nelle mani di Dio per cantare e “portare ai popoli l’annuncio della salvezza”, e modello per coloro che riconoscono, sviluppano e mettono a servizio degli altri i propri talenti. Fu certamente un uomo di Dio, capace di parlarci ancora oggi come un maestro, un modello e un padre. Da questa mia esperienza di vita nasce il desiderio di condividere con tutti alcune sue caratteristiche missionarie, che ho potuto percepire nei momenti trascorsi con lui, soprattutto in tempo di discernimento vocazionale. Lo ricordo anche come pastore della Chiesa locale e universale, nel venticinquesimo anniversario del suo dies natalis, avvenuto il 20 aprile 1993, in pieno tempo pasquale e sotto l’icona del Buon Pastore.

Un vero discepolo di Cristo Se è vero che la chiesa evangelizza ed è evangelizzata, come lo ribadiscono i documenti del Concilio Vaticano II e quelli che seguirono, è anche vero che ogni cristiano è parte attiva di questo processo, personale e comunitario, di conversione. Chi ha conosciuto don Tonino sa bene di aver trovato un apostolo fervente, sostenitore di cammini per la comunità, e di aver incontrato un discepolo sensibile, fermo nelle decisioni, ma aperto all’ascolto, sempre pronto a ricominciare, mettendo tutto in discussione. Seppe crescere nella dimensione umana e cristiana, sia nella chiesa locale che universale. Restano memorabili i suoi insegnamenti su Maria e la sua opera nell’azione cattolica ragazzi della sua parrocchia natale di Alessano, di cui la mamma era l’animatrice. Frequentò gli studi teologici a Bologna, dove ebbe come maestro il Card. Giacomo Lercaro. Partecipò con il suo vescovo di Ugento Santa Maria di Leuca, Mons. Giuseppe Ruotolo all’inizio del Concilio Vaticano II, a Roma. Poi, per quasi un ventennio svolse il compito di formatore, educatore, padre spirituale, professore, allenatore e amico per quanti entravano nel seminario vescovile di Ugento, luogo privilegiato di discernimento vocazionale.

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Fu sacerdote pastore, maestro e animatore in parrocchia, particolarmente a Tricase, nella Parrocchia della “Natività di Maria Vergine” e nella diocesi di Ugento Santa Maria di Leuca. Si dedicò alla promozione di tante iniziative per coinvolgere i laici, dalla settimana teologica diocesana, che ancora si celebra annualmente, alla fondazione della scuola di Teologia per laici. Terziario Francescano, come il Santo d’Assisi, cercò di essere l’uomo della lieta notizia, l’uomo delle beatitudini. Tra gli organismi diocesani fondati ad Ugento, grazie al suo incoraggiamento, vorrei menzionare in particolare il Comitato di Evangelizzazione e Promozione Umana. Ordinato Vescovo il 30 ottobre 1982 fu pastore di comunione in ben quattro diocesi: Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, spiegando con forza le sue due ali missionarie: l’“amore ai poveri” e la “passione per la pace” in tutto il mondo. Riflettendo sulla sua vita, ci fu chi l’ha voluta dividere in due parti, come “un primo e un secondo”, “Il giovane e l’adulto”, “Il teorico in seminario e il pragmatico in parrocchia”, “il prete locale rinchiuso nel suo seminario e poi il vescovo dei poveri” e così via. Personalmente, credo e sono convinto che tutta la sua vita fu un cammino ininterrotto, un discepolato alla scuola di Gesù, Dio fatto uomo e venuto a camminare con noi. So di altri suoi ex alunni che hanno saputo apprezzarlo per altri valori, come lo sport, la musica, la cultura classica, il servizio nella carità e altro. Per me fu soprattutto educatore ed evangelizzatore, capace di coinvolgere nella missione le più svariate potenzialità della persona e della comunità.

Il grembiule e la stola Ha parlato sempre della Madonna e di sua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portava spesso a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui l’ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando. Ci parlava poco, invece, di suo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo aveva perso infatti in tenera età a circa sei anni. Non viveva però quest’assenza come un vuoto, essendo lui stesso diventato come un padre per i suoi due fratelli più giovani e per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti condivise con un gruppo di noi seminaristi i suoi sentimenti al riguardo. Praticamente, quelle medaglie al valor militare non poteva sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valor militare non avevano per lui lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai suoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia. Non credo che don Tonino facesse distinzioni e contrapposizioni tra “casa” e “Chiesa”. La “Chiesa del Grembiule”, divenuta famosa sin dai primi anni di episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella sua casa di Alessano, così come la riflessione sulla “Stola” trovò origine nella chiesa della sua parrocchia natale. Ricordo che una volta, in seminario, ci presentò il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, sue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità. La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano sta nel servizio che scaturisce da quel “Pane spezzato per tutti”, fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero. Insisteva perché andassimo oltre il perimetro delle proprie amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineava la necessità di avere un “amore vigoroso”, capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadiva che Santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili dell’esperienza di vita di don Tonino, aureole che lo proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscere bene don Tonino non basti leggere i suoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che lo ha conosciuto, che vibrava alle sue parole e che con lui ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponeva e la potenza di contagio che aveva sulla gente. Era un pastore capace di trasfondere in chi incontrava l’amore del Signore e dei fratelli.

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Aveva una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapeva evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza. E chissà come sarà stato bello il rapporto col Padre Celeste, visto che ha saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico di ritrovare quel volto umano paterno. o liturgico, e dell’animazione delle celebrazioni del Sacramento dell’Ordine, preparava sussidi pastorali e liturgici, sia per il Seminario che per la parrocchia, coinvolgendo tutti gli agenti pastorali. Molto suggestivi e di respiro universale erano i commenti e i canti preparati da lui in occasione delle Sacre Ordinazioni, quasi a dire che l’unzione non si esaurisce nel ristretto perimetro di una parrocchia, né di una Diocesi, né della chiesa in quanto tale, ma si deve estendere a tutta l’umanità, nelle diverse culture e religioni. E’ stato un animatore, un architetto, un poeta e cantore della nuova evangelizzazione, e non credo di esagerare venerandolo come un padre di questa Nuova Evangelizzazione.

Vescovo dei poveri Non è difficile per noi salentini abbinare olio e lavoro e servizio e immaginare il paesaggio palestinese dove Gesù passeggiava tra gli oliveti, pregando da solo, o in compagnia dei sui apostoli. Il nostro agro, i nostri uliveti e le piane dei campi cosparsi di fiori ricordano bene il paesaggio in cui visse Gesù. Durante le passeggiate da seminarista, in autunno, spesso trovavamo alcuni contadini intenti a raccogliere olive. E al cenno di don Tonino, tutti ci precipitavamo per dare loro una mano. In seminario, poi, non si aspettavano gli addetti ai lavori per pulire gli ambienti. Come sapeva organizzare e allenare squadre di calcio e di pallavolo, così sapeva motivarci al lavoro manuale e alle pulizie domestiche. Durante il periodo del seminario, don Tonino visitava anche le famiglie. Viaggiava con una macchina “600multipla”, motivo per noi di tante barzellette, a causa del litro di acqua che si doveva versare ogni dieci chilometri. Un giorno, arrivando a Tricase, trovò mia sorella alle prese con i compiti scolastici, mentre il resto della famiglia, genitori e fratelli erano in campagna a raccogliere olive. Tornato in seminario, prese spunto per motivarci alla responsabilità, a fare altrettanto nel nostro studio e prepararci per l’imminente futuro, elogiando mia sorella e apprezzando il lavoro dei nostri genitori. Era un leader capace di motivarci dal di dentro, non amando apparire come un superiore e un rettore, ma padre di “pargoli” spirituali. Anche con la gente agiva allo stesso modo. Partecipava alla gioia e al dolore delle persone e allo stesso tempo suggeriva sempre qualcosa di nuovo in aiuto alla situazione. Aveva interiorizzato le parole della “Gaudium e Spes” che continuamente citava: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi...sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” e ne aveva fatto un programma da usare nelle relazioni. Avevo dodici anni quando lo vidi piangere per la morte dei genitori di don Rocco Zocco, mio carissimo amico d’infanzia e oggi sacerdote diocesano, causata da un incidente stradale. Non era facile alle lacrime, ma aveva una sensibilità speciale verso coloro che erano nel dolore e nel pianto. Sembrava di vedere Gesù davanti al pianto di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro. Quel dolore di partecipazione l’ha vissuto in modo superlativo negli ultimi mesi della sua vita terrena a causa della malattia, sull’altare della sofferenza, come lui diceva, per la salvezza dell’umanità. Scelse come Pastorale un bastone di legno d’ulivo, e come croce pettorale una croce simile al Tau francescano, con l’incisione di un Cristo povero, anch’essa in legno di ulivo. Come anello episcopale portava l’anello delle nozze di sua madre, alla quale era molto legato. L’unzione episcopale con l’olio d’oliva non è stato altro che la celebrazione delle sue nozze con il suo popolo e Dio, dopo un fidanzamento durato tutta la sua vita specialmente dalla sua ordinazione sacerdotale. Come Gesù anche lui non fu capito da tutti. L’invidia di molti gli pesava. Persino alla RAI fu deriso, quando cercava di proporre la pace alla guerra del Golfo. In una trasmissione condotta da Michele Santoro, fu interrotto moltissime volte da interventi in diretta, e non poté presentare la sua visione pacifista e di nonviolenza. Colui che accolse tanti emarginati chiamandoli per nome e ridando loro dignità e amore, non trovò sempre accoglienza da tanti altri.

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Poche ore prima del suo esodo da questo mondo chiedeva ai fratelli di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna, e chissà che non ci fosse anche quello della Consolata, per essere sicuro di morire fissando lo sguardo su uno di essi. Come Gesù sulla Croce, don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo Regno di Giustizia e di Pace attraverso Maria, mormorando sottovoce le parole che la gente del Salento sussurra: “Mamma mia, Madonna mia”.

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AUGURI MESSA CRISMALE 28 marzo 2018 In questa solenne Messa Crismale, abbiamo manifestato la stretta unione dei presbiteri e dei diaconi con il vescovo nel sacerdozio ministeriale, insieme alla realtà dell’unico sacerdozio battesimale che, secondo la dottrina richiamata dal Concilio, è il fondamento stesso del sacerdozio ministeriale (Lumen Gentium n° 10). Abbiamo vissuto la celebrazione di un mistero, che ci afferra, ci entusiasma, ma anche ci scuote, ci spinge a prendere coscienza delle divaricazioni esistenti tra la realtà vissuta e l’utopia sognata, tra il “già” raggiunto e il “non ancora” afferrato. Abbiamo espresso, con parole e gesti, che siamo una Chiesa bella, viva, vera! Da qualche tempo ce lo diciamo che è più bello insieme! Perché si dà corpo alla comunione ecclesiale che Gesù ci ha lasciato come testamento spirituale, ed alla quale ha strettamente legato il segno di riconoscimento della nostra identità di discepoli: “Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35). Da qui l’augurio e l’impegno a vivere fedelmente e coerentemente il Vangelo, nello stile della sinodalità, per effondere il profumo di Cristo nei luoghi che frequentiamo. E’ quanto il mondo si attende da noi: profumare di speranza la vita di ogni giorno, dal lavoro alla scuola, dalla politica all’arte, dal dolore all’amore. Ogni crocevia dell’esistenza ci attende per restituire dignità ai feriti della storia: questo è il senso dell’essere cresimati, meglio crismati, confermati in un impegno di vita che nasce dall’abbracciare la logica con cui Cristo ha salvato il mondo e ha fatto di noi un regno di sacerdoti, costituendoci, ciascuno per la sua parte, ponte di grazia tra il cielo e la terra. La Pasqua di quest’anno, nel giubileo del servo di Dio don Tonino Bello, è foriera di cose belle, ricca di trepidante e gioiosa attesa di Papa Francesco, che pellegrino sulla tomba di uno tra i più grandi testimoni esemplari della fede dei nostri tempi, viene a confermare nella verità e nella carità del Vangelo, questa Chiesa ugentina che con lei, Eccellenza, Pastore saggio, premuroso e lungimirante, vorremmo diventasse Chiesa del grembiule, non aggrappata alle sue comodità e sicurezze, pigra e refrattaria agli impulsi dello Spirito, ma piuttosto accidentata, ferita e sporca per essere uscita sulle strade. Una Chiesa che apre porte, abbatte muri e costruisce ponti, spendendosi senza riserve e facendosi compagna e serva di tutti, a cominciare dagli ultimi, dai poveri, dalle “pietre di scarto” Scambiamoci, pertanto, gli auguri in sincerità di cuore, con le ultime, mirabili e profonde parole del caro don Tonino. “Tanti auguri di speranza, tanti auguri di gioia, tanti auguri di buona salute” con l’impegno che, in un fecondo dialogo generazionale tra famiglia e giovani, sapendoci assumere ciascuno le proprie responsabilità educative, facciamo fiorire tutti i sogni. “Andiamo verso momenti splendidi della storia. Non andiamo verso la catastrofe” ci ripete don Tonino, e quasi mettendo le ali alla nostra speranza, insiste,“Andiamo in alto. Andiamo verso punti risolutori della storia, verso il punto omega”. Di conseguenza ci esorta: “Vogliate bene a Gesù Cristo, amatelo con tutto il cuore, prendete il Vangelo tra le mani, cercate di tradurre in pratica quello che Gesù vi dice con semplicità di spirito”. Auguri di Buona Pasqua Eccellenza, auguri a te Chiesa di Ugento -S. Maria di Leuca; alzati, canta e cammina nella luce del Risorto, che vuol fare di te per il mondo di oggi un segno credibile di risurrezione e una testimone affascinante di speranza certa, audace e operosa. sac. Beniamino Nuzzo, Vicario Generale

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AUGURI Pasquali dal Parroco don Rocco Frisullo Eccellenza reverendissima, a nome del vicario generale, dei parroci di Ugento, dei sacerdoti, dei diaconi, dei seminaristi, e di tutto il popolo cristiano qui convenuto, le porgo i più sinceri auguri per questa Santa Pasqua. Siamo giunti a questo solenne pontificale dopo aver vissuto insieme tutti i suggestivi riti della settimana santa. Attraverso la liturgia e attraverso il suo insegnamento, ci siamo pian piano avvicinati al mistero della Pasqua di Gesù, un mistero che, come lei già richiamava la domenica delle Palme (e sul quale è tornato spesso) è un fatto reale accaduto nella storia. E oggi abbiamo ancor più compreso che la risurrezione di Gesù non è assolutamente riducibile a una semplice esperienza interiore e soggettiva degli apostoli, l’irruzione di Cristo che vive nella vita interiore degli apostoli. Gesù è veramente risorto con il corpo, quel corpo che prese dalla Vergine Maria per opera

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dello spirito Santo, che fu crocifisso, e deposto nel sepolcro. Noi non crediamo in nessun corpo fantasmico, nessuna teoria. Noi crediamo in questa risurrezione e in quel reale annuncio degli apostoli. In questo momento però Eccellenza, se da una parte siamo intorno a lei per dirle buona Pasqua, dall’altra vogliamo chiederle come nostro pastore e angelo che annuncia la risurrezione di Cristo, almeno due cose. La prima. Il testo evangelico ci ha consegnato un dato fondamentale: se le tracce evidenti del risorto restano inizialmente per i discepoli indizi fragili, ciò è dovuto al fatto che non hanno ancora compreso la Parola. Allora la nostra prima richiesta per questa festa, parte proprio da questa esperienza dei discepoli. Le chiediamo di continuare a guidarci con il suo insegnamento affinché ci lasciamo permeare dalla Parola di Dio per saper accogliere i segni salvifici, le tracce del Risorto nella nostra vita personale e di comunità, affinché non siano solo tracce labili, ma segni evidenti, alti e chiari che Gesù, uomo e Dio, figlio dell’altissimo e Signore, ha vinto definitivamente la morte e noi siamo salvati. La parola del Vangelo di oggi ha richiamato poi un altro elemento importante della Pasqua, un dato che a prima vista sconcerta ma poi rasserena e dona fiducia: per riconoscere Gesù Cristo risorto bisogna saper vedere oltre. Per entrare in contatto con Cristo risorto abbiamo bisogno proprio dei suoi segni. Le bende non sono un testimonio muto: se vengono guardate con l’occhio della fede sanno parlare di risurrezione, e il discepolo che si sente amato da Dio vede e crede. La seconda richiesta che le facciamo in questa Pasqua è questa. Continui a dare alla nostra comunità diocesana il gusto di celebrare la bellezza dei segni, dei sacramenti della nostra salvezza, perché ogni segno celebrato è il luogo in cui ogni cristiano fa esperienza di Dio che lo ama, lo tocca, lo salva. Così arricchiti dalla Parola e dalla liturgia possa ognuno di noi essere testimone nel quotidiano della vita nuova che nasce dalla risurrezione, e della stessa carità di Cristo che va incontro ai bisogni di ogni uomo. ____________________________________________________________________________________________

Don Tonino, il pensatore: un’eredità di idee da cui ripartire Lecce 2.5.2018

LECCE – Lui che nei poveri ha visto la ricchezza di questa terra, lui che della chiesa del grembiule ne ha fatto una vera e propria teoria. Don Tonino Bello ha meritato gli onori del Santo Padre, che sulla sua tomba è venuto a pregare personalmente ad Alessano lo scorso 20 aprile, “ed ora merita che si approfondisca il suo pensiero” spiega il Prorettore Domenico Fazio. Lo dice chiaro e forte l’università del Salento che a Don Tonino dedica un’intera giornata di riflessione, al fianco dei Vescovi di Lecce e Ugento (Mons.Seccia e Angiuli).

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DECRETO DI VALIDITA’ DI TUTTA LA DOCUMENTAZIONE DELLA SERVA DI DIO MIRELLA SOLIDORO

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Maria nella vita della Chiesa in cammino Don Fabrizio Gallo

Il 25 marzo del 1987 il Santo Padre Giovanni Paolo II pubblica l' enciclica Redemptoris Master sulla Beata Vergine Maria nel mistero della Chiesa in cammino. Questo documento scaturisce dalla decisione espressa dal Santo Padre di indire un anno mariano seguendo l’esempio dei suoi predecessori, in particolare di Pio XII che indisse un anno mariano nel 1950 per celebrare la speciale santità di Maria a seguito della definizione dogmatica della sua assunzione al cielo. Giovanni Paolo II si fa in questo modo e con questo documento mariano, portavoce e continuatore della mariologia del Concilio Vaticano II a venti anni dalla sua celebrazione, in cui il mistero della Chiesa pellegrina nel mondo viene letto in unità con il mistero della Madre di Cristo che sempre deve risplendere ai cristiani come il segno compiuto di ciò che la Chiesa è chiamata ad essere e sarà alla consumazione dei secoli. Nella sua introduzione al documento il Santo Padre afferma che l’intenzione che lo spinge a celebrare un anno mariano è la preparazione del grande giubileo del 2000, celebrazione della nascita di Cristo e della sua apparizione nella storia degli uomini. Va da sé che celebrare Cristo vuol dire farlo con i sentimenti della Madre e celebrare la Madre vuol dire glorificare il Figlio, poiché sempre Maria nella Chiesa è stata considerata la stella del mattino, aurora che annuncia e prepara la venuta del sole, anzi lei è l’alba che partorisce la luce, per questo motivo è importante prepararsi alla celebrazione dell'anno santo della redenzione con una profonda riflessione mariana scaturita dal Concilio e in modo anche da approfondire e sviluppare meglio la mariologia conciliare che ha inteso mettere la figura di Maria sempre più in stretta relazione al mistero di Cristo e della Chiesa. La riflessione su Maria in questo importante documento magisteriale muove dal mistero dell’annunciazione in cui emerge in maniera meravigliosa il ruolo attivo di Maria nel rispondere alla chiamata di Dio e all'opera della Grazia che la inonda e la rende tutta di Dio. Il Santo Padre si sofferma molto sul termine “piena di grazia”, usato dall’ evangelista San Luca che riporta il saluto dell’ arcangelo. Questa espressione viene letta in riferimento al testo pallino di Efesini 13, in cui viene detto che tutti siamo stati benedetti dal Padre in Cristo, di una benedizione spirituale. Maria è la prima destinataria di questa benedizione promessa già ai progenitori subito dopo la caduta in Eden e che scaturisce dal mistero del Verbo incarnato e dalla sua Pasqua. Maria in questo senso è la piena di grazia, Immacolata, nel senso che è la prima dei redenti, la prima a sperimentare i benefici della salvezza e della benedizione di Dio in Cristo come ribaltamento della maledizione che fu pronunciata su Adamo ed Eva. Maria è dunque, come dice sant’ Ireneo, il capovolgimento di Eva. Eva fu maledetta per la sua disobbedienza e procurò maledizione all'umanità, Maria è benedetta in forza della sua obbedienza alla Parola di Dio e da lei scaturisce il frutto della benedizione per tutti gli uomini, Gesù frutto benedetto del seno suo. Un altro passo in avanti il Santo Padre lo fa sottolineando la fede di Maria, e questa volta prendendo spunto dall’ episodio della visita di Maria alla parente Elisabetta e dal cantico di Maria così come San Luca lo trasmette. Elisabetta saluta Maria acclamandola come la beata perché ha creduto. Maria è la credente per eccellenza, colei che meglio di tutti offre a Dio la sua obbedienza di fede e diventa il prototipo del credente della nuova alleanza, così come Abramo, nostro padre nella fede, lo era per il popolo dell’ antica alleanza. Infatti come Abramo credette contro ogni umana speranza nella promessa di Dio che gli avrebbe dato una grande discendenza, così e meglio, Maria crede alla promessa di Dio circa il dono del Salvatore che da lei, vergine, avrebbe preso forma mortale. Maria crede e si abbandona alla Parola di Dio con illimitata fiducia e questa fede ella la approfondisce e la matura sempre più in tutto l'arco della sua esistenza, fin sul Calvario. Per questo Maria è esempio perfetto per la Chiesa in cammino tra le alterne vicende del mondo e per ogni credente. Commentando il brano di Giovanni, delle nozze di Cana e spingendo verso la meditazione dell’ evento della Croce, il Santo Padre sottolinea l'aspetto della maternità di Maria estesa a tutti gli uomini. Maria non è solo la Madre del Messia ma da lui stesso e investita del ruolo e della vocazione di madre spirituale di tutti i credenti e della Chiesa. Nell'episodio delle nozze di Cana Gesù rivolgendosi alla Madre con l'appellativo di donna, lungi dal volerla disconoscere come sua madre, vuole in realtà aprire la sua maternità a tutti gli uomini, e questo avverrà sul

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Calvario dove rivolgendosi a lei con lo stesso appellativo la affida a Giovanni dichiarandola sua madre e con lui madre della Chiesa. Anche il concilio Vaticano II ha messo in evidenza l'aspetto della vocazione materna di Maria nei confronti della Chiesa, anzi il Beato Paolo VI la saluta proprio col titolo di Madre della Chiesa. È singolare che, proprio in questi ultimi giorni il Papa Francesco abbia istituito la festa liturgica di Maria Madre della Chiesa per il lunedì dopo Pentecoste, infatti proprio nella preghiera degli apostoli con Maria nel cenacolo si esprime la concordia della Chiesa unita alla Madre che si lascia riempire dal dono dello Spirito che rivela alla Chiesa stessa la sua missione, che è in realtà una continuazione e una imitazione del ruolo materno di Maria nei confronti di tutti gli uomini. Come Maria infatti la Chiesa gravida dello spirito Santo è chiamata a generare e a nutrire maternamente i figli del Regno. Al capitolo 2 del documento magisteriale, il Santo Padre mette in relazione la figura di Maria con la Chiesa pellegrina nel mondo. Già il Concilio come abbiamo detto prima, ha indicato la Chiesa come popolo di Dio in una continua dimensione peregrinante. La Chiesa è come il popolo di Israele che pellegrino nel deserto per quaranta anni giunge alla terra promessa sostenuto dalla grazia di Dio e sotto la guida di Mosè. Così la Chiesa nel mondo è in pellegrinaggio verso il compimento del Regno dei cieli e in questa fase faticosa e aspra del suo esistere guarda alla Madre di Dio come a colei che Dio ha posto sul cammino di ogni credente come guida, segno luminoso di speranza ma soprattutto esempio di fede nel cammino della crescita della fede secondo un'altra affermazione conciliareche vede Maria come colei che ha proceduto nel pellegrinaggio della fede. La Chiesa dunque con Maria e come Maria cammina nella fede fino alla definitiva realizzazione delle promesse di Dio. Un altro importante contributo di questa enciclica viene dato dal riferimento che il Santo Padre fa al dialogo ecumenico in chiave mariana. Questo aspetto è molto importante perché per secoli la mariologia è stata un elemento di grande divergenza tra le Chiese cristiane specialmente nel dialogo con le comunità della riforma protestante. Maria era considerata come una verità separante e a volte se ne è fatto un uso pretestuoso in chiave polemica anticattolica e antiprotestante. Ultimamente e a seguito del Concilio anche il discorso relativo a Maria lungi dall’essere una discriminante diviene invece un terreno molto fruttuoso sul quale stabilire un corretto dialogo tra le Chiese e le comunità cristiane. Il Santo Padre sottolinea soprattutto la grande vicinanza che esiste tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse circa l'amore e la venerazione verso la Madre di Dio, espresse soprattutto nella grande ricchezza iconografica, liturgica e innologica della Chiesa orientale. A questo proposito il Santo Padre fa un riferimento all’ anniversario della celebrazione del secondo Concilio di Nicea nel quale oltre al trionfo della dottrina circa le sacre immagini fu ancora una volta ribadito il dovere di venerazione che tutte le Chiese hanno verso i santi ma in special modo verso la Madre di Dio tutta santa. Andando avanti nella riflessione, Giovanni Paolo II vede la presenza della Vergine Maria nella vita della Chiesa in cammino nel tempo e nel mondo come una presenza orante ed esultante. Questo dato egli lo evince prendendo spunto dal cantico del magnificat che oltre ad essere il cantico della Madre della Chiesa è anche il cantico della Chiesa stessa che in Maria rispecchia se stessa e che da Maria riceve la prima nota della sinfonia di lode che lungo la storia la Chiesa è chiamata a cantare magnificando con la Serva del Signore quel Dio onnipotente che ha compiuto e sempre compie meraviglie di grazia e misericordia per il suo popolo e per i suoi fedeli. In ultima analisi il documento magisteriale prende in esame il tema della mediazione materna di Maria. Questo è un tema delicato e molto dibattuto soprattutto nel sopra citato dialogo con le comunità della riforma protestante ed infatti in passato si è avuta la percezione che considerare Maria come mediatrice ed avvocata potesse in qualche modo mettere in ombra l'unica mediazione salvifica che si realizza in Cristo unico avvocato presso il Padre. Il Sommo Pontefice riprendendo la dottrina del Concilio Vaticano II, afferma con sempre maggior chiarezza l’unicità della mediazione di Cristo ma ribadisce anche che a questa unica mediazione salvifica partecipano tutti, ognuno in modo proprio e specifico e prima fra tutti ovviamente la Madre di Dio. SI tratta di una mediazione subordinata e di partecipazione che vede Maria impegnata nello svolgere il suo ministero materno a servizio dell’ umanità e al cospetto del Figlio, unico pontefice di riconciliazione tra il mondo e il Padre. In questo senso si legge anche la speciale partecipazione della Vergine Maria all'opera della redenzione soprattutto nella sua unione spirituale e irripetibile al dolore della morte di Gesù. Concludendo questo prezioso documento, il Santo Padre Giovanni Paolo II spiega il senso dell'anno mariano da lui indetto e lo fa sottolineando come sia necessaria una ripresa del culto e della devozione mariana nella vita dei singoli credenti e delle comunità sempre alla luce di una corretta comprensione del mistero della Madre di Dio in unità col mistero di Cristo e della Chiesa. Questa ripresa mariana deve avvenire anche sotto la guida di numerosi

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maestri della spiritualità mariana che il Santo Padre indica come guide sicure, primo fra tutti San Luigi Maria Grignon de Montfort dalla cui spiritualità, molto ha attinto il Papa nella sua vita e nel suo ministero episcopale e universale a servizio della Chiesa di Dio. La conclusione del documento in via definitiva è affidata ad una bella riflessione su una antifona mariana con le cui parole di supplica alla Santa Madre del Redentore intendiamo lasciarci anche noi dopo questa breve e semplice presentazione del documento “Redemptoris Mater”. O Alma Madre del Redentore, porta sempre aperta del cielo e stella del mare, Soccorri il tuo popolo, che cade, ma pur anela a risorgere. Tu che hai generato, nello stupore di tutto il creato, il tuo Santo Genitore.

«GAUDETE ET EXULTATE» A margine dell’esortazione apostolica di papa Francesco sulla santità don Pierluigi Nicolardi Fin dagli inizi della creazione il desiderio dell’uomo e della donna è stato di essere come Dio. Il primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, riporta che è Dio stesso a creare l’umanità a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,27), creata cioè libera, razionale e santa (è necessario leggere in maniera analoga questi attributi di Dio rispetto all’uomo). Lo stesso serpente, l’antico tentatore, riconosce a Dio questo intento; parlando alla donna, infatti, afferma: «Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,5). Se allora il progetto di Dio di avere una umanità simile a Lui, cioè santa, corrisponde pienamente col desiderio dell’uomo, dove si consuma la distanza tra i due obiettivi? Un vecchio adagio, ingiustamente attribuito a Niccolò Machiavelli, afferma che «il fine giustifica i mezzi»; per cui, se Dio ha creato l’uomo per essere santo e questo obiettivo può essere raggiunto attraverso una “scorciatoia”, allora è bene percorrerla, costi quel che costi. Seguendo questo schema, se la santità è un bene desiderabile, allora posso raggiungerlo anche contravvenendo al progetto e al comando di Dio (cf. Gen 2,15-17). In realtà, il raggiungimento di un obiettivo buono e giusto può essere perseguito solo attraverso mezzi altrettanto buoni e giusti; possiamo allora riscrivere l’adagio secondo questa nuova formulazione: «fini buoni e mezzi buoni». Come, allora, raggiungere la santità, grande obiettivo dell’uomo e, al contempo, desiderio di Dio? Papa Francesco, attraverso l’esortazione apostolica Gaudete et exultate (GE), sprona tutti i cristiani a riscoprire la propria chiamata alla santità già inscritta nel dono del Battesimo (GE, n. 15), «ognuno per la sua via». Quest’inciso del numero 11 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, che il Papa sottolinea al numero 11 di Gaudete et exultate, è di particolare rilevanza infatti pur essendoci un’unica via (cf. Gv 14,6) per diventare santi, cioè vivere in Cristo (cf. Gal 2,20), il Papa ricorda che molteplici sono i modi per diventare santi. Infatti, i tantissimi testimoni di santità che, lungi dall’essere copiati, possono e devono stimolarci e motivarci ad intraprendere questo cammino che ciascuno deve far proprio. Il Papa ricorda che per incamminarsi sulla via di santità non è necessario vivere una specifica forma di vita – quale può essere la vita di speciale consacrazione – ma tutti siamo chiamati allo stesso destino, essere santi come

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Dio è santo (cf. Lv 11,44); «ognuno per la sua via», chi da consacrato, chi da sposato, chi da responsabile del bene comune, tutti dobbiamo perseguire il comune obiettivo. Papa Francesco, inoltre, ricorda che per essere santi non serve rifuggire dal mondo e rifugiarsi in una sorta di “universo parallelo” non quale esistiamo noi e noi soltanto: «Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione» (GE, n. 26). Già Nicolas Cabasilas, grande maestro di spirito del XIV secolo, ironizzava «sull’eccentricità dei campioni di austerità», i quali, affermava: «si ritirarono sui monti, fuggendo come la peste ogni rumore e la vita comune per attendere a Dio solo, che compirono tutte le azioni più nobili che sono possibili all’uomo, sì da acquistare il più grande potere presso Dio» (N. CABASILAS, La vita in Cristo, 664a-664b). Senza rifuggire il silenzio e la preghiera personale, la santità, ricorda Francesco, è un obiettivo che si persegue e si raggiunge vivendo nel mondo: «Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia» (GE, n. 34). Il Papa mette in guardia anche da quelli che lui considera i due nemici sottili della santità, cioè lo gnosticismo, ossia una fede rinchiusa nel soggettivismo e nel razionalismo (cf. GE, nn. 36-46), e il pelagianesimo, cioè la presunzione di chi crede che solo la propria volontà e il proprio sforzo possono essere di aiuto nel raggiungere l’obiettivo (cf. GE, 47-62). Solo seguendo Gesù Maestro hanno calcato le sue orme è possibile vivere pienamente la santità. Maria, icona perfetta di santità, modello e immagine della Chiesa, ci indica la Via; i santi, che l’hanno già percorsa, ci dicono che, per quanto possa essere impegnativa, non è impossibile. Alla vigilia della visita di Papa Francesco ad Alessano, sulla tomba del Servo di Dio don Tonino Bello, e sorretti anche della testimonianza luminosa delle Serve di Dio Mirella Solidoro e Madre Elisa Martinez, ci mettiamo in cammino.

TRA I CAPPUCCINI DI TERRA D’OTRANTO IN ETÀ MODERNA La recente edizione Il catalogo di soggetti più illustri tra i Cappuccini della Provincia d’Otranto. Santità di vita e fatti straordinari (secoli XVI-XVII), a cura di Rosa Anna Savoia, con documentazione iconografica di Francesco Monticchio, (Edizioni Grifo, Lecce 2017, 763 pp., € 45,00) è un contributo di notevole importanza per la storia della grande Terra d’Otranto di un tempo che comprendeva le attuali province di Lecce, Taranto e Brindisi e si estendeva fino a Matera. Si tratta di una fonte per la storia della vicenda religiosa e pastorale, ma pure sociale, artistica e culturale di questa provincia estrema del Regno di Napoli, protesa tra due mari. Lavori del genere non sono facili: implicano tenace impegno e molta fatica. Pertanto la gratitudine degli storici va espressa a coloro che forniscono strumenti di lavoro scientifico, come questo. E a quella dei ricercatori e degli studiosi dell’età moderna va aggiunta quella di tanti, singoli e comunità, che nella memoria storica cercano elementi di identità delle popolazioni di un territorio, del loro farsi con le idealità e dinamiche dei secoli XVI-XVII. C’è da auspicare, pertanto, una diffusa ricaduta culturale di questa impresa editoriale voluta e sostenuta dalla Provincia dei frati minori cappuccini di Puglia. Questo “catalogo” dei frati benemeriti non era ignoto agli studiosi del francescanesimo nel meridione italiano. E non pochi lo hanno valorizzato attingendo informazioni preziose. Ma questa fonte storica era lontana

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dalla regione pugliese, perché conservata nell’Archivio di Stato di Milano per volontà di Napoleone I Bonaparte dal 10 maggio 1810. Su questa vicenda la curatrice Rosa Anna Savoia ci da chiara notizia nella sua introduzione a questa edizione (cfr. pp. 27-28). Nelle pagine introduttive, essa ci illustra in maniera essenziale la vicenda della Provincia cappuccina (pp. 13-27) e ci fornisce la completa geografia storica di questi francescani di Puglia dal 1534 al 1655, di cui facilmente si colgono gli elementi nei ricchi indici, cronologico e alfabetico (pp. 667-677). Il “catalogo” consta di tre tomi legati insieme, per un totale di 510 fogli (340 + 135 + 35), redatti con criteri diversi dai loro autori negli anni 1612-1647. Nella recente edizione le tre parti sono state risistemate nell’ordine cronologico di compilazione. La maggior parte del volume è occupato dalla Raccolta della nascita, vita, morte e dopo del padre Pacifico da Sant’Eufemia, predicatore cappuccino, nato il 24 agosto 1568 nel casale omonimo di Tricase e morto il 17 aprile 1605 nel convento di Laterza (TA). Di essa fu autore Francesco da Pulsano nel 1612 (cfr. il suo profilo alle pp. 22-24). Seguono gli atti del processo informativo sulla santità di frate Egidio da Laterza, nato nel 1537 e morto a Lecce nel 1618 (pp. 297-352, e profilo biografico a p. 24); processo aperto nel 1627. La terza parte è La raccolta delle cose più memorabili e dei fatti più illustri operati dai nostri frati cappuccini redatta nel 1657 da padre Francesco da Pulsano e destinata agli annali della Provincia (pp. 353-666). Nella sistemazione editoriale data dalla Savoia sono presentati 23 padri predicatori (pp. 355-414), 30 sacerdoti cappuccini (pp. 415-488), 20 chierici (pp. 489-510), 44 laici (pp. 511-582), infine 3 suore cappuccine (pp. 635-656) e 5 terziarie (pp. 651-666). Vi sono pure le notizie delle vicende negative dei cappuccini «trasgressori della regola», «ingrati contro alla vocazione» (pp. 583-597). Sono registrati poi «altri casi straordinari» (pp. 597607) e infine «fatti meravigliosi» derivanti dalla divozione all’immacolata, e particolarmente miracoli attribuiti al beato Felice da Cantalice (pp. 617-672), san Francesco d’Assisi, sant’Antonio da Padova e san Giuseppe da Leonessa (pp. 623-643), straordinari avvenimenti provvidenziali, pp. 644-652). È doveroso avvertire che delle notizie biografiche e degli avvenimenti straordinari di cui si è avuta informazione, sono indicati i referenti che spesso firmarono con il segno di croce. L’edizione comprende anche gli indici originali conservati nel compendio (pp. 66-77). L’appendice, infine, comprende l’elenco dei superiori dell’antica Provincia d’Otranto dal 1590 al 1903 (pp. 681-683) e le ottime schede di ciascuno dei 30 conventi (pp. 685-726). La vicenda di alcuni di essi si concluse con la soppressione napoleonica dal 1811, di tutti gli altri con quella italiana degli anni 1861-1867. Ma poi ci fu la riapertura di alcuni, come quella di Scorrano nel 1881, di Francavilla Fontana nel 1901, di Campi Salentina nel 1919, di Alessano nel 1919, di Brindisi nel 1949 e di Taranto nel 1958. Tutti nella riorganizzata Provincia pugliese. L’appendice, inoltre, comprende un glossario, la bibliografia, la sitografia e gli indici delle illustrazioni e dei nomi (pp. 727-763). La documentazione iconografica e fotografica è stata curata da Francesco Monticchio, che ha collaborato validamente all’edizione di questo importante volume, secondo della nuova collana “Studia PACS – San Lorenzo da Brindisi” diretta da Alfredo Di Napoli. Questi ha valorizzato la Raccolta delle cose più memorabili in un suo recente saggio comparso con ritardo editoriale I Cappuccini nel Salento. Testimoni e apostoli di misericordia (secoli XVI-XVII), in «Idomeneo» 22, 2016, pp. 61-77, illustrando il loro apostolato sociale, culturale, la predicazione, le missioni popolari ed estere di questi frati. *** Un approfondimento utile sarebbe quello di individuare quei nativi della trentina di luoghi delle due diocesi di Alessano e di Ugento, come di altre diocesi, che divennero cappuccini ancor prima della fondazione dei primi conventi di quei territori. Tanto varrebbe ad individuare i sentieri segreti della seminagione compiuta da predicatori e questuanti provenienti da quelle residenze vicine o lontane dai confini delle due diocesi. La vicenda di fra’ Pacifico di Sant’Eufemia sarebbe su questi sentieri. Come pure quella del laico fra’ Simone da Salve, morto a Taranto nel 1624 (p. 580), fra’ Bernardino da Morciano morto a Salve nel 1580 (pp. 522-532), e dei sacerdoti fra’ Cornelio da Salve morto a Corigliano nel 1593 (p. 432), fra’ Giovanni da Alessano morto nel 1600 (p. 440), fra’ Rufino da Ruffano morto a Casarano nel 1604 (pp. 409-412). Di questi cappuccini salentini dei primi decenni numerose sono le menzioni negli indici di questo volume (pp. 735-763). Dunque, la presenza di cappuccini nativi dei luoghi delle diocesi di Alessano e di Ugento è anteriore alla fondazione dei conventi di Tricase (1578) e di Salve (1579) o a quella dei non lontani conventi di Casarano (1582) e Gallipoli (1583). Il fascino esercitato da questi francescani predicatori instancabili e umili questuanti, attrassero

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non pochi ad unirsi a loro. Questi proponevano un francescanesimo radicale e apostolico, più vivo ed efficace di quello vissuto dai francescani di Ugento, Specchia e Alessano. Non pochi dei primi cappuccini venivano proprio dai precedenti rami storici dei francescani. I loro conventini erano quasi degli eremi, distanti dall’abitato e lì i frati vivevano insieme, in povertà evangelica, predicavano nelle chiese e giravano tra le case dei paesi chiedendo l’elemosina in cambio delle parole di consolazione e di incoraggiamento. Quelli poi che erano sacerdoti predicavano e conquistavano i fedeli, diversamente da quelli di rito greco e latino che si mescolavano tra la gente salentina, officiando messe e officiature varie e coltivando di persona i terreni dei tanti “benefici” ecclesiastici e di altrettanti “legati”. I cappuccini erano considerati e attesi come guaritori in vario modo. Questo fascino spiega, come ha rilevato Criscuolo, la fondazione di conventi quasi uno ogni due anni. La geografia cappuccina di Terra d’Otranto, a differenza della vicenda nell’intera Europa, si arricchì ancora (cfr. pp. 15-16): a Ruffano dal 1621, ad Alessano dal 1627, e ancor prima Scorrano nel 1600 e a Diso nel 1619, rispettivamente nell’arcidiocesi di Otranto e nella diocesi di Castro. *** Si impone in questa edizione per la sua ampiezza la raccolta dei dati che fu compiuta negli anni 1611-1612 (pp. 70-295), come pure di quelli che furono registrati quando il 15 agosto 1627 fu avviata l’indagine sull’integrità di vita di fra’ Pacifico di Sant’Eufemia e sui miracoli a lui attribuiti. Emerge la geografia dell’intera Terra d’Otranto e della sua società nelle testimonianze di quanti dichiararono di essere stati beneficati dal suo intervento, uomini e donne, piccoli, adulti e anziani, chierici e laici, poveri e signori, afflitti dalle malattie più diverse sulle quali sarebbe interessante farne la rassegna. Essi provenivano da Matera, Montescaglioso, Ginosa, Taranto e i suoi casali, Martina, Grottaglie, Mesagne, Trepuzzi, Squinzano, Campi, Lecce, Lequile, Nardò, Casarano, Ruffano, Salve, Tricase, Tutino, Alessano, Patù, Otranto, Sant’Eufemia, Muro, Scorrano, Laterza e ancora Copertino, Corigliano, Melpignano, Galatina, Palagianello, Massafra, Francavilla. Altrettanto si può dire della Raccolta delle cose più memorabili e dei fatti più illustri (pp. 355-636), compiuti dai frati cappuccini, da quelli predicatori e sacerdoti ai chierici laici e novizi. Questi però riguardano la vita loro di slanci religiosi, di esempi di santificazione cercata e predicata non senza difficoltà e contrasti. Storia di santità che lasciò stupiti i confratelli conviventi e perciò trasmisero alla edificazione dei cappuccini delle generazioni seguenti. Con modalità specifiche che poi si diffusero tra le popolazioni, devozione sacramentale, quarantore, devozione mariana, forme concrete e relazioni interpersonali. Il Cristo crocefisso si intravede dappertutto e ispira ascetica rigorosa e sostiene «speranze disperate» (Luigi Tasselli). Queste sono della gente che ricorreva a quei francescani per chiedere salute e salvezza dalle forze demoniache. Perciò il sottotitolo del volume “Santità di vita e fatti straordinari” lo dice chiaramente e fornisce agli studiosi un vasto campo d’indagine della cultura popolare di questa provincia ai confini dell’impero spagnolo. Qui, alla frontiera del cattolicesimo meridionale, si stava verificando l’assorbimento delle diverse tradizioni religiose e culturali, come quelle che erano venute dall’oriente bizantino. In queste contrade perdurava, anche dopo Lepanto (1571), la paura della pirateria turca, sempre incombente e minacciosa. L’edizione di questa importante fonte storica arricchisce la letteratura francescana in Italia e – come auspichiamo – diventerà un contributo notevole alla storiografia pugliese e meridionale, divenuta in questi ultimi decenni attenta ai molteplici aspetti dei complessi processi dell’età moderna in cui operarono frati e devoti. Nella varietà dei loro rapporti la cultura cattolica sottolinea la straordinaria capacità che il Vangelo ha posseduto e possiede ancora di permeare le culture dei cinque continenti. È proprio del cristianesimo, infatti, vedere nei santi coloro che hanno realizzato la sequela o la imitazione di Gesù Cristo. Perciò i santi sono stati e sono considerati intercessori e taumaturghi, ma pure esempi di vita o “vangeli viventi” o addirittura “interpreti viventi e attuali” della “dottrina viva” che parla ai devoti e all’intera cattolicità. Alle analisi degli storici e degli antropologi tutto questo non può sfuggire al fine di cogliere scientificamente il senso proprio dei fenomeni religiosi e il loro significato, semplicemente con il metodo storico rigoroso e corretto. Mons. Salvatore Palese

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INAUGURAZIONE DELLA CHIESA MADONNA ASSUNTA IN UGENTO 14 aprile 2018 Don Rocco Frisullo IL PRIMO RINGRAZIAMENTO VA AL VESCOVO. Il desiderio del Vescovo sin dal 2011, è stato sempre quello di poter ristrutturare e abbellire questa chiesa, porta di ingresso al centro della città di Ugento e luogo di accoglienza di ogni manifestazione e celebrazione diocesana. Nel momento in cui il vescovo ha chiesto di convocare l’attuale consiglio di amministrazione della Confraternita per comunicare lo stanziamento del contributo della CEI pari e 190.000,00 euro e dopo le opportune valutazioni, i lavori sono iniziati con la dovuta sinergia tra le ditte, lavorando con competenza e in dialogo continuo degli uffici di curia con la Sovrintendenza di Lecce con la quale è stata discussa ogni scelta e ogni adattamento. Non abbiamo finito tutto, manca ancora il completamento dell'impianto di illuminazione, una nuova sistemazione dei banchi in forma circolare. Hanno collaborato: Architetto: ANNA BOLOGNESE, progettista e direttrice dei lavori Ingegnere EMILIANO ZAMPIRONI, coordinatore della sicurezza Ingegnere DOMENICO PREITE per l’impianto elettrico Ingegnere: GIORGIO DE MARINIS Gli Uffici di Beni culturali, liturgico e amministrativo della Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca Ditte coinvolte: DITTA STOMEO COSTRUZIONI DITTA SANTORO GREGORIO con l'ingegnere: PREITE DOMENICO DITTA SCHIAVONE FRANCESCO arredamento liturgico SANCESARIO RAFFAELE per l'impianto acustico. LA CONFRATERNITA La confraternita di Maria SS. Assunta in Cielo troviamo notizie sin dal 1559 in Ugento. Secondo le informazioni storiche raccolte nel volume di LUCIANO ANTONAZZO, La chiesa e la confraternita di Maria SS. Assunta in cielo di Ugento, Congedo Editore, Galatina 2006, dal 6 luglio 1737, data della sua elezione canonica - 281 anni.

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In seguito ai cambiamenti voluti poi dal re Ferdinando IV occorrerebbe ricordare anche un'altra data: 28 luglio 1777, momento in cui la confraternita riceve il beneplacito per continuare ad esistere e a svolgere le sue funzioni. LA CHIESA DELLA MADONNA ASSUNTA QUESTO TEMPIO DEDICATO A DIO IN ONORE DELLA VERGINE MADRE (GENITRICE) DALLA CITTÀ' DI UGENTO MASSIMA PROTETTRICE. RESTITUITO DALLE PASSATE ROVINE A UN MAGGIOR SPLENDORE CON IL DENARO DEL SODALIZIO E DEI DEVOTI AD UN CULTO PIU’ SOLENNE. FU CONSACRATO DAL NOSTRO VESCOVO FRATE GIOVANNI MARIA MASELLI 7 LUGLIO DELL’ANNO DELLA NOSTRA SALVEZZA 1881 Anche se il titolo dell' "Assunta" non lo troviamo

in

questa

epigrafe,

antica

intitolazione non si è mai persa in quanto questo edificio sacro fu sempre legato indissolubilmente all'omonima confraternita. Non conosciamo né il progettista, né la ditta che fece i lavori. Abbiamo solo 2 schizzi anonimi. Non presento i lavori effettuati all’interno e all’esterno perché lo farà dopo di me l’architetto. Vi parlo solo in poche battute di questo edificio in sé le cui notizie sono riportate in maniera approfondita nel testo di LUCIANO ANTONAZZO, La chiesa e la confraternita di Maria SS. Assunta in cielo di Ugento, Congedo Editore, Galatina 2006. La chiesa ha una originale pianta ottagonale, molto rara nella nostra diocesi, sovrastata da una cupola molto raffinata ed elegante, oggi illuminata in modo nuovo per risaltarne i colori e la profondità. Le due formelle angolari esterne presentano scolpita la M di Maria, mentre altre due intermedie presentano il sacro cuore trafitto da una spada. Mentre il primo È un chiaro riferimento a Maria il secondo È un riferimento all’aggregazione della confraternita alla pia unione Belle sacro cuore in Roma avvenuta nel 1854. Continuando all’esterno abbiamo due torri campanarie È una nicchia vuota che avrebbe dovuto ospitare una

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statua della Madonna assunta oppure della madre di Dio e che l’attuale amministrazione vorrebbe collocare appena le forze finanziarie lo permettono. All’interno l’elegante cupola presente alla base una galleria simile agli antichi matronei che la percorre per tutta la circonferenza. Al di sotto di questa galleria su delle mensole in pietra leccese sono situate Otto statue in cartapesta raffiguranti I santi Vincenzo Stefano (due diaconi), Matteo Luca Marco Giovanni(gli evangelisti) Pietro e Paolo. Infine troviamo questi due altari laterali in due cappellette. Le altre due che ospitano attualmente delle statue. L’altare maggiore si presenta semplice senza particolari ornamenti. È sovrastato da una nicchia con una vetrata sulla parete retrostante in cui vi è un altorilievo in cartapesta raffigurante la Madonna assunta contornata da angeli. Sicuramente la sua realizzazione e postuma rispetto alla realizzazione della chiesa. Secondo le ricerche di Luciano palazzo probabilmente in origine all’interno di questa nicchia era collocata una statua in legno della Madonna. Oltre l’altare principale me ne sono, come anticipato altri due. Altare dedicato al sacro cuore di Gesù realizzato nel 1915, Ornato da una statua in cartapesta realizzata nel 1926 E sotto l’altare, In una teca È custodita una statua in cartapesta raffigurante Cristo morto Sulla quale si annotano dei lavori di restauro nel 1917 punto. A sinistra rispetto all’ingresso si trova un altare dedicato alla Madonna Addolorata, Intarsiato e traforato, impiega leccese con colorazioni finto marmo. Al centro È collocata una tela raffigurante Maria Santissima dolorosa la cui realizzazione E quasi contemporanea con la Chiesa (la troviamo verbali già nel 1883). Alle spalle dell’attuale ambone È collocato un grande quadro 2 m per 3,5, delle 17º secolo appartenuto probabilmente all’antica cappella E raffigurante la Madonna assunta. La scena rappresentata richiama in qualche modo un altro quadro esistente nella cattedrale di Gallipoli risalente al 1600. Sulla porta della sagrestia E attualmente collocata poi, una tela raffigurante l’eterno padre di epoca imprecisata. Secondo alcuni racconti il quadro dell’assunta È stato per un certo periodo custodito nell’episcopio poi collocato nell’abside della cattedrale, fino a quando monsignor Giuseppe Ruotolo intorno al 1944 lo avrebbe restituito alla confraternita. Attualmente questa chiesa è anche conosciuta come la chiesa di San Biagio. ANNOTAZIONI TEOLOGICHE Sicuramente il luogo ecclesiale ha una sua singolarità. Il grande patrimonio di architettura sacra accumulato nel corso dei secoli dalla chiesa cristiana si scontra con il forte asserto biblico che incontriamo sia nel Vecchio sia nel Nuovo Testamento. Il vissuto cristiano ci mostra che il tempio diventa per la comunità una sorta di prolungamento della propria corporeità. La riflessione sull’edificio della chiesa non può mai scindere la figura dell’edificio della chiesa come segno della comunità orante e celebrante, dalla sua destinazione ad essere il segno globale della Chiesa, nella totalità della sua esistenza. Oggi più che mai, in una società in cui tanti edifici sacri di diverse religioni vengono edificati uno accanto all’altro, verrebbe da chiedersi: che cosa significa oggi costruire una chiesa ed

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abitarla? Sicuramente l’edificio-chiesa significa all’interno della dinamica complessiva del linguaggio, attraverso il quale i cristiani comunicano tra di loro e la comunità cristiana comunica con il mondo circostante. Ma una risposta completa a quella domanda dovrà venire da molte fonti diverse. Certamente quella “liturgica” è importante, e l’Eucaristia-Comunione è il significato più alto. L’ALTARE, SIMBOLO DI CRISTO L’altare, proprio per la sua centralità​̀ nell’architettura delle chiese, ha un significato mistico e spirituale di grande rilevanza nell’ambito del mistero cristiano. Essere al centro vuol dire che è il centro della nostra fede. La storia dell’altare è tutta dentro questa tensione che va mantenuta senza dispersione di elementi: tavola per il banchetto, perché​́ ara per il sacrificio; ara per il sacrificio per essere tavola per il banchetto. Il vocabolo altare è composto dal participio del verbo latino alere (altus) = nutrire, e dal sostantivo ara, a sua volta derivante dal verbo arere = bruciare: il luogo del fuoco e del nutrimento; il luogo dove il fuoco consuma la vittima che Dio mangia (aspirandone il profumo) e che in alcuni casi (sacrifici di comunione) anche l’uomo mangia per entrare in comunione con Colui che ha gradito la vittima offerta. I più antichi altari cristiani, di cui gli affreschi nelle catacombe ci hanno tramandato le immagini, appaiono di legno, sono di piccole dimensioni, di forma quadrata, a semicerchio o a ferro di cavallo (per permettere ai dodici più​̀ Gesù​̀ di stare tutti distribuiti da una parte). È ancora l’epoca di piccoli luoghi di culto, spesso domus ecclesiae, cioè​̀ sale di case in cui ci si raduna e l’arredo è fatto da strutture mobili che si mettono e si tolgono. Ma a partire dal secolo IV l’altare cristiano è pressoché​́ dappertutto di pietra e stabile e il luogo di culto cambia, passando dalle case private alla basilica.

L’EVOLUZIONE DELLA FORMA DEGLI ALTARI CRISTIANI I più antichi modelli di altare, dei quali non si conservano i resti, hanno la forma di una tavola sorretta da leggeri supporti ed erano probabilmente in legno. Nel 517 il concilio nazionale di Epaone vieta la consacrazione di ogni altare che non fosse di pietra, tuttavia l’impiego occasionale del legno non viene abbandonato del tutto. La forma dell’altare antico era preferibilmente quadrata (cf Ravenna, sant’Apollinare, sec. VI) e l’iconografia presenta sempre l’altare coperto da magnifiche tovaglie conferendo così all’altare la forma di un cubo: “La mensa è quadrata, perché​́ da essa si sono nutrite e sempre si nutriranno le quattro parti del mondo; alta e rivolta verso il cielo, perché​́ il suo mistero è alto e celeste e del tutto trascendente la terra” (Simeone di Tessalonica). L’altare deve essere dunque circondabile da ogni parte, sia perché​́ il celebrante possa cambiare posizione a secondo dei vari momenti della celebrazione eucaristica, sia perché​́ nel corso dell’anno liturgico possa essere valorizzato in modalità​̀ differenti. Al tempo di S. Agostino (V-VI sec) l’altare era situato nel mezzo della chiesa. Dopo la liturgia della Parola, celebrata a partire dall’abside e dalla cattedra del vescovo, il celebrante scendeva i gradini e avanzava verso il piccolo altare. I fedeli accompagnavano lo spostamento disponendosi tutti intorno.

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Nelle chiese paleocristiane ed in quelle medioevali il “luogo di Cristo”, l’altare, era situato in mezzo all’assemblea. L’uso di celebrare l’eucaristia presso le tombe dei martiri cristiani ha dato presto origine alla costruzione di chiese dedicate ai martiri cristiani in cui l’altare veniva collocato proprio sopra il luogo della sepoltura del martire. Il martire ha partecipato del sacrificio di Cristo; l’altare collocato sulla tomba del martire unisce in un tutt’ uno il martirio di Cristo e quello del santo martire, l’intercessione di Cristo e quella del suo martire. Diventa così monumento plastico l’espressione del libro dell’Apocalisse: “Sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa” (Ap 6, 9). Da qui all’idea che l’altare dove si celebra l’eucaristia è anche il sarcofago che racchiude le spoglie mortali o le reliquie del martire (e più​̀ in genere del santo) il passo è breve: altare di santa Rita, altare dei santi Faustino e Giovita, ecc... e quando il sacerdote cominciò a celebrare all’altare “rivolto al Signore”, sulla parete di fronte si rappresentò il santo e la sua storia fino ad arrivare alla grandi pale d’altare. Nel rito della dedicazione dell’altare, momento solenne e necessario fino alla recente riforma era la posa della reliquia del santo nell’altare stesso. E poiché​́ i santi sono molti, mentre Cristo è uno solo, ecco che la devozione ai santi e la preoccupazione di dare lustro a ciascuno di loro da parte delle confraternite o delle famiglie bene abbienti, moltiplicò gli altari nelle Chiese. A partire dal secolo XIV, si innesta lo sviluppo del Tabernacolo, luogo per la custodia eucaristica. Intronizzato sopra la mensola dell’altare, diviene nel volgere di qualche secolo il vero centro visivo e devozionale delle chiese cattoliche. Perciò​̀ l’altare viene trasformato in trono che porta la divina presenza sacramentale. Tutto il rito liturgico che si svolge all’altare viene riscritto (si pensi a tutte le genuflessioni rivolte al SS. Sacramento), tenendo conto che il sacerdote e i ministri sono in ogni momento al cospetto della presenza sacramentale di Cristo. L’epoca che sta alle spalle del Concilio Vaticano II, circa quattro secoli, dal ‘500 al ‘900 ha dunque mantenuto la centralità​̀ dell’eucaristia nelle nostre chiese, potenziando l’altare con il tabernacolo (tempietto, luogo dell’esposizione, grande velo steso sullo sfondo, ecc...). L’AMBONE L'ambone è 'icona spaziale della resurrezione' o 'icona del santo sepolcro', come viene definito da Germano di Costantinopoli. Comunemente si fa derivare il termine 'ambone' dal greco 'anabà inein' che vuol dire ' salire', perché̀ esso era costituito da un rialzo al quale si accedeva mediante alcuni scalini. Vi è , però , un particolare tipo di luogo della Parola chiamato jubè , il cui nome deriva dalla frase latina "Iube domine benedicere" con la quale il lettore si rivolgeva al celebrante che presiedeva la liturgia per chiedere l'autorizzazione a leggere. Tra il '400 e il '500 la parte centrale venne demolita: rimase la Croce sospesa al centro e i due corpi laterali diedero origine al pulpito. Questo termine indica più il luogo della predicazione, della catechesi, che quello della proclamazione della Parola di Dio, infatti la sua diffusione si deve alla nascita degli ordini dei frati

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predicatori: per questo nelle chiese, soprattutto conventuali, il pulpito occupa una posizione funzionale all’ascolto: è posto in alto e circa a metà navata. Dal punto di vista iconografico gli amboni hanno assunto, nel corso dei secoli, forme molto diverse: alcuni sono circolari o poligonali e sono fuori della delimitazione del presbiterio, con cui possono essere collegati mediante una stretta pedana (solea), altri sono caratterizzati dalla presenza di due scale. La riforma liturgica ha riportato alla luce l'ambone, mettendo in evidenza tutta l'importanza teologica di 'luogo della Parola'. Purtroppo qualche volta, anziché̀ esaltare il luogo della proclamazione della Parola, è stato vanificato riducendolo a un suppellettile, quale il leggio che sostiene il libro. Il luogo privilegiato dove la Parola di Dio è presente e opera è , dunque, la Liturgia. In essa la Parola non è solo proclamata, ma si attua. L'ambone è dunque un luogo, uno spazio, non un oggetto o un semplice arredo della chiesa. Tutti i documenti dopo la riforma liturgica tendono a ribadire questo concetto dando disposizioni molto chiare al riguardo. L'importanza della Parola di Dio e la sua recezione da parte dell'assemblea richiedono la valorizzazione del luogo da cui si annuncia tale Parola. Il recente Ordinamento Generale del Messale Romano afferma che "l'importanza della Parola di Dio esige che nella chiesa vi sia un luogo adatto dal quale essa venga annunciata e verso il quale, durante la Liturgia della Parola, spontaneamente si rivolga l’attenzione dei fedeli" (OGMR 309) e le Note Pastorali dei vescovi sulla progettazione delle nuove chiese e sull’adeguamento di quelle antiche hanno fornito anche delle indicazioni architettoniche sul luogo e sulle forme dell’ambone stesso. Si dice, infatti, che “l'ambone va collocato in prossimità​̀ dell'assemblea, in modo da costituire una sorta di cerniera tra presbiterio e navata; è bene che non sia posto in asse con l'altare e la sede, per rispettare la specifica funzione di ciascun segno”, ma può ̀ anche essere “non all'interno del presbiterio, come testimonia la tradizione liturgica”. Inoltre “la sua forma sia correlata all'altare, senza tuttavia interferire con la priorità​̀ di esso" (PNC9; ACRL18). L'ambone deve essere una nobile ed elevata tribuna, deve essere, come l’altare, unico e fisso, non un semplice leggio mobile: "un leggio qualunque non basta" (Inter Oecumenici 96); inoltre non deve diventare “supporto per altri libri all'infuori del Lezionario e dell'Evangelario" (Precis. al Messale Romano 1983 n.16). L'ambone, perciò​̀ , come mensa della Parola deve essere riservato unicamente alla proclamazione delle letture, del salmo responsoriale e del preconio pasquale, ma può​̀ essere usato anche per l'omelia del celebrante e la preghiera dei fedeli (OGMR n.309). Distinto dall'ambone è , invece, il leggio, che può​̀ essere mobile e viene usato dal commentatore o dall'animatore del coro. Tuttavia anche il leggio deve avere una sua dignità​̀ ed essere intonato allo stile della chiesa, evitando materiali commerciali di dubbio gusto.

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INTITOLAZIONE DI UNA VIA DI GALATINA (LE) A MADRE ELISA MARTINEZ SALUTO DI SUOR ILARIA NICOLARDI, SUPERIORA GENERALE DELL’ ISTITUTO DELLE FIGLIE DI SANTA MARIA DI LEUCA Roma, 04 maggio 2018

Carissimi, A nome delle Suore “Figlie di Santa Maria di Leuca” e mio personale desidero esprimere il più sentito ringraziamento al Sindaco Marcello Pasquale Amante, al Vice Sindaco Maria Giaccari e a tutta l’Amministrazione Comunale di Galatina, alle altre Autorità civili presenti, alle Autorità Ecclesiastiche Mons. Donato Negro, Arcivescovo della Diocesi di Otranto, rappresentato da Mons. Aldo Santoro, a Mons. Vito Angiuli Vescovo della Diocesi di Ugento Santa Maria di Leuca e a tutti voi qui presenti. Sono giunta qui quest’oggi con la gioia nel cuore, nel paese natale di quella che è stata la mia Madre Spirituale, che prima a

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ancora è stata vostra paesana, Madre Elisa Martinez, per poter dare un contributo nel far conoscere la figura di quella piccola grande donna che con forza e coraggio ha lasciato la sua impronta nella storia, come Fondatrice delle Suore “Figlie di Santa Maria di Leuca” Madre Elisa, come ho detto poco fa, è stata una piccola grande donna, piccola di statura, ma grande nello spirito, che con coraggio ha testimoniato l’amore a Dio e al prossimo, mettendo tutta la sua vita a servizio dei più bisognosi. E oggi, noi, sue Figlie, seguendo le sue orme nell’attuare lo scopo specifico della nostra Congregazione, ci ispiriamo alla massima evangelica: “Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli, l’avrete fatto a me.” (M. 25,40), e alla figura del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarita, la raccoglie e la riporta all’ovile, (Lc 15,5), una sorte di “motore” che ha spinto Madre Elisa a fondare l’Istituto da me rappresentato. Come per Gesù, anche per noi, i “piccoli” non sono solo i bambini, ma tutti i poveri, i bisognosi, gli indifesi, gli infelici (Dir. Art.3) e con essi tutte le attività apostoliche inserite nel tessuto vivo della società. Con instancabile amore portiamo avanti il carisma della Madre in 8 nazioni: Italia, Svizzera, Francia, Spagna, Portogallo, Canada, India e Filippine in 62 Comunità religiose più o meno numerose. Nel formare una sola famiglia dove tutte le Suore hanno uguale diritti e doveri (Cost. Art.6), abbiamo come tratto caratteristico la spiritualità mariana. Da Maria, ancella del Signore impariamo la vita interiore, che si nutre dello spirito di preghiera (Pc 6) e la disponibilità che si attua nell’obbedienza religiosa. Da Maria, inizio e modello della Chiesa (LG 65) impariamo l’amore alla Chiesa, diamo al nostro apostolato un’apertura ecclesiale (LG 44, 2; Pc 5)) e partecipiamo alla missione stessa della Chiesa. (Dir. Art.3) Grazie a Madre Elisa questo piccolo lembo d’Italia è conosciuto in tutto il mondo perché dove andiamo portiamo assieme all’amore di Dio per i più bisognosi, anche il nome e la storia della Madonna di Leuca e della nostra amatissima Madre Elisa. Rivolgo nuovamente i miei ringraziamenti a tutta l’Amministrazione Comunale di Galatina, per aver accolto, condiviso e avvallato l’iniziativa di intitolare una via a Madre Elisa: è una decisione che dimostra una intelligenza d’amore bella da parte degli Amministratori della città; sarà Madre Elisa stessa a intercedere presso il Signore affinchè vi conceda le grazie di cui avete più bisogno in ogni momento della vita. Essendo, la nostra, una Congregazione mariana, ed essendo ormai nel mese di maggio, vorrei lasciarvi e salutarvi con le parole stesse di Madre Elisa: “La storia e la vita dell’Istituto delle Suore di Santa Maria di Leuca è la storia e la vita di una istituzione che canta la benevolenza della Madonna e che dice a tutti quanti hanno contatto con noi la grandezza di Maria. Maria rimane per noi sempre la “stella del mare”, ossia quel punto di orientamento sempre fisso che il marinaio guarda per orientarsi quando ogni altro orientamento è smarrito. Grazie di cuore.

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Diocesi Ugento - S. Maria di Leuca AGENDA del VESCOVO

Maggio 2018 1

martedì

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mercoledì

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giovedì

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venerdì

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sabato Domenica

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lunedì martedì mercoledì

Ore 10,00 Ore 18,30

Taurisano – Parr. Ausiliatrice - CRESIME Gagliano – Parr. San Rocco – CRESIME - La Curia è chiusa Ore 9,30 Lecce – Università del Salento – Convegno “Convivialità delle differenze” – L’eredità di Don Tonino a 25 anni dalla scomparsa Ore 10,00 Liceo “Da Vinci” - Maglie – Incontro con gli studenti - Non ci sono udienze Ore 12.OO Pellegrinaggio studenti Don Tonino- Basilica di Leuca Ore 18,00 Galatina – Intitolazione strada alla serva di Dio Madre Elisa Martinez Ore 18,00 Alessano – CRESIME Ore 10,00 Corsano – CRESIME Ore 18,00 Ruggiano – CRESIME con Parrocchia di Giuliano

Ore 8,00 giovedì

11 12

venerdì sabato

13 Domenica 14 15 16 17

lunedì martedì mercoledì giovedì

Ore 10,00 Ore 17,30 Ore 9,30 Ore 19,30 Ore 10,30 Ore 16,30 Ore 18,30

Ore 19,30 Ore 21,00 Ore 19,00

18 venerdì 19 20

sabato Domenica

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lunedì martedì mercoledì giovedì

Ore 18,00 Ore 10,30 Ore 19,00

Suore Ugento – S. Messa – 50° professione religiosa di Sr. M. Antonietta Ciocia Collegio Consultori Incontro in Prefettura Leuca – Ritiro del Clero Tricase sala del Trono. Presentazione libro del Dr. Giancarlo Piccinni “ Don Tonino sentiero di Dio” Tiggiano CRESIME Lucugnano – Convegno ministranti Ugento - Sacro Cuore – CRESIME

Taurisano – VEGLIA DI PENTECOSTE - ss. Apostoli e Inizio della veglia - conclusione in piazza castello (chiesa Madre) Corsano – Auditorium Comunale – Presentazione del libro di don Luca De Santis “Autonomismo e persona” il pensiero di don Luigi Sturzo per l’Italia in cammino. Castrignano C. – CRESIME Ugento Cattedrale – CRESIME Molfetta – S. Messa – Madonna dei Martiri Roma – Assemblea CEI Roma – Assemblea CEI Roma – Assemblea CEI Roma – Assemblea CEI

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venerdì sabato

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lunedì martedì mercoledì giovedì

Ore 19,00 Ore 10,00 Ore 19.00 Ore 19- 21 Ore 19 -21 Ore 19 -21 Ore 19,00

Pellegrinaggio della diocesi di Molfetta ad Alessano-Leuca Ruffano – Cammino Confraternite - Convegno Specchia- CRESIME Ruffano – Cammino Confraternite – S. Messa Alessano – Auditorio Benedetto XVI – CONVEGNO PASTORALE Alessano – Auditorio Benedetto XVI – CONVEGNO PASTORALE Alessano – Auditorio Benedetto XVI – CONVEGNO PASTORALE Tutino – S. Messa – pellegrinaggio mariano dalla Chiesa Madre di Surbo alla Chiesa Parr. di Tutino

REDAZIONE Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca P.zza San Vincenzo, 21 – 73059 UGENTO - Lecce www.diocesiugento.org Ufficio Episcopale per la Pastorale Vicario Sac. Stefano Ancora tel. 339 7354561 Diac. Luigi Bonalana tel. 338 9458545 luigi.bonalana@alice.it segreteria@diocesiugento.org

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