n. 26 La Bella Politica

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ANNO VII NUM.26

ottobre‐novembre 2012

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CASABLANCA N.26/ ottobre – novembre 2012/ SOMMARIO “A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Giuseppe Fava

4 – Natya Migliori Giovannella la nostra candidata 6 – Graziella Proto Maria C. Lanzetta, “stai a casa e fai la mamma” 10 - Angelo Vassallo – la bella politica Simona Mazzeo 13 – Ilaria Ramoni Lombardia metafora della ‘ndrangheta 16 - Lazio, Regione Imperiale Fabio Nobile 18 – Francesca Chirico Chiesa, ‘ndrangheta… 21 – Sughereta e MUOS? Antonio Mazzeo 24 - Giovanna Regalbuto Mineo, una festa al c.a.r.a. 27 – Il gabbio Lampedusa Fulvio Vassallo Paleologo 30 – Gianni Lannes Democrazia derubata 32 – Franca Fortunato Giuseppina Pesce 35 – Rosita Rijtano Gocce che scavano il marmo 37 - Cynthia Rodriguez La Rivoluzione? – giornalisti in Messico 40 – Mara Bottini Bernaw Kefah 43 - Palermo in bicicletta Daniela Gambino 45 - Diario della Pioggia Gianni Allegra 46 –Gianni Lannes Il Grande Fratello 47 – Annalusi Rapicavoli Live to stay alive: la Sicilia che si sente 49 - Lettere Casablanca – Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com Redazione tecnica: Nadia Furnari e Vincenza Scuderi Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles Casablanca pagina 2


Editoriale – mensile

Alla ricerca della rotta smarrita Così parlò Pippo Fava

“Amico mio, chissà quante volte tu hai dato il voto a un uomo politico corrotto, ignorante e stupido, solo perché una volta al potere ti poteva garantire una raccomandazione, la promozione a un concorso, l’assunzione di un tuo parente, una licenza edilizia di sgarro. Così facendo tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i parlamenti e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiritualmente più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società. Di tutto quello che accade oggi in questa nazione, la prima e maggiore colpa è tua". (Giuseppe Fava 1983) Parole profetiche? Premonitrici? Una verità, anche quando in modo buonista sosteniamo che sì il voto di tanta gente non è un voto libero. È sotto ricatto: bisogno, miseria, nuove forme di povertà. Tuttavia i rivoli del ricatto elettorale abbracciano anche un non bisogno, ambizioni, affari, carriere. Gli ideali sono in coma, l’ideologia alla gogna. La maggior parte della politica magna, magna…spende e spande, organizza “feste eleganti senza sesso”, oppure lunghe e costose crociere regalate dagli amici… La grande ammucchiata? Colpa della legge elettorale. Le porcate sui più deboli? In nome e per conto dell’Europa. Gli aumenti esagerati dei rappresentanti istituzionali? Votati all’unanimità. Opposizione? Piccolissima, manco si avverte. C’è dell’altro. Una cosa grave, il cosiddetto “voto utile”. Ma sai provi a dire - gli ideali… ti si risponde che sei una nostalgica, impastata di ideologie. Vale a dire, rischi il rogo come le streghe. Dimenticando perfino che, ideologia vuol dire concezione del mondo, concezione della vita, dottrina, scuola, pensiero, filosofia. Insomma, un pacchetto di valori, ideali, progetti e proposte per un mondo più giusto. Più bello. Nulla. L’unica strategia, l’unico ideale, è

vincere. A quale prezzo? Con quale Progetto? Soprattutto, con chi? Ovvio, con tutti coloro che hanno contribuito a creare lo sfacelo. Si dice “essere moderni” e parecchi ci credono. NOI NO! *** “I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi a volte sono banchieri. I mafiosi sono quelli che in questo momento stanno ai vertici della nazione”. Era la fine del 1983. Giuseppe Fava così rispondeva a Enzo Biagi che lo intervistava. Dopo una settimana lo ammazzarono. La regione Lazio e la regione Lombardia (e prima ancora la Sicilia), ci raccontano che la mafia è dentro le istituzioni, eppure non riusciamo a ribellarci. Ci si accontenta di uno, pochi, che finiscono in galera… che poi escono e si ricandidano. Il garantismo… Il terzo livello di giudizio… Bisogna accertare i fatti… E se capitasse a noi…Sì, ma è un fenomeno trasversale. Trasversale a che? A chi? Tutto questo denaro rubato da tesorieri di partiti, capigruppo, semplici onorevoli deputati o senatori, era della comunità, sarebbe servito per il paese.

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Chi sta pagando col sangue la crisi? Monti con quali classi sociali recupera? Su chi risparmia? Non vedo la giusta indignazione. Non vedo le monetine buttate in faccia all’uscita dell’albergo. Non vedo la rabbia. Non ci si incazza. L’assurdo e l’impensabile si fondono: Molti oppressi, guardano a destra, forse fidandosi, forse lasciandosi comprare. Quelli che sanno tutto, si inerpicano in ragionamenti del tipo “Sono piccole cifre. Un aereo F 35? I soldi rubati? Gli sprechi? Non risolverebbero il problema del paese”. Come si risolve allora, prelevando dai poveri ? Derubandoli e defraudandoli in termini economici e in termini di servizi? Questa grande quantità di denaro sottratta, di sicuro avrebbe alleggerito i sacrifici, reso più leggero il peso della crisi. Dato servizi. Abbassato le tasse. Far sopravvivere i piccoli commercianti e i loro negozi. Far respirare i piccoli comuni. Insomma questa barca di denaro a qualcosa sarebbe servita. Non diciamo cazzate.


È donna della FIOM … noi la votiamo

Giovannella, la nostra candidata Trasformiamo le risorse in FUTURO Natya Migliori Ogni donna è figlia, madre, moglie, professionista, sindacalista. Dentro di me sento l’intima consapevolezza di essere ognuna di queste donne e di volerle rappresentare e contrapporre ad una politica che, finora, non le ha affatto valorizzate. Cinquantatré anni, molto carina, garbata, targata FIOM Giovannella - come la chiamano qui a Catania i suoi vecchi amici - ha risposto all’emergenza elettorale della coalizione Fava con spirito di servizio. Ma anche perché aveva già sposato il programma, le idee, le ambizioni. Una candidatura debole? Attualmente presidente del Comitato Centrale della FIOM, è stata la prima donna in Sicilia a rivestire la carica di segretaria regionale del sindacato dei metalmeccanici. Da venticinque è sempre stata in strada assieme ai lavoratori, a combattere battaglie durissime quali per esempio quella di Termini Imerese. Vi pare poco? “Sono di corsa, vado a Catania per una conferenza”. Ha il tono trafelato di chi è travolta dagli impegni, Giovanna Marano, leader della FIOM candidata alla presidenza della Regione Sicilia da Idv, Sel, Verdi, FdS e Altra Storia dopo il ritiro di Claudio Fava a causa di un “vizio di forma”: una residenza trasferita troppo tardi in “madrepatria”. Mentre c’è chi grida al complotto, chi punta il dito contro l’imperdonabile distrazione dell’europarlamentare e chi ironizza “non sa neanche dove sta di casa”, suggerendogli di comprare un navigatore, la proposta per la candidatura giunge inaspettata alla sindacalista. Che non se la sente

di rifiutare. “Dopo i primi momenti di assoluto stupore - mi confessa tutto sommato è stato semplice decidere. Come quando ti chiamano da casa per dirti che c’è un’emergenza. Dopo lo sbigottimento iniziale, non puoi fare a meno di correre in soccorso e provare a risolvere il problema. Mi ha spinto in altre parole lo spirito di servizio, che sta alla base dell’unica politica in cui credo. E della sola che potrà seriamente rimarginare la spaccatura con la società”. Classe 1959, Giovanna Marano, attuale presidente del Comitato Centrale della FIOM, è stata la prima donna in Sicilia a rivestire Casablanca pagina 4

la carica di segretaria regionale del sindacato dei metalmeccanici. Una carriera di lotte in strada, lontana dagli uffici, il più possibile vicina agli operai. “Sono una donna - si legge sul suo profilo Facebook- che ha vissuto e lavorato prima nella sanità e poi sul fronte sindacale dove per venticinque anni sono stata al fianco dei lavoratori nelle battaglie più dure, tra cui quella durissima di Termini Imerese. Da lavoratrice e da sindacalista ho potuto toccare con mano come questa regione abbia sperperato denaro e non abbia mai saputo affrontare il bisogno di una vita migliore”.


È donna della FIOM … noi la votiamo Gli anni all’interno della sigla CGIL/FIOM la portano però oggi ad una scelta partitica diversa rispetto alle colleghe di sindacato Mariella Maggio e Concetta Raia, confluite nella lista PD di Rosario Crocetta. Qualcuno ha già gridato alla frattura. È un rischio reale? “Tengo innanzitutto a precisare che da tempo ho abbracciato il progetto politico di Fava. Al di là di ciò, la CGIL è sempre stata una forza sindacale, e non politica, fortemente caratterizzata dal pluralismo di idee. Guai se non fosse più così. Io non sento nessuna rivalità nei confronti delle colleghe e non vedo nessuna spaccatura. Si tratta solo di scelte divergenti, dettate da un retroterra e da esperienze differenti. Tutto qui”. L’attività sindacale l’ha particolarmente impegnata sul fronte della disoccupazione. Qual è, secondo lei, la situazione oggi in Sicilia? Quali le soluzioni? “Stando al fianco degli operai di Termini Imerese, soprattutto nell’ultimo decennio, mi sono resa conto che anni di malgoverno hanno ridotto la Sicilia senza un mercato, senza una seria politica industriale e senza finanziamenti che possano consentire la sopravvivenza stessa delle imprese. Se negli anni Sessanta l’industrializzazione nazionale è partita proprio da noi, adesso ci troviamo ad essere la prima regione deindustrializzata. Ma i paradossi siciliani non finiscono qui - aggiunge -. Mentre ben cinque raffinerie e due metanodotti attraversano, infatti, il nostro territorio, continuiamo a pagare più cari delle altre regioni d’Italia il gas e la benzina. Sono

io allora a farle una domanda: perché? In Sicilia manca la spinta,

mancano la volontà e la capacità di dare impulso all’economia e all’occupazione, anche attraverso la promozione dell’industria”. Al pari dell’Ilva di Taranto, però, anche in Sicilia industrializzazione è sinonimo di cancro, leucemie e malformazioni. Basti pensare al “polo della morte” AugustaPriolo-Melilli. “Certo. In nome del ‘miracolo industriale’ la Sicilia ha subìto veri e propri scempi ambientali che hanno inevitabilmente posto i lavoratori di fronte al ricatto salute o lavoro. Io sono stata nominata solo da pochi giorni e non ho ancora un programma definito. Ma parto dalla convinzione che un governo che pensi al futuro di questa regione debba pensare ad un’utilizzazione responsabile delle risorse e ad una produzione ecosostenibile. La politica seria non deve mai più permettere scempi e ricatti, ma trasformare le risorse in futuro”. In passato ha avuto modo di scrivere che la Sicilia può essere salvata dalle donne. Ne è ancora convinta? E cosa può salvare le donne in Sicilia? Quali le sue proposte rispetto alla disoccupazione femminile? Casablanca pagina 5

“Credo ancora moltissimo nel ruolo che le donne possono avere per creare una Sicilia nuova. Ognuna di noi è figlia, madre, moglie, professionista, sindacalista. Dentro di me sento l’intima consapevolezza di essere ognuna di queste donne e di volerle rappresentare e contrapporre ad una politica che, finora, non le ha affatto valorizzate. Le mie due figlie, Martina e Roberta, vivono fuori perché qui non sono riuscite a trovare valide opportunità di lavoro. Ebbene, sono convinta che un’ipotesi politica che guardi veramente allo sviluppo debba offrire alle donne la possibilità di realizzarsi nella loro terra. Il fenomeno delle famiglie monoreddito in Sicilia, d’altronde, costituisce per la nostra economia una vera e propria piaga. Come si può pensare di risanarla continuando a prescindere dall’occupazione femminile?”. Lei parla spesso di “politica seria”. Ma che cos’è oggi, in Sicilia, la politica seria? “È il tentativo coscienzioso e cosciente di rappresentare ed ascoltare tutte, ma proprio tutte, le istanze di quanti vogliano spendersi per il benessere generale e la collettività”.


Una calabrese siciliana

“Stai a casa e fai la madre” La bella politica Graziella Proto A Monasterace c’era il caos, poi venne eletta Maria Lanzetta che si impegnò a dare una sterzata legalitaria. Una donna, la novità, la legalità… tutti dimenticarono che il comune, in passato, era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Ma non durò a lungo. Nell’ultimo anno Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, è stato teatro di diversi attentati di ’ndrangheta, rivolti sopratutto verso la sindaca Lanzetta e la sua giunta. I Motivi? Solo sospetti, dice la sindaca e tutti politici. Qualcuno bisbiglia, doveva lavorare solo la cosca Ruga che secondo la DIA “aveva il controllo totale degli appalti delle opere pubbliche a Monasterace, qualsiasi servizio, dovevano svolgerlo loro direttamente o imprese riconducibili alla consorteria criminale”. “Non sono un sindaco antimafia” “Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova, a Padova… Sono calabrese ma sono italiana… La Locride è povera e soffre perché ci tolgono le scuole, non ci sono investimenti…”. Parla sottovoce, a volte abbassa gli occhi. Le parole si susseguono frettolosamente, come se temesse

di non riuscire a dire tutto. Fragile? Timida? Decisa. Maria Lanzetta è decisa a portare a compimento il suo secondo mandato di sindaca di Monasterace. Nonostante tutto. Visino pulito, minuta di corpo, gracile. Esile ma, fortissima. Occhi vispi, intelligenti, di quelli per cui non c’è bisogno di parole.

Sorriso dolce, fare cortese. Riservata, discreta, schiva, modesta, Maria ha 57 anni, marito insegnante, due figli laureandi. Una solida famiglia di origine alle spalle. Farmacista benestante non ritira neppure l’indennità di sindaca, preferisce illuminare le strade, fare lavori di manutenzione e tante altre piccole

LE MANI SULLA CITTÀ Ruga Benito Vincenzo Antonio storico patriarca della cosca omonima, a Monasterace era il padrone del paese, poi nel 1993 è stato condannato all’interno dell’operazione “Stilaro”. Dal carcere però ha continuato la sua specializzazione cioè tenere in scacco la cittadina. Le mani sulla città per dirla con uno slogan, che significava monopolio assoluto sugli appalti pubblici. Direttamente o, indirettamente da quando è in galera. Dalle varie operazioni degli inquirenti, risulta determinante la complicità del responsabile dell’ufficio tecnico, Vito Micelotta, che durante l’amministrazione di Maria Lanzetta per assicurare al Ruga la conclusione dei contratti ha dovuto dare permessi e autorizzazioni all’insaputa della sindaca. Poverino! Anche Micelotta come Ruga, già nel 1993 era finito dentro le inchieste giudiziarie, “Stilaro 1” e “Stilaro 2” ma era stato assolto. Con l’operazione Village del 2010 prima va in galera e poi agli arresti domiciliari.

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Una calabrese siciliana grandi cose che servono per il paese da lei amministrato. In questo periodo è più che mai arrabbiata per ciò che succede in altre regioni e in altri comuni. Lei in fondo non ha mai pensato di fare grandi opere. Lei pensa a cose molto normali “… la possibilità di scrivere nuove regole per il territorio, piano regolatore, progetto spiagge, recupero del centro storico, opere pubbliche. Senza grandi spese”. Ha dato fastidio che non volesse grandi spese o che volesse riscrivere le regole? Il progetto spiagge o il recupero del centro storico? Certamente questa piccola gracile donna ha fatto uno “sgarro”. A chi? Perché la minacciano? Perché le hanno incendiato la farmacia, sparato contro la sua macchina? Chi le fa recapitare a casa biglietti con su scritto “Resta a casa a fare la madre”? Tanti interrogativi ai quali lei non dà risposte, c’è un’indagine in corso ripete. SINDACHE CHE DANNO FASTIDIO ALLA ’NDRANGHETA

conto, non sono previsti. Le loro sono cene familiari, con i parenti o gli amici. Nelle loro abitazioni o il ristorante sotto casa. La loro vita è a rischio per pochi spiccioli, perché di soldi queste sindache ne vedono pochi o per nulla. Sprechi, ostriche, cozze pelose, festini? Da queste parti suonano come bestemmie, come si suole dire fanno uscire di testa. Sono per il rigore e la legalità perciò hanno dato fastidio alla ’ndrangheta (o chi per essa), che ha reagito con rabbia. Minacce, incendi, messaggi. Si sono arrese? Sono tornate alle loro attività professionali? NO. Hanno accettato la scorta, mantengono l’incarico e vanno avanti. A Locri in questi giorni grazie alle sindache di Monasterace, Rosarno, Decollatura, Capo Rizzuto, si è svolta la due giorni Anci Legalità e Sviluppo nel Sud - un convegno con la partecipazione di tanti sindaci venuti da fuori. Un segnale forse, un modo per dire che c’è attenzione verso questi comuni? ***

Siamo nella Locride, dove miserie umane, riti arcaici, ritorsioni, la fanno da padrone. Dove è facile sparare alla macchina della sindaca, o appiccare fuoco alla sua farmacia. O alla macchina di una sua consigliera comunale di fiducia. Eppure in questa parte della Calabria, in questo momento per certi versi si sta vivendo un periodo splendido. Tanti piccoli comuni sono amministrati da donne e le giunte sono fatte da giovani donne e giovani uomini. Sindache impegnate, decise, preparate. Coraggiose. Sindache protette dalla scorta perché probamente hanno pestato i piedi a qualcuno. Loro le ostriche e lo champagne non li mettono in Casablanca pagina 7

Monasterace è un piccolo comune di 3.000 abitanti. Fa parte della Locride, una zona inserita tra l’Aspromonte, lussureggiante e incontaminato e la striscia di mare Jonio, da dove arrivarono i Greci che proprio qui, elessero residenza. Ecco perché un immenso parco archeologico incastona questo comune che pare sia stato costruito sui resti di un castello medioevale. Cambiare una lampadina in questa cittadina è complicato, desiderare di mettere i condizionatori nella biblioteca per fare iniziative culturali assurdo. “Siamo poverissimi, i lavori di manutenzione li facciamo con la mia indennità e mettere l’aria condizionata non è stato possibile” - spiegò la sindaca Maria Lanzetta in un torrido pomeriggio di fine luglio. Quel pomeriggio a Monasterace l’afa impediva di respirare ed appassionarsi alla mostra fotografica su Peppino Impastato che era stata organizzata assieme ad alcune associazioni antimafia siciliane e calabresi era molto difficile. (v. scheda) In una non molto datata relazione del tribunale firmata Silvana Grasso a proposito di Monasterace i magistrati parlano di una “amministrazione in cui le regole non esistono, il tutto ad esclusivo vantaggio e favore di amici, potenti e mafiosi: nessuna vigilanza da parte della Polizia Municipale sull’uso del territorio, organo che, in tre anni (2001-2003), ha accertato solo sei violazioni edilizie e nessuna contravvenzione al Codice della Strada, varianti al piano regolatore, lottizzazioni e permessi di costruire rilasciati in violazione delle norme, con falsi macroscopici e con palesi intenti di favoritismo;


Una calabrese siciliana appalti di opere pubbliche aggiudicati con il criterio ‘a sorteggio’ (sic!) con ribassi d’asta predeterminati dall’ufficio tecnico; un ufficio tributi praticamente inesistente senza alcuna forma di prelievo dei tributi che, praticamente, non vengono pagati dai cittadini”. Bingo! “IL PONTE CHE VORREMMO” Maria - testarda - vorrebbe scrivere le regole. Applicare la democrazia. Ripristinare la legalità a 360 gradi. Lodevole certamente, non per tutti però. Alle ultime elezioni che le hanno confermato il suo secondo mandato si è ritrovata contro tutti gli ex sindaci che l’hanno preceduta. Coincidenza? Paura? Maria va avanti e le danno la scorta. “Sotto scorta perché l’anno scorso hanno devastato e

bruciato la mia farmacia e poi quest’anno hanno sparato contro la mia macchina e la serranda della farmacia. Avevo dato le dimissioni non per paura ma per l’angoscia di aver perso la libertà di operare, e che quindi non avrei mai potuto operare in assenza di libertà della scelta e con la paura della scelta. C’è stata una grande protesta della gente, una grande vicinanza dello stato e mi è stata proposta la scorta. L’unica condizione affinché i miei figli mi dessero la possibilità di poter

continuare a fare il sindaco. Ho ripreso a lavorare per rispetto a quei pezzi dello Stato che ogni giorno fanno sacrifici per mandare segnali positivi a questa terra”. Certamente ci sono indagini in corso. Ma quale idea si è fatta la sindaca sulle minacce? Ha pestato i piedi a qualcuno? A chi? “Non so nulla. So che se ne sta occupando Reggio Calabria, gli argomenti possono essere tanti. Quando mi hanno distrutto la farmacia ero stata rieletta quindi l’ho letta come ‘vogliamo che tu te ne vada’, quando è stato per la macchina mi stavo occupando del lavoro di un gruppo di donne”. Il ventotto luglio 2012, piazza di Monasterace: la piazza che ospita l’iniziativa “Il ponte che vorremmo” (v. scheda) è proprio in riva al mare. Tante donne si sono sbracciate e si danno da fare, spostano le sedie, controllano il palco… la sindaca più di tutte. Si carica una pila di sedie e le sistema intorno al palco, saluta velocemente gli ospiti che arrivano e riprende. Intanto altri sindaci arrivano. Nel frattempo altre ragazze sistemano libri, tavoli e Maria, così come aveva fatto prima nella biblioteca comunale, controlla tutto. Fa in modo che gli ospiti si trovino a proprio agio. Fa dichiarazioni ai giornalisti, rilascia brevi interviste. La faccia è molto affaticata. È stanca ma non si tira mai indietro. “Questo è un paese bellissimo sul mare”. Un’area archeologica magnifica, la più grande del Mediterraneo. “Il paese ha bisogno di tanto, di tutto, bisogna lavorare nel senso del comune… si deve ristrutturare tutto - ripete sempre - c’è tanto da fare qui…”. Ci sediamo in riva al mare. Acque Casablanca pagina 8

cristalline. Coste bellissime, selvagge. Coste che costano, coste che fanno gola a tanti, che suscitano interesse… fanno sognare grandi affari… Ma le coste non si toccano. Ci sono tratti in cui ci sono costruzioni abusive ma risalgono a periodi molto antecedenti e ci vive povera gente e “prima di qualsiasi iniziativa ci vuole un’alternativa”. E… l’attentato? “Solo questioni politiche e si ferma”- non dice più una parola. La faccia è sempre più stanca. Soddisfazioni? “Poche. Non riesco a concretizzare quello che vorrei, forse perché pretendo molto. Da me e gli altri - spiega, ed aggiunge - Io ero presidente della pro loco, su di me si era convogliata una bellissima stima e soprattutto moltissime donne mi chiedevano di impegnarmi in politica per le amministrative. Per una ventata di novità e cambiamento radicale. Ci sono stati l’uno e l’altro, i risultati non sono apprezzabili, quelli sperati. Io speravo di raggiungere livelli migliori di vivibilità per questo paese. Cose diverse. Forse ho sognato molto, il comune è povero, indebitato fino all’osso, e ciò non ci permette di fare nulla. Spreco una grande energia a reperire i soldi… pochi soldi per fare una discesa per i disabili o i condizionatori in biblioteca… Quelle donne forse ci sono ancora però io le volevo più propulsive, più presenti, più costruttive anche di controllo sul nostro operato, controllo propositivo come io e altre donne avevamo fatto prima con la pro loco: un fiore all’occhiello per le amministrazioni e il sindaco, che non può fare altro che apprezzarti quando organizzi serate e manifestazioni coinvolgendo la gente dal basso”.


Una calabrese siciliana UNA FAMIGLIA MODERNA Madre laureata a Bologna e padre a Modena nel 1950, che hanno deciso di ritornare in Calabria, a casa Lanzetta si respirava aria di studio. Non c’era differenza fra uomini e donne: “Non femminismo ma rapporti paritari naturali, normalmente”. Maria frequenta il liceo classico a Locri, incontra ottimi insegnanti e scopre la passione per la politica. “… poi i siciliani e la Sicilia, la mia terra di elezione. Trovo la sua storia di un interesse straordinario… ho imparato dalla vostra storia, e poi perché ho

seguito con passione assoluta le grandi stragi di mafia in Sicilia, la forte ribellione, il coraggio dei magistrati. Ho sostenuto le vittime di mafia al maxiprocesso sottoscrivendo con duecentomila lire. La mia formazione è nata con quella ma anche con la storia dei miei genitori di un’onestà straordinaria. Come si vive sotto scorta? “Io amo il mare e non fare il bagno mi costa parecchio. Oppure uscire solo quando è necessario. Libertà di fare, organizzare la famiglia e il lavoro, gli interessi gli impegni, le varie associazioni… è dura” conclude. ***

Le hanno assegnato il premio Joe Petrosino e lei non è andata a ritirarlo: “Avevo da lavorare”. Maria Lanzetta è impegnatissima nel suo piccolo comune della Locride. Dove, una volta, l’economia era affidata alle donne. Raccoglievano gelsomino, un’attività antica, pesante, portata avanti con ostinazione perché spesso l’unica entrata di una famiglia. Forse ancora oggi alcune lo fanno, ma è tutta un’altra cosa. Donne indipendenti dunque. Pensanti. Determinate. Operose e responsabili in questo pezzo della Calabria.

L’operazione Village Il Procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri non usò mezze misure sugli interventi giudiziari a Monasterace con l’operazione VILLAGE: “Si tratta di un’indagine importante perché da anni non si penetrava la situazione criminale esistente nel Comune di Monasterace” - spiegò. In sostanza, secondo gli investigatori, le imprese riconducibili alla famiglia Ruga avevano il monopolio degli appalti pubblici del comune di Monasterace. Venne inoltre fuori che tutto ciò era possibile grazie all’amicizia e alla complicità del responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune Vito Micelotta. Il sistema si poggiava sulla presenza di documenti falsi e sulla “somma d’urgenza” o il “silenzio assenso”, meccanismo previsto dalla normativa amministrativa per velocizzare la pubblica amministrazione. Certamente non per fregarla. Con l’elezione di Maria il piccolo comune prova a resistere alle minacce della criminalità organizzata. Ma qualcosa non quadrava. Infatti, remavano contro dall’interno. Quello che viene fuori dalle intercettazioni telefoniche tra il primo cittadino e il dirigente comunale Vito Micelotta è uno scenario inquietante. Grave. Delicato. Nel 2010 con l’operazione Village per l’ennesima volta scattano gli arresti per il boss Benito Vincenzo Antonio Ruga, già in carcere perché condannato nei processi “Stilaro 1” e “Stilaro 2” per associazione mafiosa. Per l’imprenditore Aladino Grupillo e il responsabile dell’ufficio tecnico comunale Vito Micelotta invece c’è l’interdizione dai pubblici uffici. Pare fossero specializzati a fornire documenti falsi agli enti che erogavano finanziamenti pubblici. Le ditte degli ’ndranghetisti erano riuscite ad accaparrarsi il subappalto anche dei lavori di ristrutturazione di un ex ostello della gioventù diventato la caserma dei vigili del fuoco. Il tutto senza che il Comune desse l’autorizzazione al sub appalto e senza che il sindaco Maria Carmela Lanzetta ne sapesse nulla. Faceva tutto il tecnico comunale Micelotta. In merito al funzionario comunale, il gip Grasso scrive: “L’indagato ha posto in essere una serie di condotte classiche e incontestabili di abuso di ufficio e falso che costituiscono contributo fondamentale all’esistenza, conservazione e rafforzamento dell’associazione mafiosa, posto che si è appurato che una delle sue finalità accertate era proprio l’arricchimento mediante assunzione massiccia di appalti pubblici locali. Attese le condotte descritte in atti e richiamate innanzi, non v’è dubbio, che i comportamenti del pubblico ufficiale si caratterizzino proprio per la creazione dall’interno dell’Ente di appartenenza delle condizioni perché la cosca, grazie all’assunzione per via diretta o indiretta degli appalti, possa continuare ad operare e a trarre illeciti vantaggi secondo i propri fini in uno dei settori prediletti inibitole per legge a seguito di condanna definitiva dell’effettivo titolare”. Casablanca pagina 9


Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo

Angelo Vassallo la bella politica Simona Mazzeo “Qui a Pollica, se dobbiamo realizzare un progetto che deturpi l’ambiente noi non lo realizziamo. Siamo Città Slow, cioè del buon vivere”. Angelo Vassallo, sindaco di Pollica difendeva la sua terra quotidianamente. La tutela dell’ambiente per lui era proprio un chiodo fisso. Il suo attaccamento al territorio, l’affetto per tutto ciò che lo caratterizza era riuscito a trasmetterlo a tutti i cittadini che uniti da questo sentire comune, facevano di tutto per preservarlo. Inoltre, durante i precedenti mandati era riuscito a dimostrare alla sua comunità che la legalità paga e può rappresentare una strada per creare un futuro . Ecco perché Pollica per Angelo era un posto da mettere al riparo dalle mire della camorra. Pare che prima di essere ucciso il cinque settembre del 2010 ad un amico avesse confidato: “Questi vogliono mangiarsi il Cilento”. Questi erano i clan. Riproponiamo una delle sue ultime interviste.

Era un primo pomeriggio d’estate e lui arrivò puntuale all’appuntamento dinanzi alla sua vineria. Un sorriso, un simpatico saluto in vernacolo cilentano e quindi insieme ci dirigemmo al porto, il bellissimo porto di Acciaroli. Visti i diversi riconoscimenti ambientali che il suo comune vantava, non potevamo che iniziare parlando di ambiente, per poi continuare con sviluppo sostenibile, turismo, passione per il territorio, ecc. Angelo Vassallo partì con un fiume di parole sentite, convinte, decise. Più che un’intervista fu un monologo. Interessante. Intrigante. Importante. Un sindaco, ma prima di tutto un uomo, un padre, che dal Cilento lanciò grandi insegnamenti e seminò speranze di crescita per quella terra che tanto amava e che governò con tanta dedizione e passione. Stimato e ammirato per i risultati di eccellenza ottenuti, le parole dell’ultima intervista fatta ad Angelo meritano di essere rimembrate perché le sue idee abbiano un seguito, perché dal suo operato altri amministratori prendano esempio.

“Il tema ambiente - esordisce - ha avuto sempre importanza, fin dal primo momento per questa amministrazione. Noi stiamo realizzando un progetto che viene da lontano, dal 1995, un progetto

anche un po’ pazzo, perché parlare di ambiente qualche anno fa suonava un po’ strano. Puntare sull’ambiente vuol dire andare a fare uno studio di quelle che sono le risorse ambientali del territorio Casablanca pagina 10

e cercare di valorizzarle ragionando intorno ad un progetto che punti sul territorio come risorsa primaria da utilizzare e potenziare, senza andare a prevedere grosse espansioni.


Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo Abbiamo deciso di restare piccoli perché più facilmente gestibili e perché così si può puntare sulla qualità e riuscire a regolare i flussi turistici. Dopo 15 anni i risultati sono arrivati. Noi in Italia abbiamo il primato per le Bandiere Blu. Oggi si è aggiunta anche la bandiera blu per il porto e sappiamo che sono pochi i porti con tale riconoscimento”. “L’ambiente - sottolinea - è un grande attrattore, la risorsa mare è fondamentale e conscia di ciò quest’amministrazione ha pensato che chi vive in un comune rivierasco deve salvaguardare questo bene e noi lo abbiamo fatto con un’ottima depurazione, servizi sulle spiagge, nuovi stabilimenti, servizi forti, anche perché abbiamo capito che le abitudini dei turisti sono cambiate. Infatti, una volta si andava in spiaggia di prima mattina e si tornava nel pomeriggio, oggi invece il turista va in spiaggia la mattina e ci rimane fino a sera tarda, e questo evidenzia la necessità stringente di andare a prevedere sulle spiagge una serie di servizi che poi hanno fatto la differenza rispetto ad altre località”. NO CAMORRA MA BANDIERE BLU ED ENOGASTRONOMIA “Abbiamo pensato di dare un look a questo porto che era abbastanza grezzo ed è stato un successo. Così al turismo balneare si è aggiunto il turismo diportistico, che è quello che porta più soldi, perché attira il turista che passa, spende e se ne va. Le barche sono migliorate molto, al punto che è stato previsto un secondo lotto da realizzare già a settembre e dove si prevede addirittura l’attracco

dei megayacht, perché ce n’è stata richiesta. Puntiamo molto sulla qualità e si sta andando avanti in tal senso. Quindi mare, diporto sempre connesso al mare e poi abbiamo puntato sul turismo enogastronomico. Siamo patria della dieta mediterranea, perché qui Ancel Keys ha studiato, e questo dato va utilizzato al meglio. La dieta mediterranea e i suoi prodotti biologici sono stati valorizzati, specie nella parte collinare del comune, con la nascita di nuove strutture turistiche come B@B, agriturismo e aziende agricole, molto collegati all’utilizzo dei prodotti tipici e che vanno abbinati a passeggiate

nel verde. A ciò poi si è aggiunto un percorso culturale con il recupero del Castello di Pioppi, l’apertura del Museo del mare, l’acquisto del Castello Capanno di Pollica del 1300 dove oggi si tengono bellissime manifestazioni. Quindi nascerà un Centro Studi sulla Dieta Mediterranea che ruoterà intorno alla risorsa cibo così da potenziare anche l’agricoltura. Pollica ha tre presidi Slow Food alici di menaica, cacioricotta e soppressata - e questa è un’altra offerta enogastronomica”. PORTO, MULINO AD ACQUA E CAFFÈ LETTERARIO “Abbiamo due castelli - il fiume Vassallo straripa - poi è in fase Casablanca pagina 11

embrionale il recupero del convento di Costantinopoli, le chiese sono state tutte recuperate, c’è un progetto per il recupero di un mulino d’acqua e stiamo creando un percorso di natura storica molto legato alla tradizione, un pacchetto fatto di sentieri, per allungare la stagione turistica anche all’autunno e alla primavera, periodi consumati soprattutto dai tedeschi”. “Per quanto concerne lo sviluppo sostenibile - sottolinea col tono il sindaco - qui a Pollica, se dobbiamo realizzare un progetto che deturpi l’ambiente noi non lo realizziamo, preferendo una logica di crescita compatibile con la preservazione dell’ambiente. Adesso siamo impegnati sull’energia alternativa, abbiamo due centrali fotovoltaiche e nel giro di pochi anni dovremmo arrivare all’azzeramento della bolletta energetica e addirittura rendere il comune autonomo con una produzione sul posto dell’energia. Poi c’è il progetto di costruire a Pioppi un imbarcadero anziché un nuovo porto, perché sì i porti producono ricchezza per il turismo diportistico, ma essi sono anche la causa della forte erosione costiera e quindi costruendo un’importante infrastruttura come un porto poi si intaccherebbe la spiaggia che è una risorsa indispensabile per agevolare la balneazione. Nel bilanciamento delle cose, abbiamo optato per l’imbarcadero. Anche il piano regolatore, moderno, approvato da soli cinque anni, rispecchia questo nostro trend, non prevedendo la costruzione di seconde case, né edilizia esagerata, perché l’interesse prevalente è quello per il turismo, che è l’industria più importante,


Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo anche se sta intaccando alcune nostre tradizioni come la pesca, ed, infatti, oggi purtroppo i nostri ragazzi non pescano più. Siamo Città Slow, cioè del buon vivere, l’unica città del Cilento che fa parte di questa associazione internazionale. Pollica è stata premiata perché qui si vive bene, per l’ospitalità e l’accoglienza che sono alla base di tutto. Il Cilento ha potenzialità forti e intorno all’attrattore mare si deve fare un progetto grosso, per cui il turista che viene deve anche trovare i giusti servizi. Per quanto concerne il tema porto io penso quello che ho detto sempre: certamente un porto è una grande, grandissima ricchezza. Il porto di Acciaroli è gestito dal Comune di Pollica e se non avessimo avuto tali proventi, la stessa amministrazione del porto sarebbe stata molta difficoltosa. Non ultimo con tali proventi, siamo riusciti ad aprire un’attività commerciale e di ritrovo in collina. In particolare a Galdo, paese di 100 anime, dove non c’è nessuna attività commerciale, il Comune ha costruito un “Caffè letterario”, quindi un bar, un emporio ed un ambulatorio. Abbiamo affidato la gestione gratuitamente ad una ragazza, senza farle pagare nessuna tassa comunale. Con tale gesto

abbiamo dato una grossa vitalità al paese, composto principalmente da persone anziane”. POLLICA COME CAPRI E ISCHIA

fronte di un’offerta di 100, circostanza che consente una cernita di qualità. L’attaccamento al territorio è sostanziale, affetto che è stato trasmesso a tutti i cittadini ed è indispensabile essere tutti uniti nel preservarlo al fine di una crescita utile a tutti ”. Ebbi l’impressione che volesse dirmi molto altro, ma il tempo era

“I risultati? Il migliore è l’aver richiamato un turismo di qualità. Esso ci mette al Sull’omicidio di Angelo Vassallo ancora riparo non ci sono certezze, pare comunque che dalla sia stato commissionato dalla camorra. forte L‘esagerata tutela dell’ambiente da parte contrazi del sindaco, probabilmente era vista dalla one camorra come un ostacolo al controllo economi ca, del porto e dunque al commercio di perché è droga. il turista scaduto. Avrei dovuto ricco che in momenti di crisi intervistarlo ancora su altri temi, economica riesce a venire in zona ma purtroppo non ho fatto in e ciò è stato possibile perché il tempo. nostro progetto ha attirato *** l’attenzione di gente facoltosa che Sull’omicidio di Angelo Vassallo addirittura preferisce Pollica a ancora non ci sono certezze, pare Capri ed Ischia. I risultati sono comunque che sia stato stati raggiunti migliorando la commissionato dalla camorra. qualità della vita. Centri storici L‘esagerata tutela dell’ambiente vivibili, accoglienza dei cittadini, da parte del sindaco, servizi sulle spiagge e nel porto. A probabilmente era vista dalla ciò si è aggiunta la particolarità camorra come un ostacolo al che Pollica è aperta al mare da controllo del porto e dunque al qualsiasi punto, che si mangia commercio di droga. cibo sano e buono, e così forse si spiega perché ad oggi abbiamo 400 domande di posti barca a

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“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”

Lombardia metafora della ’ndrangheta? Ilaria Ramoni Avvocato – Associazione Libera

La Lombardia secondo la DIA e la DDA, è la regione del Nord Italia che registra il maggiore indice di penetrazione nel sistema economico legale dei sodalizi criminali della ’ndrangheta. Ci sono sì i mafiosi, ma ci sono anche soggetti completamente sconosciuti alla giustizia: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan, si finanziano con capitali sporchi, ripuliscono il denaro, anche se qualcuno si ostina ancora a sostenere che è tutta colpa del confino. La brutta politica e i pessimi politici hanno fatto il resto. I politici? Fanno schifo pure ai mafiosi… piangono come vitelli… si dicono due mafiosi al telefono. Il reato di “scambio elettorale politico-mafioso” dal 2010 è in forte aumento. La gente, gli imprenditori, le vittime dei reati non denunciano. Per collusione? Per paura? Per interesse? “… sono anni che sappiamo, e ora abbiamo anche tutte le prove e tutti gli indizi”. E pensare che per noi del Sud Milano era un mito. È da anni che all’indomani di una grande operazione di Polizia, di un arresto o di una condanna a Milano e in Lombardia ci risvegliamo con la consapevolezza che la criminalità organizzata è così presente anche qui, vicino alle nostre case. Il problema è che dopo il solito clamore del momento, ritorniamo alla vita di tutti i giorni e così fino al prossimo arresto, alla prossima operazione. E nuovamente, invece di indignarci, ci risvegliamo con lo stupore di chi si è dimenticato improvvisamente e nuovamente di quella che è stata la storia della nostra Regione e della nostra città. Sì, ci dimentichiamo. Ci dimentichiamo che la mafia a Milano e in Lombardia non è quasi mai stata così “invisibile”, come alcuni hanno mostrato di ritenere per lungo tempo e come ci è stato sempre raccontato.

Ci dimentichiamo che il polo tecnologico, industriale, finanziario e imprenditoriale lombardo attrae da decenni gli investimenti di tutte le quattro maggiori organizzazioni criminali italiane che, proprio in Lombardia, tendono ad agire secondo particolari modelli collaborativi, soprattutto tra ’ndrangheta e camorra. Ci dimentichiamo che già nel maggio del 1963, in viale Regina Giovanna, in uno scontro a fuoco tra le cosche rivali della prima guerra di mafia in corso in Sicilia, viene ferito Angelo La Barbera, tra i protagonisti del cosiddetto “sacco di Palermo”, la pesante speculazione edilizia che stravolse il capoluogo siciliano. Che nel 1970 a Milano si tiene un importante incontro tra Giuseppe Calderone, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti, Totò Riina, Gaetano Badalamenti e Salvatore Casablanca pagina 13

Greco. Che arriva qui a Milano anche Luciano Leggio che, nel 1972, inaugura la stagione dei sequestri di persona e che nel 1974 viene arrestato in pieno centro a Milano, in via Ripamonti. Ci dimentichiamo di Turatello e Vallanzasca e delle loro quanto meno contiguità con diverse organizzazioni criminali, del cd. “Blitz di San Valentino” nella notte del 14 febbraio del 1983 dove vengono scoperte infiltrazioni mafiose nell’economia e nella finanza lombarda, dell’operazione “Duomo Connection” nell’ambito della quale sono messi a fuoco legami tra politica locale e criminalità mafiosa. Ci dimentichiamo addirittura dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, avvocato liquidatore della Banca Privata Italiana, commissionato da Michele


“Milano la vera capitale della ’ndrangheta” Sindona, e di “Tangentopoli”. Ci dimentichiamo che tra il 1992 e il 1993 in Lombardia vengono effettuate numerose indagini, “Wall Street”, “Nord-Sud” e “Hoca Tuca”, solo per citarne alcune, in cui vengono arrestate e processate per mafia circa tremila persone appartenenti, tra le altre, alle cosche dei Papalia, Sergi, Morabito, Flachi e Coco Trovato. QUI LA MAFIA NON ESISTE Certo, la Commissione Parlamentare Antimafia percepì l’entità e la gravità del fenomeno, dedicando ad esso largo spazio nelle relazioni del 1989, 1990 e 1991 e svolgendo, sempre in quegli anni, svariati sopralluoghi a Milano. Nel corso della legislatura 1992-1994 in seno alla Commissione venne anche costituito un gruppo di lavoro incaricato di occuparsi proprio delle attività delle organizzazioni criminali nelle zone non tradizionali, attività che si concluse con un’ampia relazione approvata all’unanimità. Certo, a Milano nel novembre 1990 fu istituito dal Comune un “Comitato di iniziativa e vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi e sui fenomeni di infiltrazione di stampo mafioso”, presieduto dal Prof. Carlo Smuraglia, nelle cui relazioni venne fornito un quadro molto ampio della presenza delle organizzazioni criminali a Milano e degli effetti negativi e distorsivi che ciò stava già producendo sul buon andamento delle Istituzioni e sulla stessa economia. Ma tutto questo non è bastato in una città che negava quasi l’esistenza stessa delle mafie e non è stato sufficiente per la maggior parte delle Istituzioni meneghine e lombarde che hanno continuato, nella migliore delle

ipotesi, a nascondere la testa sotto la sabbia. Addirittura a Milano, nel maggio 2009, il Consiglio Comunale approva a maggioranza la delibera di revoca della “Commissione d’inchiesta sugli interessi mafiosi attivi nel territorio milanese”, a poco più di due mesi dal voto all’unanimità con il quale la stessa era stata costituita. I sindaci ci dicevano che la mafia a Milano non esisteva, i Prefetti ci dicono che la mafia non c’è o che, sì, forse c’è ma è diversa che nel resto del Paese e i Ministri, contraddicendo la stessa DDA, ci dicono che a Milano e in Lombardia l’omertà non c’è. A Milano e in Lombardia per anni, nonostante le evidenze, è stato vietato parlare di mafia. Il risultato? Nel disinteresse generale, nella sottovalutazione e, ora lo possiamo proprio dire, nella collusione, le mafie si sono radicate ancora di più mentre le vittime sono state lasciate sempre più sole. Le vittime non denunciano, i pochi che lo fanno devono subire ritorsioni. Troppi imprenditori sono convinti che non sia sbagliato fare affari con la mafia. I mafiosi non si intestano più direttamente i patrimoni per timore delle confische e trovano soggetti compiacenti, spesso sono addirittura i loro stessi avvocati a intestarsi direttamente o tramite società fittizie i patrimoni. “La Lombardia per le sue coordinate geografiche e per le sue infrastrutture è crocevia dei traffici e dei flussi finanziari nazionali ed internazionali leciti o illeciti. È un territorio ricco e produttore di ricchezza, necessariamente preso in considerazione, da sempre, dalla criminalità organizzata mafiosa. È inoltre un territorio con grandi opportunità di crescita economica, come noto infatti ospiterà l’Expo Casablanca pagina 14

2015, con una previsione di investimenti ingentissimi. Negli anni ’90 decine di indagini, centinaia di arresti e di maxiprocessi hanno confermato la presenza sul suo territorio delle Mafie. Da ultimo si è visto affermarsi lo strapotere della ’Ndrangheta”. Così testualmente recita l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia e le recenti operazioni “Infinito” e “Crimine” del 13 luglio 2010 condotte dalla DDA di Reggio Calabria e di Milano, concluse con l’esecuzione di oltre 300 arresti (di cui circa 160 nel solo territorio lombardo), nei confronti di cosche operanti in Calabria, Lombardia, Piemonte e Liguria, rappresentano una ulteriore conferma della “occupazione” da parte della ’ndrangheta di gran parte del territorio nazionale e del giro di affari che ruota intorno alla stessa attraverso una strategia di espansione nel tessuto economico e finanziario. LA METAFORA DELLA ’NDRANGHETA E DELL’OMERTÀ Nella relazione dedicata specificatamente al fenomeno della ’ndrangheta e approvata all’unanimità dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione, si afferma testualmente che “Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ’ndrangheta in tutto il Nord”. Nella relazione annuale del 2008 della Direzione Nazionale Antimafia si legge che “La vera capitale della ’ndrangheta è Milano”. Nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia si legge che “In Lombardia, le proiezioni di cosa


“Milano la vera capitale della ’ndrangheta” nostra si sono orientate verso l’accaparramento di attività economiche e di appalti, anche sfruttando un’area grigia di concorso da parte di imprenditori disponibili a comportamenti collusivi (...). A Milano la ’ndrangheta, oltre alle attività illecite tipiche delle strutture criminali organizzate e consolidate nel territorio (...) porta avanti un’azione di penetrazione nel tessuto socioeconomico, attraverso la connivenza con settori inquinati dell’imprenditoria”. La Lombardia, inoltre, come dimostrato dalle recenti relazioni della DIA e della DDA, si conferma, purtroppo, la regione del Nord Italia che registra il maggiore indice di penetrazione nel sistema economico legale dei sodalizi criminali della ’ndrangheta. La ’ndrangheta milanese e lombarda, è ormai composta sì da mafiosi ma anche da altri soggetti completamente sconosciuti alla giustizia: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan, si finanziano con capitali sporchi, ripuliscono il denaro profitto di traffici di droga, si consegnano per la protezione nelle mani dei clan, utilizzano la manovalanza per il recupero crediti con modalità violente e tipicamente mafiose. Ma non è tutto. Al 31.12.2011 la Lombardia era al quarto posto nazionale per numero beni immobili confiscati e al terzo posto per numero di aziende confiscate. A livello regionale, il maggior numero di operazioni sospette proviene da dipendenze di intermediari localizzate nella regione Lombardia. La relazione annuale del 2011 del SAeT afferma che i reati di corruzione e concussione rilevati risultano verificarsi in maggior numero

nelle regioni in cui maggiori sono le opportunità criminali come, nell’ordine, in Lombardia, in Campania, in Sicilia, nel Lazio e nella Puglia. E come se non bastasse ci troviamo anche davanti ad un dato sconcertante: le organizzazioni criminali in Lombardia hanno importato anche l’omertà. “Il dato dell’omertà spesso attribuito al sud risulta ed è constatato anche al nord”, così il Procuratore Aggiunto Ilda Boccassini, Delegata alla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, in un accorato intervento all’interno di un seminario tenutosi all’Università Statale di Milano e promosso da Libera Milano. La gente, gli imprenditori, le vittime dei reati non denunciano quello che hanno o che stanno ancora subendo. Per collusione? Per paura? Per interesse? Sta di fatto che molti di loro, quasi tutti, preferiscono prendersi una imputazione per favoreggiamento alla criminalità organizzata piuttosto che denunciare e fare il proprio dovere. Già nel 2010 nel Distretto giudiziario di Milano risultava un forte incremento del numero dei procedimenti penali iscritti per il delitto di cui all’art. 416-ter c.p. (scambio elettorale politicomafioso). COMMERCIO DEI VOTI ELETTORALI I dati, a volerli leggere e ascoltare, hanno sempre parlato chiaro: le mafie erano già a pochi passi dal Duomo, anche in quella Milano “da bere” simbolo di generosità, onestà e laboriosità. Non stupiamoci, quindi, se siamo arrivati al punto in cui sono alcuni politici a chiedere aiuto e appoggio alle mafie e non Casablanca pagina 15

viceversa, non stupiamoci se “scopriamo” che alcuni politici si sono materialmente comprati i voti dalla ’ndrangheta. Non se ne stupisca la politica e non se ne stupiscano i cittadini. Le Istituzioni devono necessariamente ritrovare il coraggio di affrontare questo cancro in modo serio e onesto e al di fuori da ogni ideologia perché riconoscere che il mercato milanese e lombardo è “colonizzato” dalla criminalità organizzata non vuol dire svilire e snaturalizzare, come è stato detto, “l’anima del nostro territorio” ma vuol dire prendere coscienza dell’esistenza di un grave problema e provare insieme e con tutte le forze a sconfiggerlo. Vuol dire dare ancora più valore all’anima dei tanti cittadini onesti che quotidianamente non solo cercano di fare una imprenditoria sana e all’avanguardia ma cercano anche di aiutare chi sta indietro, chi è meno fortunato e chi è ultimo. La Politica deve ritrovare il coraggio di assumersi le proprie responsabilità senza continuare a delegare alla Magistratura quel compito di “pulizia” che prima ancora che giudiziaria è una “pulizia” etica, perché noi cittadini prima ancora che per il “giuridicamente rilevante” ci indigniamo per ciò che è “moralmente abbietto”. E allora, parafrasando Pier Paolo Pasolini, “ora è venuto il momento di dire quello che sappiamo e non solo di formulare domande su noi stessi e sul nostro Paese. È arrivato il momento di ammettere che noi sappiamo, sono anni che sappiamo, e ora abbiamo anche tutte le prove e tutti gli indizi”.


Lazio: non siamo tutti uguali

Lazio Regione Imperiale Fabio Nobile Occupiamo! Che nella regione Lazio ci fosse tanto malaffare e corruzione, il gruppo della federazione di sinistra lo ha denunciato parecchi mesi fa. La Polverini anziché preoccuparsi ha querelato il capogruppo. Grazie a Batman - alle sue abbuffate di cibo e danaro - oggi è alla luce del sole che alla regione i gruppi politici hanno potere e denaro. Inquinato, contaminato e sporco, sia l’uno che l’altro. Il finanziamento ai gruppi approvato col metodo del maxiemendamento, metodo col quale di fatto si impedisce all’opposizione di emendare e di discutere in aula. Elezioni subito, grida l’opposizione. Occupiamo! “Resteremo qui fin quando non ci sarà la parole fine a questo tormento e la parola fine è la data delle elezioni” - dice Esterino Montino del PD. “… occupazione della Giunta regionale per rideterminare la legalità e richiedere l’indizione delle elezioni regionali del Lazio entro dicembre” - aggiunge il capogruppo Sel Luigi Nieri. E così la sede della giunta della regione Lazio è stata occupata da un gruppo di consiglieri regionali dell’opposizione. Vogliamo la stampa… fanno la richiesta, il permesso è stato negato. Da un mese la regione Lazio è senza governo e la Polverini adotta ogni cavillo per perdere tempo, nel frattempo però, continua a fare nomine. La federazione della sinistra si oppone alla logica del “sono tutti uguali” e puntualizza. Lo scandalo in sé è che il bilancio complessivo della Regione, dentro cui si innesta quello del Consiglio Regionale, è stato approvato dalla maggioranza di centro-destra col voto di un unico maxi-

emendamento, sistema con cui viene impedita all’opposizione la possibilità di emendare e quindi modificare il testo presentato in aula. Impedendo di fatto ogni possibilità di discussione consiliare. Il finanziamento ai gruppi è avvenuto con modalità assolutamente poco trasparenti e ha favorito quelli dei partiti più grandi in quanto direttamente collegato al numero dei consiglieri nel gruppo. Inoltre, il finanziamento è legato ad una dinamica connotata da una logica clientelare su cui si fonda da tempo il sistema politico locale e della maggioranza di centrodestra. Una maggioranza in balia dei particolarismi e dell’esigenza dei singoli consiglieri, la cui debolezza si è determinata in primo luogo con la presenza dell’enorme quantità di eletti nella lista Polverini, entrati in consiglio al posto di quelli potenziali del PDL romano escluso dalla competizione. Lo scandalo nasce, quindi, dentro tale fragilità della maggioranza ed esplode nel Casablanca pagina 16

momento in cui la guerra interna al PDL diviene conclamata. Emergono così i fatti sconcertanti dell’uso scandaloso delle risorse. Emerge con evidenza la scarsa trasparenza e quel deficit di norme che impediscano a monte ogni possibilità che tali fatti si verifichino. È proprio in tale quadro che va respinta la logica del sono tutti uguali. In primo luogo per arginare lo spazio reazionario che quest’affermazione lascia dietro di sé, in secondo luogo per dovere di verità. È CERTO, NON SIAMO TUTTI UGUALI Sul ruolo della Federazione della Sinistra alla regione Lazio, bisogna sapere che: 1) Ha sempre votato contro il bilancio. 2) Non è presente nell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale e quindi non ha mai votato la distribuzione dei fondi. 3) Il suo bilancio è pubblicato sul sito, e le sue risorse sono le meno


Lazio: non siamo tutti uguali alte tra i gruppi di due consiglieri (circostanza piuttosto anomala) e non ne è mai stato fatto un uso improprio. 4) Il capogruppo è stato querelato più di sei mesi fa dalla Polverini perché denunciava il malaffare e la corruzione in Regione e nel PDL, ma sui giornali di allora, come in quelli di oggi, non è comparso praticamente nulla. 5) Una parte rilevante delle risorse di quest’anno sono state spese per la campagna per il referendum per l’abolizione del vitalizio ai consiglieri ed agli assessori, ben prima dello scandalo. 6) Oltre la metà degli stipendi complessivi dei consiglieri è stata sempre versata nelle esangui casse del partito, osservando rigorosamente il nostro regolamento. 7) È dall'inizio della consiliatura che chiede leggi sulla trasparenza. 8) Sono state depositate decine di proposte ed emendamenti in bilancio contro gli sprechi. 9) Ha costretto la Regione a costituirsi parte civile nei processi contro la criminalità nel Lazio. IL VERO OBIETTIVO Lo scandalo ha avviato un’ondata di moralizzazione delle istituzioni, obiettivo nobile ed urgentissimo, per il quale l’opposizione ha da

sempre contribuito come dimostra la raccolta delle firme, consegnate in Corte d’Appello, per indire il referendum abrogativo dei vitalizi. Tuttavia è sufficiente grattare appena sotto le dichiarate intenzioni proclamate dalla stampa e dal governo per accorgersi che sotto l’intento morale si nasconde il celato obiettivo di ristrutturare il sistema politico in funzione della nuova fase inaugurata dal Governo Monti. L’intento di ridurre la rappresentanza democratica nei consigli regionali, diminuendo il numero dei consiglieri, va esattamente in questa direzione. Così come un duro colpo è già stato inferto nel consiglio comunale e nei municipi del Comune di Roma. Si tratta di una vera e propria espulsione delle minoranze, in quanto non omologabili al coro. Ancor più inaccettabile è il decreto del Governo che insieme alla bozza di disegno di legge del Governo Monti porta dentro i vincoli asfissianti del pareggio di bilancio le finanze regionali. In sostanza, ciò che si vuole attuare, è il trasferimento delle politiche imposte dalla Banca Centrale Europea a tutti i livelli, senza nessun margine d’intervento locale. Così si giustifica anche

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l’enorme risalto mediatico dato alla vicenda. Insomma la “fascistopoli” cominciata al Comune di Roma e continuata in Regione Lazio è diventata un grimaldello per ristrutturare anche a livello locale il sistema istituzionale. Dopo il Lazio l’inchiesta si sta allargando a buona parte delle regioni e questo è un fatto inconfutabile. L’effetto ultimo comporterà pertanto, accanto alla contrazione della rappresentanza democratica ed allo strozzamento economico delle Regioni, un sostanziale accentramento delle funzioni nello Stato, in chiara antitesi al dettato costituzionale e al decentramento avviato con la Repubblica dopo il fascismo. Il “tutti sono uguali”, che scredita complessivamente la politica, è il mezzo più potente per rafforzare questo processo. Il lavoro dei comunisti continuerà a testa alta anche nel Lazio dentro la crisi con i lavoratori, per la riduzione dei vitalizi, la drastica riduzione degli stipendi per le cariche istituzionali, ma al tempo stesso il mantenimento dei numeri della rappresentanza.


’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?

Chiesa, ’ndrangheta e un perdono che brucia Francesca Chirico “C’è perdono per tutti, anche per i mafiosi” ha sottolineato con forza monsignor Morosini dal pulpito della chiesa di Polsi qualche settimana addietro. Perdono? Per anni intanto la Madonna della Montagna dalla sua postazione ha osservato imperturbabile le riunioni che sotto i suoi occhi gli ’ndranghetisti svolgevano annualmente dentro la chiesa. Incontri per stabilire, ratificare, decidere… anche omicidi. La Chiesa calabrese tutta negli anni aveva sempre smentito e parlato di vecchie tradizioni folkloristiche o di frutti di sensazionalismo mediatico. Ma nel 2009 è stata smentita da un filmato in cui si vede la ’ndrangheta riunita a cerchio sotto la statua della madonna. Perdono? Meno male che nella stessa chiesa di Mons. Morosini e compagni c’è un’altra chiesa fatta da esponenti che parlano ed agiscono con fermezza e chiarezza nel respingere senza equivoci l’abbraccio mortale della ’ndrangheta.

REGGIO CALABRIA Superato il ponte sul torrente Bonamico, il profano appare subito mescolato al sacro. Il barristorante, la macelleria, le bancarelle di statuette di plastica e tamburelli abbracciano tutta l’area consacrata, incassata in fondo alla valle dell’Aspromonte. Nel caso del santuario della Madonna della Montagna, però, il profano è targato ’ndrangheta e trattiene in ostaggio uno dei luoghi identitari della Calabria, al centro di una millenaria devozione popolare. Messi in fila nelle carte dell’inchiesta Crimine che nel luglio 2010 fece scattare una raffica di arresti tra Calabria e Lombardia, i cognomi di chi gestisce i chioschi attorno al luogo sacro chiariscono subito, infatti, come vanno le cose a Polsi, contrada del comune di San Luca, nel Reggino: a vendere panini e caffè, durante i tradizionali festeggiamenti dedicati ad inizio

settembre alla Madonna della Montagna, ci sono i Pelle e ci sono gli Strangio, e cioè i rappresentanti delle due principali cosche di San Luca. Mentre tra gli avventori che ogni anno bazzicano tavolini e aree di sosta, si mescola tutta la geografia criminale reggina, convenuta a vedere, a farsi vedere, a ratificare cariche e accordi sotto il simulacro esterno della Madonna. Una vecchia tradizione che nel 2009, però, non è sfuggita alle telecamere delle forze dell’ordine: il video che filma per la prima volta la ’ndrangheta nel santuario, riunita in cerchio sotto la statua della madre di Cristo, fa il giro del mondo, confermando la bontà delle fonti giudiziarie e letterarie che dagli anni Quaranta avevano raccontato l’“assemblea” annuale delle cosche, e spiazzando la Chiesa calabrese che aveva sempre parlato di vecchie

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tradizioni folkloristiche o di frutti di sensazionalismo mediatico. Proprio dal pulpito del santuario oltraggiato, nel cuore della Locride delle vittime di ’ndrangheta senza giustizia, il 2 settembre 2012 il vescovo della diocesi di Locri-Gerace, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini ha sottolineato con forza che “c’è perdono per tutti, anche per i mafiosi”. “Certamente il perdono - ha rassicurato il presule - non viene dato a buon mercato. Non sono le tre Ave Maria che ci rimettono i peccati. (…) Certamente prima di alzare la mano e dire ti sono perdonati i tuoi peccati, faremo e diremo come Gesù: cambia vita, convertiti. E solo quando avremo la garanzia del cuore convertito, diremo i peccati ti sono perdonati, anche se poi devi saldare il conto con la giustizia terrena, che è cosa diversa dal perdono cristiano e dalla riconciliazione con Dio”.


’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti? Precisazioni, distinguo che non hanno evitato l’incendio della polemica, coinvolgendo familiari di vittime, studiosi e associazioni antimafia e facendo registrare la replica irritualmente piccata dello stesso vescovo contro “certi professionisti dell’antimafia”. Il primo a dolersi per le parole del presule - insofferente anche per la cattiva reputazione del santuario è stato Mario Congiusta, padre di Gianluca, commerciante trentaduenne assassinato nel 2005 a Siderno “Questa ricorrenza è preparata sempre con i soliti ricordi: ’ndrangheta, il santuario della mafia, i raduni. Come se Polsi, e il santuario, fosse solo trattabile in termini di mafia ‘sì’, mafia ‘no’. Mi chiedo: - ha ragionato Congiusta - il vescovo Morosini, ovvero la Chiesa, ha diritto di perdonare gli assassini delle tante vittime innocenti di mafia, essendo prerogativa della Chiesa solo assolvere, rimanendo il diritto del perdono prerogativa di chi il torto lo ha subito, cioè le vittime? (…) Gli aspetti che accomunano la maggior parte dei familiari di vittime innocenti, ne conosco moltissimi, sono la mancanza di odio e il grande dolore che scandisce la quotidianità, con l’unico e primario obiettivo di avere giustizia, prima di tutto attraverso l’espiazione della pena. Da quello che ho potuto percepire dalle parole dell’omelia, l’espiazione della pena assume

secondaria importanza, non gestendo la Chiesa la giustizia terrena”. Al di là della querelle sul perdono, insomma, le parole di Morosini hanno acceso i riflettori sulla complessità del rapporto tra Chiesa e ’ndrangheta, tra giustizia divina e umana, tra don e boss. Nella loro costante ricerca di consenso, le cosche calabresi sono spesso davanti all’altare, a trafugare simboli, riti e figure da imbrattare nelle cerimonie di affiliazione, a mescolarsi nelle processioni, mettendosi in spalla Santi e Madonne, ad organizzare feste patronali. In questo scenario per il procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, “il problema vero del quale si deve parlare, posto che la ’ndrangheta è e rimarrà davanti all’altare, è cosa fa l’altare dinanzi alla

’ndrangheta”. E le considerazioni del magistrato, intervenuto il 10 settembre a Reggio Calabria al dibattito sul tema organizzato da Stopndrangheta.it e Sabbiarossa edizioni, non sono state rassicuranti: “Ancora oggi alcuni sacerdoti in pubbliche interviste minimizzano il fenomeno mafioso. Ancora oggi, nei processi contro le più agguerrite cosche di ’ndrangheta, vengono chiamati a testimoniare in difesa

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di imputati alcuni sacerdoti, i quali, come emerge dalle deposizioni rese, non testimoniano tanto su fatti concreti a loro conoscenza, ma si affannano a dare patenti di brave persone, peraltro processualmente inammissibili, ad imputati di mafia. E a questi fenomeni, spiace dirlo, purtroppo non fa eco nella maggior parte dei casi una più autorevole voce di Chiesa a stigmatizzarli”. Pur mai nominato da Creazzo, il riferimento chiarissimo era a don Memè Ascone, l’anziano sacerdote di Rosarno che nel luglio scorso, deponendo al processo All Inside contro la cosca Pesce, aveva garantito: “Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varrà è un gran gentiluomo e Franco Rao è una brava persona”. I suoi amici devono tutti rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma don Memè non ha dubbi: “In questo processo ci sono persone detenute ingiustamente”. Il pm, durante la sua deposizione, ha abbandonato l’aula. Don Memè non è in Calabria il solo prete finito “in cronaca”. Ci sono sacerdoti ammazzati come boss - nel 1966, nell’ambito della faida di Ciminà, viene ucciso don Antonio Esposito che circolava con la pistola sotto la tonaca, nel 1989 tocca all’economo di Polsi, don Peppino Giovinazzo - e ci sono sacerdoti entrati in Tribunale da imputati, come don Giovanni Stilo, accusato di associazione mafiosa e poi assolto, e come don Nuccio Cannizzaro, cerimoniere


’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti? del vescovo di Reggio, Vittorio Modello, rinviato a giudizio nel marzo 2012 per falsa testimonianza aggravata dall’aver favorito la ’ndrangheta. Nello specifico, il boss di Croce Valanidi Santo Crucitti. Ma in Calabria ci sono pure altari dai quali la ’ndrangheta è stata cacciata in malo modo e con parole definitive. “L’onore è un bene indicibile che consiste nella rettitudine e nella virtù dell’animo, ma l’insipienza degli uomini arriva spesso a fare apparire come onore le cose più inutili e talora gli stessi delitti”, ragionava negli anni Settanta il piemontese Giovanni Ferro, arcivescovo di Reggio Calabria che la storia dei valori capovolti della ’ndrangheta l’aveva capita e nel 1975, da presidente della Conferenza episcopale calabra, aveva deciso che toccava attaccarla frontalmente e ufficialmente. Scrivendo L’episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società, il documento firmato quell’anno dai vescovi della regione, aveva scelto, non a caso, il termine “disonorante”, per sottolineare che l’onore, quello vero, era tutta un’altra cosa. Il 2

agosto 1984, da dietro un altare improvvisato nella piazza di Lazzaro, frazione costiera di Motta San Giovanni, il suo vicario, don Italo Calabrò, sull’onore dei mafiosi ci tornerà con pugno fermo. Di fronte al sequestro dell’undicenne Vincenzino Diano il sacerdote ha deciso di bandire prudenza e comprensione. “I mafiosi si ritengono uomini e, addirittura, ‘uomini d’onore’: se c’è qualcuno che invece non è uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso, i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo tranquillamente con tutta la comprensione e la pietà”. Don Italo è reggino, ha una passione per gli ultimi e nella sua parrocchia di San Giovanni di Sambatello, regno del boss Mico Tripodo, ha imparato giorno per giorno cos’è la ’ndrangheta e, soprattutto, che la cristiana pietà per i peccatori non deve mai generare silenzio. “Nel coraggio del suo pastore la gente ritrova il suo coraggio”, ama ripetere. E allora don Italo parla chiaro. Ai mafiosi ammazzati celebra i funerali, ma trasformando ogni omelia in un pesantissimo atto

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d’accusa. Qualche volta se la vedrà brutta. Nel rispetto del suo esempio, non sarà il solo, in Calabria. A don Giacomo Panizza, che a Lamezia Terme ha riempito la casa confiscata alla cosca Torcasio di disabili ed emarginati, gliel’hanno promessa da un po’. E con regolarità glielo ricordano con incendi, bombe, o danneggiamenti. Quello che aveva il compito di ammazzarlo fu ammazzato prima di eseguirlo. Don Giacomo vive sotto scorta. Fiamme dolose, minacce e intimidazioni anche per la cooperativa “Valle del Marro”, fondata da don Pino Demasi per gestire i terreni confiscati alle cosche nella Piana di Gioia Tauro. Mentre a don Ennio Stamile, che a Cetraro durante la messa si era scagliato contro i responsabili di una lunga serie di atti delinquenziali, hanno recapitato una testa di maiale con un pezzo di stoffa in bocca, a mo’ di bavaglio. Esempi, tra i molti possibili, di una Chiesa calabrese che sa anche respingere, con gesti e parole inequivocabili, l’abbraccio mortale con cui la ’ndrangheta vorrebbe infangarla.


Sughereta e MUOS?

Sughereta e MUOS? eco-incompatibile Antonio Mazzeo Avevano deciso, lì avrebbero fatto il MUOS. Ma è un Sic (Sito Interesse Comunitario) Non importa. Oggi, la foto è eloquente.“La collina sventrata, voragini ampie come i crateri di un vulcano, il terreno lacerato dal transito dei mezzi pesanti, ruspe, betoniere, camion. Recinzioni di filo spinato, tralicci di acciaio. Una selva di antenne, terrazzamenti, gli uni sugli altri, per centinaia e centinaia di metri. In cima, tre piattaforme in cemento armato… (denuncia Italia Nostra). La Marina militare statunitense non si è preoccupata nemmeno di presentare una benché minima, seria, valutazione degli impatti… Ma si sa gli americani qui da noi in Sicilia in particolare, possono fare quello che vogliono. Distruggere l’ambiente, fare affari, fregarsene delle nostre regole… Non tener conto del certificato antimafia. Tutto ciò che hanno fatto nella sughereta di Niscemi è contro legge, ma il governatore Lombardo ha autorizzato! Le leggi? L’impatto ambientale? Il rischio per le persone, le piante, gli animali? Chi se ne f... Come una favola di altri tempi. Un don Chisciotte di provincia che con il fedele scudiero si lancia contro il gigante che imperversa nei boschi millenari, l’EcoMUOStro di Niscemi, lo chiamano. Una lotta impari, ma alla fine il cavaliere innamorato di principessa Natura disarciona l’essere repellente. Poi lo impacchetta, lo sigilla e lo rispedisce al mittente. Al di là dell’Atlantico, in Virginia, Stati Uniti d’America. Nella realtà tutto è accaduto in poche ore. A Caltagirone, la sera del 5 ottobre, il consiglio comunale vota un ordine del giorno contro l’installazione all’interno della riserva naturale “Sughereta” di Niscemi del terminale terrestre del Muos, il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari della marina

militare Usa. Per il giorno successivo, sabato 6, il coordinamento dei comitati siciliani No Muos ha convocato la prima manifestazione nazionale per chiedere la revoca delle autorizzazioni ai lavori e lo smantellamento delle antenne esistenti a Niscemi da oltre vent’anni. Sarà un chiassoso serpentone di due chilometri dalle mille bandiere e striscioni colorati. Nessuno ancora immagina il successo straordinario di quell’evento. E nemmeno che nelle stesse ore i cantieri del Muos sono stati raggiunti dai carabinieri e dagli agenti di polizia chiamati ad eseguire l’ordine di sequestro preventivo e l’apposizione dei sigilli ai manufatti per violazione delle leggi di tutela ambientale.

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ARRIVANO I NOSTRI A emettere il provvedimento, il primo nella storia ai danni di un’arma strategica delle forze armate statunitensi in territorio italiano, il Gip presso il Tribunale di Caltagirone, Salvatore Acquilino, su richiesta del procuratore Paolo Giordano. “Attraverso consulenze tecniche e documenti sono state accertate violazioni delle prescrizioni riguardanti il decreto istitutivo dell’area protetta e il relativo regolamento”, ha spiegato il dottor Giordano. La Procura ha anche emesso cinque avvisi di garanzia - ancora top secret i nomi - contestando la violazione dell’art. 181 del testo unico sui beni culturali del gennaio 2004 che sanziona “chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in


Sughereta e MUOS? difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici”. Le indagini erano state avviate nel luglio del 2011 a seguito di un esposto del Comune di Niscemi e si sono avvalse delle perizie e delle testimonianze di tecnici e ambientalisti. Dal punto di vista formale, l’installazione del terminale Muos (3 antenne paraboliche di 18,4 metri di diametro e 2 torri radio di 149 metri d’altezza) era stata autorizzata, l’1 giugno 2011, dall’Assessorato Territorio ed Ambiente della Regione siciliana, in palese violazione delle norme di attuazione previste dal Piano territoriale paesistico della Provincia di Caltanissetta per la riserva di Niscemi, approvato dalla stessa Regione nel maggio 2008. Il Piano aveva inserito l’area naturalistica all’interno del cosiddetto “livello di tutela 3”, limitando gli interventi alla mera conservazione del patrimonio naturale esistente, alla “rinaturalizzazione” e alla “sostituzione delle specie vegetali alloctone con specie autoctone” ai fini del potenziamento della biodiversità e della salvaguardia idrogeologica. Il Piano territoriale vietava invece espressamente la “realizzazione di infrastrutture e reti, tralicci, antenne per telecomunicazioni, impianti per la produzione di energia, nuove costruzioni e l’apertura di strade e piste”. Proprio quanto autorizzato dalla Regione dopo la repentina conversione pro-Muos del governatore Raffaele Lombardo. La riserva naturale “Sughereta” è un Sito di Interesse Comunitario di Natura 2000 (SIC) ed è il residuo di una vasta area boschiva (sugheri e lecci) che copre le ultime propaggini collinari dei monti Iblei, degradanti verso la costa della piana di Gela.

Comprende un’area complessiva di quasi 3.000 ettari, di cui 1.179 in zona A (riserva propriamente detta) e il resto in zona B (preriserva). Dichiarata area naturale protetta con il Decreto Assessoriale n. 475 del 25 luglio 1997, è stata affidata in gestione all’Azienda Regionale Foreste Demaniali. L’ ARROGANZA STATUNITENSE

La riserva di Niscemi costituisce un biotopo di notevole interesse naturalistico e scientifico, ed è stata designata per la presenza di quattro habitat, di cui uno prioritario. Ricca e di ampia distribuzione la flora esistente nell’area interessata dal nuovo programma militare. Si tratta di circa 200-250 specie diverse, il 40% delle quali esclusive del bacino del Mediterraneo, con alcune già sottoposte a tutela internazionale (orchidacee, liliacee, iridacee e cistacee). L’area si trova lungo le linee di migrazione dell’ornitofauna ed ospita ben 122 specie diverse di uccelli, 8 delle quali tutelate da direttive e convenzioni internazionali, 3 classificate come “vulnerabili” e 2 “minacciate”. Delle 11 specie di anfibi e 27 di rettili che vivono in Sicilia, sono presenti nel SIC di Niscemi, rispettivamente, 4 e 14 specie. Nella riserva s’incontrano infine Casablanca pagina 22

16 specie di mammiferi, 5 delle quali a rischio di estinzione. Uno straordinario patrimonio di flora e fauna che non è stato preso in considerazione né dai progettisti dell’impianto Usa né dai funzionari della Regione siciliana, che pure erano in possesso di uno studio sui possibili impatti del Muos sull’habitat a firma di tre professionisti siciliani, Donato La Mela Veca, Tommaso La Mantia e Salvatore Pasta. La relazione, acquisita dal Comune di Niscemi il 10 ottobre 2009, documentava in particolare l’“inadeguatezza” e la “scarsa attendibilità” della valutazione d’incidenza ambientale presentata dalla Marina militare statunitense. “Manca una benché minima valutazione degli impatti che l’infrastruttura avrà sulla fauna in fase d’esercizio e le considerazioni sugli impatti su flora e vegetazione in fase di cantiere sono a dir poco scorrette e inconsistenti”, scrivono gli esperti. “Relativamente allo studio della vegetazione, sono stati del tutto trascurati gli elementi di maggiore pregio. Eppure nell’area destinata ai lavori resta appurata la presenza di lembi sensibili di habitat d’interesse comunitario e prioritario e la potenziale presenza di specie tutelate dalle normative vigenti a livello nazionale ed internazionale”.


Sughereta e MUOS? LA COLLINA SVENTRATA Le opere eseguite dalle imprese aggiudicatrici hanno però avuto effetti ancora più devastanti di quanto era possibile prevedere in fase progettuale. “L’area in cui è in corso l’installazione del Muos si presenta come un paesaggio da incubo”, scrive Italia Nostra nel dossier Paesaggi sensibili 2012, dove la “Sughereta” di Niscemi compare tra le 10 aree protette nazionali in serissimo pericolo di sopravvivenza. “La collina sventrata, voragini ampie come i crateri di un vulcano, il terreno lacerato dal transito dei mezzi pesanti, ruspe, betoniere, camion”, denuncia Italia Nostra. “Recinzioni di filo spinato, tralicci di acciaio. Una selva di antenne, terrazzamenti, gli uni sugli altri, per centinaia e centinaia di metri. In cima, tre piattaforme in cemento armato… Una storia che viene da lontano, dove insipienza e superficialità hanno permesso di infierire ancora sulla Sicilia e il suo corredo di basi americane, dove lo Stato Italiano cede sovranità di pezzi di territorio, addirittura in aree protette. Dove le leggi di tutela ambientale non hanno più efficacia e non si rispetta il principio di precauzione che il danno alla salute dei cittadini può provocare con la presenza di potentissimi radar, con onde nocive che nessuno potrà misurare quando l’impianto sarà terminato”. “Sughereta e Muos rappresentano un binomio eco-incompatibile”, commenta lapidario il professore Salvatore Zafarana, presidente del Centro di Educazione e formazione Ambientale di Niscemi. “In passato si era riusciti a ridare continuità alle aree boschive

mediante la rinaturalizzazione delle aree degradate, l’acquisizione al demanio di terreni privati e di 150 ettari di bosco gravato da servitù militare. In direzione opposta va, purtroppo, la costruzione del famigerato nuovo sistema satellitare. È stato stroncato un processo di successione ecologica positivo che aveva portato alla colonizzazione dei suoli sabbiosi e steppici con specie cespugliose di gariga mediterranea. La superficie destinata ad accogliere il Muos, unita a quella occupata dalle 41 antenne di telecomunicazioni Usa erette a partire dagli anni ’90, hanno vanificato ogni possibilità di collegamento delle aree boschive più meridionali con quelle più a nord e con il residuo bosco ad est. Ad essere compromessi sono dei lotti già degradati come quelli di Mortelluzzo e Valle Porco di limitate estensioni, ma di indiscusso pregio naturalistico e paesaggistico”. UNA GRANDE MANIFESTAZIONE Zafarana lamenta infine che gli interventi autorizzati dalla Regione erano “assolutamente stridenti” con gli strumenti di tutela della riserva. “Durante i lavori del Muos si è assistito a ingenti movimenti di terra e ad

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enormi colate di cemento. All’occhio esperto non sfugge che l’entità delle trasformazioni in atto travalica quanto espressamente previsto dal progetto originario, denotando una gravissima manomissione dell’ambiente con l’aggravante di esplicarsi a danno di un’area protetta di interesse internazionale”. Adesso però i rilievi degli ambientalisti sugli scempi causati dal nuovo sistema militare, inascoltati o disattesi in sede politica-amministrativa, approdano negli uffici di una procura. “Il sequestro preventivo attuato dai magistrati di Caltagirone è il primo grande risultato, che non deve fare cantare vittoria, ma che invece deve servire a dare ancora più forza a tutte le azioni che d’ora in poi seguiranno, e che non si fermeranno fino a quando non saremo sicuri che il Muos non si farà”, dichiara l’avvocata Paola Ottaviano, esponente No Muos di Modica. “La grande manifestazione del 6 ottobre a Niscemi ha dimostrato che anche in Sicilia è possibile mettere in atto delle lotte che partono dal basso, in difesa del territorio, dell’ambiente, della salute, contro l’imposizione folle di strumenti di morte. La nascita dei comitati rappresenta la volontà di tanta gente a non piegarsi alla rassegnazione, davanti a fatti che riguardano tutti noi e il futuro. Futuro di cui la classe politica attuale, gretta e corrotta, non ha alcuna considerazione e cura”. La fiaba sull’incontroscontro tra gli ultimi eredi dei cavalieri erranti e il mostrostrumento delle future guerre planetarie è appena all’inizio.


Giornata mondiale del rifugiato…

Mineo Una festa al c.a.r.a. Diversamente uguali Giovanna Regalbuto C.A.R.A. di Mineo: circa 2.000 persone che provengono dalle più disparate parti del Mondo, Africa del Nord e del Sud, Pakistan, Iran, Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio, etc… Diverse fra loro, vivono insieme, una condizione assolutamente surreale: Apolidi, tutti “sospesi”, come in un limbo. Per un giorno si ritrovano protagonisti di una bellissima festa all’interno del centro insieme mediatori culturali, volontari che parlano l’arabo, l’inglese e il francese, volontari, avvocati e psicologi, musicisti, canti, balli, teatro. La tragedia dell’immigrazione riproposta in forma teatrale dagli stessi protagonisti con attrezzature di fortuna è uno schiaffo morale, una violenta riproposizione della crudeltà del mondo occidentale. Vista sul palco è un pugno allo stomaco. Nella quotidianità? Vabbè non sono uguali a noi, che se ne stiano nella loro terra.(!!!???) La vicenda del C.A.R.A. di MINEO si ascrive assolutamente nel registro folle delle questioni cruciali e centrali della nostra contemporaneità risolte con un colpo di spugna! Certo è anche vero che nel periodo della rivoluzione araba, ci siamo ritrovati Maroni ad assumere la carica di Ministro degli Interni e la legge Bossi-Fini a regolare e a trattare l’umanità come se fosse carne da macello! Senza troppi preamboli, l’immigrazione araba e non solo ha prodotto in Italia delle politiche di “contrasto” al fenomeno interpretate nel “migliore dei modi” da chi è riferimento di un partito politico che è stato promotore della disinfestazione dei treni del Nord, dell’attacco alla cultura araba e alla sua tradizione religiosa, degli appostamenti nei villaggi rom, e così via, veicolando e propagandando un messaggio

culturale e mediatico della diversità etnica quale contaminazione virale di mal costumi, di violenza e di pericolo urbano. Per cui, dato il contesto politico e culturale di chi gestiva il processo, sembra del tutto consequenziale la scelta di limitare il dramma sociale all’interno di un “non-luogo” sito nel calatino, a ridosso di una super-strada, super-attrezzato in termini di sistemi di sicurezza: il villaggio degli americani! Dove? In Sicilia. Non a caso, ovviamente. In quei giorni drammatici in cui morivano centinaia di persone, in Italia si discuteva di affari! Nonostante le beghe personali, il Ministro Maroni e il Presidente Berlusconi, sono riusciti a sedersi comodamente con buona pace degli italiani e dei siciliani, distratti dalla crisi economica e dall’allarme sociale, e a Casablanca pagina 24

concludere l’affare dell’anno se non della legislatura, con una tra le più grandi imprese costruttrici d’Italia (peraltro anche esecutrice dell’autostrada siciliana CataniaSiracusa), la Pizzarotti S.p.A , che si trovava con un significativo patrimonio immobiliare sfitto. A far desistere dalla scelta il Governo Berlusconi non sono bastate le mobilitazioni da parte dei sindaci del Calatino, primo fra tutti il Prof. Franco Pignataro e l’amministrazione di Caltagirone con l’Assessore alle politiche sociali la Dott.ssa Cristina Navarra né le mobilitazioni delle reti associative civiche che da anni lavorano con gli immigrati e per i diritti umani e l’integrazione sociale. E così molto rapidamente e convulsamente migliaia di immigrati vengono “deportati” e distribuiti in diversi centri in Italia - o scusate nel meridione -, ma il


Giornata mondiale del rifugiato… numero più significativo viene trasferito nel Villaggio a 5 stelle: il C.A.R.A. di Mineo! UNO SCHIAFFO MORALE In occasione della manifestazione del rifugiato promossa ormai da diversi anni dall’associazione ASTRA di Caltagirone, associazione da sempre impegnata nel campo dell’integrazione sociale con presidente Gemma Marino, si pensa ad organizzare oltre alla tradizionale tavola rotonda un laboratorio teatrale proposto dall’associazione Magma idee in movimento. Il teatro, sì. Il teatro sociale viene scelto come strumento, linguaggio non semplicemente per comunicare agli altri ma anche e soprattutto come occasione per liberarsi di una sofferenza repressa di drammi mai espressi. Il teatro come ponte di comunicabilità tra diversi, noi e loro, il teatro come lingua universale che supera ogni differenza etnica, linguistica, culturale che consente di esprimere quanto più efficacemente il manifesto dell’evento, della manifestazione pubblica: “DIVERSAMENTE UGUALI!” Alla tavola rotonda in Piazza Municipio segue lo spettacolo dei ragazzi che mettono in atto una rappresentazione del loro esodo e poi approdo nella terra della speranza: Lampedusa. L’odissea descritta e inscenata sul palco con materiali, scenografie e sceneggiatura di fortuna è frutto di un laboratorio di tre giorni aperto a chiunque ha voglia di partecipare. Le cooperative sociali e le associazioni del terzo settore: S.G.

Bosco, S. Giuseppe, S. Antonio, Ancora & Timone, ASTRA e Magma idee in movimento sono coinvolte in prima persona. A contribuire ad un’esperienza unica due ragazze: Lara Pedilarco, arteterapeuta e Nati Piacentini, musicista argentina. La scommessa dell’iniziativa è legata all’attenzione al processo e non al risultato finale! I ragazzi durante le ore laboratoriali piangono, cantano, parlano delle loro esperienze e il teatro, la finzione si confonde e si identifica con la realtà, le loro storie di vita diventano la rappresentazione della nostra vile civiltà! Uno schiaffo morale, una violenta riproposizione della crudeltà del mondo occidentale colpisce quanti, come me, partecipano al laboratorio.

Ma i ragazzi continuano a darci lezioni, lezioni di civiltà, lezioni di amore per la propria terra, lezioni di tenacia e di rivoluzione! È così che lo spettacolo si conclude con una pianta che viene radicata al centro della Piazza di Caltagirone. In un’aiuola: un messaggio di pace ma anche di primavera, quella primavera araba che in quei giorni si stava affermando in un paese sconvolto dalla violenza, dal sopruso e dalla dittatura! Allo spettacolo segue la festa: gli Casablanca pagina 25

operatori sono invitati a salire sul palco dai loro ragazzi e a ballare con loro. È curioso vedere come Silvia venga trascinata dal gruppo di “attori” e si diverta a ballare con loro con naturalezza, con semplicità come se fosse nel chiuso del suo istituto. Tutto questo in Piazza e su un palco dove a guardare sono i passanti, quanti “stazionano” usualmente nell’agorà cittadina e coloro che partecipano all’iniziativa. È QUI LA FESTA? L’indomani è il 19 giugno 2011, la “Giornata Mondiale del Rifugiato”, quale migliore occa-sione per provare ad avere accesso nonostante e dopo i vari tentativi, richieste di autoriz-zazione, domande da parte delle associazioni del terzo settore, al C.A.R.A. di Mineo? Appuntamento alle 16:30 all’ingresso del noto C.A.R.A. o Villaggio degli Aranci di Mineo. Andiamo in tanti, ci ritroviamo lì: l’associazione ASTRA, Magma idee in movimento e l’Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Caltagirone, comune la cui amministrazione si è sempre opposta alla “soluzione” del Ministro Maroni di utilizzare il Villaggio come un albergo a 5 stelle dove “confinare” la “questione immigrati”. Dopo circa un’ora, durante la quale sono stati osservati tutti i passaggi burocratici scrupolosamente eseguiti con controlli incrociati delle richieste di autorizzazione da parte della questura e delle liste compilate


Giornata mondiale del rifugiato… dalle associazioni, passaporti, carte di identità, e così via, siamo dentro. La compagnia è ben assortita: mediatori culturali, volontari che parlano l’arabo, l’inglese e il francese, volontari avvocati e psicologi, musicisti, casse, amplificatori e strumenti. Siamo pronti per dare il via alla festa del rifugiato, lì dove si raccoglie una città intera di persone, circa 2.000, che provengono dalle più disparate parti del Mondo: Africa del Nord, Africa del Sud, Pakistan, Iran, Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio, etc. etc… L’impatto è sconvolgente: migliaia di ragazzi e ragazze costretti in un luogo completamente anonimo e assai lontano dalle loro tradizioni e dalle loro culture. Lì tutto è uguale a se stesso, viali, case, piantumazione, quanti lo vivono hanno ben poco in comune se non la condizione assolutamente surreale, di essere “sospesi”, come in un limbo…“apolidi”. Ci raccontano di non avere più notizie dello stato delle loro procedure avviate in altre parti d’Italia per ottenere il Diritto di Soggiorno, che nessuno è in grado di rispondere alle loro domande, che il tempo passa, lentamente, e moltissimi di loro non sono più riusciti a mettersi in contatto con i propri cari. Mentre J., della Costa di Avorio, ci dice che hanno a disposizione solo una scheda telefonica per chiamare, per cui essendo così tanti, devono aspettare diversi giorni perché arrivi il proprio turno, C. , senegalese con una bimba in braccio, ci racconta della difficoltà delle donne che vivono all’interno del Villaggio; molte di

loro, ci dice, sono incinte e ci fa intendere che la risicata disponibilità economica destinata ad ognuno di loro (1,50 euro circa) induce alcune ad arrotondare. Si ferma con noi anche F., anche lei africana, e ascolta senza dire nulla ma il suo corpo è abbastanza eloquente: è piena di lividi. Indossano indumenti usati, ricordano quelli delle raccolte per i terremotati, ci continuano a chiedere delle schede telefoniche. I bambini che non dovrebbero essere destinati a centri di questo tipo così come le donne, cominciano a venirci incontro: quale sicurezza può essere garantita a queste donne, peraltro in numero così ridotto rispetto agli uomini, che diventano oggetto di attenzione da parte dei tanti che vivono in assoluta cattività? Veniamo avvicinati dal responsabile della sicurezza, un romano, che ci ricorda di non utilizzare nessuna telecamera o registratore…

Dopo che comunichiamo loro il motivo della nostra visita ed incursione, traducendolo in ben tre lingue diverse, la Dott.ssa Cristina Navarra racconta loro l’impegno profuso dalle istituzioni calatine perché la presenza nel nostro territorio non fosse relegata al solo Villaggio ma fosse considerata piuttosto la loro condizione umana, fosse tenuto in Casablanca pagina 26

considerazione il valore della multiculturalità secondo cui l’integrazione poteva e doveva avvenire all’interno dei territori e dei Comuni del Comprensorio Calatino, restituendo loro la dignità e il diritto di vivere una vita “normale”, di poter lavorare, di poter trascorrere il tempo libero oltre e al di fuori quel “bunker”. E subito dopo musica, solo musica, canto… i ragazzi si avvicinano e cominciano a ballare, ognuno per gruppi secondo le loro tradizioni e i loro costumi… da lì a poco passiamo il microfono e sono loro adesso a condurre la serata, a cantare le loro canzoni, a sentirsi a casa… assieme a tanti altri e altri ancora. Si fa tardi ed è ora di andare, il momento più difficile… non vogliono, ci chiedono se torneremo, quando, e come se già sapessero che quella era stata una giornata irripetibile, ci chiedono di fare delle foto, tante foto… E così sollecitati anche dal servizio di sicurezza andiamo via, lasciandoci alle nostre spalle donne, uomini, bambini, sì anche bambini, con la promessa che saremo ritornati presto… È passato più di un anno e tutti noi portiamo quel ricordo e la grande amarezza di non essere potuti ritornare a trovarli. Solo adesso ci siamo resi conto di come sia eccezionale quella esperienza che con ostinazione, grinta e caparbietà avevamo voluto fino a mettere in imbarazzo chi doveva autorizzare la nostra entrata, quel giorno proprio per la “Giornata Mondiale del Rifugiato” e non ha avuto il coraggio di dire NO!


…nuove forme di detenzione

Il gabbio di Lampedusa Nuovi profili della detenzione amministrativa degli immigrati irregolari in Italia Fulvio Vassallo Paleologo Definiti “ospiti” una volta arrivati sulle nostre coste, gli immigrati clandestini per subito vengono rinchiusi. Galere? No, centri. Ovvero luoghi in cui le regole di detenzione amministrativa cambiano frettolosamente grazie “all’emergenza”. Nei centri, le “persone” arrivate illegalmente in Italia, dovrebbero essere identificate e trattate da esseri umani. Invece, sono abbandonati alla disperazione, o sedati con l’uso massiccio di psicofarmaci. Nel 2011 decine i casi di autolesionismo e diversi tentativi di suicidio nel centro di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa, nell’ex caserma Barone di Pantelleria, ed altre strutture di accoglienza allestite per l’emergenza Nord-Africa. La responsabilità per gli incidenti e le disfunzioni? Ricadeva solo sugli immigrati e poi le indagini - almeno in passato si arenavano o venivano archiviate. Il “gabbio”, di Lampedusa, un centro nel centro, nel quale non si effettuano convalide e non entrano difensori ed organizzazioni umanitarie al di fuori di quelle convenzionate con il Ministero dell’Interno. Detenute sotto tutti i punti di vista, ma definite dalle autorità amministrative e dagli enti gestori come “ospiti”, in realtà gli immigrati giunti irregolarmente nel territorio italiano possono essere rinchiusi in strutture con diverse denominazioni, e con diverse modalità di limitazione della libertà personale. Anche a seconda della nazionalità, che incide sulle probabilità di rimpatrio, in base agli accordi bilaterali ed alle differenti prassi applicative degli accordi di riammissione.

Il CPSA (Centro di primo soccorso ed accoglienza) di Contrada Imbriacola a Lampedusa, dopo la breve parentesi come CIE nel febbraio del 2009, conclusasi con una rivolta e con un incendio che lo distruggeva parzialmente, era stato ristrutturato e di nuovo riattivato, dal febbraio del 2011, come centro di prima accoglienza e soccorso (CPSA), ma con una parte utilizzata, di fatto, come centro chiuso - il cosiddetto gabbio. Un vero e proprio centro di trattenimento mai qualificato ufficialmente come CIE, nel quale dunque non si effettuavano Casablanca pagina 27

convalide e non entravano difensori ed organizzazioni umanitarie al di fuori di quelle convenzionate con il Ministero dell’Interno. E lo stesso periodico mutamento di destinazione, e di natura giuridica, si è verificato per il centro ubicato a Lampedusa nella vecchia base Loran, una struttura utilizzata nel 2011 per il trattenimento prolungato, dunque illegale, di minori non accompagnati, ma qualificata nel sito del Ministero dell’Interno come centro di identificazione ed espulsione, una struttura che ha continuato a funzionare dopo che


…nuove forme di detenzione nel 2009 era intervenuta persino la magistratura, per bloccarne l’ampliamento in vista della creazione di un grande centro di detenzione, alla vigilia di gravi abusi edilizi. Nel corso del 2011 il centro dell’ex base Loran è stato così utilizzato per il trattenimento prolungato di decine di minori non accompagnati, in una situazione di fatiscenza delle strutture e di evidente degrado derivante dalla promiscuità e dall’abbandono. Una situazione che anche il procuratore antimafia Teresi, in una sua visita a Lampedusa ai primi di settembre del 2011, ha potuto rilevare direttamente, dichiarando che “in un paese civile la base Loran dovrebbe essere chiusa”, una situazione che prima ancora che dalla Procura antimafia, avrebbe dovuto sollecitare un intervento dei NAS della Guardia di Finanza. IL GABBIO E LA DISPERAZIONE Per chiudere quel centro già nel corso dell’emergenza Nord-Africa del 2011 sarebbe bastato rilevare la cronica carenza d’acqua e il sistema fognario non a norma, come non risultavano conformi alla legge le procedure adottate nei confronti dei minori non accompagnati, la cui presenza non veniva segnalata per tempo né agli assistenti sociali né al Tribunale dei minori, come prescritto dalla legge. Fatti inoppugnabili, sui quali in tanti hanno preferito tacere, anche se non sarebbe stato difficile ricostruire una documentazione completa, che nessuno, sia a Lampedusa, che ad Agrigento ed a Roma ha voluto raccogliere. Fatti sui quali, nonostante un articolato esposto depositato in diverse procure italiane dall’onorevole

Zampa e da altri parlamentari, la magistratura non ha saputo fare luce, rincorrendo invece improbabili scafisti, anche minorenni, scelti sulla base delle testimonianze di qualche migrante rimesso subito dopo in libertà o rimpatriato. Nel corso degli anni le prassi amministrative in materia di trattenimento e di respingimento, sono andate ben oltre le previsioni di legge. Nell’impossibilità di adottare i decreti del questore di respingimento e di trattenimento, secondo quanto previsto dagli articoli 10 e 14 del T.U. n. 286 del 1998, si è preferito “isolare” le persone straniere, giunte o rintracciate in condizioni di irregolarità, in strutture chiuse informali, non classificate come CIE, dove venivano detenute a tempo indeterminato. Così si sono aperti temporaneamente e poi chiusi i centri di prima accoglienza di Porto Empedocle

dalle normative comunitarie (Regolamento Frontiere Schengen n. 562 del 2006). Gli immigrati ai quali non si è riconosciuto neppure il diritto alla comprensione linguistica ed alla notifica tempestiva dei provvedimenti di respingimento e di trattenimento, sono stati abbandonati alla disperazione, o sedati con l’uso massiccio di psicofarmaci, con decine di casi di autolesionismo e diversi tentativi di suicidio, come si era verificato già nel 2011. Tutto questo si è verificato non solo nel centro di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa e nell’ex caserma Barone di Pantelleria, ma in molte delle strutture di accoglienza allestite per l’emergenza nord africa e rimaste per mesi senza uno statuto giuridico preciso (si pensi ai CIET, centri di identificazione ed espulsione temporanei, a Kinisia,Trapani, a Santa Maria Capua Vetere ed a Palazzo San Gervasio, Potenza). TUTTO IN REGOLA!

(Agrigento), di Licata (Agrigento), di Pozzallo (Ragusa) e di Porto Palo (Siracusa). Si sono concentrate centinaia di persone in zone di confinamento temporaneo, limitandone, di fatto, la libertà personale oltre i limiti (48+48 ore) previsti dalla legge e dalla Costituzione (art. 13), solo per effetto di misure di polizia, che non hanno assunto neppure la forma del provvedimento scritto e motivato, come sarebbe richiesto Casablanca pagina 28

In nessun caso mai, un ente gestore o un prefetto sono stati ritenuti responsabili di quanto successo alle persone trattenute nei centri. Come in casi precedenti che pure avevano avuto tragiche conseguenze, la responsabilità degli incidenti e delle disfunzioni ricadeva inizialmente solo sugli immigrati e poi le indagini si arenavano o venivano archiviate. Anche dopo la rilevante diminuzione degli sbarchi nelle regioni meridionali italiane, con un calo del novanta per cento nel 2012 rispetto all’anno precedente, le prassi applicate sono rimaste


…nuove forme di detenzione ancorate ad un utilizzo incontrollato della discrezionalità amministrativa, in una materia come la libertà personale, soggetta al presidio dell’art. 13 della Costituzione, che impone la doppia riserva di legge e di giurisdizione, per l’adozione di misure come il trattenimento amministrativo. La situazione nei centri di identificazione e di espulsione è diventata sempre più incandescente, dopo la legge 129 del 2011 con il prolungamento a 18 mesi della detenzione amministrativa e l’abbattimento sostanziale di tutte le garanzie di difesa, a partire dalle difficoltà frapposte all’ingresso di legali di fiducia, e alla utilizzazione dei mediatori linguistici. Malgrado fosse finita la fase degli arrivi di massa si sono utilizzati i centri di prima accoglienza come centri di detenzione, nel tentativo di respingere in pochi giorni i migranti grazie ai riconoscimenti sommari (solo in base alla attribuzione della nazionalità) da parte delle autorità consolari. Ed ancora nel corso del 2012 si registrano fughe e rivolte ovunque, da Gradisca di Isonzo (Gorizia) a Caltanissetta-Pian del Lago ed a Trapani-Milo, mentre non si sa nulla di quello che avviene nei numerosi centri di transito utilizzati in Sicilia, in Calabria ed in Puglia per i respingimenti sommari dei cittadini tunisini ed egiziani, in base a riconoscimenti consolari semplificati dopo gli ultimi aggiustamenti degli accordi bilaterali firmati dall’ex ministro dell’interno

Maroni (quello con la Tunisia firmato il 5 aprile 2011 è ancora in vigore, nonostante il cambio di governo e le mutate condizioni politiche nei due paesi). Di fronte alle prassi attuali ed alla violazione reiterata di consolidati principi costituzionali, e di regolamenti o direttive comunitarie che dovrebbero avere un rango gerarchico superiore, è urgente una profonda revisione legislativa. Bisogna abrogare l’attuale normativa sui respingimenti, a partire dall’art. 10 del T.U. n. 286 del 1998, e riformularla con specifiche previsioni di legge e garanzie effettive di difesa in favore delle persone che ne siano destinatarie. Vanno ridotti i casi di rimpatrio con accompagnamento forzato (Bossi-Fini del 2002), che richiedono misure di trattenimento amministrativo e procedure di convalida che non risultano applicabili nella generalità dei casi, con violazioni sempre più evidenti dell’art. 13 della Costituzione italiana. Bisogna quindi ripristinare il sistema delle espulsioni basato generalmente sulla intimazione a lasciare il territorio dello stato, come era

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previsto dalla legge 40 del 1998 (Turco-Napolitano) e come è richiesto adesso dalla Direttiva Comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri. E va assolutamente spezzato il circuito carcere-CIE, come prevedeva la circolare interministeriale Amato-Mastella del 30 luglio 2007, che richiamava l’esigenza di effettuare le identificazioni durante il periodo di detenzione in carcere, e dunque con una stretta collaborazione tra l’amministrazione della giustizia e gli uffici di questura. La prospettiva di lungo periodo, che presuppone l’apertura di vie legali di ingresso e la regolarizzazione permanente su base individuale di chi maturi nel tempo requisiti come un lavoro e la disponibilità di un alloggio, non può che essere quella della chiusura dei CIE, e della utilizzazione della detenzione amministrativa solo per quei casi individuali di espulsione di persone che costituiscono una grave minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini. Ma sempre nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, dettati dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre che dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.


Europa: baluardo da abbattere?

Democrazia sequestrata Sotto dittatura i popoli europei Gianni Lannes Euro sì? Euro no. Europa dei popoli? Europa delle banche? Tante discussioni, tavole rotonde, studi, sondaggi. Paesi perplessi, indignados che si ribellano. Chi agisce, chi sta a guardare. Ma qual’è il vero progetto sull’Europa? Chi orchestra? Chi dirige il sistema di dominio? Il Trattato di Lisbona e il Trattato di Velsen hanno sospeso le Costituzioni dei paesi europei? Sovranità economica e popolare, indipendenza, hanno ancora significato? Ammesso che negli ultimi tempi ne abbiano avuto. No pasaran, No pasarán, Ils ne dei deputati. Migliaia di persone prima di usare le maniere forti passeront pas, They shall not pass. si sono riunite davanti al hanno annichilito le garanzie Non passeranno. L’Europa dei Parlamento al grido di legali nel vecchio continente. popoli è vittima di un’aggressione "dimissioni", per denunciare una Come? Adottando il 13 dicembre finanziaria senza eguali nella democrazia “sequestrata” e 2007 il Trattato di Lisbona che ha storia della modernità, il cui scopo “schiava dei mercati finanziari”. sospeso le Costituzioni dei Paesi dichiarato è la conquista a Anche la Grecia si sta svegliando aderenti all’Unione europea. E qualunque prezzo umano. Il dal letargo. precedentemente, due mesi prima popolo spagnolo, prima di (18 ottobre 2007) aderendo al *** chiunque altro (compreso il Ovviamente non basta una Trattato di Velsen che ha dato dormiente italiano) - come nel protesta spontanea: il sistema di carta bianca, ossia licenza di 1936 - ha ben compreso il destino dominio che tenta di imporre il uccidere (“legalmente”) chiunque fatale che ci attende se ostacoli questo processo di non ci sarà una La storia sembra non insegnarci nulla. Un dominio - la polizia militare reazione risolutiva. È secolo fa furono concepiti i piani disumani che va sotto il nome di in gioco la democrazia, Eurogendfor, controllata di sottomissione dell’Europa da parte del la qualità della vita ed dalla Nato. Infine il Fiscal sistema industriale… il futuro di milioni di Compact: addio alla esseri umani. Così c’è sovranità economica. Così, stata guerriglia. Duri grazie alla compiacenza di scontri il 25 settembre a Madrid nuovo ordine mondiale interi parlamenti nazionali e dei tra i manifestanti del movimento orchestrato dalla Commissione soliti padrini l’indipendenza è degli indignati e la polizia, che ha Trilateral e dal Club Bilderberg stata azzerata. fatto diverse cariche e utilizzato nonché dal filantropo eugenetico La storia sembra non insegnarci proiettili di gomma per disperdere Bill Gates, è ben organizzato. Gli nulla. Un secolo fa furono i giovani nei pressi del Congresso oligarchi del terzo millennio concepiti i piani disumani di

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Europa: baluardo da abbattere? sottomissione dell’Europa da parte del sistema industriale. Due guerre mondiali avviate per spietati interessi economici hanno mietuto circa 100 milioni di vittime nel tentativo di dominare il nostro continente. È finita la guerra fredda ed è cominciata la Terza guerra mondiale. Purtroppo, nostro malgrado, siamo in guerra, sotto il tallone militare nordamericano, vale a dire il braccio armato che esegue gli ordini del complesso industriale Usa, spronato dall’insaziabile cupidigia dell’industria chimica, farmaceutica e nucleare. Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non possiamo essere indifferenti mentre cercano di sottometterci definitivamente. Il loro scopo platealmente dichiarato è la subordinazione commerciale e politica di intere nazioni. Si potrebbe partire con una paralisi dei consumi e proseguire con uno sciopero ad oltranza, senza interruzioni per obbligare i

parlamenti nazionali a dimettersi in blocco. L’Europa è un baluardo da abbattere e soggiogare per controllare l’intero mondo. Non ci sarà mai più un’Europa che

all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino”. E Mohandas K. Gandhi ha dimostrato con la non violenza: “Sono le azioni che contano. I

Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non possiamo essere indifferenti mentre cercano di sottometterci definitivamente. Il loro scopo platealmente dichiarato è la subordinazione commerciale e politica di intere nazioni. annichilisce la sua gente per generazioni, rendendola schiava degli interessi e finanziari delle multinazionali. Mai più. Ma spetta a noi combattere, ora. La libertà va ri-conquistata. *** Giuseppe Dossetti, un padre italiano della Patria ha scolpito parole dal vivo della sua esperienza: “Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza

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nostri pensieri per quanto buoni possano essere sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”.


Giuseppina… vai avanti, cambierà

Giuseppina la postina dei clan Ad oggi ha fatto sequestrare 224 milioni di euro Franca Fortunato Giuseppina Pesce dell’omonimo clan, è l’unica collaboratrice viva. Altre donne che avevano deciso di collaborare con la giustizia contro la ’ndrangheta hanno avuto diverso, crudele, destino. Quelli con gli inquirenti saranno colloqui tormentati perché la figlia maggiore i primi tempi non riesce a condividere le sue scelte, le dichiarazioni di Giuseppina comunque apriranno le porte della galera anche per sua madre e sua sorella. Il vecchio capobastone storico, Giuseppe Pesce, si sarà rivoltato nella tomba. La nipote, Giuseppina, diventata collaboratrice di giustizia. Cose di un altro mondo! Giuseppina Pesce, è figlia di Salvatore, detto “u babbu” uomo di punta della cosca omonima insieme al fratello Antonino. È accusata di essere la “postina del clan e di portare gli ordini del padre, in carcere, agli altri associati. Per questo reato è stata arrestata il 28 novembre 2010 insieme ad altri quaranta affiliati alla cosca (operazione “All’Inside”). Cresciuta a “pane e ’ndrangheta”, Giuseppina conosce tutti gli affari e i segreti della famiglia, immaginare quindi il futuro dei suoi figli, non è difficile, in carcere ha modo di riflettere… e decidere. Giuseppina, nata e cresciuta a Rosarno, al momento dell’arresto ha 34 anni, due figlie di 16 e 6 anni e un figlio di 9. Suo marito, Rocco Palaia, è in carcere per associazione mafiosa. Anche suo padre è in carcere e così il fratello

Francesco. La madre, Angela Ferrero, e la sorella Marina entreranno in carcere dopo le sue rivelazioni. Che famiglia! Tutti in carcere. E i suoi figli? Sono destinati a fare la stessa fine? È a questo che Giuseppina pensa. Che la sua era una famiglia mafiosa, l’aveva capito già all’età di dieci anni. A tredici, finita la scuola Media, il suo desiderio era di iscriversi al Magistrale di Palmi, ma il padre glielo impedì. “No, tu non andrai da nessuna parte, tu resterai chiusa in casa” le gridò. E così fu. “Non andavo più neanche a lezioni di piano, stavo solo in casa” - raccontò agli inquirenti. Era solo un’adolescente, ma cominciò a pensare che sposarsi era l’unico modo per uscire da quella prigione. A quattordici anni, appena adolescente, fece la “fuitina” con Casablanca pagina 32

l’uomo che amava, Rocco Palaia, anche lui appartenente a una cosca. Non andò come lei sperava o sognava. Con quest’uomo conoscerà la violenza sul suo corpo e non troverà né nella madre né nelle donne della “famiglia” un sostegno alla sua ribellione. E come poteva trovarlo in donne succubi, subalterne e complici dei loro uomini, che hanno fatto coincidere la famiglia di sangue con la famiglia di ’ndrangheta? Dopo la nascita della prima figlia, Angela, il marito divenne sempre più violento e aggressivo. Ad ogni sua ribellione, lui la picchiava. Avrebbe voluto lasciarlo, ma la morale della famiglia di ’ndrangheta non consente il divorzio. “No, non me lo permettevano, i miei… lui… Tutti mi dicevano “dài, dagli un’altra


Giuseppina… vai avanti, cambierà possibilità che adesso cambierà. Pensa ai tuoi bambini. Non è giusto negare il padre ai tuoi figli. Vai avanti, cambierà” . IL CARCERE, IL SUICIDIO, LA PAURA In carcere tenta due volte il suicidio non perché non sopporta la reclusione, ma per il distacco dai bambini. Dopo alcuni mesi, Giuseppina decide di collaborare e chiede che i suoi figli la raggiungano in località protetta. Inizia per lei una nuova vita, pur sapendo di aver decretato la sua condanna a morte. “L’onta di ritrovarsi in casa qualcuno che passa dalla parte degli sbirri va lavata col sangue per mano di un congiunto”. Le sue orecchie l’hanno sentito dire a proposito di sua cugina Rosa Ferraro, testimone di giustizia. Nessuna donna di ’ndrangheta, pienamente coinvolta negli affari

Pesce; indica dettagliatamente le attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa. Manda in galera la madre e la sorella. Non solo, dalle sue dichiarazioni scaturisce l’operazione “All’Inside 2” con arresti, confische di beni, scoperta di armi e bunker. Al tribunale di Palmi, tutt’ora, è in corso il processo. Giuseppina è la testimone chiave. Testimoni sono anche sua cugina Rosa Ferraro e l’ex cognata Ilaria La Torre, che il fratello cercò di rapire e fare sparire, dopo essere stato abbandonato. Anche Maria Concetta Cacciola, amica d’infanzia di Giuseppina, uccisa con l’acido muriatico dalla famiglia, aveva testimoniato contro i Pesce. IL DIFFICILE RAPPORTO CON LA FIGLIA La vicenda di Giuseppina, collaboratrice di giustizia, che

NON VOGLIAMO PM FEMMINA Quando inizia il processo, i maschi Pesce gridano contro la pm: “Vogliamo di Palma, ma quella no”. Volevano un maschio per una questione di rispetto, perché il “nemico”, se è in gamba, lo puoi pure rispettare. Ma una femmina no, quella è un’altra storia. Che sfortuna, per i Pesce! Anche il collegio giudicante è fatto di donne: presidente Concettina Epifanio, a latere Maria Laura Ciollaro e Antonella Crea. E come se non bastasse, alla guida dell’amministrazione comunale di Rosarno c’è una donna, Elisabetta Tripodi, che sfida la cosca, costituendosi parte civile al processo e mandando via da un immobile la madre e il fratello del boss Rocco Pesce. Dal carcere costui manda una lettera minatoria alla sindaca e per questo viene processato e condannato. della famiglia, aveva osato sfidare le persone a lei vicine. Giuseppina è la prima. E ne ha cose da raccontare ai magistrati!! È lei che ammette l’esistenza della potente cosca dei Pesce; riferisce circa le vendette relative alla successione al vertice della cosca; descrive l’ascesa al potere del pericoloso cugino Francesco

dopo qualche mese interrompe la collaborazione per poi riprenderla, ci parla, innanzitutto, della relazione di una madre con sua figlia, Angela, di cui cerca l’approvazione. Quando questa, con la sorella e il fratello, raggiunge la madre in località protetta, lasciando a Rosarno i parenti, gli amici e la scuola, le si Casablanca pagina 33

rivolta contro, per uno sradicamento che lei non ha scelto. “Continuava a rinfacciarmi che ho scelto per lei, che io l’ho portata via dalla nostra terra, che io ho deciso. La scelta di collaborare l’aveva accettata, era il discorso del distacco che non accettava, l’allontanamento”. Di questo approfittano i parenti paterni, in particolare la zia Angela, che fa avere alla ragazza il suo cellulare e comincia a telefonarle. Vuole che lei induca sua madre a interrompere la collaborazione e a ritrattare tutto. “ Sapeva che io senza mia figlia non sarei andata da nessuna parte”. A un certo punto cede alle pressioni della figlia e interrompe la collaborazione. “Quando io le dissi che sarei tornata indietro, che le avrei restituito la vita che aveva prima o almeno ci avrei provato, diciamo che era contenta da una parte, però dall’altra gli avevo anche detto che probabilmente io per un periodo non ci sarei stata. Cominciò a diventare depressa”. I parenti promettono a Giuseppina il perdono e le assicurano ogni aiuto. “Vedi - le ripeteva la figlia - vedi, adesso sta a te. Adesso sei tu. basta che dici sì e torniamo a casa”. “La mia scelta - di interrompere la collaborazione - è stata basata solo su mia figlia. Non ho avuto altre motivazioni, cioè io volevo la felicità dei miei figli e se quello era quello che loro volevano, anche se i miei progetti per loro erano altri, andava bene così”. Quando i parenti vengono a sapere della sua decisione, vogliono che tutti lo sappiano. La raggiungono nella località protetta e le fanno firmare una lettera, che sarà mandata a un giornale locale, in cui Giuseppina scrive di aver interrotto la collaborazione, di


Giuseppina… vai avanti, cambierà essere stata costretta dai magistrati a collaborare e di aver detto solo cose false. Come ultimo atto non deve firmare il verbale dell’interrogatorio. Giuseppina ha paura per i suoi figli. Davanti al magistrato si avvale della facoltà di non rispondere e interrompe, così, la sua collaborazione. Era l’11 aprile 2011. Tutto finito? Niente affatto. Giuseppina non vuole tornare in Calabria. Ha paura che la uccidano o la facciano sparire. In attesa di essere mandata ai domiciliari a Vibo Marina, dove i suoceri le hanno trovato una casa, resta ancora con le due figlie in località protetta. Il bambino viene mandato giù col nonno. L’EVASIONE, IL DISONORE E LE MINACCE Succede allora qualcosa che rende definitiva la sua scelta di tornare a collaborare. Angela, rimasta con lei, continua a lamentarsi e prega la madre di mandarla per qualche giorno da una sua amica a Lucca. Per farla contenta, decide di accompagnarla con la macchina. Al ritorno viene arrestata per “evasione”, in quanto era ancora sotto protezione. In quell’occasione diventa pubblica

la sua relazione extraconiugale. Nella macchina c’era l’uomo con cui conviveva da tempo. Adesso Giuseppina sa di essere doppiamente in pericolo. “Chi tradisce e chi disonora la famiglia

deve essere punito con la vita. È una legge”. Legge che lei conosce per aver sentito dal marito la storia di Annunziata Pesce, cugina di suo padre, che, nel 1981, fu assassinata dai fratelli e fatta sparire per una relazione extraconiugale con un carabiniere. Il marito dal carcere è furioso. Si sente offeso nel suo “onore” di uomo e di marito, prima che di ’ndranghetista. La minaccia e le ricorda la fine di Maria Concetta Cacciola che ha “disonorato” la famiglia, come collaboratrice e come adultera. “Ma questo non è il tuo caso”; le scrive in tono minaccioso, chiedendole di lasciare alla sua educazione il figlio maschio. Giuseppina, allora, capisce che non può e non deve tornare indietro. Riprende la collaborazione. E la figlia? Un giorno capirà dice a se stessa - e l’approverà. Tocca a lei salvare se stessa e i suoi figli da un destino che non accetta più. “Ho espresso la mia volontà di iniziare questo percorso, spinta dall’amore di madre e dal desiderio di poter avere anch’io una vita migliore, lontana dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Ero e sono convinta che sia la scelta giusta” - scrive in una lettera alla pm Alessandra Cerreti. Col ritorno alla collaborazione, tornano i ricatti, le minacce, le pressioni sulla figlia maggiore, da parte della zia. Il nonno picchia il maschio. Giuseppina lo viene a sapere dalla figlia stessa, decisa, ormai, a seguire la madre. “Mamma io voglio stare con te, non voglio vivere con gli altri, tu sei la mia mamma e senza di te non sono niente, qualsiasi scelta farai io ti seguirò”. Da allora Giuseppina vive insieme ai suoi figli. Sa che non torneranno mai più a Rosarno. Lei ha trovato il Casablanca pagina 34

coraggio di dare un taglio radicale alla sua vita, senza rinnegare il suo passato. Ha sempre riconosciuto le sue responsabilità all’interno della cosca, ma il suo desiderio di libertà e la sua consapevolezza di donna sono stati più forti dei legami di sangue. Ha voluto sottrarre le figlie e il figlio maschio a un mondo, quello della ’ndrangheta, destinato a crollare per mano delle donne. Il processo denominato “All’Inside 2” sta andando avanti al tribunale di Palmi. Giuseppina continua a svelare i segreti di una famiglia di ’ndrangheta, resa potente anche dalla collusione di politici, magistrati e uomini delle forze dell’ordine, di cui lei sta continuando a fare i nomi.

Il Clan Pesce I PESCE sono una delle più potenti cosche della ’ndrangheta della piana di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria. Contano su un esercito di affiliati inquadrati in 30 “locali” e in una miriade di ’ndrine, con interessi che si estendono da Reggio Calabria a Milano. Il clan, insieme ai Piromalli, ai Mancuso e ai Molè, gestisce tutti i traffici dell’area di Gioia Tauro, dal porto alla droga, dalle estorsioni al controllo dei mercati agricoli. Al nord sono attivi a Milano, specialmente nel quartiere di Quarto Oggiaro. All’estero, insieme ai Bellocco hanno collegamenti con la criminalità austriaca, greca, libanese, tedesca e francese. Sono i fondatori dei Basilischi, la quinta mafia nata a Potenza.


La palomba deve volare

Gocce che scavano il marmo Precario e Minacciato Rosita Rijtano Il numero dei cronisti minacciati in Campania aumenta e scalza la Calabria. Aggressioni, minacce, insulti, di tutto. La libertà d’informazione? Ha vita molto difficile, anche se c’è chi sostiene che i giornalisti possano dire ciò che vogliono. Non la pensano così Tina Palomba, Giovanni Taranto ed altri che hanno vissuto sulla loro pelle lo scontro con i delinquenti raccontati sulle pagine dei loro giornali. Comunque, prudenza sì, passi indietro no. Oppure ostinazione, ironia e documentazione, così come fa da Radio Siani Amalia de Simone per rispondere alle intimidazioni. Ciliegina: pare che la maggior parte dei minacciati siano giornalisti precari. Nomi sconosciuti, volti anonimi, non vale la pena di preoccuparsi nel manifestare solidarietà. “La palomba deve volare” - si dicevano nelle intercettazioni i due camorristi. Una specie di slogan, ma... mai un raid così eclatante: due taniche di benzina incendiate sotto casa con l’obiettivo di farle saltare in aria la macchina. Troppo anche per una coraggiosa cronista di strada. Guardando la sua auto avvolta dalle fiamme, Tina Palomba ha avuto paura. Da dieci anni scrive di nera e giudiziaria per il quotidiano “Cronache di Caserta”. Ha subìto di tutto. Aggressioni in redazione, insulti nelle aule giudiziarie, persino l’ironia dei boss: “La palomba deve volare”. “È un incubo terribile che mi tormenta ogni notte”, confessa.

Dal 22 giugno scorso la sua attività si è drasticamente ridotta. Prima scriveva quattro articoli al giorno. Ora al massimo due. “A me dispiace molto, ma per tutelarmi l’azienda ha chiesto di rallentare il ritmo. C’è chi sostiene che i giornalisti possano dire ciò che vogliono. Niente di più falso. La libertà d’espressione è un’utopia”. Tina non è la sola a pensarla così. È l’alba dell’11 ottobre 2011, i parenti del boss Salvatore Belviso invadono le stanze di Metropolis, quotidiano d’assalto della provincia di Napoli. La richiesta: “Non stampate quel giornale”. “Siamo nelle loro mani”, spiega il direttore della radio/tv Giovanni Taranto. “Sanno dove abitiamo, dove lavorano i nostri coniugi e Casablanca pagina 35

vanno a scuola i nostri figli”, dice. La sua filosofia? Prudenza sì, passi indietro no. “Se c’è una notizia si segue, senza fare sconti né al colletto bianco né al camorrista. La nostra non è una scelta di eroismo. Non indossiamo la calzamaglia. Cerchiamo solo di fare il nostro mestiere al meglio. E ciò non dovrebbe comportare gravi rischi in un paese civile”. PRECARI E MINACCIATI In Italia sono 925 i giornalisti minacciati dal 2006 a oggi. I nomi spesso sconosciuti. I volti anonimi. A rivelarlo è il rapporto 2011/2012 di Ossigeno per l’informazione, osservatorio sui cronisti vittime di violenze e gravi abusi. “Sono gocce che scavano il marmo”, ripete da anni il fondatore, Alberto Spampinato, che denuncia una piaga sotto gli occhi di tutti. Ma di cui nessuno


La palomba deve volare parla: “L’Italia è l’unico paese europeo in cui l’informazione è parzialmente libera. Lo dicono le maggiori istituzioni internazionali e lo dimostrano i nostri dati”. Non solo. “Ciò che conosciamo è solo la punta dell’iceberg. Gran parte dei giornalisti minacciati non ha la forza di denunciare. Come le vittime d’usura e stupri, si vergognano della violenza subita”. Secondo le stime di Ossigeno sono oltre diecimila le vittime dirette o indirette di intimidazioni su un totale di 110.000 iscritti all’Ordine, per lo più precari. Cifre da capogiro che crescono

vertiginosamente: da 78 a 95 casi in un anno con la Campania che scalza dal primato la Calabria raggiungendo quota 22. “Nella nostra regione - commenta il presidente dell’Ordine dei giornalisti campani Ottavio Lucarelli - ci sono pesanti condizionamenti da parte della malavita organizzata. Alcuni colleghi sono sottoposti a forme di tutela. Ma le minacce non hanno impedito ai cronisti di raccontare i fatti in un territorio ad alta densità criminale”. A Radio Siani, presidio di legalità nel cuore di Ercolano, Amalia de Simone ha un modo particolare di

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affrontare le intimidazioni. Ostinazione, ironia e documentazione: sono le parole chiave. “Se vuoi che ti dica che ho paura tanto da non poter dormire la notte, lo faccio”, scherza. “Ma in realtà credo che in Italia il problema non siano le minacce. È il precariato la vera pistola puntata alle spalle del cronista”. .


SOS per i giornalisti messicani

la

Rivoluzione?

Difficile non è con twitter Cynthia Rodriguez La libertà di informazione in tutto il mondo è scomoda e vive momenti scoraggianti. In Messico, dove i narcotrafficanti dominano, i giornalisti e tutti coloro che operano nell’informazione sono in pericolo. Lo Stato o si gira dall’altra parte o interviene duramente su coloro che dallo Stato attendono protezione e giustizia. Così, l’autocensura dei media per proteggersi, va di pari passo alla censura del governo che aggredisce, perseguita, attacca. Per “perturbazione dell’ordine pubblico”. Un’assurda complicità? In Messico essere giornalista nei tempi della così detta “guerra contro il narcotraffico” significa vivere in pericolo di morte, stare tutto il tempo con la paura di essere minacciato, sia da un delinquente, sia da un funzionario. Alcune settimane fa, l’Organizzazione Articolo 19, che difende in tutto il mondo la libertà di stampa, ha dichiarato che in Messico la violenza contro i giornalisti non proviene soltanto dai cartelli della droga, c’è anche lo Stato, divenuto complice della violenza nei confronti dei mass media in tutto il Paese. Così, l’autocensura dei media come autoprotezione va di pari passo alla censura del governo. Insomma, lo Stato, invece di proteggere i giornalisti, chiude gli occhi, oppure toglie le risorse per ridurli al silenzio. Le cifre sono terrificanti. Nel 2011 ci sono state 172 aggressioni che avevano a che vedere con l’esercizio della libertà di stampa. Sono stati assassinati nove giornalisti, due lavoratori dei

media, due comunicatori sperduti. Otto aggressioni con armi da fuoco o esplosivi contro alcune sedi di giornali. Dal nord al sud, le aggressioni stanno crescendo con rapidità su tutto il territorio nazionale, e il governo, invece di offrire e dare protezione, aggredisce, perseguita, criminalizza e attacca. Gli stessi funzionari che, in teoria, dovrebbero investigare e impartire giustizia, quasi sempre sono coloro che cominciano le azioni contro giornalisti, fotografi e cameraman, dicendo, per esempio, che sono gli stessi giornalisti che lavorano con la criminalità organizzata. Oppure, sostenendo che sono stati ammazzati per problemi passionali. LA STRAGE DI VERACRUZ Recentemente l’organizzazione Journalist sanz Frontieres ha informato che in Messico, in un Casablanca pagina 37

decennio, sono stati ammazzati 83 giornalisti. A maggio di quest’anno, in un solo mese, nello stato di Veracruz hanno ucciso cinque giornalisti, e l’anno scorso sono stati uccisi: Luis Emanuel Ruiz Carrillo, Noel Lòpez Olguìn, Pablo Aurelio Ruelas, Miguel Angel Lòpez Velasco. Sempre a Veracruz, la Procura

dello Stato, ha arrestato due blogger accusati di “terrorismo e sabotaggio”, pare volessero “alterare l’ordine” attraverso Twitter, il social network. Il pretesto giusto per il governatore Javier Duarte che ha presentato un’iniziativa di legge per riformare il Codice Penale e creare il reato di “perturbazione


SOS per i giornalisti messicani dell’ordine pubblico”, che permetterebbe di perseguitare

dell’informazione con una sola sentenza di condanna. Per alcuni analisti questi sono i sintomi non solo In Messico la stampa subisce più dell’incompetenza ma aggressioni da chi rappresenta il anche della complicità potere dello Stato che dagli stessi dello Stato. criminali, che dovrebbero essere Insomma, un governo inefficiente e aggressivo contrastati da chi il potere gestisce. i cui responsabili sono qualsiasi persona che faccia delle l’esercito, la marina. Ogni polizia affermazioni che il governo municipale, statale e federale. consideri non convenienti. O che, Loro sono indicati come i secondo il potere, metta in colpevoli di sei su dieci abusi pericolo la pace sociale. contro i rappresentanti dei mass La “Fiscalìa Especial para la media. Atenciòn de Delitos Cometidos Invece, le aggressioni da parte di contra la Libertad de Expresiòn”, soggetti che appartengono alla un ufficio governativo fatto criminalità organizzata rapapposta per seguire i casi dei presentano il 13,37 per cento. giornalisti uccisi o minacciati, in Anche se la delinquenza organizsei anni di esistenza ha avuto due zata si attribuisce una di ogni sette nomi diversi, quattro direttori delle aggressioni nel Paese. diversi e ha utilizzato solo il Un paradosso perverso! quattro per centro del suo budget In Messico la stampa subisce più previsto per poter prevenire il aggressioni da chi rappresenta il pericolo verso i giornalisti che potere dello Stato che dagli stessi denunciano delle minacce. Ad criminali, che dovrebbero essere oggi, ha rinviato a giudizio contrastati da chi il potere soltanto ventisette operatori gestisce. Il governo risulta,

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quindi, un attore assente, oppure un complice oltre che violento. Difficile da capire e da accettare però è così. I funzionari pubblici in Messico sono, secondo questo report, la principale fonte di pericolo per i giornalisti, perché in più della metà delle aggressioni registrate sono coinvolti funzionari della pubblica amministrazione o delle forze di sicurezza. Davanti a questa violenza, i giornalisti cercano di proteggersi togliendo la firma o semplicemente conservando il silenzio in tutto ciò che riguarda la criminalità. Tortura, morte e messaggi scritti sugli striscioni dove si può leggere: “Questo mi è accaduto per dare informazione e scrivere ciò che non si deve. Curate bene i vostri testi prima di scrivere la notizia”.


SOS per i giornalisti messicani

Giornalisti messicani uccisi quest’anno DATA 6 gennaio

28 aprile

3 maggio

13 maggio

18 maggio

14 giugno

NOME Raúl Régulo Garza Quirino

TESTATA Collaboratore del settimanale ULTIMA PALABRA a Cadereyta, Nuevo Leòn. Ucciso dentro la sua macchina. Corrispondente del settimanale Regina Martínez Pérez PROCESO a Veracruz. Uccisa dentro il suo appartamento. Gabriel Huge, Guillermo Luna Fotografi dei giornali NOTIVER, VERACRUZNEWS e DIARIO e Esteban Rodríguez AZ. Sono stati ritrovati morti con segnali di torture in un fiume nella città di Veracruz. Era giornalista di EL SOL DE René Orta Salgado CUERNAVACA. Fu ritrovato morto dentro la sua macchina nello stato di Morelos. Lavorava per i giornali EL Marco Antonio Ávila García REGIONAL DE SONORA e DIARIO SONORA DE LA TARDE. Fu rapito un giorno prima di essere stato trovato morto a Ciudad Obregòn, Sonora.

Víctor Báez

Era corrispondente del giornale MILENIO, fu rapito e ucciso nella città di Xalapa, Veracruz.

Cynthia Rodrìguez è una giornalista messicana che da sei anni vive in Italia. Fa la corrispondente per il settimanale PROCESO, e alcuni giornali, fra cui EL UNIVERSAL ed EXCELSIOR.

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Lancia sassi perché sogna la Libertà

Kefah Lancia sassi perché sogna la Libertà Mara Bottini Bernaw C’è stato un periodo in cui di apartheid si parlava. Ne abbiamo parlato. E per quei ragazzi che lanciavano pietre contro i carri armati si provava tanta solidarietà. Forse anche tenerezza. Rispondevano ad un esercito armato fino ai denti lanciandogli contro sassi. Nessuno più ne parla, ma loro sono ancora lì, sventolano bandiere e lanciano pietre contro gli israeliani che passano dal chekpoint. Oppure, attraverso Internet, denunciano lo stato di prigionia in cui sono costretti a vivere, nei campi profughi. Kefan è uno di loro. Vive nel campo di Jenin. È disperato perché senza lavoro e libertà. Vorrebbe morire. Si chiama Kefah Esam. Ha 22 anni. È disperato. Niente di strano, siamo in Palestina. Qui i giovani devono solo scegliere se morire sotto i colpi di un drone israeliano, come a Gaza; falcidiati da un mitra israeliano, come in West Bank o Cisgiordania, oppure vivere senza lavoro e libertà, come in tutti i Territori Occupati. Comunque, si difendono. Loro, sono guerrieri. Provano a reagire. Lanciando sassi, sventolando bandiere. (Che terroristi!). Radicati sul territorio, stanno lì a presidiarlo da altre invasioni. Oppure comunicando su Internet. Tessendo contatti con il mondo, denunciando lo stato di prigionia in cui la violenza dell’apartheid sionista li (de)tiene. La loro ribellione. Kefah vive e muore d’inedia nel campo profughi di Jenin. La famiglia è di Jaffa. Ma la città dei suoi avi ora è diventata terra d’Israele e Kefah non l’aveva mai vista: ci è andato in visita il mese

scorso, giusto per dieci ore, il tempo accordato dalle forze di occupazione. UN POPOLO SENZA STATO Sono profughi. Si sa. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) “I rifugiati palestinesi sono persone il cui normale luogo di residenza

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era la Palestina tra il giugno 1946 e il maggio 1948, che hanno perso tanto le loro abitazioni quanto i loro mezzi di sussistenza come risultato della Guerra araboisraeliana del 1948”. Quello di profugo palestinese è uno status ereditario e così dai 700 degli anni Cinquanta oggi sono oltre 5 milioni (fonte ONU). I discendenti - come Kefah - degli scacciati del 1948 prima e del 1967 dopo, sono sparsi nei 59 campi del Middle East. Naturalmente uno dei nodi fondamentali dei negoziati di pace è sul diritto al ritorno dei profughi. Che Israele nega decisamente. A 26 km da Nablus, il campo di Jenin è tristemente famoso per un altro eccidio, quello che le forze di occupazione d’Israele compirono in undici giorni - dal due al diciannove aprile - nel 2002. La fonte israeliana parlò di 100, massimo 150 morti, per l’autorità


Lancia sassi perché sogna la Libertà palestinese si è trattato di oltre 500 cadaveri seppelliti in fosse comuni. Ancora oggi a distanza di tanti anni Jenin Camp è un simbolo di coraggio e resistenza. “In quale altro modo possiamo spiegare la resistenza di questo piccolo campo profughi, lungo e largo meno di un chilometro quadrato, andata avanti per giorni nonostante l’assalto di centinaia di carri armati, elicotteri Apache, e migliaia di assassini addestrati che chiamano soldati?”. Si legge su arabcomint.com. Fondato nel 1953 come tendopoli per ospitare migliaia di profughi scacciati dalle varie aree della Palestina invasa da Israele, il Camp testimonia tenacia e abnegazione. Il ricordo di questo intervento militare senza precedenti è ancora vivo, ma, nessuna commissione d’inchiesta nazionale o internazionale è stata mai autorizzata per quella tragedia.

Un film che appassiona, stringe il cuore. Fa sentire impotenti. Non è frutto di fantasia, è accaduto realmente.

Dov’era il resto del mondo? Dove eravamo tutti? ORGOGLIO PALESTINESE “Qui - spiega Kefah - tutti sono orgogliosi di far parte del Campo, è la sola terra che ci sia rimasta spiega - ma io sono stanco di vivere senza libertà. Sono così stanco che vorrei togliermi la vita. Non vedo futuro e odio questa condizione (costrizione, ndr)”. La dignità di Kefah è immensa. Parla del suo possibile suicidio senza scomporsi: la morte è talmente normale qui a Jenin Camp che influenza la vita. E la compromette. Tanto che a 22 anni uno vuole uccidersi. Parlo con lui, gli ricordo il motto palestinese “Resist to exist”, “Resistere per esistere”, gli dico che quella di lottare per non morire è una dura

richiesta di riconoscimento, reiterata quest’anno nel palazzo delle Nazioni Unite dal Presidente Abu Mazen, subisce invariabilmente - il veto di USA e Israele. “Dopo quello che ho vissuto, che senso posso dare alla mia vita?” si è chiesto qualcuno. Ecco, il senso della sua vita Kefah non riesce a trovarlo. Non si capacita di non avere una vita normale. Non pretende niente di più di quello che hanno i suoi coetanei nel vicino Israele. Scuola, fognature, cibo, lavoro, libertà di movimento. Sul suo profilo di Facebook si sfoga con tanto di firma. Kefah è un nickname, presentarsi per nome e cognome è troppo rischioso, tuttavia sulla sua pagina fb ha scritto: “Terrorist?! I’m a terrorist?! How a terrorist and I live in my country?! Terrorist?! You are a terrorist! Eat me and I live in my country!!!! Kefah” (Terrorista? Io sono terrorista?

Paolo Pellegrin – classe 1964 – è un fotografo della Magnum. I suoi scatti in giro per il mondo rappresentano una realtà mai cristallizzata. I suoi sono sguardi immobili e insieme dinamici. Fermi ed espressivi, imponenti, silenziosi e assolutamente umani. Portfolio Palestine, è una raccolta fotografica che da Gaza a Betlemme, dalle rive del Mar Morto fino a Gerusalemme, ritrae con espressività e rispetto la condizione palestinese. Sono per lo più foto in bianco e nero: dell’aeroporto Yesser Arafat di Gaza raso al suolo, del muro che corre lungo i confini israelo-palestinesi in West Bank, di un settler israeliano armato, di bambini che giocano tra le rovine. Poi c’è questa immagine a colori: Two Palestinian girls bathing in Ein Gedi, along the shores of the Dead Sea, 2009, courtesy © Paolo Pellegrin/Magnum Photo/ Galerie Italienne Paris, dove ritrae la solitudine di un popolo in conflitto pur raccontando un istante di contentezza. Il bagno delle due ragazze è liberatorio, struggente nel tramonto: un attimo assoluto e intimo. Emoziona. Del resto, dall’Iran al Libano, dalla Cambogia al Kosovo fino al Giappone o all’Indonesia devastati dallo Tsunami, Pellegrin testimonia le guerre, le calamità e la vita con un’intensità straordinaria. Lavora per il Newsweek magazine, vive tra Roma e New York, ha vinto numerosi premi, come il World Press Photo, e pubblicato una decina di libri.

Una sciagura raccontata e ricostruita nel film Jenin Jenin di Mohammed Bakri. (http://www.youtube.com/watch? v=ZE2-KfY25Xw).

eredità del suo popolo ma è anche la forza della sua gente e di questa nazione senza Stato. Ancora oggi la Palestina non è riconosciuta dall’ONU e la Casablanca pagina 41

Come posso essere terrorista se vivo nella mia Terra? Terrorista! Tu sei terrorista! Mi mangi e io vivo nella mia terra).


Lancia sassi perché sogna la Libertà È chiaro, cerca un aiuto. Un aiuto che io non posso dargli. Non posso fargli la lettera d’invito per venire in Italia: mio marito è di Gaza, abbiamo da pensare alla sua famiglia, ai tanti nostri amici gazawi che come Kefah sognano di lasciare la guerra. Sembra crudele ma non c’è alternativa. Ho parlato di Kefah, potrei scrivere di Ahmed, Naveed (lui è del Kashmir: anche lì la situazione è drammatica), Mohammed, Usaym, Bassam, Amir, Omar. Tutti chiedono aiuto, vorrei aiutare tutti e non ho i fondi e le energie. Soprattutto manca il denaro. Magari chi legge ha voglia di conoscere Kefah sul social network

(https://www.facebook.com/kefah .esam) e magari aiutarlo a crearsi un futuro. Con un contributo economico, o con una lettera

d’invito (indispensabile per la richiesta di visto italiano). O semplicemente, come me, con la

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vicinanza virtuale. E non stupirti, caro lettore, se a metà conversazione Kefah ti saluterà con uno sbarazzino see you: c’è un chekpoint alle porte della città di Jenin e Kefah, con i suoi amici, si prepara a lanciare sassi contro i tank israeliani. Non stupirti. Lui sogna di costruirsi un’esistenza diversa fuori dalle sbarre del campo profughi ma nel suo sangue, nel DNA c’è e rimane la volontà, l’imperativo, di resistere agli oppressori d’Israele. Resistere è tutto ciò che può fare, opporre resistenza è il suo destino. Quella resistenza che permette a lui e al suo sfortunato popolo di sopravvivere, nonostante tutto. Salam alikom a tutti.


Una bella idea… giriamo in bicicletta!

Come è delizioso andar … bicicletta Sindaco facciamo un giro in bicicletta? Daniela Gambino Il traffico di Palermo da molti palermitani e soprattutto dai forestieri è considerato una vera e propria piaga. Tanto che Leoluca Orlando lo inserisce fra i punti programmatici della campagna elettorale: incentivazione dell'uso delle piste ciclabili. Per adesso il neoeletto è alle prese con mille urgenze, ma i promotori delle piste e gli amanti della bici attendono e nel frattempo lo invitano ad una bellissima passeggiata in bicicletta. Sembrerebbe un argomento ameno, ma per chi vive a Palermo non è così. Ecco perché nasce salvaiciclisti.it, un movimento popolare che chiede città a misura di bici. Il primo a dirlo è stato Benigni, c’è quella battuta dell’avvocato “zio” nel film Johnny Stecchino ormai diventata un must “… È nella terza di queste piaghe che veramente diffama la Sicilia e in patticolare Palemmo agli occhi del mondo... ehh... lei ha già capito, è inutile che io glielo dica... mi veggogno a dillo... è il traffico! Troppe macchine! È un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici famigghia contro famigghia, troppe macchine!”. Sappiamo qual è la vera piaga, ma il trraffico, detto così, con più erre, dove lo metti? Un mio amico, nordico, notò una sera che il traffico di Palermo è sì, rabbioso, invadente, sconclusionato, però tutti

vanno piano, altrimenti non si spiega come mai la maggior parte della gente sopravviva a un

pomeriggio di ingorgo al centro, riportandosi per intero a casa, sebbene l’uso del casco, certe volte, sia un optional. Ogni tanto mi capita di incrociare, nell’ordine, una carrozzella di uno gnuri (così lo chiamavano, anticamente, il conducente, lo gnuri), un ragazzino che cavalca un Pony (ne ho visto sfilare uno, al Borgo vecchio), un Questo mio amore per la bicicletta altro ragazzetto in bici, è una necessità lontana: ci andavo a scuola, denunciava e soddisfaceva impegnato ad attraversare una via intera a tutta velocità il mio desiderio di indipendenza. su una sola ruota, 'mpinnari, come dicono qui. Questo, diciamolo, non è facile da vedere al centro di Milano, o di qualsiasi altra città, più ordinata urbanisticamente, italiana. Ogni due per tre lo sento dire: Palermo non è una città Casablanca pagina 43


Una bella idea… giriamo in bicicletta! normale, lo status che deve conseguire, più di ogni altra, è appunto quello della normalità, bisogna solo mettersi d’accordo su quali siano i parametri di questa supposta normalità. Che sarebbe: niente pony, niente impinnate, tutti col casco, niente risalita spedita sui marciapiedi per guadagnare qualche metro. Niente battuta di Benigni. Certe volte una si sente autorizzata a chiedersi cosa spinga tanto i palermitani a ridimensionare e rileggere il codice della strada a loro uso e consumo. C’è una spiegazione al lavoro nero, all’arte di arrangiarsi, ma alla rilettura del codice stradale no. Spregio del pericolo? Bisogno di andare velocemente ovunque? (Al lavoro? Ma se c’è un tasso di disoccupazione altissimo?). La verità è che i palermitani amano l’auto, in maniera evidente e spudorata, ci ho messo anni a spiegare ad amici nordici che l’idea di “facciamo una passeggiata” palermitana è mettiamoci in auto e contempliamo a passo d’uomo il lungomare di Mondello. Le passeggiate si fanno coi passi, uno dietro l’altro, o al massimo in bicicletta, cioè usando il tuo corpo, le tue gambe (o le mani come abbiamo visto fare a Zanardi in handbike) per muoverti. Questo mio amore per la bicicletta è una necessità lontana: ci andavo a scuola, denunciava e soddisfaceva il mio desiderio di indipendenza. Lo so, perché l’ho fatto. In bici puoi andare ovunque, mantenendoti in forma e senza inquinare. L’unica cosa è che un ciclista tiene conto del traffico, ma il traffico, confessiamolo, non tiene conto del ciclista (i pedalatori sono in pericolo ovunque, per questo

nasce salvaiciclisti.it, un movimento popolare che chiede città a misura di bici). Adesso non più, complice il prezzo della benzina e le bici elettriche, ma fino a qualche anno fa la tua lentezza era presa quasi come un’offesa. Palermo è perfetta per essere percorsa in bicicletta, il sole ti bacia per sei mesi all’anno. Non ci sono salite, eccetto per Monte Pellegrino, troppo impegnative. Da qualche parte si snodano piste ciclabili, invase da auto e motorini, che finiscono nel nulla, ogni tanto, senza preavviso, che nessuno mantiene, che basterebbe allungare, ripristinare, considerare come piccole arterie capaci di alleggerire il mostro “traffico” che tiene in ostaggio Palermo. Per questo, a un certo punto, io l’ho chiesto persino al Sindaco, il neoeletto Leoluca Orlando (uno dei punti programmatici della sua campagna elettorale recita: incentivazione dell’uso delle piste ciclabili), per adesso alle prese con mille urgenze, Gesip in

testa. Questo l’invito: “Diego Cammarata ignorò l’invito ma lei, Casablanca pagina 44

Leoluca Orlando! Ci viene con la sua family a fare un giro in bici con me per la città? Un bell’itinerario turistico monumentale, come fossimo turisti che la vedono per la prima volta, o un giro in centro, proviamo a immaginarci i palermitani che vogliono rinunciare alla macchina, o le mamme coi bimbi sul seggiolino della ruota di dietro, o i precari, gli ecologisti, gli studenti (di sede e fuori sede), o semplicemente i palermitani, con la bici, che vogliono uscire e pedalare con tutto questo sole o correre al lavoro. Quando scenderà dal sellino avrà le idee chiare come non mai sulle piste ciclabili, sulla circolazione del traffico, sulla sicurezza stradale. Sarà meraviglioso, sarà divertente. Faremo risuonare il campanello per tutti i vicoli! Lei queste cose le sa fare. Poi le offro un caffè o una granita per rinfrescarsi. Oppure preferisce una brioche col gelato?”. La missiva è stata recapitata, vi terrò informati dei risultati.


Diario della Pioggia di Gianni Allegra Š

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Il grande fratello … Gianni Lannes

Il Grande Fratello Di Gianni Lannes

Dalla Prefazione dell’editore (Draco Edizioni) Io non sono nessuno, e continuerò ad esserlo, mi basta essere un uomo. Figuriamoci poi come editore che rilievo posso avere, paragonato a chi oggi, in Italia e nel mondo, domina il mercato dell’informazione. Mi chiedo quindi perché devo essere io a pubblicare questo libro di Gianni Lannes. Gianni è un bravo giornalista, ha fatto inchieste importanti, ha rischiato, e rischia, la vita, solo per aver tentato di affermare la verità su alcune cose che gridano vendetta al cospetto di Dio. Perché nessuno in Italia si è preso la briga di pubblicarlo? Le scuse addotte possono essere tante, ma le vere motivazioni sono sotto gli occhi di tutti, in ogni momento. Questo mondo sta andando a rotoli, in primo luogo per colpa di ciascuno; c’è troppo poco amore per la vita, per il pianeta e per il bene comune, ed è questa condizione limitata della coscienza umana che rende possibile il fatto che ristrette oligarchie di esseri spietati, nel nome del proprio interesse, spadroneggino sui popoli della Terra, imponendo condizioni inumane ad un mondo che potrebbe essere un paradiso terrestre. Basterebbe fare della solidarietà il motore non dello sviluppo, mito tragico dei nostri giorni, ma della vita, per trasformare il pianeta in pochi anni. Eppure dobbiamo sopportare che la maggior parte delle ricchezze mondiali siano impiegate, direttamente o indirettamente, per distruggere la vita, e per ‘portare la democrazia’ in paesi che, evidentemente, non devono per nulla avere il diritto di autodeterminarsi. Questi stormi di cavallette che dominano il mondo di sicuro non si preoccupano di che cosa sta succedendo al pianeta più di quanto possa aver mangiato oggi un bambino che muore di fame. E venendo al nostro contesto nazionale, che cosa cambia? Tragicamente niente, i governi che si susseguono si preoccupano solo di partecipare al grande banchetto internazionale, per terminare il loro pasto ferale spolpando le ricchezze del nostro meraviglioso paese. Direi che la cronaca di questi ultimi anni è stata particolarmente prodiga per chi avesse mai voluto rendersi conto di come funzionano veramente le cose in Italia. Il problema è che ancora troppi credono a quella che ormai possiamo definire la ridicola propaganda di regime, fatta di cretinate televisive e di informazione falsa. I gruppi di potere che si esprimono anche attorno ai partiti sono al di là delle etichette, stringono accordi, si dividono fette della nostra vita, calpestano la nostra dignità individuale e la dignità di un popolo. E ormai quasi nulla sfugge al loro dominio, è per questo motivo che pubblico io il libro di Gianni Lannes, Il Grande Fratello, perché rientro in quel quasi. Ripeto, io non sono nessuno, e non voglio erigermi a pilastro morale, ma rivendico l’ordinarietà della dignità umana, quella dignità di tutti quegli uomini semplici che hanno creduto e combattuto per un mondo migliore, senza mai piegare la testa di fronte all’iniquità e alla prevaricazione. Difficilmente vedrete Gianni in televisione, l’editore non ha i mezzi per pagare alle cricche dominanti quei bei passaggi televisivi che ti fanno vendere tante copie in libreria. E non lo vedrete in quei bei salotti televisivi, composti e morigerati, perché egli racconta delle semplici e scomode verità, che portano a galla la vera natura di questo edulcorato, ed assassino, sistema, che mentre passa al telegiornale le immagini del piccolo di foca nato in cattività, fa affondare nei nostri mari vecchie carrette sgangherate, cariche di scorie radioattive. C’è solo un modo per uscire dalla situazione di degrado che stiamo pericolosamente vivendo: alziamoci in piedi, riprendiamoci la nostra dignità, riprendiamoci la nostra bella nazione, riprendiamoci il pianeta, dalle mani grondanti di sangue di chi si vende come paladino della pace e dello sviluppo e intanto schiaccia il pulsante che farà sganciare una bomba su un villaggio in Afghanistan. Se lo possono permettere perché ci stanno facendo il lavaggio del cervello, ma non ci deve essere più posto per la menzogna; dai ragazzi, liberiamoci del Grande Fratello, insieme si può fare. Casablanca pagina 46


… è stata una bella musica siciliana

Live to stay alive la Sicilia che si sente Annalusi Rapicavoli Sicilia: un applauso a tutti coloro che credono in questa terra tanto bella quanto difficile, tanto affascinante quanto misteriosa nelle sue dinamiche di sviluppo e mancato sviluppo. Un applauso a coloro che investono nella cultura, nelle arti, che si spendono per supportare i corpi e gli spiriti di chi vuole sporcarsi le mani lealmente e far brillare questa terra di una luce calda e accogliente che non sia solo quella del cocente sole di agosto. L’estate è finita. Anche se ci sono ancora giornate che dimostrano il contrario. Tanta gente ancora bivacca o fa i bagni a mare così come faceva ad agosto, quando il cuore dell’estate che pulsa, che viaggia, che vibra, ha fatto vibrare la Sicilia all’insegna della buona musica. La bella Trinacria dotata non di due, ma di ben tre gambe energiche e pronte a danzare e saltellare per tutta la notte è stata impegnata nella messa a punto di tre grandi festival musicali ai quali hanno preso parte gruppi nazionali ed internazionali così da ottenere un risultato soddisfacente per ogni padiglione auricolare, per ogni amante della musica, dell’allegria, dell’atmosfera del “festival”; ognuno con il suo palco, le sue luci brillanti e colorate, con le sue teste mobili che seguono ogni volteggio, con i suoi vj pronti a selezionare immagini in accordo con il groove di musicisti e dj che con la loro arte animano il tutto! A Palermo si è svolto lo storico Ypsigrock di Castelbuono, giunto alla sua XVI edizione, che ogni anno garantisce uno spettacolo musicale di altissima qualità nella suggestiva location del Castello

dei Ventimiglia costruito sul colle di S. Pietro d’Ypsigro, da cui acquisisce il nome il festival. La filosofia del festival è quella della continua innovazione, della non ripetitività, della sorpresa, della ricerca. Vige per ciò la regola detta la “ypsi once”, ossia nessun artista potrà mai suonare due volte ad ypsi con lo stesso progetto. A Noto per la seconda volta la bianca val di Noto, città patrimonio dell’UNESCO, si rimbocca le sue barocche maniche per ospitare il NOT.FEST EDIZIONEZEROUNO, promettente festival nato dalla volontà del

calcato fino ad ogni alba dagli artisti e dai ritmi più disparati. Esplode Shantel & Bucovina Club Orkestar con un coinvolgente show in cui corde di chitarre, fiati altisonanti e batteria scalpitante diffondono la giocosa e irresistibile musica balcanica; si procede con la grinta di Fujia & Miyagi che mettono in scena il loro sound pensabile entro sfumature indie-pop con accenti funky-garage rubati dall’underground newyorchese. Altro astro del festival è Sòley che, con la sua voce da sirena ammaliante e le sue dita che

direttore artistico dei Mercati Generali di Catania e dal suo staff operativo. Per quattro giorni i Mercati Generali si spostano più a sud con armi e bagagli per dare vita a quel palcoscenico che verrà

scorrono sui tasti della tastiera come scarpette da punta ai piedi di una prima ballerina, lascia il pubblico a bocca aperta sotto l’effetto dei suoi tenui e profondi toni che si innalzano tra le luci del

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… è stata una bella musica siciliana palco diventando un vero e proprio rito di magia, una magia che ti culla e ti avvolge. Non manca lo spettacolo vero e proprio quello fatto di costumi, paillettes e lustrini, di drappi svolazzanti, coreografie e coristi. È Jessie Evans che caparbia e audace calca il luminosissimo palco del Not.Fest dando vita ad una musica dai toni così vitali ed esaltanti da cui nessuno può essere esonerato, anche perché è lei stessa a scendere in mezzo al pubblico in visibilio così felicemente costretto a farle da corpo di ballo. Ogni serata si conclude con live set e dj set griffati Nikodemus, Benji Boko, Daddy g, Apparat e Miss Kittin che dall’alto della consolle scatenano le masse loro antistanti nella veste di veri e propri leader della notte! A Ragusa nella cava di Scicli invece grande successo del Sicily Music Village, un vero e proprio villaggio munito di aree per campeggiare così da poter risiedere in loco e avere la possibilità di godere della “foltissima” line up messa a punto

per il festival. Musica nei piedi, tra le mani e nelle orecchie H:24 tra dj set, live set e i veri e proprio concerti live. Il Sicily ha scelto una cava proprio perché si preparava a fare rumore con la presenza di Alborosie, Dirtyphonics, Barrington Levy, Aphrodite. Le coste della bella Trinacria hanno dunque offerto oltre che un meraviglioso scenario naturalistico, oltre alle sue bianche o nere spiagge, oltre alle sue alture verdi e refrigeranti nelle quali fare lunghe passeggiate rigeneranti, oltre alle sue città ricche di cultura, folclore, storia e vita, hanno offerto anche un ricchissimo scenario musicale conferendo estrema importanza ai concerti live, a quei live che permettono di restare “alive”, che danno la possibilità dell’interazione, della comunicazione, dell’improvvisazione. Quei live che ci sarà un motivo se si chiamano “live”, che portano in scena l’amore e la passione di chi la musica la crea, di chi lo spettacolo lo inventa volta per

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volta con il rinnovato intento di “dare e darsi” al pubblico, di rilasciare insieme alle note qualcosa di sé, di far scoppiare alte e basse frequenze che urlano che la musica è vita e che in ogni cosa risuona il ritmo della vita!!! Niente in contrario per i djset che ci fanno ballare e ancheggiare fino allo sfinimento, che ci immettono in un turbinio di vibrazioni cangianti e salti sorprendenti nell’attesa del mixaggio più entusiasmante e meglio eseguito, e per favore niente cavalloni, così come il gergo indica un cattivo passaggio da un pezzo all’altro, quelli li preferiamo al mare!! Morale della favola, le colonne sonore sono le colonne portanti di ogni trama, e quelle tessute dalla Sicilia per rendere piacevole questa calda estate sono state tutte una colonna sonora da applauso.


…Lettere

Lettere LETTERA APERTA ALLA COMPAGNA CAMUSSO Cara compagna, ho appreso, nel corso di una riunione alla CGIL, che saresti presto venuta, domenica 14 ottobre all’Hotel Excelsior. Soltanto per un momento ho collegato l’evento alla drammatica crisi del lavoro che domina le nostre comunità ed alla necessità di preparare la manifestazione del 20, premessa, forse, di uno sciopero generale. Un’azione di lotta molte volte promessa, deliberata, minacciata e sempre rinviata in ossequio alla politica di unità nazionale che, Monti duce, il PD persegue ed impone. Una grave ingenuità la mia. Si tratta soltanto di una manifestazione elettorale di sostegno alla Segretaria Generale della CGIL Sicilia ed al suo candidato presidente Rosario Crocetta; ammetterai che si tratta di una scelta pesante, alcuni dicono sconcertante. Certo, nel tempo non sono mancate iniziative simili. Basterà ricordare, alle ultime amministrative, il tonfo della segretaria di Agrigento e, prima ancora, di Italo Tripi. Non sappiamo se analoga sorte colpirà Mariella Maggio. Il problema vero è che è in atto da anni, in forma pubblica o sotterranea, la tendenza a trasformare la CGIL in un comitato elettorale del PD e che questa tendenza è tanto più grande quanto minore è l’insediamento sociale delle due organizzazioni. Ricordiamo l’esito infelice di Faraone a Palermo nonostante il visibile appoggio della SLC. Un caso di familismo sindacale che articola la più vasta categoria del familismo amorale. Ora il problema è questo: posto che la CGIL ha dichiarato l’incompatibilità tra cariche sindacali e mandato elettorale, e conseguentemente l’indisponibilità delle strutture nella competizione, cosa deve intendersi per struttura? La/il Segretaria/o è una struttura. È naturalmente del tutto legittimo che la compagna Camusso si batta per le sue idee ma è del tutto inopportuno che entri così pesantemente in campo. Il problema è ulteriormente complicato dalla natura della coalizione che viene a sostenere e che è in assoluta continuità con la devastante esperienza Lombardo e dalla manifesta volontà, al di là della concorrenza elettorale, di ricongiungersi, nel governo, delle due frazioni in cui si sono divisi i lombardiani: Crocetta e Miccichè. E che di unità, sotto l'egida della Confindustria Sicilia, si tratti è mostrato dal reciproco riferimento alla manifestazione interclassista, di unità sicilianista, del 1° marzo, unica originale iniziativa del sindacato siciliano. Che l’esperienza Lombardo sia stata disastrosa ci è stato detto chiaramente dalla Corte dei Conti, dalla UE, da tutti. È facile, è ragionevole, chiunque lo capisce, ma è una semplicità che è difficile da fare. Così è stato per il PD siciliano che, dopo lacerazioni interne, ha minacciato, a dimissioni di Lombardo già annunziate, una mozione di sfiducia ma non ha avuto il coraggio di presentarla. Come diceva don Abbondio, non c’è nulla da fare: se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare: È stato difficile trovare nella CGIL siciliana qualcuno che abbia dato un giudizio positivo su Lombardo. Mariella Maggio ha sempre dosato i suoi commenti, spesso analiticamente acuti, ma non ha mai mosso un muscolo per interrompere quell’esperienza. Solo tu, in un’intervista alla “Sicilia”, quando già incombeva sul Presidente l’inchiesta Iblis, hai dato una valutazione moderatamente ottimista: Avevamo sorvolato pensando “viene dal continente, non sa di che cosa parla, cu sapi chi ci ’ncucchiaru”. Ora comunque, se Crocetta ti sta bene, bene! Ognuno porta su di sé la croce delle proprie responsabilità. Ma se non possiamo convenire su questo giudizio, almeno possiamo condividere valutazioni, diciamo, di natura estetica: Crocetta è impresentabile. Nelle sue lunghe dichiarazioni alla stampa, nelle decine e decine di pagine a pagamento sui quotidiani e settimanali, il suo è un linguaggio violento verso gli avversari, o, più semplicemente, verso quelli che non condividono il suo percorso. A questi spettano o gli appellativi di checche isteriche o di terroristi (Renato Curcio sarebbe l’unico più a sinistra di lui). Naturalmente, verso le donne, il tono è più leggero. Così Giovanna Marano è soltanto “scema” e comunque si Casablanca pagina 49


…Lettere può sanare la gaffe inviandole un cesto di rose. Il peggiore maschilismo siculo. Ci saremmo aspettati da te, da Mariella Maggio, un sia pur timido distinguo. Ad una prestigiosa dirigente sindacale, così come ad ogni compagna/o è dovuta quella solidarietà che costituisce il filo che dovrebbe unirci nella CGIL. Al di là del vincolo associativo avrebbe dovuto muoverti quella forte solidarietà di genere che pure, con forza, e più volte, hai evocato anche in occasione dello SNOQ. Per questo non verrò ad ascoltarti. Raccoglierò firme per i referendum 8x18 che tu così irragionevolmente osteggi. Con immenso rammarico Un vecchio compagno della CGIL Gabriele Centineo UNA TORTA ROSSO FIOM Lettera di Antonio Di Luca pubblicata su fb il giorno del suo compleanno e della vittoria Fiom 19 ottobre 2012 Oggi non è solo il compleanno di un semplice operaio da oltre quattro anni in cassa integrazione forzata che festeggia mestamente con la moglie e i suoi tre figli, dove l’ultimo, Marco di appena quattro anni ha voluto fortemente fare una torta insieme alla mamma di colore rosso FIOM - giuro che sono state le sue parole - ma è la giornata in cui una nuova sentenza della Corte di Appello di Roma ha condannato nuovamente la Fiat. Dopo le sentenza di settembre 2011, di giugno 2012 e agosto 2012 a Pomigliano dunque Marchionne non è passato. Non è passata la sua strategia di cancellare, insieme ai diritti, il rispetto delle leggi, la dignità del lavoro. Con la forza della ragione, dell’etica e del cuore, la FIOM ha vinto. La lotta di resistenza della FIOM credo abbia pochi precedenti nella storia del movimento operaio italiano. Ora, questa lotta vissuta per lunghi mesi nell’isolamento più assoluto, è diventata un simbolo di resistenza per tutti. Un simbolo di libertà che ora più che mai deve interrogare l’intero paese. Anche quel mondo della cultura che non si era accorto che attraverso un accordo farsa, piani fatti e disfatti con disinvoltura dal management, non solo si voleva affermare un sistema di relazioni industriali autoritario, ma in realtà s’intendeva mutare i caratteri culturali, democratici, civili e sociali dell’intera comunità nazionale. Ecco perché questa sentenza avviata da 19 coraggiosi operai, tra cui chi vi scrive, riguarda tutti, e spero faccia riflettere ancora una volta tutte quelle forze democratiche, che le discriminazioni sono la forma più odiosa che possa esistere in un paese che ama definirsi civile ed europeo. Un grazie a tutti per gli auguri e per l’affetto. Vorrei abbracciarvi una/o ad una/o e portare con me in fabbrica a testa alta tutte le compagne e i compagni ancora esclusi, compresi quelli che non hanno avuto la forza di combattere, oppure chi, nella paura, viveva in solitudine il suo dramma. Tutti in fabbrica entro Natale, per regalarci finalmente dopo anni di tristi festività un ri-scatto di dignità e forza contro chi ci vuole in contrapposizione, deboli e ricattabili. LETTERA APERTA A SUSANNA CAMUSSO pubblicata su facebook da Pietro Milazzo il giorno Venerdì 12 ottobre 2012 alle ore 12.58 Cara Susanna, sono PIETRO MILAZZO, un dirigente della CGIL siciliana e coordinatore regionale dell’area LAVORO e SOCIETÀ, l’area che, come Tu sai perfettamente, governa assieme alla sensibilità maggioritaria che Tu rappresenti, la CGIL nazionale. Ti scrivo questa lettera, usando una forma inusuale, come questa nota su un social network, perché voglio ESTERNARTI PUBBLICAMENTE e PERSONALMENTE, senza limitarmi al mugugno nelle stanze della CGIL o a documenti per linee interne, il mio DISAGIO ed il mio DISSENSO per la Tua scelta di scendere in campo personalmente, partecipando a iniziative elettorali, a Palermo e Catania, in sostegno alla candidatura della nostra ex segretaria regionale Mariella Maggio, presente nel listino ed in una delle liste del candidato Casablanca pagina 50


…Lettere presidente Crocetta. Ovviamente nessuno contesta il Tuo diritto di cittadina e di elettrice di sostenere chi vuoi, ma reputo che ci siano alcune questioni di opportunità e di metodo che devono essere assolutamente prese in considerazione e che non sono state sufficientemente considerate. L’art. 2 dello Statuto della CGIL, quello che regola ed elenca i principi fondamentali, recita: “La Cgil è un sindacato di natura programmatica ed è un’organizzazione unitaria e democratica che considera la propria unità e la democrazia come propri caratteri fondanti. La stessa autonomia della CGIL, anch’essa valore primario, trova il suo fondamento nella capacità di elaborazione programmatica in primo luogo nei confronti dei datori di lavoro, delle istituzioni e dei PARTITI e nel carattere unitario e democratico delle sue regole di vita interna”. Dunque i valori primari per la CGIL sono l’autonomia, anche da istituzioni e partiti (o coalizioni di partiti), l’unità, la democrazia regolata dalle regole interne. Il nostro compito primario, come dirigenti della CGIL che rispettano la nostra carta costituzionale, lo Statuto, è di operare per l’unità e l’autonomia, in tutela della natura e della storia della nostra organizzazione, ma non solo. La CGIL è un’organizzazione sociale, un corpo sociale complesso, il più grande d’Italia, nel quale convivono sensibilità ed opzioni politiche diversissime, ma tutte ispirate alla lunga, travagliata, frastagliata, storia del movimento dei lavoratori e delle forze politiche che ad essa si sono ispirati o che da esso sono scaturite. La Cgil rimane l’unico laboratorio politico

UNITARIO presente in Italia dove continuano a convivere con un difficile, complesso ma utile dibattito interno tutte le sensibilità principali presenti sul terreno della sinistra politica. Tutto ciò rappresenta un valore aggiunto fondamentale che è decisivo per tutti tutelare. Tu sai, perfettamente, Susanna che in Sicilia l’area progressista, le cui componenti sono presenti in CGIL, sono divise e concorrenti... come le CANDIDATURE, in contemporanea, di GIOVANNA MARANO, ex segretaria regionale della FIOM CGIL SICILIA e di MARIELLA MAGGIO, ex segretaria generale CGIL SICILIA, attestano in modo eclatante. Credo, compagna SUSANNA, che Tu, in un contesto così DELICATO e DIFFICILE, nel Tuo ruolo di SEGRETARIA GENERALE nazionale, quindi non una dirigente qualunque, ma di titolare del massimo grado di rappresentanza politica della nostra organizzazione, AVRESTI DOVUTO ASTENERTI da scendere in campo, legittimando una candidatura, rispetto ad un’altra. TU DEVI ESSERE e RESTARE la MASSIMA GARANTE di questa UNITÀ, nella diversità e nel pluralismo delle idee e delle tesi politiche e partitiche, tanto più che ci stiamo avviando, sotto la spinta delle ignobili e vergognose conferme del grado di corruzione e di marciume che è presente a tutti i livelli, ad una nuova fase di transizione che vedrà nelle prossime elezioni politiche nazionali, un momento importantissimo. La CGIL che si avvia ad entrare con la sua Conferenza di programma, dopo le elezioni politiche, nella sua fase precongressuale deve essere in grado d’orientarsi e di orientare il mondo che rappresenta, in modo preciso e rigoroso, in questa fase delicatissima. Lo statuto ci indica una strada ed un compito precipuo: quello di elaborazione programmatica e confronto autonomo, terzo, con i soggetti datoriali, istituzionali e partitici. La nostra azione si svolge su quel livello non su quello dello schierarsi e scendere direttamente in campo. Questo è il compito che la fase ci impone, e ciò deve valere per TUTTE/I ed a tutti i livelli. Con rispetto per il Tuo ruolo ed il Tuo lavoro, ma anche con la fermezza di un militante che difende con accanimento il ruolo del nostro sindacato, la nostra casa comune.

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Casablanca n. 26 – La Bella Politica


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