Grandi Mostre #27

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MEDIOEVO/PISTOIA • BURRI E GIACOMELLI/ROMA

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IN APERTURA / MEDIOEVO / PISTOIA

Il Medioevo rivive a Pistoia Marta Santacatterina

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orreva l’anno 1140: il vescovo Atto, con lo scopo di ricomporre i conflitti che ne minavano l’autorità, riuscì a portare a Pistoia una preziosa reliquia di San Giacomo, l’apostolo che diede poi il nome al celebre “Cammino” di pellegrinaggio che si conclude nella grandiosa basilica di Santiago di Compostela. L’arrivo del sacro frammento, nonché la consacrazione di un primo altare dedicato al santo nella Cattedrale di San Zeno, è narrato nel Liber de legenda sancti Jacobi, un manoscritto del 1240-50 conservato nell’Archivio di Stato di Pistoia, a testimonianza dell’eccezionalità dell’evento che in effetti proiettò la città in una dimensione europea, inserendola nella frequentatissima rete delle strade di pellegrinaggio italiane e comportando una crescita di notorietà, di traffici e scambi economici. Non solo: la presenza della venerata reliquia consacrò il ruolo di Pistoia come protagonista nel panorama delle arti e della cultura italiane di quei secoli, nonostante la “spietata concorrenza” delle vicine sorelle, ben più potenti: Firenze e Pisa.

TRACCE DI MEDIOEVO A PISTOIA

La lontana acquisizione rappresenta ora il punto di partenza della mostra Medioevo a Pistoia. Crocevia di artisti fra Romanico e Gotico che, dopo tanti decenni da una precedente esposizione del 1950, si pone lo scopo di “presentare un quadro critico della storia delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo”, dichiara la neonominata direttrice di Pistoia Musei, Monica Preti, rompendo così un lungo silenzio a cui forse ha contribuito la mancanza di un artista pistoiese Doc che fungesse da gloria cittadina. Le opere sono ospitate su due piani dell’Antico Palazzo dei Vescovi, edificio già attestato nel 1091 e che ancora conserva una cappella affrescata a inizio Trecento con storie di San Nicola e degli Apostoli; in secoli più recenti il palazzo subì una sorte travagliata fino all’acquisizione della locale Cassa di Risparmio nel 1973 che lo inaugurò come sede museale, mentre risale agli ultimi anni un intervento di valorizzazione conclusosi, almeno in gran parte, proprio in occasione dell’apertura della mostra. Alla sezione principale si affianca quella al Museo Civico dove, tra le altre cose, al piano terra si conserva una splendida Maestà che risponde a una tradizione tipicamente toscana di affrescare con una pittura monumentale i palazzi comunali, affidando così i cittadini alla protezione mariana. La mostra inoltre non può essere compresa senza percorrere il ben conservato centro storico medievale di Pistoia – peraltro assai poco turistico, quindi ancora molto autentico – e senza entrare nelle

principali chiese da cui provengono molte delle opere esposte e dove si possono sgranare gli occhi davanti alle pitture, ai rilievi e ai pulpiti riccamente scolpiti che vi si conservano.

OPERE E ARTISTI

Nel palazzo episcopale l’allestimento si pone l’obiettivo di restituire quello che i tre curatori (Angelo Tartuferi ed Enrica Neri Lusanna per la pittura e Ada Labriola per la miniatura) hanno definito come “il concerto delle arti”: le sessantotto opere di scultura, pittura, illustrazione libraria e oreficeria – alcune delle quali restaurate per l’occasione – vengono infatti messe sullo stesso piano e intonano un dialogo tra loro e con i contesti da cui provengono. Sullo sfondo sta un capolavoro identitario: l’altare argenteo dedicato a San Jacopo. Conservato nell’adiacente Cattedrale di San Zeno, il grandioso manufatto ha visto una genesi lunga e complessa, iniziata nel 1287 e terminata nel 1456, secolo quest’ultimo in cui fu chiamato a lavorarci anche un giovanissimo Filippo Brunelleschi, che realizzò due busti di profeti. Nelle sale della mostra, a richiamare l’abilità dei maestri orafi che parteciparono all’impresa, vi sono alcuni preziosi oggetti liturgici come un calice di Pace di Valentino (1270 circa) e una croce astile di Andrea di Jacopo d’Ognabene. La prima opera che si incontra è tuttavia una formella intagliata dal pisano Taglia di Guglielmo, proveniente dal pulpito non più esistente della cattedrale: magnifici rilievi vegetali sono arricchiti da quattro teste e da un fondo a geometrie bianche e nere, proprio quelle cromie tipiche dei paramenti esterni a fasce delle chiese. La scultura coeva locale è ben rappresentata da altri lavori dallo stesso artista e di altri scultori, fino a giungere alle opere di Nicola Pisano e di Giovanni Pisano, che è presente con due crocefissi e con un sorprendente Angelo che ostende la testa di San Giovanni Battista. Un’opera dall’iconografia assai rara, forse di ispirazione nordeuropea e che collega immediatamente la mostra al vicino battistero, dedicato proprio al santo di cui il serafico angelo regge un enorme testone, barbuto e ovviamente sofferente vista la macabra decapitazione.

PITTURA E CODICI MINIATI

Quanto alla pittura, prevalgono inevitabilmente i fondi oro, anche se si rimane ammirati davanti a un affresco con San Michele arcangelo che pesa un’anima, strappato da una chiesa genovese e di mano di un artista pistoiese, Manfredino di Alberto. Con gli


IN APERTURA / MEDIOEVO / PISTOIA

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I LUOGHI DELLA SCULTURA PISTOIESE

Chiesa di Sant’Andrea Pulpito di Giovanni Pisano, 1298-1301 Architrave di Gruamonte e Adeodato con il Viaggio dei re Magi, 1166

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Chiesa di San Bartolomeo in Pantano

Corso Anton io G

Architrave di Gruamonte con Gesù che dà i comandamenti agli apostoli o l’Incredulità di Tommaso, 1167 Pulpito di Guido da Como, metà del XIII secolo

Piazza Duomo

Battistero di San Giovanni in corte Lunetta con Madonna con bambino e santi Giovanni Battista e Pietro di Tommaso e Nino Pisano 1301-1361. Fonte battesimale datato 1226 e firmato da Lanfranco da Como

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Museo Civico

Cattedrale di San Zeno Altare di San Jacopo, 1287-1456

Antico Palazzo dei Vescovi Chiesa di San Pier Maggiore L’architrave del portale di centro è forse opera dell’officina di Guido da Como, che vi raffigurò Gesù che porge le chiavi a San Pietro, circondato dalla Vergine e dagli apostoli.

Chiesa di San Giovanni Fuoricivitas Architrave di Gruamonte con l’Ultima cena, 1166 Pulpito di Fra Guglielmo da Pisa, 1270

Corso

incarnati verdastri, le pieghe rigide dei pannelli, le lumeggiature che sembrano incise, manifesta ancora modelli bizantini, aggiornati però sulla lezione di Cimabue. Più numerose in mostra le testimonianze del XIV secolo, a cominciare dalle tavole dipinte dal Maestro del 1310, figura probabilmente autoctona e capostipite della pittura trecentesca a Pistoia. Pochi anni prima della metà del secolo ecco comparire sulla scena locale il più noto Pietro Lorenzetti e Taddeo Gaddi, cui fu commissionata una grandiosa pala d’altare per la chiesa di San Giovanni Fuoricivitas. Ma pure in periodo tardogotico, già in pieno Quattrocento, a Pistoia giunsero maestranze di alto spessore: ne sono esempi le tavole del Maestro della Cappella Bracciolini – a sancire il definitivo passaggio di Pistoia nell’orbita politica di Firenze –, mentre le scuole locali “parlano” un linguaggio originale ed espressivo con Antonio Vite. Il concerto delle arti non potrebbe risuonare senza i codici miniati: pitture “in piccolo”,

Silvano Fedi

riservate allo sguardo di pochi religiosi e realizzate negli scriptoria da abili maestri. L’Archivio Capitolare di Pistoia custodisce il nucleo quasi integro della biblioteca di San Zeno, da cui provengono molti volumi esposti, tutti da osservare con attenzione per lasciarsi trasportare in un’arte che non si limita solo all’immagine, ma coinvolge anche la mise en page di testo e decorazione (oggi la definiremmo “grafica”) e in cui si trovano rimandi sia alle pitture di grande formato sia ai modelli e agli stili tipici dell’illustrazione libraria di altre città, come Bologna. Ecco allora che l’intento del progetto, esplicitato nel sottotitolo, si delinea chiaramente: in quegli anni Pistoia fu davvero crocevia di artisti giunti dalle aree limitrofe per lasciare capolavori che ancora oggi narrano una storia ricca e complessa, pari a quella delle altre città che proprio nei secoli del Medioevo costruirono la loro identità municipale. Un’identità che, a ben vedere, è ancora la spina dorsale di un territorio che molti secoli dopo divenne nazione, l’Italia.

fino all’8 maggio 2022

MEDIOEVO A PISTOIA Crocevia di artisti fra romanico e gotico a cura di Angelo Tartuferi, Enrica Neri Lusanna, Ada Labriola Catalogo Mandragora ANTICO PALAZZO DEI VESCOVI E MUSEO CIVICO Piazza del Duomo 3 Piazza del Duomo 1 – Pistoia pistoiamusei.it

Giovanni Pisano e collaboratore, Angelo che ostende la testa di san Giovanni Battista, legno di noce intagliato dipinto e dorato, fine XIII-inizio XIV secolo. Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi (proprietà Chiesa cattedrale)


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OPINIONI

La copertina di

Opere che (non) tornano a casa

FERNANDO COBELO

Fabrizio Federici storico dell'arte

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uando un capolavoro espatriato passa all’asta, da più parti si levano voci che chiedono il rientro dell’opera in Italia. Il più delle volte gli appelli restano inascoltati: i ricconi nostrani, che potrebbero fare una bellissima figura, magari donando o prestando poi l’opera, da veri mecenati, a una raccolta pubblica, non mettono mano al portafogli; lo Stato, che non ha o dice di non avere le cifre necessarie, si tira indietro. Senza scomodare l’episodio del Salvator Mundi attribuito a Leonardo (un caso a parte, per il prezzo di vendita iperbolico), possiamo ricordare la riscoperta Donna Olimpia Maidalchini di Diego Velázquez, venduta per poco più di due milioni e mezzo di euro nell’estate del 2019, e il più recente caso dell’affascinante (ma discusso) Parmigianino raffigurante Saturno e Filira, che un anonimo acquirente si è assicurato per l’abbordabile cifra di 587.770 euro. Fernando Cobelo (Venezuela, 1988) è un illustratore che lavora con linee pulite, definite, essenziali, infantili anche. Crea opere che parlano di un universo pieno di sogni surrealisti e incubi molto reali, con un’espressione ingenua e semplice, nella quale risulta facile ritrovare frammenti di noi stessi. Illustrazioni che stuzzicano i nostri pensieri, muovono i nostri sentimenti e ci trasportano in un mondo di affascinanti incontri personali. Questo approccio emozionale gli ha permesso di lavorare con clienti come il New York Times, Le Nazioni Unite, Google, Penguin / Random House, il Washington Post, il Wall Street Journal, TED, Walt Disney Studios, Corriere della Sera, UNICEF, Vanity Fair, Lavazza, Zanichelli, Montblanc, Barilla, WIRED, Lonely Planet, Camera Nazionale della Moda Italiana, WeTransfer, Samsung e Swatch. Inoltre, i suoi lavori sono stati riconosciuti da Society of Illustrators di New York, Autori di Immagini, Association of Illustrators del Regno Unito, American Illustration e altre importanti istituzioni legate al mondo dell’illustrazione. Nell’ambito formativo, Fernando ha insegnato e tenuto diverse attività didattiche in alcune università e istituti italiani quali IED, LUISS e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e altre scuole e atenei internazionali in Messico, India, Russia, Cina, Venezuela, Bulgaria e Turchia. fernandocobelo.com

Quando un capolavoro espatriato passa all’asta, in molti ne chiedono il ritorno in Italia ASTE E RITORNI?

Gennaio del 2022 si preannuncia ricco da questo punto di vista: il 27 vanno all’asta da Sotheby’s, a New York, tra le altre gemme, un Vir Dolorum attribuito a Botticelli, uno splendido ritratto di Andrea del Sarto e una Maddalena distesa e leggente in cui va forse riconosciuto l’originale di Correggio, noto sinora attraverso copie e derivazioni. Ciascuno di questi dipinti parte da una stima di diversi milioni di dollari. Più contenuta (né d’altra parte siamo agli stessi livelli di qualità) è la valutazione per un’opera comunque di grande interesse, il monumento sepolcrale di Anna Colonna Barberini, realizzato in bronzo dorato e marmo nero poco dopo il 1658 da Gabriele Renzi. Sarebbe bello se la scultura potesse tornare in Italia:

magari a Palazzo Barberini, dove la bronzea Anna ha soggiornato per alcuni anni alla fine dell’Ottocento, dopo che la chiesa che accoglieva il monumento era stata demolita, e dove l’effigie sepolcrale potrebbe trovare posto nella sala dedicata alla famiglia Barberini da poco inaugurata.

LA COLLEZIONE CYBO MALASPINA

Per un’opera che potrebbe tornare, altre potrebbero lasciare l’illustre dimora. Due dipinti di Salvator Rosa lo hanno già fatto, nell’ambito dell’intelligente iniziativa del Ministero della Cultura 100 opere tornano a casa, e sono state portate a Matera. Altre opere della Galleria Nazionale non esposte, che sarebbe bello ‘rimpatriare’ per un certo periodo, sono alcuni dipinti della collezione Cybo Malaspina, già custoditi nel Palazzo Ducale di Massa, trasferiti a Roma negli Anni Venti del Settecento e pervenuti allo Stato, dai Torlonia, nel 1892. Spicca in questo nucleo di opere il Ritratto di Leone X con due cardinali da Raffaello, dipinto da Giuliano Bugiardini nel 1520, con una notevole variante: si fa fuori il cardinale Luigi de’ Rossi e al suo posto si inserisce il ritratto del committente del dipinto, Innocenzo Cybo, anch’egli porporato nipote di papa Medici. L’effigie starebbe proprio bene nella reggia cybea di Massa, e la prospettiva del suo rientro potrebbe anzi rappresentare uno stimolo fondamentale a far sì che lo splendido palazzo sia finalmente liberato, almeno in parte, dagli uffici e venga destinato a usi culturali.


OPINIONI

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Tre artisti storici e la video-arte

Istituiamo la Biennale dell’arte vivente

Antonio Natali storico dell’arte

Stefano Monti economista della cultura

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ogliono essere, queste righe, un invito a guardare, come fossero esibiti in una mostra, i tre video coi “ritratti” di Buffalmacco, Rosso Fiorentino e Pontormo girati con la regia di Federico Tiezzi, ideatore del progetto. Sembianze di mostra ha difatti l’allestimento ordinato dall’Accademia di Firenze, con tre schermi posti in differenti locali dell’edificio: tutti luoghi di transito per i tanti studenti che in quelle stanze s’educano all’arte nelle sue varie tecniche, con l’insegnamento della storia dell’arte a tenerle unite. E proprio di quest’insegnamento è parte l’esposizione dei tre video, dove il missaggio di parole e immagini accorda tradizione e attualità, in una sintonia ch’è buon viatico per chi in quelle stanze s’addestri. Tre ritratti che sono monologhi desunti dalle Vite di Giorgio Vasari, riscritti da Fabrizio Sinisi con mano a tal segno sicura da non lasciar trapelare varianti e ingerenze; come se i tre attori chiamati a impersonare quegli artefici grandi recitassero senza deflessioni le pagine del biografo aretino, solo volgendone i verbi alla prima persona singolare. Di Giovanni Frangi sono i costumi e le scene: quel poco che basta a secondare liricamente gli assunti critici sottesi alla rilettura di Federico Tiezzi; che, pur nella consonanza col testo di Vasari, calca la mano o per converso l’alleggerisce conforme alle sue personali convinzioni critiche riguardo ai tre artisti.

BUFFALMACCO, ROSSO FIORENTINO E PONTORMO

La titolazione dell’impresa è chiarissima: “progetto di video-arte e teatro”: descrizione esplicita di quanto si debba attendere lo spettatore: un video e, insieme, teatro. Abbinamento toccante per uno della mia generazione che abbia conosciuto i lavori di Tiezzi e Sandro Lombardi fin dai tempi in cui la loro Compagnia si chiamava “Il Carrozzone” e poi “Magazzini criminali”. “Video-arte e teatro” s’insinuano nella memoria, accavallando visioni disparate di

spettacoli allestiti negli Anni Settanta e Ottanta. Lavori indimenticabili, che si guardavano come un dipinto pop, un happening o un’installazione: da Vedute di Porto Said a Crollo nervoso a Genet a Tangeri. Messinscene che sbalordivano con la luce azzurrina di neon e con le lamelle di veneziane, inclinate a filtrare una realtà metafisica, velata da paraventi effimeri. Era, anche quello, “teatro e video-arte”. Video, giacché l’effetto era cinematografico; teatro, perché teatro era; ancorché di meno parole, e anzi talora calato nell’afasia; ma tuttavia teatro. Ora però la parola torna nei soliloqui di Giovanni Grazzini, Roberto Latini e Sandro Lombardi, interpreti dei tre pittori: Buffalmacco (artista grande, noto ai più per le sue burle, crudeli talvolta, tramandate da Boccaccio), Rosso Fiorentino (voce fiera e spregiudicata della “maniera moderna”) e infine Pontormo (lui pure lirico protagonista della medesima “maniera”, turbato nella vita da ossessioni e fobie).

I tre attori che impersonano gli artisti recitano le pagine del Vasari STORIA DELL’ARTE E TEATRO

Sandro Lombardi, affascinante maschera di teatro, magistralmente incarna Jacopo, sia negli affanni per gli affreschi di San Lorenzo, sia nella serenità dei mesi passati alla Certosa al tempo della peste del 1523. È nell’isolamento di quel romitorio, in quella quiete, in quel silenzio che Jacopo si gode finalmente un poco di vita. E il volto di Sandro si distende, lo sguardo si vela di commozione e la voce s’addolcisce mentre tesse l’elogio della solitudine: alla grazia della creazione ci s’accosta solo rimanendo in disparte, “lontano dal commercio degli uomini. Fuori dal chiasso del tempo”.

È

recente l’istituzione di un percorso espositivo internazionale, Cantica 21, che ha visto la collaborazione del Ministero della Cultura e del Ministero per gli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sviluppato con l’obiettivo di sostenere la produzione di artisti emergenti (o già affermati) esponendone le opere negli Istituti Italiani di Cultura all’estero. Una iniziativa che risale a qualche anno fa è la proposta provocatoria di Vittorio Sgarbi di includere, all’interno del Padiglione Italia della Biennale di Venezia, l’intera produzione italiana. Ancora meno recente, infine, un’altra iniziativa (Gemine Muse) realizzata dal GAI – Giovani Artisti Italiani, nella quale giovani artisti dialogavano, mediante propri lavori, con opere presenti nei musei delle numerose città che aderivano al progetto.

UN’OPPORTUNITÀ PER GLI ARTISTI EMERGENTI

Coniugando le aspirazioni di queste iniziative, si potrebbe delineare un progetto nuovo che, partendo da quanto realizzato, definisca un inedito appuntamento dedicato alla nostra produzione artistica. Una strada possibile sarebbe la creazione di un appuntamento biennale dedicato ad artisti emergenti o pre-emergenti che si distribuisca sull’intero territorio nazionale, guidato da un soggetto (sia esso pubblico, privato, o, si spera, una partnership tra tali soggetti) che coordini a livello centrale tutte le esposizioni locali, ciascuna delle quali affidata a team di professionisti del mondo dell’arte. A ciascun Comune partecipante verrebbe affidato un team composto da curatori, museografi, tecnici e un team di comunicazione e creazione di servizi aggiuntivi (visite guidate), che, coordinando le proprie attività a livello nazionale, possano realizzare una mostra selezionando gli artisti che, a livello centrale, propongono le proprie candidature. Ovvio che un evento di queste dimensioni richieda quantomeno una durata annuale, così

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da consentire ai cittadini di qualsiasi territorio del nostro Paese di fruire una mostra d’arte nelle istituzioni a loro più vicine: il proprio Comune, i Comuni limitrofi, ecc. Piccoli musei, piccoli Comuni, giovani curatori, giovani artisti. Uno scenario completo e variegato dell’arte in Italia: non necessariamente “contemporanea” ma sicuramente “vivente”.

PRODUZIONE E CULTURA

Chiaramente una struttura di questo tipo non può autosostenersi attraverso gli introiti dei biglietti, ma può intercettare molte opportunità di finanziamento, sia di tipo pubblico, sia, e soprattutto, di soggetti privati coinvolti nel mercato dell’arte. Da tale evento, infatti, emergerebbero in modo chiaro network di professionisti (curatori, grafici, ecc.) e rapporti virtuosi tra artisti e gallerie d’arte, che troverebbero così una sorta di catalogo generale da cui scegliere gli artisti su cui investire negli anni successivi.

Il nostro mercato dell’arte ha bisogno di uno shock Una così vasta produzione consentirebbe, inoltre, di creare nuovi modelli di coinvolgimento della cittadinanza: la presenza di artisti emergenti e pre-emergenti consentirebbe di adottare iniziative di comunicazione e promozione meno istituzionalizzate e il coinvolgimento di tanti Comuni ben si coniuga con l’attenzione ai territori minori che attualmente conosce un periodo di grande favore. L’Italia non è così grande da rendere impossibile un’attività di questo tipo e la nostra produzione artistica vivente non potrebbe che trarre benefici da un tale progetto. Perché il nostro mercato dell’arte, per quanto molti lo difendano con forza, ha forse bisogno di uno shock che modifichi gli assetti in atto: una iniziativa di questo tipo, se ben sviluppata e ben gestita, avrebbe tutte le carte in regola per introdurre novità nell’ambito della produzione e fruizione culturale.


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FOTOGRAFIA / BURRI E GIACOMELLI / ROMA

Burri e Giacomelli: storia di un’amicizia

Angela Madesani

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l rapporto analizzato dalla mostra allestita nello Spazio Extra MAXXI non è un legame creato a tavolino dalla critica, bensì la storia di un rapporto sviluppato nel corso degli anni, fatto di lettere, scambi, incontri e mostre. Il primo incontro fra Mario Giacomelli (Senigallia, 1915-2000) e Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995) risale al 1966 e già nel 1968 va in scena la prima mostra a Città di Castello con otto immagini del fotografo dedicate al pittore. Galeotto è Nemo Sarteanesi, pittore, intellettuale e amico di Burri, che, a Senigallia, conosce Giacomelli, giovane e intelligente tipografo con la passione per la fotografia e la pittura. Mette così in contatto i due. Burri, tra l’altro, era un appassionato ma riservatissimo fotografo. Il terreno era fertile.

I PUNTI DI CONTATTO FRA BURRI E GIACOMELLI

La condivisione più evidente si può scorgere in una serie come Presa di coscienza sulla natura, che riunisce i paesaggi di tipo astratto del fotografo marchigiano. Ma il legame tra loro non è di carattere iconografico, o meglio lo è solo in senso parziale. È, la loro, un’affinità esistenziale, ideale, di visioni comuni del circostante. Giacomelli scriveva:

I DUE ARTISTI IN BREVE Alberto Burri, medico di formazione, inizia a dipingere durante la Seconda Guerra Mondiale, in un campo di prigionia americano. Dapprima usa elementi naturali – ben visibili nei Neri, nei Gobbi, nelle Muffe, nei Sacchi, nelle Combustioni – per poi passare a elementi artificiali, come nelle Plastiche degli Anni Sessanta. Del decennio successivo sono le grandi superfici screpolate, chiamate Cretti, e i Cellotex. Nel 1985 inizia a lavorare al Grande Cretto di cemento bianco, che ricopre le macerie di Gibellina in Sicilia, distrutta dal terremoto. Mario Giacomelli intraprende la sua attività di fotografo negli Anni Cinquanta. La sua produzione più significativa è quasi tutta in bianco e nero, con forti contrasti tonali, come attestano i paesaggi dal sapore astratto esposti in mostra. Tra le sue opere più conosciute le serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1955-56), realizzata all’ospizio di Senigallia, Scanno (1957-59), i Pretini (196263), incentrata sulla vita dei giovani seminaristi della sua città, e La buona terra, un’analisi poetica dedicata al mondo contadino.

“La natura è lo specchio entro cui mi rifletto. Perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla tristezza che ho dentro”. Parole che paiono quanto mai attuali e che trovano una corrispondenza con il Burri che si rifugiava in montagna, nel silenzio del territorio tifernate, alla ricerca di un senso del proprio vivere e operare. Quest’ultimo scriveva a Giacomelli: “Il posto è bello e comodo. Prenda la macchina, la fotografica, e venga su, faremo una bella chiacchierata. Si metta d’accordo con Nemo Sarteanesi che l’accompagnerà”. Primo a leggere l’intensità di questo rapporto, nel catalogo della mostra del 1983, è stato Carlo Arturo Quintavalle. Spiega in quell’occasione le modalità operative di Giacomelli, che dopo aver individuato il terreno adatto a fotografare, il più delle volte interviene su di esso con l’aratro per creare solchi e segni, così da offrire un bilanciamento delle tonalità. Nessuna lettura naturalistica, la sua è una volontà di appiattimento della veduta, ridotta a luogo di contrasti formali, di complesse relazioni tonali che, in tal senso, avvicinano le sue opere a quelle di Burri. Scrive lo studioso: “Hanno una comune matrice nella tradizione ‘astratta’ e sono dunque loro a rappresentare lo spazio in modo simbolico, sono loro a scegliere volutamente il non colore, Burri quello dei sacchi e poi il nero dei cretti e Giacomelli quello tutto simbolico dei contrasti violenti dei neri e dei bianchi”.


FOTOGRAFIA / BURRI E GIACOMELLI / ROMA Burri inizia a lavorare alle Combustioni

Burri lavora ai Cretti

Alberto Burri nasce a Città di Castello

1915

1925

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Burri muore a Nizza

ANNI ‘50

ANNI ‘60 1963

Mario Giacomelli nasce a Senigallia

Nel lavoro di entrambi si coglie un senso di paura e di morte, entrambi danno vita a una sorta di Land Art che entra nel profondo della terra. I due sono attratti dalle pratiche contadine, dalle ferite, in una tensione continua verso una dimensione infinita. Le mani dei lavoratori, devastate dalla fatica, rinsecchite dal sole e dal contatto con la materia, possono trovare un punto di arrivo nei Cretti di Burri o nei solchi dei paesaggi di Giacomelli, in cui l’uomo è protagonista, in relazione a un contesto non così facile da comprendere. Vi è una sorta di indomabilità, che entrambi hanno cercato di penetrare e di capire attraverso il proprio linguaggio artistico. “La natura dà più risposte di quante siano le nostre domande”, una delle riflessioni nate dai loro incontri durante i quali si parlava di donne, di vino, di terra, più che di arte. In mostra sono esposte parecchie opere grafiche di Burri, tra cui Cretti, 1971 e Combustioni, 1965, che dialogano con le fotografie di Giacomelli, in particolare quelle delle serie Metamorfosi della Terra, Presa di coscienza sulla natura e Storie di Terra. fino al 6 febbraio 2022

GIACOMELLI | BURRI Fotografia e immaginario materico a cura di Marco Pierini e Alessandro Sarteanesi Catalogo Magonza editore SPAZIO EXTRA MAXXI Via Guido Reni 4A – Roma maxxi.art

a sinistra: Alberto Burri, Combustione 3, dalla serie Combustioni, 1965, acquaforte e acquatinta, 48,5 x 37,5 cm © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, by SIAE 2021. Photo Alessandro Sarteanesi a destra: Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura “Omaggio ad Alberto Burri”, 1976-83, stampa vintage ai sali d’argento, 30,2 x 40,3 cm. Archivio Mario Giacomelli © Archivio Mario Giacomelli © Rita e Simone Giacomelli

1966

fra Burri e Giacomelli

1968

ANNI ‘70

1983

1995

2000

Seconda mostra di Giacomelli a Città di Castello

Nemo Sarteanesi conosce Mario Giacomelli a Senigallia

Giacomelli inizia a lavorare a Presa di coscienza sulla natura

IL VALORE DEL CONTESTO

primo incontro

Prima mostra di Giacomelli a Città di Castello

Giacomelli muore a Senigallia

INTERVISTA A KATIUSCIA BIONDI GIACOMELLI La nipote del fotografo, direttrice dell’archivio intitolato a suo nonno, tra i promotori della mostra, ricostruisce l’intenso legame tra Giacomelli e Burri. Qual è l’origine dell’amicizia tra i due? Negli Anni Cinquanta a Senigallia c’era un importante punto di incontro, la bottega del corniciaio Mario Angelini, dal quale si servivano sia Giacomelli che Sarteanesi. Il negozio ospitava dibattiti serali tra artisti locali, in cui si discuteva animatamente sull’Astrattismo e sull’Informale. Giacomelli, che oltre a fotografare dipingeva, amava il lavoro di Burri. Dopo i primi contatti epistolari dal 1963, nel 1966 Burri e Giacomelli si incontrano di persona, e nel 1983 la Fondazione Burri dedica, in via eccezionale, una mostra fotografica a Giacomelli, che sancisce il loro rapporto di amicizia. Il mondo dell’Informale affascinava intimamente Giacomelli, sia nella propria espressione artistica, sia nello studio, nelle letture. Aveva una bella biblioteca? Direi di sì, ci sono parecchi libri di poesia. In tal senso Giuseppe Cavalli era stato il suo primo mentore. Molti volumi di fotografia, di arte, di grafica, diversi sulla pittura informale, che Giacomelli amava, attratto dalla materia, nella sua vivida essenzialità. Quali sono a tuo parere i punti di contatto tra Burri e Giacomelli? Entrambi erano uomini profondamente solitari, ma nel corso degli anni i due si scambiarono diverse visite, perché tra loro c’era una forte empatia. Quando mio nonno mi parlava del suo rapporto con Burri, faceva sempre riferimento alle loro passeggiate, immersi nel paesaggio. Così come si legge nella lettera di Burri, quando invita per la prima volta Giacomelli da lui, suggerendogli di portare la macchina fotografica perché c’è una grande

natura ad aspettarlo. Sentivano allo stesso modo la natura e la materia. Loro se ne stavano lì, a contemplare il paesaggio, e i segni lasciati dal contadino perlopiù inconsapevole sulla terra. Per entrambi l’infinito, la bellezza scaturivano dai fenomeni più umili. Nel lavoro di entrambi pare di potere rintracciare il senso del dolore e della ferita. Forse l’esperienza della guerra, partecipata nel caso di Burri e vissuta da giovanissimo spettatore nel caso di Giacomelli, aveva lasciato a entrambi segni, bruciature, cicatrici. L’aggrovigliamento materico delle Plastiche, dei Cellotex di Burri può essere paragonato all’azione violenta degli acidi nel lavoro del fotografo in camera oscura, per cui il bianco mangiato e il nero chiuso trasformano il reale in materia, una materia che non si coglie semplicemente con la vista, che definisce, limita, separa, ma con l’anima, che è aperta alla metamorfosi. Il nero chiuso lascia intuire il brulicare della materia al suo interno, il bianco mangiato fa risaltare la figura nera. Anche nei suoi appunti sui provini di stampa c’è sempre un riferimento alla materia, che deve permanere pure quando i neri si chiudono. Giacomelli diceva che, nelle sue foto di paesaggio, i neri chiusi sono buchi dove cadono i suoi problemi, che lui continua a fotografare, come in un rituale purificatore. La materia fotografica è vibrazione, sofferenza, ma anche il suo opposto, vita, consapevolezza di esistere hic et nunc.


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GRANDI CLASSICI / BENOZZO GOZZOLI / FIRENZE

L’omaggio di Firenze a Benozzo Gozzoli Niccolò Lucarelli

A

seicento anni (più uno) dalla scomparsa, Firenze rende omaggio a Benozzo di Lese di Sandro, più noto come Benozzo Gozzoli (San Colombano, 1420 – Pistoia, 1497). La mostra allestita a Palazzo Medici Riccardi descrive uno degli artisti tra i più innovativi della sua epoca. Fu nella ricca e raffinata Firenze medicea, all’epoca retta da Cosimo il Vecchio, che Benozzo mosse i primi passi a fianco del Beato Angelico, affrescando le celle del dormitorio del Convento di San Marco, per poi seguirlo a Orvieto per la Cappella di San Brizio nel Duomo, e a Roma per la Cappella Niccolina nel Palazzo Apostolico in Vaticano. In mezzo, Benozzo ebbe anche occasione di collaborare con Lorenzo Ghiberti alla realizzazione della Porta del Paradiso, destinata al Battistero. Pur essendo stato attivo anche in Umbria, a Roma e in varie zone della Toscana, la mostra si concentra principalmente sul suo legame con Firenze.

LA CAPPELLA DEI MAGI

Cuore pulsante della mostra è la Cappella dei Magi, prezioso scrigno racchiuso al piano nobile di Palazzo Medici Riccardi, progettata da Michelozzo di Bartolomeo, che si attenne alla lezione di Filippo Brunelleschi, riprendendo la planimetria della Sagrestia di San Lorenzo. Al momento di commissionare gli affreschi, la scelta della famiglia Medici cadde su Benozzo, in quanto Filippo Lippi stava già lavorando al Duomo di Prato, Piero della Francesca si divideva tra Roma e Arezzo, mentre Alesso Baldovinetti era ritenuto vicino alla rivale famiglia dei Pazzi. Questi affreschi rappresentano il suo capolavoro, strutturato sul tema del viaggio intrapreso per rendere omaggio al Messia, e colpiscono l’opulenza e l’esotismo dei dignitari bizantini, i quali altro non sono che ritratti della stessa famiglia Medici: Cosimo, i figli Piero e Giovanni, i nipoti Lorenzo e Giuliano. Un’allegoria del potere temporale che, ben saldo sulla Terra, rende omaggio a quello spirituale, immortalato nella tavola d’altare con la Natività. Nella ricchezza delle vesti si apprezza l’interesse per la decorazione minuziosa e per il lusso fastoso delle dorature, che probabilmente l’artista assorbì nell’osservare fin da bambino il padre farsettaio all’opera con stoffe preziose. Successive modifiche alla struttura della Cappella hanno in parte cancellato alcune scene affrescate e alterato il gioco di luce delle primitive finestre, ma l’imponenza e la suggestività del lavoro di Benozzo sono giunte intatte fino a noi.

fino al 10 marzo 2022

BENOZZO GOZZOLI E LA CAPPELLA DEI MAGI a cura di Serena Nocentini e Valentina Zucchi Catalogo Sillabe PALAZZO MEDICI RICCARDI Via Camillo Cavour 3 – Firenze palazzomediciriccardi.it

Benozzo Gozzoli, Madonna con il Bambino e angeli, 1430-40 circa. National Gallery, Londra

UN ARTISTA RAFFINATO

A corredo degli splendidi affreschi della Cappella, le sale espongono una piccola selezione di disegni, la tavoletta della Madonna con il Bambino e angeli, in prestito dalla National Gallery di Londra, e la Pala della Sapienza Nuova proveniente dalla Galleria Nazionale dell’Umbria. Di Benozzo la critica più attenta ha sempre apprezzato quel suo poetico sguardo sul mondo che si palesa nella composizione raffinata, nella ricercatezza delle finiture, nelle ariose proporzioni geometriche e nelle decorazioni che raggiungono il gusto fiabesco, in particolare se osserviamo gli squarci di giardini fioriti o gli effetti di luce che irradiano di poesia le scene immortalate, e che gli affreschi della Cappella esprimono in maniera ancora più scenografica. I disegni riportano l’idea per soggetti poi sviluppati negli affreschi della Cappella, mentre un’installazione multimediale immersiva permette di apprezzare il ciclo fin nei suoi minimi particolari.


GRANDI CLASSICI / IL NOVECENTO / ALESSANDRIA

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Alessandria terra di artisti

Arianna Testino

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l ‘Dizionario degli artisti alessandrini tra ‘800 e ‘900’ segnala che ben trentadue di loro esposero alla Biennale di Venezia dal 1895 al 1964. Considerando la Promotrice di Torino, la Triennale di Milano e la Quadriennale di Roma, il numero cresce in modo esponenziale. Una concentrazione che si è verificata in un territorio certamente ricco di storia e cultura, ma privo di un’Accademia alle Belle Arti. Da questa constatazione è nato il proposito di dare vita a questa mostra. Una storia di artisti, dai più celebri come Giulio Monteverde, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Angelo Morbelli, Leonardo Bistolfi e Carlo Carrà ad artisti meno noti, ma altrettanto interessanti e da conoscere, come Duilio Remondino, futurista internazionalista della prima ora. La singolarità delle loro ricerche emerge nel confronto proposto da un allestimento che rievoca le varie fasi della storia dell’arte del secolo scorso, immaginando le opere stesse appese sulle pareti delle case dell’epoca. La sala centrale presenta venticinque paesaggi di altrettanti autori, a partire da Carlo Carrà, in un confronto che mette in luce i diversi modi di interpretare la natura, le differenti prospettive della visione, dall’intensità del segno alla corposità della materia impiegata”.

I TALENTI DI ALESSANDRIA

Con queste parole Maria Luisa Caffarelli e Rino Tacchella, curatori della mostra allestita

presso il Palazzo del Monferrato di Alessandria, sintetizzano peculiarità e obiettivi di una rassegna che individua il proprio fulcro nel territorio alessandrino, insospettabile fucina di talenti destinati a occupare una posizione di rilievo nel panorama creativo novecentesco. Le opere provenienti dalle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria e della Camera di Commercio di Alessandria-Asti, oltre a quelle custodite in raccolte private, avvolgono il filo della “storia di artisti” evocata dal titolo, tratteggiando i limiti di una geografia a impronta locale che sconfina ben presto fino al 13 marzo 2022

ALESSANDRIA. IL NOVECENTO. DA PELLIZZA A CARRÀ UNA STORIA DI ARTISTI a cura di Maria Luisa Caffarelli e Rino Tacchella Catalogo Line.Lab PALAZZO DEL MONFERRATO Via San Lorenzo 21 – Alessandria palazzomonferrato.it

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Dintorni di Volpedo, 1905-06, olio su tela. Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, particolare

nei grandi centri urbani – Torino, Milano, Roma –, collettori di energie e fermenti e destinazioni scelte da molti degli artisti esposti. Eppure la base di partenza resta il territorio di Alessandria e della sua provincia, culla di pittori saliti alla ribalta nazionale come Pellizza da Volpedo, Morbelli e Carrà, ma anche di una compagine meno nota – formata da Vito Boggeri, Angelo Barabino, Pietro Morando – e decisamente da studiare per la freschezza di un approccio che trova nell’interiorità e in certe atmosfere intimiste la sua nota di merito.

DALL’ARTE ALL’ARCHITETTURA

Terra densa di suggestioni paesaggistiche e naturali, l’Alessandrino diventa il trampolino di lancio per carriere nate nel solco di un “genius loci” – come lo identifica la curatrice Caffarelli fra le pagine del saggio in catalogo – fertile e carico di spunti. Quegli stessi spunti hanno alimentato la riflessione progettuale di autori quali Marcello Piacentini, Ignazio Gardella, Paolo Portoghesi, attivi sul territorio nell’arco del secolo scorso e presenti in mostra grazie a rimandi fotografici e multimediali che a loro volta richiamano il discorso sugli artisti e i movimenti a cui hanno preso parte. Una mostra non tematica, dunque, percorsa da quell’“audacia curatoriale” menzionata da Caffarelli nel descrivere uno sguardo sulla provincia lontano dal cliché della riscoperta a tutti i costi, ma supportato da un solido impianto storico-geografico.


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DIETRO LE QUINTE / CANOVA / ROVERETO

Canova e il contemporaneo a Rovereto LA MOSTRA A BOLOGNA

Giulia Giaume

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orpi. Il secondo piano del Mart di Rovereto è invaso da corpi. Ancora prima di entrare, un meraviglioso Roberto Bolle accoglie come un’ala di gabbiano – i muscoli perfetti e lucenti – i visitatori. Non si vede, ma questa è una mostra dedicata ad Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822): o meglio, alla purezza del marmo e del gesso di Canova, e a quel peccato che lo scultore neoclassico cela a malapena dietro un velo d’innocenza. Questo è il punto di partenza per un dialogo con una serie di opere otto-novecentesche, in apparenza di una fisicità più brutale ma segretamente dolci, in mostra al Mart. A fianco della Ninfa dormiente, della Maddalena penitente e del calco in gesso delle Tre Grazie ci sono gli abbracci omoerotici di Robert Mapplethorpe, i dipinti psichedelici di Paolo Marton, le sfocate riprese illecite di Miroslav Tichy, la Psiche tatuata di Fabio Viale, le fotografie materiche di Carla Cerati: sono oltre duecento le opere, in quella che il co-curatore Denis Isaia chiama la “tana dell’antiquario”. Come di consueto compaiono opere dalla collezione privata del presidente del Mart e ideatore della mostra Vittorio Sgarbi: è il caso di Filippo Dobrilla, qui

fino al 18 aprile 2022

CANOVA Tra innocenza e peccato A cura di Beatrice Avanzi e Denis Isaia Catalogo Sagep Editori MART Corso Bettini 43 – Rovereto mart.it

in alto: Fabio Viale, Amore e Psiche, 2021. Courtesy l’artista nalla pagina a fianco a sinistra: Antonio Canova, Venere italica, 1811, Museo Gypsotheca Antonio Canova, Possagno (TV) a destra: Helmut Newton, Big Nude III, Parigi, 1980. Copyright Helmut Newton Foundation

In occasione del bicentenario dalla morte di Canova c’è un’altra grande retrospettiva nel Nord Italia: la mostra Antonio Canova e Bologna. Alle origini della Pinacoteca, aperta fino al 20 febbraio 2022 nel Salone degli Incamminati della Pinacoteca Nazionale di Bologna. L’esposizione, curata da Alessio Costarelli, celebra il rapporto tra il maestro e la città – con le sue istituzioni e i suoi artisti – e in particolare con la Pinacoteca. Sono in pochi a sapere che l’artista contribuì grandemente al recupero del patrimonio felsineo, spendendosi personalmente in operazioni diplomatiche con la Francia per far rientrare un gran numero di opere trafugate durante i ratti napoleonici. Il genio neoclassico diventa qui un interlocutore di primo piano, di cui è ricostruito l’operato grazie a ricchi materiali d’archivio – i manoscritti raggiungono la dignità e preziosità dei marmi, ai fini del trionfo della cultura italiana e bolognese tra XVIII e XIX secolo –, anche grazie al contributo dell’Accademia di Belle Arti petroniana e dei Musei Civici di Bassano del Grappa. Se nella sezione dedicata alle relazioni tra Canova e la città (a partire dal primo viaggio nel 1779) spicca la Madonna col Bambino e santi di Annibale Carracci, nell’area dedicata al rapporto tra il maestro e l’Accademia c’è la sua Maddalena penitente, appena restaurata dagli studenti della Scuola interna all’Accademia; a questa seguono opere di Parmigianino, Perugino e Giacomo Cavedone, e una ricostruzione della prima, grande mostra realizzata nella chiesa dello Spirito Santo per esporre le diciotto opere recuperate dai saccheggi. Tutta l’esposizione, voluta dalla direttrice della Pinacoteca Maria Luisa Pacelli, va proprio a rievocare la storica mostra del 1816, ricreando la gioia del riappropriarsi del proprio patrimonio, celebrando Canova e la città di Bologna allo stesso tempo. L’augurio è che la Pinacoteca torni a stringere un rapporto di alleanza e affetto con la “dotta”, mostrando quanto siano profondamente intrecciate le loro radici.


DIETRO LE QUINTE / CANOVA / ROVERETO

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a fianco del video di Jeff Koons con Cicciolina, e Dino Pedriali, con le sue delicate e sfrontate foto di nudo maschile.

UN CANOVA VERO E VIVO

“‘Tra innocenza e peccato’ fa riferimento all’incontro tra l’ideale di bellezza dell’arte classica e la sensualità nascosta di Canova: mettere in luce questo aspetto è uno dei pregi della mostra”, spiega la co-curatrice Beatrice Avanzi. “Questa lettura restituisce un Canova vero e vivo, allusivo e ‘al limite’, come era percepito al suo tempo. E dire che Roberto Longhi, che amava Caravaggio, lo definì ‘nato morto’! Questa mostra va a rileggere l’opera di Canova, accostandola alla grande critica della sua epoca, dalle citazioni di Flaubert, che provava il ‘desiderio di baciare l’ascella di Psiche’, a quelle di Foscolo, che vedeva nella Venere Italica ‘non una dea ma una bellissima donna’”. La mostra, che molto deve ai quattordici prestiti della Gypsotheca di Possagno, coinvolge sia gli artisti che hanno cercato lo stesso ideale di purezza sia coloro che lo hanno (apparentemente) negato: “Pensavamo di chiamare l’ultima sezione ‘Tradire Canova’, ma dopo l’avanguardia la bellezza si trova anche nei corpi e nelle figure che sfiorano il grottesco”, raccontano i curatori. La bellezza delle figure proposte da Jan Saudek e Joel-Peter Witkin, donne nane o senza alcuni arti o transessuali, non sembrerà però affatto violenta agli spettatori che superino una visione abilista e post-colonialista, e aprano la propria mente a quella spiritualità che è comune a tutti i corpi.

DA CANOVA A IRVING PENN

Vittorio Sgarbi – anche presidente della Fondazione Canova – ha ricordato come questa rassegna vada a realizzare il suo obiettivo per il Mart: “La mia aspirazione era renderlo un museo di arte non moderna e contemporanea ma un museo di arte e basta, rendendola tutta popolare”. Canova, qui anche “inventore del design” grazie ai modelli in gesso replicabili, pone le fondamenta della percezione generale del corpo, sostiene Sgarbi, dal meraviglioso libro sulle persone travestite di Lisetta Carmi ai carnosi scatti di Irving Penn, “un Canova diventato fotografia”. Una mostra importante anche per Rovereto: “Mutuando l’espressione ‘essere all’ora del paese’”, ha detto il sindaco Francesco Valduga, “questa mostra è all’ora della città: parte da Canova e da quel periodo che ha permesso a Rovereto di individuare la sua vocazione, diventando quella che è oggi”.

IL CONFRONTO: LA VENERE ITALICA E LE AMAZZONI DI NEWTON Dei molti dialoghi-scontri tra Canova e i suoi (più o meno ortodossi) discepoli, uno cattura facilmente l’attenzione: quello tra la Venere Italica e i titanici ritratti di Helmut Newton. Al centro della mostra e ben visibile dall’ingresso, la statua di gesso del 1811 sembra incastrarsi goffamente in una teoria di donne, linde e allineate come in una parata militare. Queste amazzoni – completamente nude, se si eccettuano i vertiginosi stiletti ai piedi – si stagliano orgogliose e sfrontate proprio dove la Venere sembra ritrarsi, pudica. “Canova e Helmut Newton”, racconta Vittorio Sgarbi, “appartengono sicuramente a mondi estranei: uno legato all’innocenza, l’altro al peccato, persino alla minaccia. Eppure, venendo al Mart, si percepisce proprio grazie a questi scambi come Canova continui a vivere: anche se l’artista apparentemente più algido e chiuso ha una visione che appartiene all’antico – si potrebbe dire che il filo che collega Fidia a Canova si interrompa dopo la morte di quest’ultimo –, c’è un

mondo di interpretazioni delle sue opere che indicano la pulsione del desiderio, e i sensi, che sono le stesse nelle sensuali donne di Newton”. Il bianco e nero intrinseco al classicismo canoviano diventa nel fotografo novecentesco una speculare dichiarazione d’intenti: alla sobrietà della statua si sostituisce la potenza degli scatti, alla femminilità umile, quasi umida, del primo soggetto, risponde una forza androgina e insieme splendidamente muliebre. La capigliatura ingentilita dai nastri della Venere, che quasi accovacciata copre con un drappo il suo morbido corpo, non riesce a occultare lo sporgere di una criniera alle sue spalle: è la testa della giunonica figura di Big Nude III, realizzata a Parigi nel 1980, che flette i muscoli senza vergogna né umiltà. Come a mostrare lo spirito indomito dentro i corpi delicati delle dive canoviane, questo apparente contrasto è un abbraccio che include le diverse anime delle donne, rivendicando per loro il diritto di essere tutto e il contrario di tutto.


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

In terra di Sicilia, tra le sponde del Mediterraneo e i lapilli dell’Etna, è stato realizzato un orto botanico sui generis. Si tratta di Radicepura, un museo-giardino open air, declinato alla progettualità per giovani paesaggisti e professionisti internazionali. In grado di fare dialogare arte e turismo green, Radicepura è molto altro: oltre al concorso biennale per la realizzazione di giardini d’artista, è un progetto di recupero di terreni abbandonati, una banca semi e una scuola di botanica. La Sicilia ha una tradizione antica di coltivazione di piante, di giardini storici e di vivaismo. La fertile terra vulcanica, il sole e l’influsso del mare sono elementi fondamentali per la riuscita di queste attività. CHE COS’È RADICEPURA Esempio di lungimiranza ed eccellenza tutto italiano, Radicepura è un progetto ideato e sostenuto dai Vivai Faro, a Giarre, in provincia di Catania. L’azienda vivaistica, che è attiva con una serie di altre iniziative diversificate (resort Donna Carmela per ospitalità di eccellenza; viticultura sulle pendici dell’Etna; produzione di olio EVO), è stata fondata dalla famiglia Faro, originaria di Acireale. La visita al parco inizia dalla casa baronale sede della Fondazione, che organizza anche mostre d’arte. Si prosegue attraverso palmeti e cactacee di straordinaria bellezza. Nell’orto botanico si coltivano centinaia di esemplari di piante mediterranee monumentali, definite le “piante madre”, dal cui seme vengono riprodotte tutte le altre piante. Questo dà la possibilità di avere una banca semi di alta qualità, senza patogeni, con certificazioni controllate e integrate. RADICEPURA GARDEN FESTIVAL A queste iniziative si aggiunge Radicepura Garden Festival, promotore di un messaggio sul futuro del verde pubblico, che ha portato designer e artisti da tutto il mondo a partecipare con i propri progetti. A seguito del bando internazionale, alcune delle proposte vengono realizzate e restano in maniera permanente nel parco. Tra i vari giardini artistici si possono osservare Anamorphose, ideato da François Abélanet, un intrigante gioco ottico per un’oasi della biodiversità mediterranea; Home Ground, progetto del paesaggista Antonio Perazzi, con alberi da frutto, vasche d’acqua come pagine di libri e sedute ondulate in pietra lavica; Layers, firmato dal noto garden designer inglese Andy Sturgeon, che accoglie una vegetazione rigogliosa in dialogo con strutture color pastello; Il sogno di Empedocle, bellissima opera-scultura di Emilio Isgrò. Una curiosità: nell’aia davanti agli antichi edifici in tufo, sede di Radicepura, è stata girata la scena del ritorno in Sicilia nel leggendario film Il Padrino di Francis Ford Coppola. Claudia Zanfi

GIARRE RADICEPURA

François Abélanet, Anamorhpose Photo Claudia Zanfi

“Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza. Dal ’76 pubblico su alcune riviste. Disegno poco e controvoglia. Mio padre, anche lui svogliatissimo, è il più notevole acquerellista ch’io conosca. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Morirò il sei gennaio 1984”. Mi vengono in mente queste parole pronunciate da Andrea Pazienza nel 1981, mentre osservo le sue tre magnifiche tavole in una saletta di Palazzo Dogana a Foggia, convincendomi che nei musei delle apparenti periferie lo stupore che si avverte è sempre il più estraniante e durevole. È un luogo di stratificazioni la Galleria d’arte moderna della città: nata sotto l’egida della Provincia, oggi è parte integrante del Polo biblio-museale di Foggia diretto da Gabriella Berardi. JOSEPH BEUYS NELLA PINACOTECA DI FOGGIA Inaugurato nel maggio 2003, il percorso espositivo, allestito in alcune sale del piano terra del palazzotto settecentesco, custodisce opere di proprietà della Provincia oggi incluse in un più ampio processo di valorizzazione del patrimonio a opera del Polo biblio-museale regionale coordinato da Luigi De Luca. La vocazione di questo luogo è duplice: da un lato c’è l’impegno verso la ricerca sugli artisti foggiani che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno lavorato intensamente sul fronte della pittura e della scultura; dall’altro c’è il desiderio più recente di confrontarsi con la lezione di Joseph Beuys. L’artista raggiunse Foggia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando prestava servizio militare nell’aviazione, e rimase legato alla città anche negli ultimi anni della sua vita, come dimostrano alcuni suoi multipli. La sezione su Beuys presenta immagini e un libro d’artista pubblicato da Lucrezia De Domizio Durini per documentare uno dei suoi tanti progetti italiani nati proprio a Bolognano dai Durini. L’augurio è che la pinacoteca possa un giorno accogliere una sezione permanente di documentazione dedicata al rapporto tra Beuys e l’Italia, e in particolar modo con la Puglia, visto che proprio un artista-collezionista salentino, Corrado Lorenzo, negli Anni Settanta produsse alcuni multipli di Beuys pubblicati anche nel suo catalogo generale della grafica. GLI ARTISTI DI PALAZZO DOGANA “L’obiettivo principale della collezione”, precisa Gabriella Berardi, “è quello di fornire un quadro d’insieme dell’attività artistica in Capitanata tra il XIX e il XX secolo, attraverso l’esposizione di opere di autori come Domenico Caldara, Alfredo Petrucci, per arrivare a Dario Damato, Giovanni Albanese, Gerardo Gerardi e Pazienza. Una sala è dedicata all’italo-tedesco Alfredo Bortoluzzi, che visse i suoi ultimi anni sul Gargano, mentre più recentemente è stato allestito uno spazio espositivo per documentare la presenza di Joseph Beuys a Foggia e sul Gargano. Un’altra parentesi internazionale è quella costituita dalle sale che ospitano i colombiani Fernando Botero e Cesare Siviglia”. Lorenzo Madaro

FOGGIA PALAZZO DOGANA

Piazza XX settembre 22 0881 791111


RUBRICHE

I LIBRI

Per la stragrande maggioranza delle persone, il nome di Piet Mondrian (Amersfoort, 1872 – New York, 1944) è legato a una precisa pittura astratta, fatta di colori stesi in maniera flat, contenuti in quadrati e rettangoli bordati di nero e riempiti da campiture monocrome bianche, grigie, rosse, blu e gialle. Si potrebbe dire: l’astrazione ai suoi minimi termini. LA POETICA DI MONDRIAN Chissà perché, a produzioni artistiche di questo genere associamo quasi sempre connotazioni scientifiche. E invece, grazie alla pubblicazione curata da Elena Pontiggia, scopriamo che la poetica dell’artista olandese scaturiva da concezioni antroposofiche e tradizionaliste che erano e sono al capo opposto del metodo scientifico. E per di più, questa sua teoria “non sempre è chiara e priva di contraddizioni”, come scrive Elena Pontiggia introducendo la raccolta di Scritti teorici. Il neoplasticismo e una nuova immagine della società. Ancora: lo stile della sua scrittura è tutt’altro che limpido e rigoroso. E dire che la tesi è di una semplicità disarmante, ed è quella che pochi anni dopo ritroveremo in ogni scritto di René Guénon: “Il nuovo non è altro che una manifestazione differente della verità universale, la quale è immutabile”, scrive infatti Mondrian sul primo numero della rivista De Stijl nel 1918. Questo squalifica l’interesse per l’opera di Piet Mondrian? Ovviamente no. Anzi, non squalifica nemmeno l’interesse per la sua poetica e le sue teorie, in quanto forniscono un quadro più aderente alla realtà, in particolare relativamente alla presunzione che le avanguardie storiche fossero tutte improntate al progressismo. In questo senso, una conoscenza anche solo abbozzata del Surrealismo dovrebbe essere sufficiente, con le sue bislacche teorie sulla scrittura automatica e la fantasiosa interpretazione dell’inconscio. LA MOSTRA A MILANO Una finestra privilegiata attraverso la quale osservare l’operato di Mondrian e del gruppo De Stijl è offerta dalla mostra intitolata Dalla figurazione all’astrazione, visitabile fino al 27 marzo al MUDEC di Milano. Realizzata in collaborazione con il Kunstmuseum Den Haag e ideata da Benno Tempel, consente di comprenderne la produzione grazie a un lavoro contestuale raffinato: si parte da una sezione dedicata alla Scuola dell’Aia, poi si offrono al visitatore le opere di Mondrian prima e dopo il 1908 – crinale in cui l’artista si avvicina alla teosofia e abbandona progressivamente il paesaggio naturalistico – e infine con il Design De Stijl (il cui nome più noto è, almeno al momento, Gerrit Rietveld). Strumento utilissimo in questo viaggio è il catalogo della mostra, che, oltre a riprodurre le opere esposte a Milano, si apre e si chiude con i saggi rispettivamente di Tempel e di Domitilla Dardi. Per chi ancora non fosse soddisfatto, c’è una terza pubblicazione, a carattere critico-biografico, a firma di Elena Pontiggia. Marco Enrico Giacomelli

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ASTE E MERCATO

MONDRIAN UNO E TRINO

PIET MONDRIAN Scritti teorici a cura di Elena Pontiggia Libri Scheiwiller, Milano 2021 Pagg. 142, € 18,90 ISBN 9788876446863 BENNO TEMPEL (a cura di) Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione 24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 144, € 32 ISBN 9788866485780 ELENA PONTIGGIA Piet Mondrian. Una vita per l’arte 24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 64, € 12,90 ISBN 9788866485766 24orecultura.com/libri/

Di rimbalzo alla crisi aperta dalla pandemia le grandi cifre tornano nelle cronache delle aste e, accanto agli artisti blue chip, anche storie poco percorse, o nient’affatto raccontate, trovano anse inedite di riconoscimento critico e nuovi posizionamenti di mercato. È il caso, ad esempio, dell’attenzione riservata di recente alla pattuglia del Realismo magico, protagonista a Palazzo Reale, a Milano, della mostra Realismo magico. Uno stile italiano, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli (fino al 27 febbraio 2022). E in particolare a Cagnaccio di San Pietro (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa, Desenzano del Garda, 1897 – Venezia, 1946), come testimonia – spostandoci sul versante del mercato – l’ottima accoglienza riservata al suo Nudo in riva al mare / La rosa del mare, uno dei lotti più attesi nel catalogo raccolto a Milano da Il Ponte Casa d’Aste per la sessione di fine novembre dedicata all’Arte Moderna e Contemporanea. Datato 1935, il dipinto arrivava con una stima pre-asta tra € 60.000 – 80.000, agilmente e rapidamente scavalcata fino all’aggiudicazione per € 162.500. A sancire il fascino intatto e l’incanto di una via all’immagine in equilibrio inquieto tra adesione oggettiva al dato reale e trasfigurazione allegorica. LA STORIA DI CAGNACCIO DI SAN PIETRO Artista schivo e anticonformista in una società irreggimentata, Cagnaccio di San Pietro fu apprezzato più dagli artisti che non dalla critica del tempo, che poco lo comprese. Di lui scriveva Claudia Gian Ferrari, tra i principali artefici del suo rilancio, e che pure aveva esposto proprio questo olio su tavola: “La visione iperrealistica di Cagnaccio di San Pietro è forse la più apparentabile agli schemi linguistici della Nuova Oggettività tedesca”. E in effetti è lui appunto il più oggettivo dei realisti magici, nella precisione del segno e nella definizione dei volumi, nella vicinanza a una realtà quotidiana, eppure alterata. In una nuova resa dell’immagine “algida, tersa, […] talmente realistica da rivelarsi inevitabilmente inquietante e straniante” (Gabriella Belli e Valerio Terraroli), indagata da questa particolare declinazione dell’arte italiana tra le due guerre, tra il 1920 e il 1935, che tanti punti di tangenza ebbe con la Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività tedesca, e, per la condivisione di artisti come Achille Funi, Mario Sironi, Ubaldo Oppi, con il Novecento Italiano di Margherita Sarfatti. L’INQUIETUDINE DEL NOVECENTO Dopo un periodo di oblio, e sulla scia delle importanti mostre veneziane dedicate a Cagnaccio di San Pietro dal Museo Correr prima (1991) e dalla Ca’ Pesaro poi (2015), è arrivato dunque il momento di tornare a guardare, attraverso processi di valorizzazione storico-critica ed economica, una intera temperie che operò sulla sublimazione della realtà, su una mimesis sotterraneamente percorsa dall’inquietudine di un secolo pronto a precipitare. Cristina Masturzo

IL PONTE CASA D’ASTE CAGNACCIO DI SAN PIETRO

Cagnaccio di San Pietro, Nudo in riva al mare / La rosa del mare, 1935, olio su tavola, 104,5 x 82 cm. Courtesy Il Ponte Casa d’Aste, Milano


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