Grandi Mostre #28

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TIZIANO/MILANO • YSL/PARIGI

Donatello, Madonna col Bambino, 1410-15 ca. © Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst. © photo Ela Bialkowska OKNO studio

DONATELLO/FIRENZE • LUIGI SPINA/NAPOLI

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IN APERTURA / DONATELLO / FIRENZE

Donatello, Firenze e il Rinascimento

Giulia Giaume

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uesta non è solo una mostra storica, ma un momento storico”. Il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, non ha dubbi. Donatello, il Rinascimento è una delle mostre del 2022. Centotrenta opere da tutta Europa, di cui cinquanta solo di Donatello, ricostruiscono un’immagine monumentale del genio fiorentino, la più completa mai composta, che riporta alla sua figura l’inizio del Rinascimento e della gloria fiorentina: una grandissima occasione per conoscere l’artista nel suo tempo, anche grazie al contributo di circa sessanta istituzioni internazionali. Donato di Niccolò di Betto Bardi (Firenze, 1386-1466) emerge qui come il nume tutelare dell’arte rinascimentale insieme al maestro e amico Filippo Brunelleschi – con cui lavorò alla cattedrale fiorentina dopo essere stato l’allievo del suo “rivale”, quel sommo orafo Ghiberti che si aggiudicò la porta nord del Battistero con Il

sacrificio di Isacco –, nonché artista rivoluzionario e dirompente. Dall’interpretazione tridimensionale dello strumento prospettico alla creazione della tecnica dello “stiacciato”, con cui dava forma a bassorilievi tridimensionali attraverso variazioni di spessore millimetrico, fino all’attenzione per la psicologia e alle emozioni dei soggetti, Donatello semplicemente cambiò ogni parametro artistico catapultandolo nella modernità. “Donatello non è solo un patriarca di un’epoca, come Giotto prima e Michelangelo poi”, spiega il curatore Francesco Caglioti, professore di Storia dell’Arte Medievale alla Scuola Normale di Pisa, “è un uomo che esorbita dall’arte occidentale”.

LA MODERNITÀ DI DONATELLO

Il percorso espositivo, che si snoda tra Palazzo Strozzi e il Museo Nazionale del Bargello, accompagna i visitatori dalla giovane età del maestro alle ultime creazioni, accostando alle sue opere sculture, dipinti e disegni di Brunelleschi, Masaccio, Mantegna, Bellini, Raffaello,

Michelangelo e molti altri artisti. Il percorso di Donatello viene qui studiato ed esposto con rigore scientifico impeccabile, prima di tutto del curatore Caglioti, facendone emergere lo spirito moderno e trasgressivo, alla base di una continua ridiscussione dei canoni artistici preesistenti. “È stato il più grande allievo di Brunelleschi, ma lo ha superato introducendo sempre nuovi elementi e giocando con i tempi della rappresentazione. Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Pontormo sono allievi ideali di Donatello, più intelligenti di quelli troppo vicini al suo fuoco”, ricorda il professore, che lo indica senza esitazione come una delle personalità più influenti dell’arte italiana di tutti i tempi. Basti guardare la Madonna della Scala di Michelangelo, una perfetta rielaborazione della Madonna dei Pazzi, così come l’Imago Pietatis di Bellini è figlia diretta dell’omonima opera del fiorentino, per non parlare della Testa Carafa, la gigantesca protome di cavallo in bronzo “tanto perfetta da sembrare antica”, disse il Vasari (allestita qui accanto alla greca Testa Medici del 340 a. C.).


IN APERTURA / DONATELLO / FIRENZE Le quattordici sezioni cronologico-tematiche mostrano come Donatello fosse “versato in tutte le tecniche della scultura. Per questo si rese immediatamente conto dei limiti di questa rispetto alla pittura, a confronto della quale veniva considerata un’arte più primitiva, che aveva perso importanza con il procedere dei secoli. Così lui rompe e sconvolge la scultura e la storia dell’arte, e dialoga da maestro con i discepoli scultori e tanti pittori”, spiega Caglioti. La prospettiva brunelleschiana, pensata come una scienza perfetta, era un vincolo troppo oneroso: “Donatello lascia a Paolo Uccello e Piero della Francesca il proseguimento di quelle ricerche e sceglie di farne un uso patetico, drammatico, romantico”.

DA FIRENZE ALL’EUROPA

L’esposizione, seppur intrisa di fiorentinità – il Marzocco in pietra serena è il perfetto simbolo della città, nato dall’unione del Martocus d’età romana con il giglio rosso in campo bianco di derivazione guelfa –, ha una piena dimensione europea, e non solo per la sua genesi. Realizzata in collaborazione con la Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst dei Musei Statali di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra, la mostra proseguirà proprio in queste due sedi: una funzione da tedofora, quella della città di Firenze, che sancisce una storica alleanza inter-europea per entità e qualità. “Abbiamo dimostrato, con questi prestiti straordinari e il profondo dialogo in corso, che l’Europa unita nella cultura funziona”, riassume la direttrice del Museo Nazionale del Bargello, Paola D’Agostino. La mostra è un trionfo. Ma di quelli non “facili”. La scultura gode meno di quella immediata comprensione garantita alla pittura da successo e diffusione – motivo per cui si rende necessaria la lettura di una densa mole di informazioni, presenti in tutte le sale – e osservare in tutta la sua gloria l’arte di Donatello trasforma la comune visione del Rinascimento, umiliando la pre-concezione scolastica e aprendo a una autentica rivelazione. fino al 31 luglio 2022

DONATELLO, IL RINASCIMENTO a cura di Francesco Caglioti Catalogo Marsilio Arte PALAZZO STROZZI Piazza Strozzi – Firenze palazzostrozzi.org MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO Via del Proconsolo 4 – Firenze bargellomusei.beniculturali.it

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3 DOMANDE AD ARTURO GALANSINO Questa mostra è un omaggio semplicemente grandioso, ma anche un’occasione storica, è corretto? È così. È l’unica occasione per poter comprendere qualcosa di questo genio incredibile. Ma non solo. Molte delle opere qui presenti non si erano mai mosse prima di essere esposte e sicuramente non si sposteranno mai più. Non è solo un’occasione unica nella vita, ma un’occasione unica nella storia. Donatello è un artista famoso ma, rispetto a quanto ha influito sulla storia dell’arte, neanche poi così noto. Sorprendentemente. Il grande pubblico non è infatti sempre in grado di collocare Donatello nel tempo e nello spazio, e definire

le sue opere principali. Non è un artista così mainstream, eppure nel suo patetismo è più contemporaneo dei contemporanei. L’allestimento della scultura è complicato: come vi siete mossi per ospitare Donatello a Palazzo Strozzi? La scultura non è “instagrammabile” quanto la pittura, è molto difficile da fotografare, da riportare sulla carta dei libri e sugli schermi (sfida che Sky Arte ha raccolto con un documentario per l’occasione), anche se dal vero resta fortissima. Abbiamo allestito le opere considerando quello che era il punto di vista pensato dallo scultore, la sua idea “estrema” di prospettiva – che comprendeva meglio di chi l’aveva inventata –, sia a livello di rilievi sia di statuaria.

DONATELLO E IL RINASCIMENTO: UNA STORIA PARALLELA

1386

Nasce a Firenze Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, da una famiglia di tiratori di lana.

1401

Tradizionalmente l’inizio del Rinascimento, coincide con la data del concorso per la porta nord del Battistero di Firenze, la “porta del Paradiso”, vinto da Lorenzo Ghiberti (primo maestro di Donatello).

1406

Donatello è inserito con successo nel cantiere del Duomo Fiorentino, diventando amico di Brunelleschi.

1411-15

Donatello realizza le statue per Orsanmichele, fornendo il primo esempio noto di stiacciato, e per il campanile di Giotto.

1428-38

Il pulpito del Duomo di Prato viene commissionato alla compagnia fondata da Donatello e Michelozzo, cooptato per gestire la mole di commissioni. Rimandata per dieci anni, l’opera si concluse in un capolavoro assoluto, un pulpito “a calice” con sette rilievi decorati con coppie di spiritelli danzanti su fondo a mosaico.

1443-54

Decennio padovano (e più genericamente nordico) di Donatello, durante il quale realizza grandi opere come la costruzione dell’altare di Sant’Antonio da Padova, con opere come la Deposizione di Cristo e il prospettico Miracolo dell’asina.

1466

Donatello, il Rinascimento. Installation view at Palazzo Strozzi, Firenze 2022. © photo Ela Bialkowska OKNO studio

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Donatello muore (secondo Vasari, in disgrazia) e trova sepoltura nei sotterranei della basilica di San Lorenzo a Firenze, vicino a Cosimo il Vecchio, proprio sotto l’altare.


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OPINIONI

La guerra e il peso della cultura

La censura da Michelangelo ai social

Antonio Natali storico dell’arte

Fabrizio Federici storico dell'arte

È

azzardato avanzare proposte su accadimenti d’attualità quando già in partenza si sappia che saranno pubblicate in un foglio la cui uscita sarà di qualche tempo successiva. L’argomento è la guerra in Ucraina. E la riflessione muove dalla necessità che ognuno nell’ambito delle sue competenze s’adoperi per il ritorno alla pace. Nella fattispecie il quesito verte sulle possibilità della cultura (in questo caso dell’arte) di contribuire a far recedere Putin dalla sua aggressione scellerata.

La proposta è di non concedere in prestito, per i prossimi anni, opere d’arte dello Stato italiano ai musei di Putin LA RISPOSTA ALLA GUERRA

Lo strazio di gente in fuga disperata, i volti attoniti di bimbi portati di corsa nei rifugi effimeri delle cantine, le file di donne silenziose che nel gelo cercano di varcare i confini d’una terra che le accolga, e infine le lacrime (le troppe lacrime) che tutti versano fra i morti e le macerie, devono indurre a trovare al più presto una soluzione (che non sia armata) per fermare la tragedia ucraina. Putin, preso da un furore dissennato, va avanti nel suo progetto espansivo, evocando sempre più spesso la minaccia d’una guerra nucleare. E dalle nostre parti ormai il pensiero circola che solo la sua destituzione possa porre fine allo strazio. Nei Paesi dell’occidente le istituzioni culturali annullano manifestazioni che coinvolgano personalità russe. E lo fanno a malincuore, giacché gli artisti penalizzati non meritano (quasi mai) quel trattamento. Ma il popolo su cui Putin impèra e su cui ricadono gli effetti nefasti delle sue scelte – esterne, ma anche interne – deve sapere che chi lo governa l’ha isolato dal contesto civile del mondo. Non mancano le colpe dell’occidente e si dovrà tenerne conto

anche in sede di negoziati per la pace; però questa è l’ora delle contromisure e dei deterrenti, non quella dei distinguo. Le armi allora no; ma l’isolamento sì.

CHE COSA PUÒ FARE LA CULTURA

In questo scenario si poneva la proposta (che ho avanzato su un quotidiano fiorentino il 27 febbraio e che ora ribadisco su questa più pertinente testata) di non concedere in prestito, per i prossimi anni, opere d’arte dello Stato italiano ai musei di Putin. A chi sorridesse di questa minaccia posso assicurare – da uomo che per una decina d’anni ha diretto gli Uffizi e per trenta ha visto i musei fiorentini contribuire considerevolmente all’esito felice d’esposizioni a Mosca e a San Pietroburgo – che si tratterebbe di un’emarginazione culturale pesante e vergognosa, non dirò per Putin, che coltiva altri interessi, ma per gl’intellettuali che l’appoggiano, sì; specialmente se altri Stati europei e americani si conterranno allo stesso modo. I politici italiani hanno per tanto tempo considerato i nostri capi d’opera biglietti da visita dello Stato italiano e di se stessi, prestandoli dove ci fosse da far brillare il nome del nostro Paese e magari quello loro personale. Ecco, è giunta l’ora d’usare quei beni a favore di un’umanità sofferente e della pace. P. S. 14 marzo 2022. Mentre in Italia si prende tempo strologando sul valore unitivo della cultura, la questione dei prestiti sembrava risolta dai russi; che, pretendendo la restituzione anzitempo di loro opere concesse a mostre in Italia, avrebbero obbligato il nostro governo a esercitare (almeno per amor proprio) il principio della reciprocità. Il direttore dell’Ermitage adesso dice che quelle restituzioni sono sospese, perché i ponti della cultura devono essere gli ultimi a saltare. Ci dica allora quali altri ponti rimangano dopo che tutto è già saltato per colpa di Putin.

Q

uanto l’arte sui social sia bersaglio della censura è noto. Ne so qualcosa io stesso: la mia pagina Mo(n)stre è sempre più vittima, specialmente su Facebook, delle ire di Meta. L’ultima pietra dello scandalo è stata la copertina di Vanity Fair Italia con Mahmood e Blanco allo stato brado (ma con i Paesi Bassi ben coperti), peraltro mixata con il mosaico ravennate raffigurante Giustiniano e il suo seguito: ma quale oscenità, si rimuova subito e si punisca il pornografo! Poco prima questa sorte era toccata a una miniatura del XV secolo (sic), raffigurante una scena di autoevirazione, peraltro postata spesso in passato: ma questa volta la scena era associata a una didascalia (“Cosa potranno fare i No Vax dopo il 6 dicembre”) che prendeva in giro (direi in maniera bonaria e, in fondo, intrisa di umanità) gli oppositori dei vaccini anti-Covid, i quali non hanno gradito, hanno segnalato il post e ne hanno ottenuto la rimozione.

I social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa IL POTERE DELL’ALGORITMO

Il problema non è solo la cancellazione del singolo post: il colpevole è sottoposto a punizioni via via più severe, quali l’impossibilità di postare e commentare per alcuni giorni e un deciso ridimensionamento della distribuzione dei post una volta che può farlo di nuovo. Impossibile, o comunque molto difficile, protestare o anche solo sapere quando il castigo avrà termine. Perlomeno Michelangelo (si parva licet…), saputo che papa Paolo IV, come riporta Vasari, voleva fargli “acconciare” il Giudizio, perché “disonesto”, poteva mandare a dire al pontefice “che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto”.

All’alba del terzo millennio non si sa nemmeno con chi prendersela: a manovrare la mannaia non c’è un essere umano, ma il misterioso, totemico “algoritmo”, che celebra in ogni suo imperscrutabile decreto il trionfo della macchina sull’uomo. Gli errori e gli arbitrî, naturalmente, abbondano: seni dipinti presi per veri, seni veri di cui non si vogliono capire le ragioni (come quelli legati alla sensibilizzazione sul tema del tumore al seno), l’utilizzo di certi termini travisato e punito, perché non se ne colgono la sfumatura ironica, l’uso provocatorio, il carattere di citazione.

UNA QUESTIONE DI LIBERTÀ

Quando la Rete si è affermata, pareva che si dischiudesse un’epoca di sconfinata libertà, di creatività senza barriere. I rischi della riduzione di tale libertà, di cui pure si è iniziato a parlare da subito, sembravano remoti, e invece eccoci qua: i social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa. Ovviamente io, come chiunque amministri una pagina social, sono parte del problema: con la mia attività su Facebook e Instagram contribuisco a tenere in piedi e a rafforzare il monopolio. Chi è dedito a rivisitare e divulgare l’arte è in cerca di soluzioni: qualcuno è migrato altrove, come i musei viennesi che hanno aperto un profilo sulla piattaforma per adulti OnlyFans. Si spera che le proteste e gli abbandoni rendano più sensibili su questi temi i responsabili dei maggiori social (anche nell’ottica della tutela dei loro stessi interessi, in primis commerciali), e che l’arte – del passato come del presente – e la creatività siano trattate con maggiore rispetto e senza ottusità.


OPINIONI

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A quando una mostra sulle serie tv?

Musei e cultura nell’era trans-pandemica

Stefano Monti economista della cultura

Elisabetta Barisoni responsabile di Ca’ Pesaro, Venezia

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l fenomeno delle serie (chiamarle serie tv è forse anche un po’ rétro) è uno dei fenomeni culturali più importanti del nostro tempo. Basti pensare a come Squid Game abbia portato alla luce un malessere sociale della Corea del Sud, e a come Servitore del Popolo sia riuscita ad anticipare la futura ascesa politica dell’attuale presidente ucraino. Realizzare una mostra dedicata alle serie, definita con una severa metodologia scientifica e con una grande conoscenza non solo delle serie tv, ma anche della realtà che raccontano, potrebbe essere forse l’opportunità di creare, nello stesso prodotto, una mostra che è insieme blockbuster e un'occasione di ricerca.

COME ESPORRE LE SERIE TV

Sarebbero molteplici, infatti, le innovazioni che l’organizzazione di una mostra di questo tipo permetterebbe di affrontare, e di presentare poi al pubblico. Dalle riflessioni più prettamente artistico-culturali alla natura degli allestimenti, fino al difficile e delicato equilibrio tra leggerezza e rappresentatività culturale che il progetto curatoriale dovrebbe garantire, per produrre un percorso espositivo e culturale che non sia né troppo commerciale né troppo sofisticatamente ricercato. Indubbie poi le conseguenti riflessioni in merito alle opere che sarebbero portate in mostra e a quale sarebbe la loro natura una volta trasportate all’interno del percorso curatoriale. Ma le innovazioni riguarderebbero anche aspetti molto meno teorici: dalla gestione dei rapporti e delle autorizzazioni necessarie con le case di produzione sino alla corretta tipologia di display da utilizzare per favorirne la fruizione.

UN’OPERAZIONE COMPLESSA

E, non da ultimo, sarebbe interessante considerare le numerose possibilità in termini di organizzazione della mostra, come

la possibilità di inaugurare, nello stesso momento, la stessa identica mostra in più Paesi, incrementando in modo considerevole le tecniche e le possibilità di distribuzione di questa peculiare categoria di prodotto artistico, tenendo altresì conto delle connessioni tra questa tipologia di mostra e le recenti introduzioni in ambito tecnologico-digitale, ad esempio la creazione di NFT delle opere esposte.

Una mostra sulle serie tv coniugherebbe blockbuster e ricerca

Una mostra che si presenterebbe sicuramente come un’operazione complessa, ma che permetterebbe al mondo dell’arte di affrontare molteplici elementi che, a oggi, non hanno ancora trovato un proprio preciso inquadramento all’interno del sistema dell’arte contemporaneo.

È

una giornata fredda ma luminosa a Venezia. Ci avviciniamo alla primavera, una stagione che tutti aspettavamo come momento di rinascita e ricostruzione. Dopo due anni di pandemia, le istituzioni culturali guardavano al 2022 come un miraggio di (quasi) normalità. Correvamo troppo, dicevano i primi commentatori dell’emergenza sanitaria; non sono del tutto d’accordo, stavamo correndo sì, ma in una direzione che andava verso una pluralità di voci sul territorio nazionale. Con l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani e il Direttivo di cui faccio parte lavoravamo alla definizione di una geografia culturale che non fosse concentrata solo sui grandi centri ma che potesse ricollocare l’eccellente lavoro fatto da molti nel panorama italiano.

MUSEI E PANDEMIA

Non concordo con chi intravedeva un clima da gioiosa Apocalisse nella società pre-pandemia, tuttavia molte cose sono cambiate negli ultimi due anni. In primo luogo ci siamo dovuti porre una domanda spesso data per scontata: siamo davvero un settore essenziale? In tempi brevi, le istituzioni italiane si sono riorganizzate per tenere viva la propria voce, attraverso iniziative digitali, il più possibile partecipative. Hanno imparato a comprendere meglio potenzialità e limiti di un mezzo fondamentale, senza rivalità con l’esperienza dal vivo, e hanno risposto all’appello, cogliendo ogni occasione di partecipare e rilanciare artisti, collezioni e attività, malgrado le interruzioni e la scarsa mobilità nazionale e internazionale. È stato importante porsi la domanda sul proprio ruolo e sul proprio agire. La risposta, infine, mi è arrivata da una visitatrice di Ca’ Pesaro, nel giugno 2021: abbiamo sempre bisogno di bellezza e del Museo come luogo dove piangere, ridere, stare in pace, pensare, ricordare. Qualcosa forse è cambiato anche nel pubblico, più attento e più concentrato sul patrimonio storico e culturale.

DAL VIRUS ALLA GUERRA

Nuove riflessioni sono entrate nelle istituzioni, a testimoniare che le rivoluzioni non sono sempre rotture ma talvolta registrano l’accelerazione di fenomeni già in atto. Penso al rapporto tra uomo e tecnologia, tra postmoderno e postumano, alla nostra sopravvivenza sulla Terra, infine al movimento #MeToo e alla cancel culture. Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo; senza volerli relegare a ruolo di termoigrometri del presente o di inutili Cassandre, siamo in attesa di vedere quali opere sono nate e nasceranno da questo eccezionale periodo della Storia.

Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo Certo non è facile leggere il presente; mentre stiamo lavorando alla ricostruzione di un’era trans-pandemica, un nuovo dramma è piombato sulle nostre vite. Il virus ci aveva resi simili e vicini come esseri umani vulnerabili. Lo scoppio della guerra in Ucraina ci ha riportato invece in una dimensione di restaurazione, di rassegnata adesione a odiosi ricorsi storici. Un dramma umanitario e geopolitico si sta consumando mentre a Venezia fervono i preparativi della nuova stagione espositiva. Aspettavamo la Biennale Arte del 2022, ingenuamente paragonandola a quella del 1948, quando il Commissario Ponti scriveva: “L’arte invita tutti gli uomini, oltre le frontiere nazionali, oltre le barriere ideologiche, a un linguaggio che dovrebbe unirli in una umanistica intesa e universale famiglia contro ogni babelica disunione e disarmonia”. Possiamo solo continuare a lavorare perché la primavera che sta arrivando sia davvero una stagione di umanistica intesa e di rinascita.


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FOTOGRAFIA / LUIGI SPINA / NAPOLI

La memoria di Pompei negli scatti di Luigi Spina

Angela Madesani

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a mostra di Luigi Spina (Santa Maria Capua Vetere, 1966) nelle sale della Villa dei Papiri al MANN di Napoli presenta cinquanta fotografie in bianco e nero dedicate ai manufatti conservati nei depositi del museo partenopeo, le cosiddette “celle di Sing Sing”. Si tratta di oggetti di vario genere, dai vasi alle anfore ai pezzi di pane bruciato. Le immagini di Spina evocano un attimo particolare, la fine di un mondo, la catastrofe. Ci troviamo di fronte a un grande calco collettivo, che oggi, a duemila anni di distanza, viene raccontato da un linguaggio, come la fotografia analogica, dotato di una valenza indicale.

LA POETICA DI SPINA

La mostra è accompagnata da un libro di grande accuratezza che contiene i testi di Paolo Giulierini, direttore del MANN, João Vilela Geraldo, Davide Vargas e dello stesso Luigi Spina. Il volume è pubblicato dalla casa editrice 5 Continents, con cui il fotografo ha instaurato

una collaborazione decennale, che ha portato alla realizzazione di volumi come Diario mitico, ispirato ai capolavori della collezione Farnese, in cui l’arte diventa il punto di partenza per una riflessione sull’esistenza, proprio come nella mostra del MANN. Le ricerche di Spina, nel corso degli anni, sono sempre partite da un progetto di libro, sua grande passione. A oggi ne ha ventidue all’attivo e le sue opere sono pubblicate in un centinaio di volumi di ambito internazionale.

fino al 30 giugno 2022

SING SING. IL CORPO DI POMPEI Catalogo 5 Continents Editions MANN Piazza Museo 18/19 – Napoli mann-napoli.it

IL FUTURO DI SING SING

Siamo al cospetto di una mostra e di un libro di grande raffinatezza in cui è tuttavia evidente il percorso di studio e di successiva valorizzazione del patrimonio, compiuti dalla direzione dello staff scientifico del museo. La mostra, in cui il tempo è sospeso, offre un’interessante visione di un patrimonio archeologico di straordinaria portata e prelude a una nuova politica di accessibilità pubblica dei depositi museali. Il futuro di Sing Sing è segnato, per questo si è voluto l’intervento di Spina. Entro breve, infatti, i pezzi ritorneranno nelle rinnovate sezioni vesuviane del museo.

photo © Luigi Spina


FOTOGRAFIA / LUIGI SPINA / NAPOLI

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PAROLA A LUIGI SPINA Sei uno dei massimi fotografi di archeologia in Italia. Come sei approdato a questo mondo? Sono di Santa Maria Capua Vetere, un luogo che ha una storia archeologica importante e ho sempre vissuto tra le rovine. Sin da ragazzo mi sono posto il problema della mia identità e di quella degli altri, così accade quando ci si confronta con il patrimonio. Mi interessa indagare gli individui soprattutto da un punto di vista antropologico. In realtà è l’uomo a essere al centro della mia ricerca. La mostra raccoglie otto anni di lavoro, ho fotografato oggetti che provengono in particolare da scavi ercolanesi e pompeiani. Sono oggetti di natura personale, come se fossi entrato nelle case di queste persone. Si tratta di un lavoro sul tempo. In tutte le mie ricerche affronto un problema temporale, è anche questo un modo di confrontarsi con la morte. Occuparsi di passato implica spesso una dimensione tragica. Sing Sing è un luogo senza tempo, in cui sono raccolti oggetti che un tempo erano di qualcuno e che ora assumono la veste di oggetto assoluto. Qui ci troviamo di fronte alle tracce di quanto è rimasto in seguito a un olocausto naturale. Con questo lavoro sottolineo la coltre grigia del vulcano che aleggia sugli oggetti. Molti di essi non hanno più il colore della vita, sono ingrigiti. Quegli oggetti erano parte di un corpo sociale che non esiste più e che non si può più ricostruire. Inoltre volevo uscire dallo stereotipo del bell’oggetto, dell’opera d’arte, così ho fotografato molto di più gli oggetti di uso comune. Il progetto giunge al culmine con Anastilosi, che è collocata nella parte centrale del volume pubblicato da 5 Continents Editions. Per gli archeologi è il momento ricostruttivo, ottenuto mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture.

Le tue fotografie sono di grande qualità. Utilizzi il banco ottico? Per questo lavoro sì, anche se, nel corso degli anni, non ho utilizzato solo questo strumento. Nel tuo testo, che accompagna il libro, parli di “senso civico del sacro”. Nell’accezione spirituale del termine? Certo. Sono convinto che ci debba essere una sorta di sacralità civile, un fondamento di base da cui tutti dovremmo attingere. È un recinto, un vivaio delle coscienze. È un punto su cui rifletto sempre e cerco di farlo attraverso la fotografia, il linguaggio che mi appartiene. Hai realizzato il tuo primo libro con Electa Napoli quando avevi circa trent’anni, mi hai raccontato che ne inviasti una copia a Federico Zeri. Come andò? Dopo una quindicina di giorni dalla ricezione del libro mi scrisse, poi ci sentimmo al telefono. Mi disse che, a suo parere, il libro era bellissimo, e mi chiese cosa avrebbe potuto fare per aiutarmi. Mi consigliò di continuare a fare foto. Nel 1998, otto giorni prima della sua morte, mi scrisse una lettera, che conservo gelosamente, dove si scusava di non potere venire alla mia mostra, a causa di un forte dolore alle ossa. Chiudeva la lettera con: “Le auguro il successo che le sue fotografie meritano”. È stato un importante monito per andare avanti. Sin dall’inizio ho sempre lavorato per progetti, non sono un fotografo in senso stretto. Come hai studiato l’allestimento della mostra? La mostra fotografica è allestita presso la Collezione della Villa dei Papiri. L’intento mio e del direttore, Paolo Giulierini, è stato quello di far dialogare le immagini di Sing Sing con i bronzi ercolanesi simbolo della catastrofica eruzione del Vesuvio. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]

SING SING: LA STORIA DEL DEPOSITO Curioso nome Sing Sing per il deposito di un museo archeologico fra i più importanti al mondo. A tutti noi fa venire in mente il penitenziario, a cinquanta chilometri da New York, dove in Colazione da Tiffany Audrey Hepburn andava a portare notizie a Sally Tomato, il pericoloso gangster che là era rinchiuso a vita. Il carcere di massima sicurezza, in attività dal 1826, fu costruito nel villaggio allora chiamato Sing Sing e poi ribattezzato Ossining. Il deposito si trova nei sottotetti del MANN. L’idea di chiamarlo così è venuta, negli Anni Settanta, all’archeologo Giuseppe Maggi: si tratta, infatti, di un lunghissimo corridoio popolato da quindici celle. Come spiega il direttore del MANN, Paolo Giulierini, fra le pagine del volume che accompagna la mostra: “Sing Sing è l’esito finale di una sciagurata scelta avviata a partire dagli Anni Sessanta che previde, sulla scorta delle nuove idee di riordino per contesti, lo smontaggio sistematico di buona parte di un museo nato essenzialmente da collezioni e reperti scavati senza precisi riferimenti. Se a questo processo si aggiunge l’insensata decisione, del 1958, di separare la collezione pittorica moderna per trasferirla alla Reggia di Capodimonte, che museo non era, si comprendono bene le ragioni del perché Napoli non può ancora a pieno titolo concorrere, come potrebbe tranquillamente fare, con altri colossi nazionali e internazionali che non hanno subito tale destino”. Sing Sing ospita gli oggetti quotidiani di Pompei ed Ercolano sopravvissuti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Non si tratta di oggetti di seconda scelta, quanto piuttosto di oggetti dismessi, che racchiudono storie di vita interrotte e rese eterne dalla catastrofe naturale.


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GRANDI CLASSICI / TIZIANO / MILANO

Tiziano e le donne nella Venezia del ‘500 Neve Mazzoleni

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a mostra allestita fra le sale di Palazzo Reale a Milano identifica in Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1489 ca. – Venezia, 1576) il testimone privilegiato dello stile di vita delle donne veneziane. Più di 100 opere, di cui 47 sono dipinti, 16 dei quali di mano del pittore veneto, accompagnato anche dai maestri coevi, come, fra gli altri, Giorgione, Palma il Vecchio, Jacopo Tintoretto, Paolo Veronese, Lorenzo Lotto, Paris Bordon, Bernardino Licinio, Giovanni Cariani, il Moretto da Brescia, ritraggono con precisione questa peculiarità storica della Repubblica della Serenissima. La maggior parte delle opere provengono dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, mentre i contributi letterari attingono dalle principali raccolte, archivi, biblioteche milanesi. Secondo la curatrice Sylvia Ferino: “Tiziano ha ricreato la donna. Che si trattasse di dipinti religiosi, di ritratti, di ‘belle donne’ o di personaggi femminili della mitologia, l’artista riuscì a conferirle un aspetto così vitale e luminoso, un tale spessore e un erotismo sempre così meravigliosamente sofisticato da assicurare fama eterna alla donna e a se stesso”.

LE DONNE VISTE DAGLI ARTISTI

In un percorso che si snoda in undici sezioni, Tiziano e i suoi contemporanei definiscono un profilo modernissimo della donna, riproponendo generi ricorrenti in pittura, con nuove esplorazioni che risuonano nei documenti d’epoca, che siano poesia, oppure saggi di letteratura di costume o proto-forme di istanze femministe. I due ritratti di Isabella D’Este (1534 e 1536) ed Elisabetta Gonzaga della Rovere (1537 ca.) di Tiziano aprono la mostra con eleganza e autorevolezza, “testimonial” del concept curatoriale, soprattutto nell’idealizzazione della prima, che risulta più giovane della figlia, nonostante ai tempi della realizzazione del dipinto avesse già sessant’anni. Interessante anche il Ritratto di una bambina di casa Redetti del bergamasco Moroni, dove il canone nobilita anche le più piccole. La Serenissima non approva il culto della memoria e vieta i ritratti celebrativi, soprattutto delle donne. Ma gli artisti veneti trovano alternative: il genere delle “Belle veneziane”, circolato con vivacità nel collezionismo patrizio della città lagunare, permette loro maggiore autonomia con la rappresentazione di donne senza identità precisa, fra le spose promesse identificabili dagli anelli gemelli del fidanzamento e le

fino al 5 giugno 2022

TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO a cura di Sylvia Ferino Catalogo Skira PALAZZO REALE Piazza del Duomo 12 – Milano palazzorealemilano.it

in alto: Tiziano, Venere e Marte, 1550 ca. Olio su tela, 97x109 cm. Kunsthistorisches Museum, Vienna a destra: Tiziano, Giovane donna con cappello piumato, 1534-36 ca. Olio su tela, 96x75 cm. Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo

cortigiane lascive di cui in mostra spiccano le procaci dame di Palma il Vecchio. Anche il patrimonio librario documenta l’interesse per le molteplici manifestazioni della femminilità del tempo, ad esempio attraverso la serie di 23 xilografie di Cesare Vecellio del 1590, che catalogano in modo sistematico i costumi muliebri, dalle “donzelle et fanciulle di Venezia” alle “donne di Venetia attempate et dimesse”.

NON SOLO IDEALIZZAZIONI

Il filone iconografico “Apri il cuore” propone le dame ritratte mostrando il petto nudo, stimolando con l’occasione nuove indagini e scoperte. Enrico Maria Dal Pozzolo, nel volume di accompagnamento all’esposizione, approfondisce l’iconografia della misteriosa Laura di Giorgione del 1506, tradizionalmente identificata con la Virtù, data la presenza dal lauro, tenendo in considerazione anche tradizioni mariane: “Si sa, infatti che in epoca medievale vari


GRANDI CLASSICI / TIZIANO / MILANO

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LA MOSTRA IN NUMERI

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sezioni

testi celebravano il seno di Maria: uno dei più significativi è il Liber Marialis di Jacopo da Varagine, da cui si evincono decine di nessi simbolici. In effetti, nel Quattrocento italiano si registra quella che è stata definita una ‘teleologia sulla posizione del seno’. […] L’allattamento di Gesù Bambino era un’esperienza mistica concessa a molte sante”. Dal Pozzolo trova nella lirica profana un’ulteriore chiave di lettura: ad esempio, il poeta Pontano descrive il petto femminile come fonte da cui nasce un raggio di sole che rischiara la notte. È verosimile per lo studioso che tali componimenti circolassero fra gli artisti, cosicché il seno accanto all’immagine della fonte di vita è divenuto simbolo di luce interiore. Insieme alle idealizzazioni, troviamo in mostra le ombre che minacciano il femminile, seppur trasposte in storie mirabili di sante ed eroine: nel Tarquinio e Lucrezia del 1572-76 ca., Tiziano denuncia la violenza brutale sulla donna, mentre nella Susanna e i vecchioni, (1555-56 ca.), Jacopo Tintoretto definisce con chiarezza, in una meravigliosa composizione di generi pittorici, la purezza della donna rispetto al voyeurismo perverso e rapace dell’uomo, ridicolizzato nelle figure dei due vecchi.

FRA ARTE E LETTERATURA

La pittura si dimostra alleata della letteratura anche nel testimoniare come le donne veneziane partecipino alla cultura: in mostra spiccano i ritratti di Veronica Franco di Domenico Tintoretto e la Salomè, alias Tullia d’Aragona, di Moretto da Brescia, cortigiane erudite, diventate famose poetesse, di cui troviamo i volumi nelle teche. Molte figlie di famiglie notabili ricevevano una cultura umanistica e si cimentavano con la lirica, come Gaspara Stampa. Attraverso le storie degli amori di Venere, con Marte, con Adone, Tiziano coglie l’occasione per ritrarre il bellissimo e divinizzato corpo delle donne, ma anche per mettere in guardia dai rischi dell’amore. Altro genere di riferimento sono le trasformazioni di Giove nel concupire ninfe e fanciulle, raccolte nel classico di Ovidio Le Metamorfosi. Per Tiziano e gli altri maestri veneti, non si tratta unicamente della trasposizione erudita del testo, bensì di una conferma sull’eternità delle passioni umane e quasi di un insegnamento morale. La chiusura del percorso è affidata alla bella Ninfa e Pastore, opera tarda di Tiziano (1575), che non ha espressi riferimenti letterari, ma è una donna sopra le epoche, dominante anche nella sua fisicità, unica a comprendere la forza del destino, della natura, presenze minacciose nello sfondo indeterminato del dipinto, che regnano sopra la civilizzazione, l’amore, l’arte.

di cui

21

opere

47 dipinti

volumi a stampa

66 opere

provenienti dal Kunsthistoriches Museum di Vienna

24 opere

provenienti da musei italiani e internazionali

16

dipinti di Tiziano

5

dipinti di Tintoretto

5

dipinti di Palma il Vecchio

LE OPERE A RISCHIO RESTITUZIONE In questi giorni l’opera di Tiziano intitolata Giovane donna con cappello piumato (1534-36 ca.) dell’Ermitage di San Pietroburgo ha concentrato molta attenzione su di sé. Il museo di provenienza aveva fatto richiesta di restituzione immediata, quasi come atto ritorsivo alla guerra in corso con l’Ucraina. Ma alla fine ha confermato l’intero periodo di permanenza a Milano. Un ottimo segnale di distensione almeno sulle collaborazioni culturali. L’opera fa parte di una serie di ritratti della stessa donna, insieme ad esempio a La Bella della Galleria Palatina di Firenze e alla Giovane donna con pelliccia del Kunsthistoriches Museum di Vienna, della quale non è stata ancora individuata l’identità. Tiziano ha creato una sorta di crescendo di erotismo e seduzione intorno a questa figura, probabilmente di nobili origini a giudicare dagli abiti fastosi, dall’eleganza dei gioielli, dalla fierezza del portamento. Da San Pietroburgo proviene anche l’opera di Giovanni Cariani Giovane donna con vecchio di profilo, del 1515-16, attribuita al pittore bergamasco solo nel 1871 dal critico d’arte Giovanni Battista Cavalcaselle, dopo precedenti attribuzioni a Tiziano. Il dipinto giunge dalla collezione Crozat, passando di proprietà imperiale nel 1772. Per diverso tempo il titolo del quadro è stato La seduzione, riprendendo soggetti dipinti da Giorgione e da Tiziano. Nel 1979, la critica d’arte Tamara Fomiciova propose una nuova interpretazione: la fanciulla sarebbe una veggente che con la sua profezia, legata alla mano sulla sfera, tiene in suo potere un vecchio che crede di poter ancora avere desideri di gioventù.


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DIETRO LE QUINTE / LUCIO FONTANA / PARMA

L’arte e le parole di Lucio Fontana

Marta Santacatterina

L

a mia scoperta è stata il buco e basta: io son contento anche di morire dopo quella scoperta”. È una frase pronunciata da Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe, 1899 – Comabbio, 1968) nel corso di un’intervista concessa a Carla Lonzi (Firenze, 1931 – Milano, 1982) il 10 ottobre 1967. Ed è pure la frase conclusiva dei pannelli che illustrano la mostra Lucio Fontana. Autoritratto alla Fondazione Magnani-Rocca, a pochi chilometri da Parma. È merito di uno dei curatori, Gaspare Luigi Marcone, aver recuperato l’intervista integrale, poi pubblicata nel 1969 tra le pagine di Autoritratto della stessa Lonzi, volume che ha ispirato evidentemente il titolo della rassegna. La registrazione, presa con un allora avanguardistico magnetofono, dura un’ora e mezza, può essere ascoltata per intero in una saletta della villa di Mamiano ed è il punto di partenza di un progetto espositivo solido, che ricostruisce i pensieri espressi dall’artista attraverso le sue opere, molte delle quali provenienti dalla Fon-

dazione Lucio Fontana, che non è stata certo avara nella concessione dei prestiti. “La Fondazione ci ha offerto il suo imprescindibile supporto e il prestito di opere capitali”, dichiara Stefano Roffi, direttore scientifico della Magnani-Rocca. “Ma l’esposizione consente di far conoscere anche importanti presenze ‘fontaniane’ nel nostro territorio. Il progetto ha fin dall’inizio riscontrato l’adesione di istituzioni e collezionisti privati che non hanno esitato a far uscire lavori importantissimi dalle proprie sale, in particolare lo CSAC dell’Università di Parma che la signora Teresita, vedova dell’artista, individuò come destinatario di una importante donazione; e poi la Biblioteca Fondazione Cariparma di Busseto, Donazione Corrado Mingardi, che ha prestato il prezioso libro di Sinisgalli contenente due ‘Concetti spaziali’ di Fontana; la Collezione Barilla di Arte Moderna, con uno spettacolare ‘Taglio’ dei primi Anni Sessanta, e infine Giampaolo Cagnin, che offre alla pubblica ammirazione la grandezza di Fontana plastico con la ‘Trasfigurazione’”. Allestita nella dimora dove si conserva l’eccellente raccolta d’arte di Luigi Magnani, la mo-

stra può essere considerata un nuovo capitolo di approfondimento del Novecento italiano: “Magnani amava tanto Morandi e Cézanne perché pura forma”, precisa Roffi, “pura ricerca concettuale, senza contenuto narrativo. Si può pensare a Fontana come completamento ideale della sua ricerca: l’abbandono definitivo della materia in favore di una sintesi artistica e di una scoperta della luce che permette di scorgere il divino senza antitesi con la scienza, ma con il suo ausilio”.

FONTANA IN MOSTRA

Negli Anni Trenta, Lucio Fontana era ancora un artista figurativo: la sua esperienza nell’atelier del padre in Argentina, dove realizzava sculture per monumenti funebri, lo rese padrone nella lavorazione della materia. La mostra prende così il via con una testa di ragazza del 1931 che fa capolino sotto la magnifica Sacra conversazione di Tiziano, ma muovendo qualche passo nella prima sala ci si rende subito conto del progressivo abbandono, da parte di Fontana, della riproduzione fedele della figura, privilegiando forme organiche smaltate, colo-


DIETRO LE QUINTE / LUCIO FONTANA / PARMA

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CARLA LONZI INTERVISTA LUCIO FONTANA “L’incontro tra Lonzi e Fontana è davvero una soglia, entrambi dopo poco tempo lasceranno in modo diverso il mondo dell’arte donando però un’eredità monumentale”, commenta Gaspare Luigi Marcone nel catalogo della mostra. Carla Lonzi infatti abbandonò poco dopo la critica d’arte per dedicarsi a istanze femministe, ma prima intervistò numerosi artisti, consentendo loro di parlare liberamente e ponendo solo di rado domande puntuali. Nel flusso narrativo che ne deriva, Lucio Fontana non si risparmia e rivela la sua poetica, il rapporto con l’arte contemporanea (quella dei giovani che stimava, ad esempio), gli aspetti tecnici ma soprattutto filosofici del suo lavoro. Non risparmia nemmeno giudizi a dir poco tranchant, e che ora sono spassosissimi da leggere e da ascoltare: Jackson Pollock è un “macaco”, Emilio Vedova “il primo elettricista d’Italia”. Ma quel che davvero emerge è la necessità di andare oltre la materia dell’opera d’arte, un’esigenza dettata dalla “scoperta del cosmo”, dalle riflessioni su Dio, dal senso di solitudine dell’uomo che solo da pochi anni era capace di esplorare uno spazio ricolmo di silenzio atroce e angosciante. “E allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, e ho creato una dimensione infinita”, chiosa l’artista.

rate e lucide, come dimostra la già citata Trasfigurazione del 1949. Nelle vetrine si espongono i manifesti scritti da Fontana, a partire dal Manifiesto Blanco del 1946, che pose le basi dello Spazialismo, quel movimento che lo consacrò maestro di una rivoluzione artistica imprescindibile dalle scoperte scientifiche dei decenni precedenti: la relatività di Einstein, la fisica quantistica, l’affermazione dell’atomismo. Tutt’attorno si dispongono alcune sculture “astratte” realizzate su vari materiali, dalla terracotta alla latta, e uno dei primi Concetti spaziali, del 1949, in cui Fontana pratica i buchi direttamente sulla tela grezza. Chi allestisce le mostre alla Fondazione Magnani-Rocca sa bene dove collocare il capolavoro dall’impatto visivo e semantico più importante: sulla parete di fronte alla scala che scende nel cuore del percorso espositivo. Ebbene, quel punto strategico e magnetico è oggi occupato da Attesa del 1965, opera non solo straordinaria, ma che nasconde una storia assai interessante: esposta alla Biennale di Venezia del 1966 come parte di un Ambiente spaziale, fu poi donata dallo stesso artista su-

bito dopo l’alluvione che devastò Firenze nel medesimo anno; l’invito venne da Carlo Ludovico Ragghianti, intenzionato a organizzare una mostra e un museo di arte contemporanea. Ma a proposito di questo e degli altri “tagli” di Fontana, un passaggio dell’intervista con Carla Lonzi è illuminante: “Il taglio lo faccio perché poi, sai, c’è un mercato al quale noi siamo soggetti purtroppo, ancora, perché ci sono i mercanti, i collezionisti li cercano e io li faccio…”.

SCATTI MEMORABILI E UNA COLLEZIONE DI PRIMIZIE

Accanto ad altri capolavori, non si possono non notare due serie di fotografie scattate da Ugo Mulas e che il terzo curatore, Walter Guadagnini, approfondisce in catalogo. Fontana sta per tagliare una tela o sta facendo i suoi buchi, e si scopre che la prima serie non è ripresa dal vivo bensì mediante una messinscena: “Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi”, dice l’artista al fotografo, “dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove attorno a me”. “Non ci si può non fermare e meditare sull’infinito e sulla divinità, di fronte alle opere di Fontana”, ci confida ancora Stefano Roffi, e la grande sala centrale della mostra, con il perfetto equilibrio dei lavori scelti tra il Fiocinatore del 1933, Natura del 1959-60, il luminosissimo New York su rame del 1963, è l’ambiente perfetto per una comprensione profonda ed empatica delle ricerche dell’artista.

La conclusione del percorso spinge lo sguardo in due diverse direzioni: al futuro, grazie ad alcune opere provenienti dalla collezione privata di Lucio Fontana, il quale ai suoi tempi acquistava – con evidente intuito – numerose “primizie” di quei giovani artisti che oggi consideriamo giganti: Piero Manzoni, Alberto Burri, Giulio Paolini, Paolo Scheggi. L’ultima direzione, che a dire il vero apre ulteriori percorsi di riflessione, è la Fine di Dio: un grande ovale, un uovo perfetto che inevitabilmente richiama la vita, con la sua superficie luccicante e purpurea, ma che con i suoi buchi riporta a una spiritualità e a una tensione verso l’infinito, a un nuovo “divino” da cui le opere di Lucio Fontana non possono prescindere. fino al 3 luglio 2022

LUCIO FONTANA. AUTORITRATTO a cura di Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi Catalogo Silvana Editoriale FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA Via Fondazione Magnani-Rocca 4 Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it in alto: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1951, olio, sabbia e buchi su tela, 60 x 59 cm. Milano, Fondazione Lucio Fontana. © Fondazione Lucio Fontana by SIAE 2022 a sinistra: Lucio Fontana. Autoritratto, installation view at Fondazione Magnani-Rocca, Mamiano di Traversetolo 2022. Photo Tommaso Crepaldi


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OLTRECONFINE / YVES SAINT LAURENT / PARIGI

A Parigi la mostra su Yves Saint Laurent nei grandi musei Dario Bragaglia

S

ei musei parigini celebrano il 60esimo anniversario della prima collezione di alta moda firmata da Yves Saint Laurent (Orano, 1936 – Parigi, 2008) e presentata il 29 gennaio 1962. Un omaggio al talento creativo dello stilista che per tutto l’arco della sua carriera è stato costantemente ispirato dall’arte di ogni epoca.

MUSÉE YVES SAINT LAURENT

La sequenza di visita fra i sei luoghi museali è libera, ma conviene partire da avenue Marceau, che fu per trent’anni il cuore pulsante della sua attività creativa. Inizialmente due volte, successivamente quattro volte per anno, Yves Saint Laurent si rinchiudeva per settimane nelle sue residenze a Parigi e a Marrakech per disegnare le collezioni. A differenza degli altri musei, dove i modelli YSL sono messi a confronto con alcuni capolavori delle collezioni permanenti, qui si è voluto rendere omaggio a tutto il processo creativo e a coloro che vi hanno contribuito. Provenienti dal ricco patrimonio archivistico, vengono esposti materiali in gran parte inediti, come i disegni che svelano il gesto rapido, sicuro e preciso di quello che è stato anche un grande disegnatore. Salendo ai piani superiori, fino allo studio del couturier, si scoprono i vari passaggi per arrivare al modello finito. Con alcune curiosità, come l’uso delle Polaroid (l’incontro con Andy Warhol risale al 1968), sistematico a partire dal 1980, per registrare con immediatezza il lavoro prima delle sfilate, ma anche per cogliere qualche momento di intimità, di leggerezza nel lavoro dell’atelier.

MUSÉE DU LOUVRE

Nella Galerie d’Apollon quattro modelli di eccezionale ricchezza decorativa testimoniano l’audacia di Yves Saint Laurent nel confrontarsi con l’esempio classico. “Il mio proposito non è quello di misurarmi con i maestri, tutt’al più di accostarmi, di apprendere una lezione dal loro genio”, diceva. E qui siamo in un contesto dove l’esuberanza degli apparati decorativi, da Charles Le Brun a Eugène Delacroix, accompagna l’esposizione dei Gioielli della Corona di Francia. Diamanti, smeraldi, zaffiri sembrano dialogare con il caraco del 1981 in organza ricamata d’oro e pietre della Maison Lesage. Come negli altri modelli esposti, gli stili, le epoche, le ispirazioni etniche si sovrappongono in una sorta di eclettismo creativo che ha l’ambizione di elevarsi al rango delle opere che lo hanno ispirato.

L’IDENTIKIT DI YVES SAINT LAURENT A soli 18 anni un ragazzino di nome Yves, nato nel 1936 e proveniente dall’Algeria, allora colonia francese, viene segnalato a Christian Dior, a quel tempo dominatore assoluto, con Coco Chanel, della couture parigina. Di lì a poco ne farà il suo delfino: correva l’anno 1955. Il 24 ottobre 1957 Dior però muore prematuramente: un infarto lo coglie a Montecatini. L’anno seguente, il 30 gennaio, “il Santo” – così la stampa internazionale chiamerà Saint Laurent da quel momento – compie il miracolo: con una collezione che suscita entusiasmo, fuga ogni dubbio intorno al futuro del brand Dior. Il “Petit Prince” – altro soprannome affibbiatogli dai media – ha una figura fragile, ma mette immediatamente in campo un’autorità incontestabile come creativo: sforna a ripetizione collezioni haute couture che sono invariabilmente un successo. Poi accade l’impensabile: un mese dopo quella presentata nel settembre 1960,

viene chiamato alle armi per servire nella guerra all’indipendenza algerina. Yves non ha un carattere facile e, nonostante i successi, il finanziatore della maison ne approfitta per sostituirlo. Quando viene raggiunto dalla notizia, il Petit Prince si trova in un ospedale militare depresso sino all’esaurimento, sedato a stento da droghe e psicofarmaci. Accanto a lui però c’è l’incrollabile Pierre Bergé, compagno per tutta la vita, che nel 1962 fonda insieme a lui la maison YSL. Da quel momento in avanti la sua è una marcia trionfale che procede per tutti gli Anni Ottanta e Novanta. Questo almeno è ciò che appare. Perché l’utilizzo di droghe e psicofarmaci in realtà non è mai cessato: il male oscuro della depressione porta lo stilista ad abbandonare ogni attività nel 2002. Si spegnerà a causa di un cancro al cervello nel 2008. Aldo Premoli


OLTRECONFINE / YVES SAINT LAURENT / PARIGI

MUSÉE D’ORSAY

Nel cuore del Salon de l’Horloge si scopre la fascinazione che l’opera di Marcel Proust ebbe sullo stilista, fin dalla sua giovinezza. Sono esposti i modelli che Yves Saint Laurent crea in occasione del ballo Proust organizzato dal barone e dalla baronessa Rothschild il 2 dicembre 1971. Oltre a Marie-Hélène de Rothschild, a indossare gli abiti firmati YSL, ispirati ai personaggi della Recherche, furono anche Jane Birkin, Hélène Rochas e altre invitate. Gli smoking destinati alle donne alludono all’ambivalenza del maschile e del femminile, tema presente nell’opera proustiana. “Per me, niente è più bello di una donna che indossa un vestito da uomo”, dichiarò lo stilista, che fin dalla collezione autunno-inverno del 1966 aveva creato una versione femminile dello smoking.

MUSÉE NATIONAL PICASSO

a sinistra: Yves Saint Laurent aux Musées, installation view at Musée d’Orsay, Parigi 2022. Photo Nicolas Mathéus in alto: Yves Saint Laurent, Hommage à Piet Mondrian, autunno-inverno 1965. Musée Yves Saint Laurent, Parigi © Yves Saint Laurent. Photo Nicolas Mathéus

A chi gli domandava “fra i pittori chi è quello che sente più vicino?”, YSL rispondeva: “Picasso, sempre”. Affascinato dall’artista spagnolo, gli rende omaggio in diversi momenti della sua carriera. Nel 1979, dopo aver visitato la mostra dedicata ai Balletti russi presso la Biblioteca nazionale, lo stilista gli dedica la collezione autunno-inverno. In una sala del museo, i curatori hanno opportunamente voluto accostare il Portrait de Nusch Éluard di Picasso (1937) alla Veste Hommage à Pablo Picasso del 1979. Nel 1988 Yves Saint Laurent ritornerà a confrontarsi direttamente con il Cubismo di Braque e Picasso e il suo gioco di rimandi, reinterpretazioni, mimetismi è valorizzato dalla possibilità di raffrontare, con un solo sguardo, le diverse creazioni.

MUSÉE D’ART MODERNE DE PARIS

Assieme a quella organizzata al Centre Pompidou, questa del Museo d’arte moderna

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è la mostra più ricca di contenuti, dove la frase dello stilista “quando lavoro, penso costantemente all’arte, alla pittura” trova una piena esplicitazione. Sono esposte una ventina di creazioni accostate alle opere delle collezioni permanenti del museo, il cui percorso è stato per l’occasione ripensato. Forte, ad esempio, l’impatto scenografico dei tre modelli posti al centro della grande Salle Dufy, dove alle pareti dello spazio semicircolare campeggia l’affresco La Fée Électricité, dipinto nel 1936 da Raoul Dufy. Seguendo il percorso del museo, il gioco di rimandi, allusioni, corrispondenze fra le tele e i tessuti diventa godibilissimo e trasmette tutta quella felicità creativa che YSL ha sempre dichiarato di provare nelle settimane in cui lavorava alle nuove collezioni. Henri Matisse, Pierre Bonnard, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana: le sale raccontano di un dialogo ininterrotto con l’arte del XX secolo.

CENTRE POMPIDOU

Il Beaubourg è il luogo in cui, il 22 gennaio 2002, Yves Saint Laurent si ritirò definitivamente dalla haute couture dopo un’ultima sfilata retrospettiva (ma come non ricordare l’omaggio che già nel 1980 gli aveva tributato il Metropolitan Museum di New York?). Ai livelli 5 e 4 del museo, tredici punti di confronto illuminano sulle fonti di ispirazione del couturier. Henri Matisse, ancora Picasso, Fernand Léger, Robert e Sonia Delaunay, Martial Raysse, Alberto Giacometti, fra gli altri. Un momento decisivo è l’estate del 1965, quando l’opera di Piet Mondrian fa ingresso nella storia della moda. Il vestito Hommage à Piet Mondrian conosce un successo senza precedenti e contribuisce a far meglio apprezzare il pittore olandese in Francia, dove nel 1969 gli verrà dedicata la prima retrospettiva al Musée de l’Orangerie. fino al 15 maggio 2022

YVES SAINT LAURENT AUX MUSÉES

MUSÉE YVES SAINT LAURENT

CENTRE POMPIDOU MUSÉE DU LOUVRE MUSÉE D’ART MODERNE DE PARIS

MUSÉE D’ORSAY

MUSÉE NATIONAL PICASSO fino al 24 aprile 2022


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

Il Lazzaretto Nuovo è un’isola-ecomuseo da cui si sviluppa il più ampio progetto dei Lazzaretti Veneziani. Se ne fa promotrice la Fondazione Italia Patria della Bellezza, struttura nata per raccontare al mondo il talento italiano per la bellezza come parte indissolubile della nostra identità. Il Lazzaretto Nuovo è stato la soglia di Venezia nell’arco di vari secoli, luogo di passaggio di culture, lingue e oggetti da tutto il mondo. Dotato di uno dei primi impianti di fitodepurazione italiani, è un’area di circa nove ettari che si trova all’inizio del canale di Sant’Erasmo. Monastero benedettino durante il Medioevo, divenne lazzaretto con il compito di prevenire i contagi, attraverso metodi e rimedi (ad esempio l’uso di fumi con erbe mediche e aceto), poi esportati nel resto del globo. In seguito, la struttura fu trasformata in fortezza e funzionò sotto il dominio napoleonico e austriaco. Utilizzata dall’Esercito fino agli inizi degli Anni Settanta, fu poi dismessa e infine recuperata dal Ministero della Cultura e restituita alla collettività per mostre e visite.

VENEZIA IL LAZZARETTO NUOVO

Quando sarà scritta una controstoria dell’arte del Novecento in Italia, lontano dalle sintesi estreme che hanno trascurato pezzi interi di ricerca, esperienze, visioni, un posto di rilievo dovrà essere assegnato certamente a Gaetano Martinez, salentino nato a Galatina nel 1892 e morto a Roma nel 1951. Autoritratti (tema a cui è stato legato fino agli ultimi anni di attività) e ancora Maternità, nudi femminili e maschili, volti e profili animali – concepiti con un segno essenziale e sicuro: al disegno e alla scultura Gaetano Martinez ha dedicato un impegno intenso, in grado di generare forme anatomiche espressive e un lavoro sistematico sulle esperienze esistenziali. Dal Salento ha attraversato una storia intensa, soprattutto a Roma, città in cui si è trasferito stabilmente sin dal 1925, riscuotendo importanti riconoscimenti anche nazionali. Basti pensare che per ben nove edizioni è stato protagonista della Biennale di Venezia, che nel 1942 gli ha anche dedicato una sala personale.

GALATINA MUSEO CIVICO PIETRO CAVOTI

BARENE E NATURA Isola fra le più ricche di biodiversità, immersa in un ecosistema fragile oggi a rischio di scomparsa, il Lazzaretto Nuovo si arricchisce di una passeggiata naturalistica che copre un chilometro intorno alla cinta muraria del vecchio “giro di ronda”. Questo percorso, detto Il Sentiero delle Barene, racconta la Laguna esplorandone il suo ambiente più prezioso. Le barene sono distese basse e piatte di una vegetazione densa, appoggiata su un suolo argilloso, che riunisce le poche piante in grado di adattarsi alla salinità (come la Salicornia veneta, il Limonium, l’Astro marino, il Giunco). Le barene aiutano a stabilizzare il terreno, hanno un effetto depurante e costituiscono l’habitat ideale per molte specie ittiche e l’avifauna marina. Il sentiero naturalistico si snoda attraverso piccoli canali, boschetti di allori, frassini, biancospino, pruni selvatici, cannucce palustri, e offre una splendida vista a 360 gradi di fronte a Venezia.

Le barene dell’isola del Lazzaretto Nuovo, Venezia. Photo Claudia Zanfi

CHI È GAETANO MARTINEZ Scultore raffinato, si è concentrato costantemente sul fronte del disegno, sia per concepire studi progettuali propedeutici alla nascita di nuove opere plastiche, sia con lavori autonomi. Negli Anni Trenta ha deciso di donare un nucleo significativo di sculture e carte alla propria città, a cui è rimasto sempre molto legato grazie ai rapporti profondi con la propria famiglia. E il museo è uno scrigno prezioso di percorsi, che con questa città hanno un legame speciale, anzitutto quello di Pietro Cavoti, da cui prende il nome, intellettuale e artista che proprio a Galatina portò avanti una ricerca sui monumenti del proprio territorio.

La sala del dolore esistenziale

UN GIARDINO IN LAGUNA La Laguna di Venezia è la più importante zona umida d’Italia per l’avifauna acquatica. Infatti durante lo svernamento e le migrazioni, migliaia di uccelli trovano alimento nei bassi fondali lagunari, e le barene del Lazzaretto sono l’ambiente più peculiare di questo ecosistema. La visita dell’isola comprende un percorso storico e uno naturalistico. Il giardino ha gelsi secolari posti lungo i viali a raggiera di impianto austriaco, frassini e pioppi intorno al pozzo, alberi da frutto lungo le mura. Sbarcati sul pontile, si percorre il lungo viale di gelsi secolari che conduce al Tezon Grande, edificio principale dell’isola che ospita sezioni espositive temporanee e permanenti e sulle cui pareti si trovano incisioni, e simboli misteriosi. Durante la Biennale di Venezia una visita a questo inusuale giardino offre nuovi punti di osservazione sulla Laguna. Claudia Zanfi

MARTINEZ AL MUSEO CAVOTI Ma torniamo a Martinez: fra gli Anni Trenta e Quaranta espone in numerose mostre a Bari, Firenze, Napoli, Milano, Roma – dove partecipa alle Quadriennali d’Arte del 1939, 1943, 1948 – e Venezia, città nella quale – dopo la partecipazione alla Biennale del 1928 – è presente alle edizioni del 1930, 1934, 1936, 1938, 1940, 1942 (quando gli viene dedicata una personale), 1948, 1950. Partendo proprio dalle opere di Martinez custodite nel museo, Salvatore Luperto ha tracciato una disamina ampia sul tema del dolore nella scultura e nelle opere su carta dell’artista, data recentemente alle stampe proprio dal museo Cavoti, Il dolore esistenziale nell’arte di Gaetano Martinez, dove sostiene che “Martinez nelle sculture […] lascia trasparire il suo animo di un ‘vinto’ che soggiace al suo destino, ma allo stesso tempo anche la reazione alla sua desolazione con la passione per l’arte e con la consapevolezza del suo genio creativo". Lorenzo Madaro

SEZIONE GAETANO MARTINEZ Via Pasquale Cafaro 1 0836 561568


RUBRICHE

I LIBRI

Ha un’origine “antica” questo monumentale lavoro di ricerca firmato da Annie-Paule Quinsac. Un primo, importante nucleo risale al 1968, quando l’autrice presentò la propria tesi di dottorato alla Sorbona di Parigi. La dissertazione prendeva in esame il periodo 1880-1895 e venne pubblicata nel 1972 da Klincksieck, storica casa editrice fondata nel 1842 che – in quegli anni come tuttora – non ha mai cessato di esplorare con coraggio il campo della teoria e della storia dell’arte. Un esempio? Il libro più importante e meno studiato di Jean-François Lyotard - Discours, figure - è uscito per i tipi di Klincksieck. IL DIVISIONISMO 50 ANNI DOPO A distanza di cinquant’anni, il libro non soltanto viene tradotto, ma diventa di fatto un altro prodotto editoriale: l’arco temporale si estende fino al 1920, l’apparato iconografico si moltiplica, i volumi diventano due e in diversi passaggi si torna alla forma che lo scritto aveva nel 1968. E naturalmente in mezzo secolo è l’oggetto di studio stesso a variare: “Il corpus dei singoli artisti si è ampliato grazie al rinvenimento di dipinti e dati forniti da archivi finalmente catalogati, le schermaglie ideologiche hanno trovato pace, sono nate nuove tecnologie, si è tentato un inizio di diffusione all’estero”, scrive l’autrice. Ancora più rilevante è l’aggiunta di Carlo Fornara fra i pittori presi in esame più approfonditamente, che si va a sommare all’ottetto originario composto da Vittore Grubicy de Dragon, Gaetano Previati, Angelo Morbelli, Giovanni Segantini, Emilio Longoni, Attilio Pusterla, Plinio Nomellini e ovviamente Giuseppe Pellizza da Volpedo. LA CAMPAGNA FOTOGRAFICA Tutt’altro che marginale è l’importanza che i volumi riservano all’apparato iconografico. “L’importanza da me dedicata alle tavole e illustrazioni in genere nel libro odierno deriva innanzitutto dalla difficoltà di accesso alle opere divisioniste, tuttora al novanta per cento di proprietà privata”, sottolinea Quinsac. Il valore di questa pubblicazione è dunque evidente, poiché difficilmente una tale campagna fotografica sarà ripetibile a breve e de facto questo cofanetto diventerà la pietra angolare di eventuali successivi studi. Ultima chicca, fra apparati redatti con un rigore raramente riscontrato, è una sezione bibliografica in chiusura del primo tomo: si intitola Oltre la percezione: lo sguardo degli scienziati e dei tecnici sulla pittura divisionista e si concentra su quelle pubblicazioni per l’appunto tecnico-scientifiche che troppo spesso vivono una vita separata dalle riflessioni più squisitamente storico-critiche. Marco Enrico Giacomelli

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ASTE E MERCATO

ANNIE-PAULE QUINSAC DIVISIONISMO ITALIANO 1880-1920. SGUARDI E PROSPETTIVE

La Compagnia della Stampa, Roccafranca (BS) 2021 2 voll., pagg. 320+320, € 150 ISBN 9788884868688 lacompagniamassetti.i

Agli incanti di inizio marzo 2022 a Londra, la guerra sembrava lontana e nella sessione da quasi 300 milioni di dollari di Sotheby’s ha brillato un Magritte da record. Già incluso tra gli highlight più attesi della Modern and Contemporary Art Evening Sale, tanto da guadagnarsi addirittura una scenografia dedicata sulla facciata del quartier generale di New Bond Street, L’empire des lumières di René Magritte del 1961 è stato in effetti la star indiscussa della sessione di Sotheby’s. IL RECORD DI MAGRITTE Realizzato per la baronessa Anne-Marie Gillion Crowet, la figlia del collezionista e mecenate belga Pierre Crowet, l’opera è rimasta sempre proprietà della famiglia, ma è molto nota al pubblico, essendo stata in esposizione al Museo Magritte di Bruxelles dal 2009 al 2020. Con il grado di perfezione che trova qui il gusto per il paradosso percettivo e lo sgambetto logico, il dipinto è stato aggiudicato dopo oltre sette minuti di contesa e rilanci da mezzo milione di sterline a un cliente al telefono con Alex Branczik, Chairmain Arte Moderna e Contemporanea in Asia, raggiungendo, dalla stima preasta di oltre 40 milioni di sterline, quasi 60 milioni (buyer's premium incluso). Una cifra che aggiorna e triplica il record in asta per l’artista rispetto all’ultimo del 2018 e lo rende l’opera di maggior valore mai venduta in sterline. IL SURREALISMO DA LONDRA A VENEZIA E mentre si attende la sessione parigina dedicata da Sotheby’s al Surrealismo, la creatura di André Breton trova nuovi momenti di riflessione teorica ed espositiva, da Londra a Venezia. Surrealismo e magia. La modernità incantata, a cura di Gražina Subelytė, è infatti la grande mostra di prossima apertura a Venezia. Un progetto in due tappe, che prende avvio alla Collezione Peggy Guggenheim il 9 aprile, per spostarsi poi al Museum Barberini di Potsdam a fine ottobre, e sarà la prima occasione internazionale per approfondire l’inclinazione surrealista per i mondi della magia e dell’esoterismo. Se il mercato dell’arte di alto profilo non ha mostrato per ora di essere particolarmente disturbato dalle tensioni geo-politiche sul limitare dell’Europa, i confini – e l’idea di confine – tornano rilevanti alla Tate Modern, dove è in corso la mostra Surrealism Beyond Borders, che evidenzia la portata internazionale del Surrealismo. Con una ricerca condivisa con il Metropolitan di New York, l’esposizione ricostruisce come gli artisti di tutto il mondo siano stati ispirati e si siano trovati uniti dal comune terreno surrealista, da Buenos Aires al Cairo, da Lisbona a Città del Messico, Praga, Seoul, Tokyo. E, sull’orlo di una nuova crisi che ancora mette a rischio, dove non ha già distrutto, le vite umane, assume una nuova rilevanza l’idea di ripercorrere il Surrealismo come un modo di “sfidare l’autorità e immaginare un mondo nuovo”. Cristina Masturzo

SOTHEBY’S RENÉ MAGRITTE

René Magritte, L’empire des lumières, 1961. Venduto per £ 59.422.000. Courtesy of Sotheby's


Ramin Haerizadeh

Rokni Haerizadeh

Hesam Rahmanian

un progetto di OGR Torino

a cura di Samuele Piazza


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