Grandi Mostre #29

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FARNESE/PARMA • SURREALISMO/VENEZIA

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IN APERTURA / FARNESE / PARMA

L’arte dei Farnese alla Pilotta di Parma Livia Montagnoli

una piccola parte: si tratta di un cantiere ambizioso, ne apprezzeremo i risultati tra un anno.

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egli ultimi cinque anni, il complesso monumentale della Pilotta ha cambiato volto. O meglio, ha ritrovato la sua identità. Il percorso di rinascita ha coinciso con la nomina alla direzione di Simone Verde all’inizio del 2017. Fino al suo arrivo, il monumentale edificio voluto dai Farnese – prestigioso vessillo di una corte cosmopolita con mire teocratiche – ed ereditato dai Borbone aveva finito per assommare una serie di nuclei museali giustapposti, con ingressi separati, che penalizzava la visione d’insieme di un magniloquente progetto politico e culturale. Anche come entità museale, del resto, la Pilotta – che oggi raccoglie un’imponente collezione di oggetti preziosi, libri, documenti, opere d’arte, reperti archeologici, oltre a custodire il teatro ligneo della corte seicentesca, ricostruito dopo i bombardamenti del ’44 – fu concepita precocemente come unità complessa, ma discendente da un progetto unitario, che in questi anni si è puntato a recuperare. Oggi la Pilotta è ancora un cantiere aperto. Ma moltissimo è già stato fatto. Testimonianza ulteriore della rinascita che si respira visitando la “nuova” Pilotta è la mostra sui Farnese. A ventisette anni dall’ultima esposizione sul tema, l’approccio si è concentrato sulla committenza del potente casato per indagarne l’affermazione sulla scena politica e culturale tra il XVI e il XVIII secolo. L’arte, dunque, diventa strumento di legittimazione e proprio il complesso della Pilotta conferma l’assunto.

INTERVISTA A SIMONE VERDE 2017-2022. Sono trascorsi cinque anni, non semplici, perché “interrotti” dalla pandemia. Il programma di rinnovamento e riallestimento della Pilotta, però, è andato avanti. È stato, ed è ancora, molto faticoso, non posso negarlo. Ma tutto ciò che avevamo previsto si sta concretizzando. E con il Covid abbiamo fatto di necessità virtù, avendo ben presente il fatto di essere alle prese con un unicum: la Pilotta è l’unico museo enciclopedico d’Italia. Come si lavora per non snaturarne l’identità? Ogni contesto ha una storia a sé, non esiste una regola univoca. Si può però sviluppare una prassi: io ho applicato dei metodi di management culturale che si usano in tutto il mondo. Centrale è il discorso sulle mostre, che devono essere utilizzate come momento di

È difficile allestire un percorso museale in uno spazio così articolato, per fornire ai visitatori la possibilità di comprenderlo? In Italia abbiamo un’idea un po’ strana di museo, legata alle vecchie gallerie principesche: entri, contempli, esci con immagini meravigliose negli occhi, hai fatto un’esperienza immersiva, e finisce lì. Un museo non è questo. Un museo sta all’arte come una biblioteca sta ai libri: tu entri, chiedi in prestito il libro che ti serve, lo leggi, approfondisci un tema; se scopri qualcosa che non conoscevi, e ti incuriosisce, ti ritrovi ad approfondirla. Anche il museo funziona così, è un luogo in cui puoi aprire mille cassetti, e ci si torna a più riprese, per aprirne ogni volta uno diverso. Un museo è un luogo dove si vive, si torna. E dev’essere piacevole da vivere. I pubblici sono molteplici e diversi: sta a noi fornire un’offerta che generi un desiderio di scoperta. I musei possono avere un ruolo nel sollecitare un cambio di passo? I musei devono essere questo, uno strumento di educazione e istruzione permanente, che serva alla società per essere al passo della ricerca scientifica. Luoghi dove si condividono nuove acquisizioni e si attualizza il senso dell’istruzione ricevuta. Ma il museo è anche il luogo in cui si fa istruzione per recuperare il senso civile dello stare in comunità. I musei sono fondamentali, in questo Paese tanto più che in altri. consacrazione scientifica e non come specchietto per attirare i turisti, che nel secondo caso diffonderebbero un’opinione sbagliata e non qualitativa del luogo e di quello che facciamo. A che punto è arrivato il riallestimento? Cos’è stato fatto e cosa si farà ancora? Abbiamo già riallestito diversi spazi: restituendo dignità alla collezione dei fiamminghi; restaurando i saloni borbonici; riallestendo la Rocchetta Viscontea legata al mecenatismo ottocentesco di Maria Luigia, con opere che tracciano il fenomeno della riscoperta di Correggio in ambito parmigiano nel XIX secolo. Ma abbiamo anche recuperato nei depositi opere del periodo manierista, finora bistrattate, restaurandone alcune che giacevano in condizioni pessime. Non meno importante è il lavoro avviato nella Biblioteca Palatina: ci sono state nuove acquisizioni importanti. Del Museo Archeologico, invece, è stata completata solo

Del fatto che la cultura debba essere una risorsa economica, però, anche in Italia si inizia a prendere consapevolezza... Sul concetto di risorsa economica io ho molti dubbi, se non in termini di impatto indiretto. La cultura produce delle esternalità, perché rende il sistema Paese più coeso e qualitativo. I musei si reggono su una scommessa uscita dalla Rivoluzione francese: la liberazione degli uomini dal bisogno produce una creatività che avvantaggia il sistema economico e lo rende più competitivo. È una intuizione illuminista: la ragione svincolata dalla materia produce opulenza e benessere. Che poi è il principio su cui si reggono le democrazie. Se vogliamo che i musei siano risorsa economica, dunque, devono essere concepiti come strumento di creatività, centri di ricerca e innovazione, di formazione permanente, in grado di alimentare una società molto più competitiva, e dunque più ricca.


IN APERTURA / FARNESE / PARMA

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LA MOSTRA

L’EPOPEA FARNESE

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Elezione al soglio pontificio di Alessandro Farnese, con il nome di Paolo III

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Paolo III crea per suo figlio Pier Luigi i ducati di Parma e Piacenza

1539

Gli Indios donano a Paolo III la Messa di San Gregorio in seguito alla bolla Sublimis Deus

fino al 31 luglio 2022

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la Tazza Farnese, appartenuta a Lorenzo il Magnifico, entra nelle collezioni di famiglia

“Nel concepire la mostra abbiamo applicato un approccio curatoriale poco praticato in Italia, quello della storia connessa e globale, che illumina le vicende umane in ottica più ampia rispetto agli strumenti tipici della storiografia di ascendenza ottocentesca. Valutando i rapporti politici e storici tra le popolazioni si è costretti a far ricorso all’antropologia, alla sociologia e agli strumenti delle scienze sociali. Trattiamo la storia globale del collezionismo cinquecentesco attraverso il caso studio dei Farnese: collezionare non significava assommare beni, ma riedificare una prospettiva storica”. Simone Verde ha curato in prima persona la mostra che vede collaborare la Pilotta con l’Archivio di Stato di Parma, il Museo e Real Bosco di Capodimonte e il MANN, sull’asse Parma-Napoli che segnò le vicende dei Farnese. La committenza della famiglia è protagonista di un percorso sviluppato intorno a tre nuclei tematici (Architettura, Arte, Potere) e articolato tra i Voltoni del Guazzatoio, il Teatro Farnese, la Galleria Petitot della Biblioteca Palatina e la Galleria Nazionale, in oltre 300 opere. Premessa fondamentale è la Restauratio Romae di Papa Paolo III (1534-49) – come reazione al Sacco dei Lanzichenecchi e risposta all’impero di Carlo V –, che portò a codificare un’estetica classicista fondata sul cosmopolitismo di ascendenza imperiale, in cui identificare il potere del casato sotto l’egida della tradizione cristiana. Strategia mutuata nei due secoli successivi nei ducati di Parma e Piacenza. A testimoniarlo, in mostra, duecento disegni sull’opera urbanistica di “colonizzazione” del territorio, dipinti commissionati a grandi artisti dell’epoca (da Raffaello a El Greco a Tiziano), oltre ottanta rarità ed exotica che componevano la camera delle meraviglie rinascimentale dei Farnese. E molti testi e documenti d’archivio che orientano la visita.

I FARNESE ARCHITETTURA, ARTE, POTERE a cura di Simone Verde Catalogo Electa COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA Piazzale della Pilotta 15 – Parma complessopilotta.it a sinistra: Tazza Farnese, cammeo in agata sardonica, diam. 20 cm. Napoli, Museo Archeologico Nazionale © per concessione del Museo Archeologico Nazionale di Napoli in alto: Parma, Palazzo della Pilotta, Teatro Farnese, veduta del boccascena. Photo © Giovanni Hänninen

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All’interno della Pilotta si inaugura il Teatro Farnese

1708

Ranuccio II Farnese istituisce una Galleria delle cose rare e preziose alla Pilotta

1724

Negli Orti farnesiani di Roma vengono rinvenuti i due Colossi, oggi nella tribuna ovale della Pilotta

1734

Dopo l’estinzione della casata, le raccolte Farnese sono trasferite a Napoli da Carlo di Borbone


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FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO

Un nuovo museo per Torino


FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO

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Angela Madesani

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iazza San Carlo è una delle più belle piazze di Torino, il salotto della città. Al numero 156, sotto i portici, si aprono le porte di Palazzo Turinetti, un concentrato di armonia e magnificenza barocca. È la quarta sede delle Gallerie d’Italia, che Intesa Sanpaolo dedica all’arte, nello specifico alla fotografia, la quale va ad aggiungersi al prezioso patrimonio di opere di arte antica come le nove grandi tele seicentesche di proprietà della banca, realizzate per decorare l’Oratorio della Compagnia di San Paolo. Il progetto architettonico del palazzo, la sua sistemazione a museo, è a cura di Michele De Lucchi – AMDL CIRCLE.

LA FOTOGRAFIA DI PAOLO PELLEGRIN

Due sono le mostre presentate per l’occasione. La fragile meraviglia. Un viaggio nella natura che cambia è incentrata su Paolo Pellegrin (Roma, 1964), uno dei più grandi fotoreporter internazionali, che qui è stato chiamato a comporre un lavoro sul tema del cambiamento climatico. Ancora una volta ci attende una sorpresa. Pellegrin, oltre a un’indagine territoriale e sociale, compie un’analisi linguistica sul senso stesso della fotografia, facendola uscire dalla facile categorizzazione di genere. Quelle che vediamo nella mostra ordinata da Walter Guadagnini sono immagini di paesaggi antropizzati, dove l’uomo è solo apparentemente assente. Presente, invece, è la sua azione spesso distruttiva. Efficace la scelta dei punti di vista, delle luci. In talune foto, realizzate dalla Namibia all’Islanda, dall’Italia al Costa Rica, ci troviamo di fronte a manifestazioni naturali di rara bellezza. Quando il colore emerge dal fondo scuro, soprattutto nelle immagini di dimensioni più contenute, sembra di osservare delle nature morte barocche. È questa una mostra densa di opere, in cui dall’iceberg, presentato come un’opera d’arte concettuale su diversi livelli di stampa, si giunge al grande spettacolo dei fuochi vulcanici.

GLI SCATTI DELL’ARCHIVIO PUBLIFOTO

Alle Gallerie torinesi ha sede l’Archivio Publifoto, agenzia fondata nel 1937 da Vincenzo Carrese, che la banca acquisì anni fa. L’archivio sarà oggetto di mostre nel corso del tempo. La prima, intitolata Dalla guerra alla luna 1945-1969. Sguardi dall’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo, curata da Giovanna Calvenzi e Aldo Grasso, ci pone di fronte a uno spaccato della complessa storia del nostro Paese. Le foto esposte sono state ristampate ingrandite rispetto all’originale, ma al centro degli spazi ci sono tavoli con i materiali vintage, che aiutano a capire la storia e il senso degli scatti. Alcune di queste fotografie hanno costruito il nostro immaginario – basti pensare a quelle ambientate ad Africo, in Calabria, dove la povera gente dormiva con il maiale, o a quelle delle mondine, che raccontano l’Italia degli Anni Cinquanta. Ma anche alle foto dell’Italia della ricostruzione, con i viadotti autostradali e le automobili di quanti tornavano in vacanza nei paesi d’origine o che andavano a fare le prime gite fuori porta.

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FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO

INTERVISTA AL DIRETTORE MICHELE COPPOLA Qual è stato il criterio che vi ha spinti a inaugurare la sede di Torino, dove esiste già un “contenitore” per la fotografia come Camera, di cui siete sponsor? Si tratta del completamento del circuito delle Gallerie d’Italia lungo il Paese, completamento che era già stato annunciato dal Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, nel 2011. È l’idea di trasformare palazzi storici di proprietà, legati all’identità dei territori di riferimento, in luoghi che valorizzino le radici, la cultura e l’arte italiana, proprio come l’Archivio Publifoto. Publifoto è un archivio prettamente italiano, che attraversa la storia del nostro Paese dalla seconda metà del XX secolo. Mi pare che attraverso di esso possa attuarsi un interessante incontro tra Milano, sede di Banca Commerciale che diviene Banca Intesa, e capitale morale d’Italia, e Torino, sede della Banca San Paolo ma anche imprescindibile luogo di industria. Questa è una chiave di lettura interessantissima proprio perché l’Archivio Publifoto, che occuperà una parte importante della sede torinese, si può leggere come un punto di partenza dal quale generare attività. È un approccio attuale, con una componente tecnologica forte. Si viene a creare una sorta di dialogo, di proiezione in avanti che deve, tuttavia, sempre ricordare il punto di origine. Grazie a questo archivio è possibile vedere come è cambiato il ruolo dell’immagine. Nasceva con il mondo analogico, con la fotografia stampata in fretta e in furia per l’uscita sui giornali. È un mondo che per alcuni versi è finito, ma che aiuta coloro che anagraficamente non c’erano a capire cos’è stata la fotografia. La mostra di Paolo Pellegrin termina proprio in una sezione dedicata all’Archivio Publifoto, per mostrare come una fotografia dell’oggi possa essere letta, colta, compresa nella sua complessità, guardando quello che è avvenuto nel passato.

L’ARCHITETTURA DI GALLERIE D’ITALIA – TORINO IN 4 PUNTI

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La storia del palazzo emerge dalla scelta di rendere visibili le tracce di cemento armato, ciottoli di fiume e laterizi ottocenteschi.

La vostra banca è sempre più impegnata nella cultura, mi pare un buon segno. Intesa Sanpaolo è il risultato della fusione di circa 500 banche e istituti di credito locali. Nella crescita di questo grande gruppo c’è tutto quel rispetto, quell’attenzione nei confronti dell’arte, della cultura, delle comunità, che sono tipici di un’istituzione che è rimasta fortemente legata al territorio.

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Il colonnato in legno sulla parte sinistra della corte richiama il disegno del porticato secentesco in pietra sul lato opposto.

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Le sale sotterranee di Palazzo Turinetti, un tempo adibite a caveau, archivi e parcheggi, sono diventate uno spazio espositivo.

Come dialogano i due mondi presenti nel palazzo – arte barocca e fotografia? Sono in perfetto equilibrio tra loro, un equilibrio creato dal magistrale lavoro di Michele De Lucchi. Si tratta di una sorta di ponte tra

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Una gradinata monumentale in pietra di Luserna consente l’accesso al museo ipogeo e diventa, insieme alla corte interna, uno spazio di incontro e socialità.

fino al 4 settembre 2022

LA FRAGILE MERAVIGLIA a cura di Walter Guadagnini

DALLA GUERRA ALLA LUNA 1945-1969 a cura di Giovanna Calvenzi e Aldo Grasso Cataloghi Gallerie d’Italia | Skira GALLERIE D’ITALIA – TORINO Piazza San Carlo 156 gallerieditalia.com

nella pagina precedente: Gallerie d’Italia – Torino. Photo Michele D’Ottavio in alto: Vulcano Fagradalsfjall, penisola di Reykjanes. Islanda, 2021 © Paolo Pellegrin/Magnum Photos a destra: Fila di automobili al casello di Firenze dell’autostrada Firenze-Pisa, 1962. Fotografia di Tino Petrelli – Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo


FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO

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LE NUOVE GALLERIE D’ITALIA A NAPOLI Gli spazi partenopei delle Gallerie d’Italia triplicano, grazie alla risistemazione dell’ex Banco di Napoli, progettato dall’architetto Marcello Piacentini, in via Toledo 177. Anche in questa sede De Lucchi ha compiuto un interessante intervento di trasformazione dello spazio, che tiene conto, tuttavia, della monumentalità dell’architettura fascista. Le opere della collezione permanente sono distribuite lungo tre itinerari tematici. Al primo piano è esposta una selezione di dipinti e sculture di ambito napoletano e meridionale dagli inizi del XVII ai primi decenni del XX secolo, curata da Fernando Mazzocca, in cui il Martirio di sant’Orsola del 1610, ultima opera di Caravaggio, fa la parte del leone. Il secondo piano ospita una sezione curata da Fabrizio Paolucci con ceramiche attiche e magnogreche, e la terza sezione, a cura

passato e futuro, che va dalle sale nobili del secondo piano, tornate all’antico splendore, alle sale voltate sotterranee che erano depositi, dove oggi c’è l’archivio fotografico. L’idea è di ospitare mostre originali, create su committenza, intorno ad argomenti che siano legati ai principali temi di attualità, a partire dai quali costruire dibattiti, laboratori, momenti di approfondimento con le scuole e le università. Qual è il programma futuro? Dopo Pellegrin ci saranno Gregory Crewdson, Luca Locatelli con Ellen MacArthur Foundation, Paolo Verzone con l’Agenzia Spaziale Europea e Cristina Mittermeier con il National Geographic. In sostanza la fotografia, per forza, immediatezza e anche efficacia, diventa lo strumento che consente di ragionare intorno all’attualità e alle grandi questioni proprie del nostro tempo. E il cambiamento climatico ne è un esempio puntualissimo, come le splendide immagini di Paolo Pellegrin ci mostrano. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]

di Luca Massimo Barbero, riunisce opere dalle collezioni di arte moderna e contemporanea. La mostra inaugurale temporanea è la XIX edizione di Restituzioni, il programma biennale di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico nazionale che Intesa Sanpaolo conduce da oltre trent’anni in collaborazione con il Ministero della Cultura. “Sono ormai quasi duemila le opere non di proprietà della banca ma appartenenti al patrimonio dei musei, delle chiese, delle fondazioni culturali italiane, restaurate in questi anni”, spiega il direttore Michele Coppola.

GALLERIE D’ITALIA – NAPOLI Via Toledo 177 gallerieditalia.com


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GRANDI CLASSICI / SURREALISMO / VENEZIA

La magia del Surrealismo a Venezia Gražina Subelytė

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olte artiste e scrittrici si associano al Surrealismo, in particolare durante gli Anni Trenta. Le loro interpretazioni della donna sicura di sé e dedita alla ricerca, oppure maga e non più musa, destabilizzano le tipologie femminili formulate da una cerchia esclusivamente maschile. Artiste come Leonora Carrington, Leonor Fini e Remedios Varo riconoscono il potenziale surrealista e le possibilità offerte dall’interesse del movimento per il mito e l’occulto, che impiegano per promuovere strategie e obiettivi di emancipazione protofemministi.

LEONORA CARRINGTON

3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA

Alla fine degli Anni Trenta l’inglese Leonora Carrington (Chorley, 1917 – Città del Messico, 2011) diventa una delle figure centrali del Surrealismo. La relazione con Max Ernst, tra il 1937 e il 1940, alimenta la sua fascinazione per la magia, nonostante inizi a studiarne la storia e il simbolismo ben prima di associarsi al movimento, di cui riprende i temi in maniera del tutto personale. Di origini anglo-irlandesi, fortemente attratta dal folklore celtico, Carrington adotta la figura della strega come alter ego, trasformandola in un’icona dell’emancipazione femminile. Attingendo da una conoscenza approfondita dell’esoterismo, coniuga riferimenti alla magia e all’occulto con un’iconografia fantastica ispirata all’arte medievale e rinascimentale, soprattutto a Hieronymus Bosch.

L’idea della mostra prende forma 7 anni fa, durante il dottorato di ricerca della curatrice al Courtauld Institute of Art di Londra. La perfetta coincidenza coi temi della Biennale è dunque casuale

Nel 1943 si trasferisce in Messico, dove matura il suo talento artistico e dove rimane per il resto della vita. Nel 1948 vengono pubblicati due libri fondamentali per Carrington: lo studio della mitologia di Robert Graves, La Dea bianca, che Carrington considera la “rivelazione più grande” in assoluto, e Lo specchio della magia di Kurt Seligmann. Le opere principali di Carrington includono I piaceri di Dagoberto (1945), La gigantessa (Guardiana dell’uovo) (1947), La donna gatto (La Grande Dame) (1951) e La cucina aromatica di nonna Moorhead (1975).

fino al 26 settembre 2022

SURREALISMO E MAGIA. LA MODERNITÀ INCANTATA a cura di Gražina Subelytė Catalogo Prestel COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Dorsoduro 701 – Venezia guggenheim-venice.it

L’interesse per la magia s’intreccia con il sostegno all’ecologia e ai diritti delle donne, soggetti politici che nella sua arte sono inestricabili. Le figure della strega e della dea sono l’incarnazione del rispetto per la natura e le sue risorse, mentre i personaggi femminili sono spesso a difesa della vita in opere infuse di un sentimento antipatriarcale. Da notare come negli Anni Settanta Carrington dia corso al primo gruppo di liberazione della donna del Messico, quando nel Paese il femminismo inizia a organizzarsi in un movimento.

REMEDIOS VARO

Surrealismo e magia. La modernità incantata. Exhibition view at Collezione Peggy Guggenheim, Venezia 2022. Photo © Matteo De Fina

Per sfuggire alla Seconda Guerra Mondiale, anche la pittrice spagnola Remedios Varo (Anglès, 1908 – Città del Messico, 1963) emigra in Messico, dove rimane per il resto della vita. Negli Anni Cinquanta numerose influenze confluiscono nelle sue composizioni di per-


All’ingresso è proiettato il cortometraggio La culla della strega, della regista americana, di origine ucraina, Maya Deren, girato nel 1943 all’interno del museo-galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century

sone impegnate in riti magici, attività alchemiche o viaggi mistici, con una precisone del tratto che deriva dai disegni scientifici e particolareggiati del padre, ingegnere idraulico. Varo a volte propone la scienza come campo creativo alternativo, capace di cogliere il meraviglioso. Spronata dal dialogo costante con Leonora Carrington, Varo si immerge nell’iconografia esoterica e dell’occulto, in particolare la storia della stregoneria, da cui trae i temi delle opere. L’intreccio eclettico tra occultismo e scienza occupa un posto centrale nelle sue opere, che spesso cercano di criticare la rigidità delle metodologie positiviste e di convalidare epistemologie alternative. Le opere principali includono La creazione degli uccelli (1958) e Nutrimento celeste (1958). In quest’ultima vediamo una donna sola, seduta in una torre ottagonale, che macina materia stellare con cui nutre una falce di luna in gabbia. Nutre la luna quasi fosse un neonato da riportare alla pienezza. Se da un lato Varo affronta l’isolamento percepito dalle donne nella sfera domestica, dall’altro descrive il rituale materno più comune come un modo per accedere al regno celeste. Seppur intrappolate, le donne sono costantemente in contatto con il cosmo, un’importante fonte mistica di sostentamento.

LEONOR FINI

Cresciuta in Italia, la pittrice Leonor Fini (Buenos Aires, 1907 – Parigi, 1996) rifiuta l’e-

tichetta di surrealista, ma a partire dagli Anni Trenta è in contatto costante con il gruppo e si rapporta all’esplorazione surrealista della magia e della sessualità. Fini radica la sua arte nei miti di dee indipendenti e nell’immaginario della stregoneria medievale, spesso in uno stile che ricorda la pittura manierista. Le sue opere sono popolate da donne che incutono timore, spesso seduttrici letali, e ibridi femminili come la sfinge, guardiana di segreti e simbolo di enigmi, con cui si identifica. Queste figure sono protagoniste di rituali che si svolgono in ambienti fantastici al di fuori del tempo e dello spazio. Quando compaiono, gli uomini sono passivi, belli e deboli. Attraverso le interpretazioni delle relazioni di potere, Fini mette in discussione gli stereotipi dei ruoli di genere. Fini rifiuta la nozione della donna come accessorio passivo nella ricerca di avventura e supremazia dell’eroe. Le sue tele in genere collocano la donna al centro di un universo panteista di cui controlla il ciclo naturale della vita e della morte, come in La sfinge regina (1943) e La fine del mondo (1949). Fini ritrae con i propri lineamenti figure ibride feline o mostruose, trasformandole in guardiane misteriose dell’ultraterreno. Per esempio, La fine del mondo è dominata dal busto maestoso di una donna bionda che regna su una palude primordiale. Il suo riflesso felino e cupo trasmette la pericolosità del suo doppio, mentre gli occhi e i teschi degli uccelli che affiorano dall’acqua ne rafforzano il potenziale violento e mortale. 3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA

3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA

GRANDI CLASSICI / SURREALISMO / VENEZIA

Dopo la tappa veneziana, la mostra sarà ospitata dal Museum Barberini di Potsdam, dal 22 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023

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LA MOSTRA ALLA COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Si dipana attorno al filo sottile e persistente che unisce Surrealismo e magia la mostra omonima ospitata dalla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, con la curatela di Gražina Subelytė. A diventare fulcro espositivo è l’interesse di Breton e compagni nei riguardi dell’occulto e di una dimensione “altra”, spesso celata al di là o al di sotto della superficie (della pittura, del mondo così come lo conosciamo, della coscienza, del dato sensibile). Il medesimo interesse attraversò la passione collezionistica della “padrona di casa” Peggy Guggenheim, la quale fece del Surrealismo uno dei punti di ancoraggio della propria raccolta – conservata nella sua ex dimora, Palazzo Venier dei Leoni, oggi sede della Collezione che porta il nome della mecenate – e uno snodo espositivo della galleria newyorchese Art of This Century prima e della sede lagunare poi. Parte dei lavori in mostra sono infatti custoditi dalla stessa Collezione Peggy Guggenheim, mentre altri provengono da musei e raccolte internazionali. Il risultato è un mosaico dai contorni potentissimi, le cui tessere sono rappresentate da opere-manifesto – come l’Ofelia (1937) di André Masson, la Vestizione della sposa (1940) di Max Ernst, Lo specchio (1950) di Dorothea Tanning – e da rarità formidabili realizzate da una triade d’eccezione – Leonora Carrington, Remedios Varo e Leonor Fini, emblema del ruolo chiave giocato dalle donne sullo sfondo del movimento surrealista e delle sue declinazioni. Interpreti di istanze che anticipano le lotte femministe e lo scardinamento degli stereotipi di genere, queste artiste gettano le basi per il rifiuto di logiche strettamente binarie, trovando nell’androginia e nella definizione di una grammatica visiva inedita, che scava nell’inconscio, nella mitologia e nell’occulto, gli strumenti per sovvertire le granitiche certezze della società patriarcale del secolo scorso. La mostra alla Collezione Peggy Guggenheim riporta in auge l’eccezionale attualità del Surrealismo, le cui radici affondano in un’epoca che riecheggia con implacabile ferocia il tempo presente, dominato dallo spettro di una guerra globale. Oggi come allora, il potere dell’immaginazione, della sfera onirica, della magia e dell’universo alchemico diventa un alleato per combattere la crudeltà della Storia. Arianna Testino


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DIETRO LE QUINTE / LUCIO DALLA / BOLOGNA

Lucio Dalla nella sua Bologna Claudia Giraud

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econdo Mimmo Paladino, amico di lunga data di Lucio Dalla (Bologna, 1943 – Montreux, 2012), la sua casa di Bologna è una specie di Wunderkammer dove è raccolto tutto ciò che amava, senza alcuna logica se non quella del cuore. Che è poi la stessa che ha guidato l’ideazione della mostra Lucio Dalla. Anche se il tempo passa: un doveroso omaggio a dieci anni dalla morte e a quasi ottanta dalla nascita di questo musicista eclettico, cantautore e interprete appassionato che amava la pittura, il cinema, il teatro e le altre arti e che ha trovato nel jazz il collante di tutte le sue passioni. “Lucio era animato da una curiosità insaziabile ed è questo che lo ha portato a esplorare tante altre forme d’arte sia come fruitore, sia cimentandosi ed esprimendo la propria genialità anche in ambiti artistici diversi da quello musicale”, ci racconta suo cugino Andrea Faccani, presidente della Fondazione Lucio Dalla, con sede proprio nella sua quarta abitazione in via Massimo d’Azeglio – a un solo isolato di distanza dall’esposizione al Museo Civico Archeologico, cui faranno seguito le tappe a Roma, Napoli e Milano.

NON SOLO MUSICA PER LUCIO DALLA

“La musica è certamente sempre stata centrale ma, curioso di conoscere, di capire, di provare, Lucio ha coltivato per tutta la vita tantissime altre passioni”. Come si evince dall’allestimento con le sue dieci sezioni che, tra memorabilia, testimonianze video e opere d’arte legate alla sua breve esperienza da gallerista dello spazio No Code, percorrono le sue tante vite: da quella di bambino prodigio a teatro a quella nel cinema. “Non solo componendo colonne sonore, ma come attore, e sono tanti e tra loro diversi i personaggi che Lucio ha interpretato a partire dagli Anni Sessanta”, conclude Faccani, “lavorando con i Fratelli Taviani nella pellicola ‘I sovversivi’, sino ad arrivare al Sancho Panza di ‘Quijote’, del 2006, dell’amico Mimmo Paladino. L’opera era un’altra grande passione di Lucio e da questa, oltre a diverse regie teatrali, è nata ‘Tosca. Amore disperato’, che Lucio scrisse ispirandosi alla ‘Tosca’ di Puccini, forse uno dei suoi progetti meno conosciuti, ma ai quali era più legato”. Il tutto concepito all’interno di un percorso coinvolgente che non manca di emozionare, grazie ai tanti frammenti sonori tratti dai suoi brani più famosi come Caruso e Come è profondo il mare, titolo quest’ultimo con cui Dalla avrebbe voluto nominare la Fondazione, già nella sua testa dal 1996 e poi realizzata dagli eredi nel 2014.

fino al 17 luglio 2022

LUCIO DALLA ANCHE SE IL TEMPO PASSA a cura di Alessandro Nicosia Catalogo Skira MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO Via dell’Archiginnasio 2 – Bologna mostraluciodalla.it

Lucio Dalla. Anche se il tempo passa. Exhibition view at Museo Civico Archeologico, Bologna 2022. Photo Massimo Palmieri

INTERVISTA AL CURATORE ALESSANDRO NICOSIA

La mostra è un omaggio a Dalla, ma anche un evento. Perché l’idea del tour a Roma, Napoli e Milano? Lucio Dalla è una figura nazionale nonché internazionale e la scelta di queste città non è casuale. Roma, città dove ha vissuto e che ha segnato una fase importante della sua carriera; Napoli, perché Dalla ha sempre avuto un particolare affetto per Napoli, ci andava spesso ed era attratto dal suo calore; Milano, dove ha lavorato e a cui ha dedicato anche una canzone, facendone un lucido ritratto, affettuoso e duro nello stesso tempo. La struttura espositiva sarà la stessa, contestualizzata nei vari siti che ci ospiteranno e arricchita via via di nuovi documenti, oggetti e contributi che arriveranno dai tanti artisti che lo hanno conosciuto. Lei ha curato molte mostre monografiche di personaggi del cinema e della musica. In cosa eccelle questa?


DIETRO LE QUINTE / LUCIO DALLA / BOLOGNA Lucio Dalla. Anche se il tempo passa ha una sua specifica unicità. L’esposizione è nata dal desiderio di raccontare un Dalla inedito che potesse rappresentare l’essenza più vera dell’artista e dell’uomo. Per avere un quadro più attento e preciso, ho condotto con i miei collaboratori un lungo e approfondito lavoro di ricerca. Sono partito ben conoscendo la sua produzione artistica ma, attraverso i tanti, meravigliosi incontri con la sua vastissima cerchia di amici, familiari, colleghi e collaboratori, si sono aperte, strada facendo, tante porte di accesso alla sua vita privata e al suo percorso artistico. Sono stato colpito da un’ondata di spunti interessantissimi che non potevo non raccontare. L’allestimento in uno spazio così connotato e grande poteva essere un rischio. Come vi siete mossi? Una scelta che effettivamente poteva sembrare rischiosa, ma nella quale ho sempre creduto e che di fatto si è rivelata particolarmente fortunata. Sono proprio i grandi spazi classici come questo a dare risalto ai contenuti. Si è creata un’interessante interazione tra contenitore e contenuto, che ricreeremo anche per la tappe successive come a Napoli, nella prestigiosa cornice del MANN – Museo Archeologico Nazionale.

LUCIO DALLA: L’UOMO E L’ARTISTA

“Lucio era incuriosito dagli esordi degli artisti perché secondo lui l’inizio di ogni opera rispecchiava quello che avevano dentro: avendole pensate per più tempo, venivano direttamente dal cuore”, ricorda il cugino Andrea Faccani. Forse perché gli ricordavano il suo passato da enfant prodige che, a soli cinque anni, recitava nella compagnia teatrale Primavera d’arte, diretta dal maestro Bruno Dellos, esibendosi in giro per l’Italia; senza dimenticare gli spettacoli a Manfredonia come apripista delle sfilate della madre modista. Poi, a quindici anni, l’ingresso nel jazz, prima con la band del regista Pupi Avati, dove è un clarinettista sui generis, e più tardi in quella dei Flippers a Roma, su segnalazione di un giovane Ennio Morricone. “Non ho mai imparato a suonare il clarinetto sul serio”, si legge in una dichiarazione di Lucio Dalla in mostra. “Però avevo un modo tutto mio: lo suonavo ritmicamente. Era questo che suscitava curiosità in quanti mi ascoltavano”. Da lì le partecipazioni al Cantagiro, ai vari Sanremo, con la consacrazione, nel 1971, grazie al suo brano più famoso, che porta nel titolo la sua data di nascita: 4 marzo 1943. Fino alla storia recente, quando negli Anni Novanta fa anche il gallerista della No Code (negli spazi del vecchio studio di registrazione Fonoprint, dove incide Caruso, con cui raggiungerà la consacrazione internazionale), l’organizzatore di eventi, il talent scout (tra i suoi pupilli, Luca Carboni e Samuele Bersani), con l’etichetta discografica da lui fondata Pressing Line (la sede è presso la casa-museo Fondazione Lucio Dalla).

LUCIO DALLA IN 10 DISCHI

1971

Storie di casa mia

1977

Come è profondo il mare

1979

Lucio Dalla

1980 Dalla

1990

Cambio

1993

Henna

1996

Canzoni

1999 Ciao

2001

Luna Matana

2003 Lucio

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MOSTRE, MITI E TERRITORI Nell’eterogeneo mondo che lega arte, musei, cittadini, turisti e territorio, le mostre sono un prodotto con caratteristiche molto peculiari che, per struttura dei costi e obiettivi, può presentare grandi margini di adattabilità. Nel nostro Paese, tuttavia, quando il dibattito pubblico si occupa di mostre, tende a privilegiare il segmento più alto dell’offerta, che è sicuramente in grado di richiamare grandi flussi di visitatori, ma che costituisce soltanto una specifica tipologia di prodotto-mostra. Accanto a tale prodotto-mostra, tuttavia, esistono altre configurazioni culturali che variano per intensità dell’investimento richiesto, per tipologia di ricerca, per sfera di influenza del prodotto culturale (regionale, nazionale ecc.). Tra le varie configurazioni possibili, una categoria di prodotto-mostra cui guardare con attenzione è quella che individua nella comunità e nei cittadini il proprio interlocutore privilegiato, ancorché non esclusivo. Si tratta di mostre che hanno l’obiettivo di raccontare ai cittadini una parte della storia remota e recente del proprio territorio e che pertanto mirano a creare, con la comunità, un importante livello di scambio e reciprocità. Spesso le mostre di questo tipo tendono a privilegiare la selezione di tematiche archeologiche: condizione importante, che racconta la storia del territorio e le sue evoluzioni, incrementando il senso di appartenenza. Pur riconoscendo la rilevanza culturale delle mostre archeologiche, è necessario sottolineare che i nostri territori sono anche il risultato di una storia recente e che tale storia merita di essere valorizzata. Da sempre la narrazione culturale ha avuto anche l’obiettivo di creare identità: non sono infrequenti i casi in cui la comunicazione ufficiale ha generato miti che incarnassero quelli che si voleva fossero i valori di un determinato territorio. Un caso concreto può essere la mostra dedicata a Lucio Dalla dal Museo Civico Archeologico di Bologna. Rivolta a tutti i cittadini italiani, la mostra però celebra oggi un personaggio che ha le caratteristiche per divenire mito, con i riflessi positivi che questa dimensione comporta. Certo, non tutte le città hanno avuto Lucio Dalla, ma va anche detto che non tutte le città hanno davvero fatto un investimento per celebrare i propri cittadini illustri all’interno di una cornice espositiva, anche ammiccante se vogliamo, ma che può contribuire a definire una nuova narrazione del nostro Paese. Territorio dopo territorio, valorizzare il recente significa infatti superare quel divario che distingue la nostra Storia e il Paese attuale. Significa riconoscere, e riconoscerci, un valore che spesso siamo i primi a sottostimare. Stefano Monti


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OLTRECONFINE / GIORGIO VASARI / PARIGI

Giorgio Vasari: un collezionista al Louvre Federica Mancini

S

arebbero bastati solo i fogli esposti nella prima sezione della mostra Giorgio Vasari, Le Livre des dessins: destinées d’une collection mythique, al Museo del Louvre, per restare incantati da tanta qualità grafica e dare un’idea del gusto raffinato di Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), pittore, architetto e storiografo presso la corte dei Medici. L’intenzione di Vasari nel collezionare opere quali il delicato Ritratto di donna di Andrea del Verrocchio del Louvre o la gustosa scena con la ragazzetta che ride del bambino morso da un gambero di Sofonisba Anguissola, da Capodimonte, fu di illustrare l’attività dei grandi maestri di cui egli stesso aveva scritto nelle sue Vite. Lo scopo fu anche di garantirsi la posterità. Prima di incollare gli esemplari grafici all’interno del suo Libro dei disegni, venendo a comporre forse la prima collezione del mondo moderno, li dispose su un carta più spessa, tecnicamente detto “montaggio”, che decorò con guizzanti figure allegoriche tracciate a penna e inchiostro, a mo’ di incorniciatura disegnata, come nello strepitoso Ritratto di vecchio con gli occhi chiusi di Ghirlandaio del National Museum di Stoccolma.

I MISTERI DEL LIBRO DEI DISEGNI

Anche se dopo la morte di Vasari il volume passò intatto nelle mani del granduca fino al 18 luglio 2022

GIORGIO VASARI, LE LIVRE DES DESSINS: DESTINÉES D’UNE COLLECTION MYTHIQUE a cura di Louis Frank e Carina Fryklund Catalogo Musée du Louvre éditions / Lienart MUSEE DU LOUVRE Rue de Rivoli – Parigi louvre.fr

in alto: Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero, 1554 ca. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Gabinetto Disegni e Stampe. Photo © Scala, Firenze, Dist. RMN-Grand Palais a destra: Domenico Ghirlandaio, Testa di vecchio con gli occhi chiusi, 1490 ca. Photo © Nationalmuseum Stoccolma | Cecilia Heisser

L’IDENTIKIT DI GIORGIO VASARI Delle arti in cui Giorgio Vasari s’impegnò quella che meno si presta a dar conto delle sue virtù è la pittura. Fu certamente prolifico come pittore. Ebbe incarichi ragguardevoli e un séguito nutrito di collaboratori e seguaci. Ma a fargli sovente difetto fu la vena poetica; che invece s’avverte (e vibrante) nell’architettura degli Uffizi. Fabbrica che s’allunga fra terra e cielo. Edificio solido eppure leggero; e financo trasparente, per via d’una sequenza serrata di pieni e di vuoti, di luci e d’ombre. Un’architettura nata con scopi diversi da quelli cui nel tempo s’è poi prestata; sempre però riuscendo a risultare funzionale, in forza d’un progetto che oggi si direbbe flessibile. I requisiti che Vasari concreta negli Uffizi sono gli stessi da lui esaltati negli edifici degli architetti del Quattrocento ch’erano nelle sue grazie. “Bellezza, comodità et ornamento” sono i pregi che Vasari attribuiva a due grandi del secolo precedente, Brunelleschi e Michelozzo: architetti d’ideologie e culture differenti, ma entrambi votati a promuovere la comodità e la funzionalità nelle loro creazioni. Chi – nella stagione di Vasari – fosse sbucato nella rossa Piazza dei Signori dai vicoli che venivano dal Duomo si sarebbe trovato al cospetto dei tre monumentali fornici della Loggia della Signoria e avrebbe con lo sguardo

costeggiato sulla sinistra il palazzo massiccio del governo cittadino; esso pure sortito da un restauro condotto dallo stesso Vasari. Tutto evocava la più nobile tradizione fiorentina, possente e austera. Ma subito l’occhio era forzato a incunearsi nel canale elegante che s’apriva a sinistra della Loggia, spingendosi fin sull’Arno, in quel seguitare di colonne messe a reggere la fabbrica nuova che Vasari s’era inventato. E il cuore ne trasaliva. È il medesimo trasalimento che son capaci di cagionare molte pagine delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, pubblicate da Giorgio nel 1550 e poi (in veste ampliata) nel 1568. Innumeri sono le memorie d’assoluto valore storico che le Vite serbano di tanti artisti, a partire dal Medioevo. Ma è nel racconto veridico e dettagliato di biografie d’artefici del Cinquecento, segnatamente toscani e fiorentini, ch’è dato godere d’una scrittura toccata da una forte partecipazione emotiva. D’altronde la commozione, il turbamento degli affetti e il pathos d’ascendenza ellenistica sono i caratteri peculiari della “maniera moderna” che Vasari decanta nel vivido Proemio alla terza parte delle Vite. Antonio Natali


OLTRECONFINE / GIORGIO VASARI / PARIGI

LE I M

1550-52

ESE DI VA PR

Dà il via alla fabbrica degli Uffizi

Francesco I de’ Medici, se ne persero quasi subito le tracce. Nacque così il mito della sua collezione, che appassionati e studiosi di grafica hanno tentato di ricomporre. Nel 1730 Pierre-Jean Mariette, grandissimo collezionista di disegni, considerò vari fogli con montaggi a motivi ornamentali come certamente provenienti dal Libro, a cui ne furono aggiunti altri, per osmosi, con inquadramenti simili ma più architettonici. Dall’idea di un solo libro si passò a quella di vari album. L’arcano fu svelato negli Anni Cinquanta del secolo scorso quando, forti di un sapere vastissimo e un occhio accorto, Arthur Popham e Philip Pouncey dimostrarono che il foglio con la Caduta di Icaro di Giulio Romano, conservato al Louvre (ma esposto solo nella successiva tappa della mostra, a Stoccolma), citato da Vasari come suo, era poi passato nella collezione di Niccolò Gaddi. La presenza sul montaggio dell’emblema di famiglia, il falcone, e il motto “tant que je vivrai” furono elementi importanti per capire che molte delle incorniciature associate al Libro dei disegni erano state fabbricate ex novo sotto Gaddi.

1570

1563

È tra i fondatori dell’Accademia delle Arti del disegno a Firenze

Elabora il progetto per Villa Giulia a Roma

1560

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Progetta il Palazzo delle Logge ad Arezzo

RI SA

1550 Pubblica la prima edizione delle Vite

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1568

Pubblica la seconda edizione delle Vite

UNA QUESTIONE DI CORNICE

Andrew Morrogh ne ha in seguito precisato le tipologie come pure i vari “incorniciatori” e la seconda parte della mostra si snoda proprio attraverso una meravigliosa carrellata di “montaggi Gaddi”, tanto più spassosi quanto ricchi di dettagli ricercati. Per una volta, le incorniciature diventano più opera dell’opera. L’apoteosi, in termini di comprensione visiva dei passaggi da una collezione all’altra, è data dal montaggio del Mascherone di Girolamo Miruoli del Louvre, che in un colpo d’occhio esplicita il suo transito presso Gaddi, Jabach e Mariette. Se la varietà dei soggetti rappresentati e delle tecniche utilizzate (punte metalliche su carte preparate, matite, inchiostro, acquarelli e rialzi di biacca) è una gioia per gli occhi del visitatore, l’opportunità di vedere esposti dei disegni e montaggi appartenuti a Vasari e Gaddi, che tanta parte hanno avuto nella storia del collezionismo successivo, ricorda in maniera originale e accattivante che il prestigio di un disegno consiste certamente nelle sue qualità intrinseche ma anche nella storia di chi lo ha posseduto.

VASARI OGGI Vasari icona pop: chissà se messer Giorgio avrebbe apprezzato la definizione. Da devoto cristiano quale era, sì; come cantore dell’epopea dell’arte italiana, che dall’astratta rigidità delle icone bizantine si è avventurata verso altri lidi, meno. In ogni caso, non si può negare il fatto che l’artista e biografo aretino abbia nel mondo contemporaneo una discreta, e per molti versi sorprendente, visibilità. Non tanto il Vasari pittore e architetto (anche se i suoi Uffizi continuano a destare ammirazione), quanto l’autore delle Vite: cui si dedicano articoli, volumi, mostre; che nei percorsi espositivi è di continuo evocato come fonte o come auctoritas; che sui social, nelle pagine e nei profili in cui si parla di arte e di storia dell’arte, viene spesso tirato in ballo. A volte lo si prende un po’ in giro: molti lo dileggiano per il suo fiorentinocentrismo, prolungando in forme più lievi la polemica che già fu dei Mancini, dei Boschini, dei Malvasia. Altre volte è la sua immagine di uomo serioso, orgoglioso e barbuto, quale ce la trasmette l’autoritratto degli Uffizi, a essere stravolta in mille guise, all’insegna di un sentimento misto di sberleffo e affetto. La centralità di Vasari nella storia dell’arte italiana spiega questo successo, e la frequenza con cui il suo nome ricorre nei programmi di esame e dunque il suo essere spauracchio di generazioni di studenti. Ma forse c’entra anche la vorticosa trasformazione delle discipline umanistiche e in particolare della storia dell’arte negli ultimi anni: un universo in cui l’arte italiana non occupa più la centralità di un tempo, e in cui si moltiplicano gli approcci più lontani dai modelli di indagine tradizionali. Vasari assurge in questo senso a simbolo di un certo modo di fare storia dell’arte, in cui il Rinascimento ritrova la sua posizione privilegiata e soprattutto in cui la ricerca si basa, più che su fantasiose congetture, su una solida conoscenza delle fonti e dei contesti. Certo, le Vite non sono una lettura facile, né rapida: ma riservano grandi soddisfazioni, sia come miniera di informazioni che per la piacevolezza di certi passaggi. L’invito pertanto non può essere che uno: leggete Vasari! Fabrizio Federici


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

I corsi d’acqua rappresentano un elemento di particolare valore del paesaggio. Fonte fertile per l’esistenza dell’intera umanità, componente essenziale per tutti gli esseri viventi, hanno un’importanza che è stata riconosciuta nei miti e nella filosofia fin dalle epoche più antiche. L’acqua è un elemento forte dal punto di vista dell’immagine del paesaggio. Il progetto Waterways, a cura dell’Associazione CRAC Ravenna, con installazioni di Land Art lungo il Delta del Po, è un percorso ciclo-pedonale naturalistico che per la prima volta collega varie frazioni nel Comune di Conselice con il capoluogo. LAND ART E NATURA La rete dei canali sul Delta è molto frequentata da turisti, amanti delle passeggiate e della mobilità dolce, che apprezzano questi luoghi di bellezza e benessere, dove il visitatore è accompagnato dal suono dell’acqua e cammina con passo leggero. Le vie d’acqua sono spazi senza confini. Attraverso l’inserimento di opere di Land Art, l’intento è di riconnettere l’essere umano con la sua parte più visionaria e nascosta: quella artistica in dialogo con la natura. Tracciare un percorso è talvolta sufficiente a creare un nuovo paesaggio, rivelando e collegando viste, scene, luoghi preesistenti. Questi percorsi offrono inoltre peculiarità botaniche, con specie vegetali tipiche delle zone d’acqua. GLI ARTISTI DI WATERWAYS Per il progetto Waterways sono stati invitati sette artisti: Federico Bartolini con Matteo Gritti, Rosa Banzi, Antonio Caranti, Antonella De Nisco, Fausto Ferri, Maria Giovanna Morelli e Laura Rambelli, presentati insieme alle performance della Scuola Teatro La Bassa e alla sonorizzazione al sax di Sanzio Guerrini. Il sette è il numero della creazione. Rappresenta anche il perfezionamento della natura umana quando congiunge in sé il ternario divino con il quaternario terrestre. Torna prepotente la natura terrestre. Quella dei cicli, quella che crea l’ambiente adatto alla vita e prepara il territorio all’accoglienza inclusiva, all’abbondanza e alla prosperità. Questo “museo a cielo aperto”, in un territorio di bonifica unico e ricco di storia, dà inizio a un percorso verso una maggiore consapevolezza. È ormai risaputo che l’ambiente naturale ha un effetto positivo e di benessere sugli esseri umani. Il turismo slow necessita di questi paesaggi e di queste iniziative, in cui arte e natura fanno da traino per azioni di rigenerazione. Claudia Zanfi

LAND ART SUL DELTA DEL PO cracarte.it

Waterways Photo Claudia Zanfi

“Non ho avuto voglia di fare altri mestieri, ho semplicemente avuto i desideri dei giovani. A vent’anni sognavo di diventare aviatore, come tutti. Solo che l’idea della pittura mi ha rapito molto presto. Ma sono partito male, perché le mie ambizioni non corrispondevano per niente alle mie doti! Ero in conflitto con tutti, si pensava che iniziassi a fare un mestiere per il quale non ero qualificato”. È una storia di grandi passioni, di sacrifici intensi e soprattutto di un amore viscerale per la pittura e la ceramica, e di un intenso nomadismo intellettuale ed esistenziale, quella di Philippe Artias, nato a Feurs, in Francia, nel 1912, e morto a novant’anni in Italia. Ma la storia del museo che gli è stato meritoriamente dedicato, immerso nella campagna appena fuori Faenza, è anche frutto di dialoghi a distanza e felici coincidenze, che hanno spinto due architetti, Rita Rava e Claudio Piersanti, a concepire Sacramora, dal nome della via che lo accoglie, agriturismo con vocazione culturale, tanto che oltre al museo c’è una biblioteca di architettura, design e arte a disposizione degli ospiti per un turismo lontano dalla frenesia di altre località vacanziere. LA STORIA DI PHILIPPE ARTIAS Il museo è nato da un rapporto profondo con la vedova dell’artista, Lydia, che è stata parte integrante del lavoro di ricognizione compiuto dai due architetti nella costruzione del percorso espositivo, in grado di investigare tutti i momenti significativi del lavoro di Artias con un approccio insieme rigoroso e divulgativo. Da un lato c’è il lavoro sulla storia – francese, anzitutto, come rivela il complesso ciclo sulla Rivoluzione e in particolare sulla figura di Robespierre –, e poi, ed è l’aspetto più stimolante, tutto il discorso sul rapporto tra forma e colore, che riguarderà la maturità, a partire dagli Anni Settanta, quando con cromie piatte Artias porterà avanti un itinerario che poi tornerà al figurativo, soprattutto al paesaggio, con ispirazioni italiane. PITTURA E DISEGNO Nelle sale del complesso museale c’è quindi la possibilità di investigare tutti i momenti chiave della sua riflessione su pittura e disegno, pratica quest’ultima che ha sempre messo in campo con impegno sistematico, mentre alcune pubblicazioni permettono di approfondire la sua intensa biografia – frequentò Picasso nel buen retiro di Vallauris, dove Artias si avvicinò alla ceramica. Da un fare pittorico che si sgancia dall’immagine per muoversi sui territori dell’informale alle sinuose forme anatomiche dipinte con colori fluo, camminando in compagnia di Rita Rava – guida d’eccezione – si entra nel ritmo di un lavoro in cui la pittura è segno tangibile di un sentire. Lorenzo Madaro

FAENZA MUSEO ARTIAS Via Sacramora 12 sacramora-12.it

Museo Artias, veduta del percorso espositivo. Courtesy Museo Artias, Faenza


RUBRICHE

ASTE E MERCATO

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IL LIBRO

Dopo aver nutrito, con le sue suggestioni, la 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia curata da Cecilia Alemani, che dal titolo di un suo libro di favole, Il latte dei sogni, ha preso il nome e le mosse, ed essere stata, sempre in Laguna, tra le protagoniste e i protagonisti della mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Peggy Guggenheim Collection, Leonora Carrington (Chorley, 1917 – Città del Messico, 2011) ha brillato a maggio anche sulla scena delle grandi aste di New York, facendo registrare un nuovo record assoluto di aggiudicazione. THE GARDEN OF PARACELSUS DI CARRINGTON La Modern Art Evening Sale di Sotheby’s a New York il 17 maggio è filata via spedita sin dall’avvio, con rapide offerte a conquistare le prime opere in catalogo, fino al lotto 5, dove era atteso appunto, di Leonora Carrington, il dipinto The Garden of Paracelsus. Eseguita nel 1957, l’opera è un’efficace sintesi delle capacità tecniche e immaginative dell’artista britannica. Quattro coppie di figure incandescenti, chiare e scure, vi appaiono intente in una danza mistica. Al centro della composizione, la presenza di un uovo, oggetto di rara potenza simbolica nei tragitti della storia dell’arte e impiegato da Paracelso, fisico, alchimista e filosofo svizzero del XVI secolo, come metafora della composizione dell’universo. Che il momento fosse carico di aspettative lo si è intuito chiaramente da come la sale room ha cominciato a fibrillare e lo hanno confermato poi i rilanci che si sono susseguiti in velocità. Dai 900mila dollari di partenza, il valore dell’opera è andato subito su, fino ad arrivare, con una battaglia ai telefoni che ha tenuto per lunghi minuti spettatori e bidder col fiato sospeso, oltre i 2 milioni e da lì, dopo il “fair warning” e la dichiarazione di rito di “last chance”, a un risultato finale di 3,2 milioni di dollari, nuovo record d’asta per l’artista che ha fatto esclamare, a buon diritto, all’auctioneer Oliver Barker: “Fantastic auction battle!”. LEONORA CARRINGTON SOTTO I RIFLETTORI Riferimento centrale nella costruzione di una Biennale che resterà nella storia per la netta quanto inedita prevalenza di artiste donne e artisti non binari e per la volontà di scandagliare tematiche in grado di polarizzare, anche oltre l’ambito delle arti visive, il dibattito pubblico contemporaneo, Leonora Carrington, e, insieme a lei, tutta una più ampia e variegata produzione di gusto surrealista, torna ora così in piena luce. E si aprono possibilità di riconsiderare fascino, intuizioni, motivazioni di un’artista che, quasi inosservata, ha attraversato, scrivendo e dipingendo, tutto il Novecento. E di correggere il tiro, anche, sul riconoscimento del valore economico della sua produzione, come specchio, finalmente meno deformato, di un originalissimo portato di immaginazione e magia, trasformazione e metamorfosi, mistero, rêverie. Cristina Masturzo

SOTHEBY’S LEONORA CARRINGTON

Leonora Carrington, The Garden of Paracelsus, 1957. Courtesy Sotheby’s

Quale meraviglioso mondo è quello dell’editoria – della piccola editoria. Nel 2018 a Roma è nata Moscabianca. L’autopresentazione pubblicata sul suo sito internet si conclude così: “Ecco i generi di cui andiamo ghiotti: fantascienza, weird, new weird, distopico, fantasy, realismo magico, bizarro fiction, gotico, surreale”. E pensare che ognuno di questi generi ha un mondo al suo interno, e magari noi manco sapevamo che esistessero. La meraviglia tuttavia non si esaurisce nella scoperta di ignoti – per chi non frequenta con assiduità queste nicchie – autori contemporanei; la meraviglia, al contrario, aumenta quando si spulcia il catalogo e spunta Ulisse Aldrovandi. CHI ERA ULISSE ALDROVANDI Siamo a Bologna nel 1522. Ulisse Aldrovandi nasce in una nobile famiglia ma resta orfano di padre a sette anni. Ad appena dodici parte per Roma, torna nella città natale, studia matematica, va a lavorare a Brescia, riparte per Roma, poi cammina fino in Galizia – precisamente a Finisterre – e in seguito lo ritroviamo a Bologna, dove studia lettere, diritto e filosofia. Approfondisce la sua formazione a Padova, ma è a Bologna che si appassiona alla botanica, ed è sempre a Bologna che viene accusato di eresia: anche se abiura, viene condotto a Roma, ma fortunatamente Giulio III succede a Paolo III e Aldrovandi viene prosciolto. Sembra la sintesi di una lunga vita, ma all’epoca il nostro ha appena ventisette anni. Nel 1551 inizia a comporre il suo mitico Erbario, prende un dottorato in medicina e filosofia, inizia a insegnare; nel 1564 lo troviamo sul Monte Baldo, sopra il Lago di Garda, in spedizione scientifica; nel 1568 fonda l’Orto Botanico e, di fatto, uno dei primi musei di storia naturale al mondo. Adesso sì che la vita si è svolta, e abbondantemente, considerata l’epoca: quando muore, nel 1605, ha 83 anni. LA MONSTRORUM HISTORIA Il libro proposto da Moscabianca uscì postumo nel 1642 grazie all’attività curatoriale di Bartolomeo Ambrosini. Un volumone di oltre mille pagine (qui s’è fatta un po’ di ragionata selezione) composto a partire da un brogliaccio piuttosto grezzo, in cui a spiccare sono innanzitutto le illustrazioni, di grande qualità, nonché – come sottolinea il curatore dell’attuale edizione – l’enciclopedismo di Aldrovandi, che arricchisce il suo catalogo teratologico di “pagine di etimologia e storia delle parole, digressioni storiche e mitologiche, rassegne di curiosità, superstizioni e credenze”. L’Illuminismo è di là da venire, ma è a Bologna, un secolo prima, che si fa la semina. Marco Enrico Giacomelli

ULISSE ALDROVANDI MONSTRORUM HISTORIA

a cura di Lorenzo Peka Moscabianca, Roma 2022 Pagg. 320, € 24 ISBN 9788831982290 moscabiancaedizioni.it



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