Grandi Mostre #26

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GOYA/BASILEA • BOURKE-WHITE/ROMA

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IN APERTURA / GOYA / BASILEA

Tutto Goya in Svizzera Stefano Castelli opo l’allagamento orchestrato da Olafur Eliasson, i capolavori di Goya. Se l’alternanza e il confronto tra arte contemporanea, moderna e di fine Ottocento è uno dei punti caratterizzanti della programmazione della Fondation Beyeler, la scelta di tornare più indietro nel tempo con una monografica su Francisco Goya (Fuendetodos, 1746 − Bordeaux, 1828) non è affatto casuale. L’artista spagnolo può essere infatti considerato un iniziatore della modernità, uno degli inventori se non l’inventore della figura dell’artista moderno: colui che, anziché muoversi (anche con la massima inventiva) nell’ambito dei canoni, lascia libero spazio al suo genio. La mostra, che viene annunciata come “una delle più importanti realizzate fin qui su Goya”, è organizzata in collaborazione con il Prado e comprende settanta dipinti e cento tra disegni e incisioni. Il curatore dell’antologica Martin Schwander, da noi intervistato, segnala tra le opere che valgono il viaggio a Basilea le otto scene di genere e storiche giunte dalla collezione del Marqués de la Romana, i quattro pannelli con scene di genere dalla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid, Maya y Celestina al balcón e Majas al balcón (entrambe datate 1808-12), il ritratto della Duchessa d’Alba (1795) e la Maja vestida (1800-07), oltre alle scene di genere di piccolo formato provenienti da collezioni private spagnole.

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TEMI E SOGGETTI DI GOYA

Il fatto di cogliere tutte le varie facce della produzione di Goya, spesso considerate ed esposte separatamente, è uno dei punti d’interesse della mostra. Allestire una ricognizione ad ampio raggio, con opere raramente esposte o difficili da vedere perché riunite in collezioni private, permette di considerare con dovizia di particolari alcuni spunti che attraversano la sua produzione: l’autorappresentazione da parte dell’artista, attraverso la presenza di diversi autoritratti, oppure la rappresentazione secondo codici inusitati per l’epoca della figura femminile. “Le celeberrime Maja, spesso raffigurate in dipinti decorativi di genere (compresa l’opera giovanile di Goya ‘Pradera de San Isidro’), rappresentavano una nuova classe di donne lavoratrici che intendeva conservare le libertà duramente conquistate, fatto espresso tra l’altro tramite uno stile che ben presto fu imitato dall’aristocrazia”, dice Schwander a proposito del complesso rapporto tra donne e uomini catturato da Goya. “Nei suoi dipinti, Goya – anch’egli figura dell’Illuminismo con idee moderne e progres-

fino al 23 gennaio

GOYA

a cura di Martin Schwander Catalogo Hatje Cantz Verlag / Ediciones El Viso FONDATION BEYELER Baselstrasse 77 – Riehen fondationbeyeler.ch

in alto: Francisco Goya, El Aquelarre (part.), 1797-98. Olio su tela, 43x30 cm. Museo Lázaro Galdiano, Madrid a destra: Francisco Goya, La Maja vestida, 1800-07. Olio su tela, 95x190 cm. Museo Nacional del Prado, Madrid © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado, Madrid

siste in ogni campo della sua vita – esplorò il ruolo delle donne, il loro status e i loro obiettivi, il loro diritto all’uguaglianza e allo studio. Ciononostante, in quanto artista fortemente legato allo studio e alla rappresentazione della natura umana, Goya fu portato a mostrare anche ogni tipo di ‘vizio’ – sia degli uomini sia delle donne – con lo stesso distacco obiettivo. La malafede, la crudeltà, l’ignoranza e la vanità delle donne venivano descritte con la stessa durezza critica utilizzata nel caso dei misfatti degli uomini”. Dipinti e incisioni sono due aspetti fondamentali e complementari di Goya: come vengono messi in rapporto nella mostra questi due lati della sua produzione? “Nella selezione di lavori e nel modo di presentarli, la mostra alla Fondation Beyeler si pone l’obiettivo di valorizzare la totalità dell’opera di Goya, tutta la sua complessità e la sua ambiguità, facendole emergere dall’abbondanza e varietà della sua


IN APERTURA / GOYA / BASILEA

opera. Solo affiancando i suoi lavori realizzati nelle diverse tecniche (dipinti, disegni e incisioni), dando un’eguale attenzione alle molte sfaccettature dell’artista, diventa possibile cogliere la ricchezza unica e la varietà del suo mondo. Molte persone sono colpite e affascinate maggiormente proprio da disegni e incisioni, meno spesso esposti: questi tipi di lavori rivelano un Goya molto intimo e personale. Ed è proprio nei suoi disegni tardi che Goya restituisce impressioni tratte dalla sua vita quotidiana e dai suoi incubi, esprimendo così la sua modernità”, prosegue Schwander.

MODERNITÀ ANTE LITTERAM

Il ruolo di anticipatore di Goya è dunque al centro della lettura che la mostra dà della sua opera. Pablo Picasso, Joan Miró, Francis Bacon, i surrealisti, Marlene Dumas e Philippe Parreno (Orano, 1964) sono tra gli artisti moderni e contemporanei che il curatore indica come suoi ammiratori ed “eredi”. E l’affinità di Parreno con Goya viene approfondita con un’opera realizzata appositamente dall’artista franco-algerino, proposta alla Beyeler in concomitanza con la mostra. Esplicitando una poetica allo stesso tempo analitica e immaginifica, nel suo film, La quinta del sordo, Parreno esplora con inquadrature ravvicinate, accurate e soggettive le Pinturas negras, allucinato ciclo di dipinti murali che Goya realizzò sulle pareti della sua casa di campagna, attualmente esposti al Prado. Oltre all’iconografia di Goya, il film ne esplora in un certo senso il mito; la dimensione è quella del grottesco, tra sogno e incubo, memoria, osservazione e trasfigurazione. Verificare le assonanze tra un autore come Goya e gli alfieri della più avanzata ricerca con-

1746

Nasce a Fuentetodos

1763/74

Primo soggiorno a Madrid

1769

Trasferimento a Roma per approfondire lo studio del disegno

1771

Prima commissione pubblica a Saragozza

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temporanea come Parreno non è un’operazione di confronto iconografico. Cogliere le affinità di un anticipatore quale Goya con autori di molto successivi, sottolineare cosa differenziò un innovatore come lui dal suo contesto storico, non smentisce affatto che nel passaggio dall’arte antica a quella contemporanea sia avvenuto un cambio di paradigma. Indica come la transizione non fu immediata né istantanea, ma avvenne anche grazie a pionieri come Goya, che gettarono le basi, pure filosofiche, per la definitiva nascita dell’artista “liberato” e autonomo.

1780

Viene accolto nella Real Academia de San Fernando

1786

Viene nominato pittore di corte

1793

Perde l’udito

1795 ca.

Dipinge la Maja desnuda

1797 ca.

Inizia la serie dei Capricci

1810/20

Realizza i Disastri della guerra

1828

Muore a Bordeaux

IL PROGRAMMA DELLA FONDATION BEYELER Oltre alla mostra su Goya e al video a lui ispirato di Parreno, la Fondazione propone anche Close-up (fino al 2 gennaio), rassegna tutta al femminile che copre un arco temporale dal 1870 a oggi riunendo le opere di nove artiste: Berthe Morisot, Mary Cassatt, Paula Modersohn-Becker, Lotte Laserstein, Frida Kahlo, Alice Neel, Marlene Dumas, Cindy Sherman, Elizabeth Peyton. Già definito il programma per il 2022: dal 23 gennaio al 22 maggio arriverà a Basilea l’imponente mostra itinerante dedicata a Georgia O’Keeffe, mentre dal 5 giugno al 9 ottobre sarà la volta di Piet Mondrian.


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OPINIONI

La copertina di

La storia di Roma spiegata al museo

Antonio Pronostico

Fabrizio Federici storico dell'arte

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Antonio Pronostico è nato nel 1987 a Tricarico e il giorno dopo si è trasferito a Potenza, dove è cresciuto. Ora vive a Roma. Ha studiato comunicazione visiva a Firenze, dove ha iniziato a disegnare e con due grandi amici ha fondato il Collettivomensa, rivista autoprodotta di letteratura e fumetto. Nel 2020 espone i suoi lavori presso la Galerie Glénat a Parigi. Nel 2019, insieme al regista Fulvio Risuleo, pubblica Sniff, il suo primo graphic novel, edito da Coconino Press. In seguito pubblica Passatempo (2019), Cinque – Giovanni Truppi (antologia, 2019) e Tango (2021), sempre con Coconino. Ha collaborato con L’Espresso, la Repubblica (web), La Stampa (web), Internazionale, Jacobin Italia, Artribune, Donna Moderna. “La cover che ho realizzato punta a essere il meno descrittiva possibile e ci porta dritti davanti a qualcosa di meraviglioso che non vediamo, ma che accende in noi quel forte e inaspettato sentimento che è la sorpresa”.

Musei Capitolini sono bellissimi ma la parte romana semplicemente non spiega Roma”. Con queste parole, estratte da un tweet dello scorso 18 agosto, Carlo Calenda accendeva una delle polemiche che maggiormente hanno segnato l’ultima campagna elettorale per le amministrative. Via i Capitolini, e via pure il Comune, sostituiti da un immenso museo dedicato alla storia antica della città, dal granitico nome di Museo Unico Romano. “Spiegare” la storia dell’Urbe, spazzandone via un capitolo fondamentale, che è al contempo una pagina di primaria importanza della storia del collezionismo e dei musei, trattandosi della prima istituzione pubblica di questo genere aperta al pubblico (1734). La proposta calendiana, peraltro irrealizzabile, è già stata ampiamente (e giustamente) criticata, respinta, sbeffeggiata da storici, direttori di museo, giornalisti. Lasciamo dunque stare la pars destruens e proviamo a vedere se c’è del buono, almeno al livello delle intenzioni, in quanto ha proferito il candidato sindaco.

UN MUSEO UNICO PER LA ROMANITÀ

Con il suo tweet Calenda sembra aver riaperto – non si sa quanto consapevolmente – un annoso dibattito: se vi sia bisogno a Roma di un museo che “spieghi” la storia della città, ai cittadini e ancor di più ai turisti, che spesso, nei loro frettolosi tour, posano il piede sul suolo dell’Urbe senza sapere nulla di consoli, imperatori e pontefici. Un museo siffatto sarebbe senz’altro utile: ma come realizzarlo? L’impresa, per un luogo dalla storia unica come è la Città Eterna, è di quelle da far tremare i polsi. Si potrebbe pensare a una grande struttura, la cui prima parte sia occupata da un grandioso affresco sulla storia di Roma, capace di informare e al tempo stesso affascinare il visitatore, appoggiandosi su pochi reperti altamente significativi e sulle nuove possibilità messe a disposizione dalla tecnologia. Un’introduzione che sia in

grado di trasmettere al pubblico poche e fondamentali nozioni, di fornire come una mappa essenziale con cui poi il turista possa avventurarsi alla scoperta della città. All’introduzione dovrebbero seguire gli approfondimenti, in forma di una o più mostre dedicate a momenti e temi specifici, allestite con pezzi provenienti in massima parte dalle raccolte civiche e statali dell’Urbe. Mostre che “spieghino” porzioni della storia della città, puntando su un taglio, per l’appunto, storico, sostenuto da una narrazione efficace e coinvolgente.

Un museo che spieghi la storia di Roma sarebbe utile: ma come realizzarlo? E LA BASILICA VATICANA?

Il discorso vale anche Oltretevere. Non esiste un museo della Basilica di San Pietro. A dispetto del fatto che i musei delle chiese principali di alcune città italiane (Milano, Firenze, Pisa) sono stati in anni recenti magnificamente rinnovati e si annoverano oggi tra gli elementi di spicco dei panorami museali di quelle città, manca un museo che racconti la storia della Basilica Vaticana. Esiste un Museo del Tesoro ma, come si intuisce dal nome, non si tratta che di una selezione di pezzi eccellenti, che non pretendono di dare forma a un racconto. Molti oggetti (opere d’arte, modelli) si trovano nei locali annessi alla basilica, non accessibili; altri “ingolfano” il già ricchissimo percorso dei Musei Vaticani (della Pinacoteca, in particolare). Un grande museo che racconti la storia di San Pietro sarebbe, naturalmente, strepitoso, sia per l’importanza religiosa, culturale, artistica del sito, che per l’avvincente storia architettonica del complesso, con una basilica di Età Moderna che ha preso il posto di una assai più antica, della quale peraltro il visitatore non avvertito ha scarsa contezza, nell’esiguità di tracce materiali che il tempo costantiniano ha lasciato.


OPINIONI

#26

Il restauro della Pietà di Michelangelo

Il museo che porta l’arte fuori dai musei

Antonio Natali storico dell’arte

Stefano Monti economista della cultura

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llo scadere del 2018 l’Opera del Duomo di Firenze decise di metter mano al restauro della Pietà di Michelangelo, nota come Pietà Bandini. Quella risoluzione trovò prontamente il sostegno generoso dei Friends of Florence, la Fondazione americana che da oltre vent’anni s’accolla gli oneri della tutela di buona parte del patrimonio d’arte di Firenze (incluse quelle opere che, per esser meno celebrate e perciò meno ambìte dal turismo attuale, non troverebbero conforto negli oculati mecenati nostrali). Le operazioni di restauro sono state più volte inceppate dalla malignità d’un morbo di cui è venuto in uggia anche il nome. E però l’impresa – comprensiva delle indagini scientifiche che costituiscono la premessa d’ogni intervento conservativo – ha fatto comunque il suo corso, arrivando a compimento nel settembre di quest’anno 2021 e sùbito offrendone gli esiti ai visitatori. A vero dire, il marmo di Michelangelo non è stato mai inibito a chi visitasse il Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. La Pietà, ogni volta che la legge consentiva l’accesso alle sale, poteva da ognuno essere guardata, conforme alla pratica del “cantiere aperto”.

OSSERVARE DA VICINO LA PIETÀ

Il restauro dunque s’è svolto sotto gli occhi di tutti; e tutti potevano seguire l’avanzare della pulitura d’un marmo che pian piano perdeva quell’omogenea tonalità ambrata, cui nei secoli era pervenuto a furia di stesure di materiali incongrui, vòlte appunto a uniformarne le apparenze. Ma era proprio quell’uniformità a smorzare i palpiti d’una scultura la cui lavorazione è segnata da gradi diversi di compiutezza: dall’appena sbozzato al quasi finito. La pulitura sensibile e discreta, ch’è la sostanza dell’intervento odierno, favorisce una lettura del marmo struggente e criticamente proficua. E chiunque lo desideri potrà – da ora alla fine di marzo del 2022 – profittare delle strutture

del cantiere di restauro per salire al piano su cui posa l’opera di Michelangelo e avvicinarsi al marmo fin quasi a toccarlo, potendo finalmente apprezzarne da vicino il variegato trattamento. E l’occasione sarà buona per darsi al contempo ragione del tenore d’un museo in cui sono esposte creazioni che ne fanno uno dei maggiori istituti al mondo quanto a scultura medioevale e umanistica: da Arnolfo di Cambio a Donatello, da Andrea Pisano a Ghiberti, da Luca della Robbia a Verrocchio e Pollaiolo, su su fino a Michelangelo.

Fino alla fine di marzo chiunque potrà apprezzare da vicino il restauro dell’opera NON SOLO BRUNELLESCHI

Sia detto questo perché non c’è nei fiorentini e neppure negli stranieri la coscienza piena della qualità altissima del Museo del Duomo di Firenze. Gli ospiti forestieri accorrono infatti numerosi ai luoghi dell’Opera di Santa Maria del Fiore, ma la loro aspirazione massima è salire alla lanterna in cima alla cupola di Brunelleschi per godere della veduta di Firenze dall’alto. È segnatamente quel belvedere la loro meta. L’epifania mirabile di colli e case che da lassù si squaderna giustifica davvero il desiderio di quell’ascesa. Siccome però molti (peraltro politicamente autorevoli) s’illudono che sia ognora più diffusa ai giorni nostri l’aspirazione alla “bellezza”, mi pare sia necessaria una riflessione su quelli che vengono interpretati come interessi culturali; giacché un conto sono i paesaggi e gli spettacoli della natura (davanti ai quali l’uomo – da sempre, non da oggi – si commuove), altro conto sono le opere di cui proprio l’uomo è artefice. Mi convincerò d’un comune anelito a incontrare la “bellezza” quando vedrò varcare la soglia del Museo del Duomo da almeno la metà di quelli che discendono dal colmo della cupola brunelleschiana, lì a due passi.

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olte delle espressioni artistiche contemporanee stanno ragionando su linguaggi che potrebbero rendere concretamente operabile il concetto di ubiquità dell’arte. Eppure pochi pensano a quante trasformazioni questi processi possano condurre, anche in termini di luoghi espositivi. Oggi il museo rappresenta il luogo espositivo per eccellenza: non solo per coerenza contenutistica, ma anche e soprattutto perché il museo è il luogo che garantisce i migliori standard di sicurezza legati alla salvaguardia delle opere. Se così non fosse, la geografia urbana delle nostre esposizioni disegnerebbe forse delle mappe diverse: molta arte contemporanea, ad esempio, più che in un museo starebbe meglio in differenti tipologie di strutture, ma si tende ancora a preferire i musei perché sono i luoghi più sicuri, e che individuano le organizzazioni più professionali per la gestione delle opere. Con le nuove forme d’arte, sia quelle a oggi esistenti, sia i linguaggi che è lecito attendersi nell’immediato futuro, è possibile che tale centralità del museo non rappresenti più un elemento dato per scontato. Si pensi ad esempio alle mostre di opere d’arte digitale. Se l’opera è digitale, e se non può quindi rompersi irrimediabilmente, allora nulla toglie che possa trovare spazio in un supermercato o in un garage. Così come nulla vieta che possa continuare a essere allestita nei musei, se ci sono le condizioni ideali per la fruizione.

ANDARE OLTRE IL MUSEO

Finora i musei hanno rappresentato la sede naturale delle mostre e i professionisti adattavano i display alla struttura. Se tuttavia i musei divengono soltanto una delle potenziali tipologie di strutture espositive, allora la possibilità che altre tipologie di immobili presentino maggiore coerenza culturale con la mostra va presa in considerazione. E qui i musei dovrebbero, per una volta, iniziare ad anticipare i tempi, intercettando

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il cambiamento e modellandosi per poter mantenere la propria centralità. I musei continueranno senza dubbio a rappresentare la sede naturale per molte mostre. Ma per molte altre il processo di evasione dal museo sarà sempre più evidente. A meno che il museo non inizi ad agire come struttura di servizio più che come semplice luogo espositivo, creando partnership con il produttore della mostra, fornendo competenze e coordinamento logistico.

Nulla toglie che l’opera d’arte digitale sia esposta fuori dai musei IL MUSEO COME ATTIVATORE DI OPPORTUNITÀ

Questa strategia potrebbe trasformare una potenziale criticità in un’opportunità concreta di estendere ancor più il ruolo del museo come attivatore e non come semplice attrattore culturale. Sfruttando la propria rappresentatività culturale, il proprio brand, le proprie relazioni sul territorio e le competenze presenti in molti musei, si potrebbero anche creare strutture leggere di collaborazione con professionisti locali per favorire la nascita di nuovi format di mostre: dal real-estate scouting a campagne di comunicazione meno istituzionali, il museo, attraverso opportune scelte strategiche, potrebbe acquisire un ruolo ancor più importante nella vita cittadina, strutturando partnership pubblico-private realmente remunerative per il privato, e che non si limitino a vedere nella cultura una semplice vetrina. Intervenire nelle periferie, piuttosto che fare campagne di promozione per le stesse, agire da riqualificatore immobiliare, piuttosto che ospitare convegni sulla rigenerazione urbana, essere il museo stesso il motore che porta l’arte fuori dai musei, anziché subire un processo che, per alcune tipologie di linguaggi, più che naturale pare quasi inevitabile.


JENNY SAVILLE E IL RINASCIMENTO A FIRENZE a città di Firenze accoglie una delle più grandi pittrici viventi e voce di primo piano nel panorama artistico internazionale, Jenny Saville (Cambridge, 7 maggio 1970), protagonista di un progetto espositivo ideato e curato da Sergio Risaliti, Direttore del Museo Novecento, in collaborazione con alcuni dei maggiori musei della città: Museo di Palazzo Vecchio, Museo dell’Opera del Duomo, Museo degli Innocenti e Museo di Casa Buonarroti. L'esposizione, promossa dal Comune di Firenze, organizzata da MUS.E e sostenuta da Gagosian, rappresenta un incontro unico tra antico e contemporaneo e invita il pubblico a scoprire l'opera di Jenny Saville attraverso una serie di dipinti e disegni degli Anni Novanta e lavori realizzati appositamente per la mostra. Il percorso delinea la forte correlazione tra Jenny Saville e i maestri del Rinascimento italiano, in particolare con alcuni grandi capolavori di Michelangelo, come si può evincere sia dalla misura monumentale dei dipinti dell’artista britannica, tratto distintivo del suo linguaggio figurativo fin dagli esordi, sia dalla sua ricerca incentrata sul corpo, sulla carne, e su soggetti femminili nudi, mutilati o schiacciati dal peso e dall’esistenza, sulle maternità e i compianti. Jenny Saville trascende i limiti tra figurativo e astratto, tra informale e gestuale, riuscendo a trasfigurare la cronaca in un’immagine universale, un umanesimo contemporaneo che rimette al centro della storia dell’arte la figura, sia essa un corpo o un volto, per dare immagine alle forze che agiscono dentro e contro di noi. Dall’impatto con l’esistenza e la nuova vita risorge una dimensione spirituale che credevamo perduta nell’arte d’avanguardia. L’artista si è lasciata alle spalle il postmoderno per ricostruire un serrato dialogo con la grande tradizione pittorica europea in costante confronto con il modernismo di Willem de Kooning e Cy Twombly e la ritrattistica di Pablo Picasso e Francis Bacon. Sempre alla ricerca della verità in pittura per mettere a nudo l’immanenza espressiva del corpo, l’artista lavora sul modello in studio e sulla fotografia. Per costruire le sue immagini, così potenti e abbaglianti, così travolgenti e impressionanti, raccoglie fotografie e ritagli da giornali e cataloghi, mescolando storia dell’arte e archeologia, immagini scientifiche e di cronaca, senza creare gerarchie o distinguo tra bellezza e abiezione, brutalità e venustà, tenerezza e crudeltà. I suoi soggetti appartengono alla tradizione classica: volti, corpi nudi, gruppi di più figure, figure distese o in piedi, maternità e coppie di amanti presentati in pose che ricordano la statutaria etrusca o modelli classici, dipinti e sculture della tradizione rinascimentale e moderna, l’arte egizia o arcaica.

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IDENTIKIT DI JENNY SAVILLE La percezione umana del corpo è così acuta e consapevole che il più piccolo accenno di un corpo può innescarne il riconoscimento Jenny Saville

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in collaborazione con

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ata nel 1970 a Cambridge, Inghilterra, Saville ha frequentato la Glasgow School of Art dal 1988 al 1992, trascorrendo un periodo all’Università di Cincinnati nel 1991. I suoi studi hanno concentrato il suo interesse sulle “imperfezioni” della carne, con tutte le relative implicazioni sociali e tabù. Saville è stata affascinata da questi dettagli fin da bambina; ha raccontato di aver visto i lavori di Tiziano e Tintoretto durante i viaggi con lo zio, e di aver osservato il modo in cui i due seni della sua insegnante di pianoforte, schiacciati insieme nella camicia, diventavano un’unica grande massa. Durante una borsa di studio nel Connecticut nel 1994, Saville ha potuto osservare un chirurgo

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

plastico di New York al lavoro. Studiare la ricostruzione della carne umana è stato formativo per la sua percezione del corpo – la sua resilienza, così come la sua fragilità. Il tempo trascorso con il chirurgo ha favorito il suo approfondimento sui modi apparentemente infiniti in cui la carne viene trasformata e sfigurata. Ha esplorato le patologie mediche; visto i cadaveri all’obitorio; esaminato gli animali e la carne; studiato la scultura classica e rinascimentale e osservato coppie intrecciate, madri con i loro figli, individui i cui corpi sfidano le differenze di genere, e altro ancora.

LA POETICA DI JENNY SAVILLE

Membro degli Young British Artists (YBA), il gruppo sciolto di pittori e scultori salito alla ribalta tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Saville ha rinvigorito la pittura figurativa contemporanea sfidando i limiti di genere e sollevando domande sulla percezione che la società ha del corpo e del suo potenziale. Benché lungimirante, il suo lavoro rivela una profonda consapevolezza, sia intellettuale che sensoriale, di come il corpo sia stato rappresentato nel tempo e attraverso le culture – dalla scultura antica e indù, al disegno e alla pittura rinascimentale, al lavoro di artisti moderni come Henri Matisse, Willem de Kooning e Pablo Picasso. Nei volti impressionanti, nelle membra disordinate e nelle pieghe cadenti dei suoi dipinti, si possono percepire echi della Venere di Urbino di Tiziano (1532 ca.), del Cristo nella Deposizione dalla croce di Rubens (1612-14), dell’Olympia di Manet (1863), e di volti e corpi presi da riviste e giornali scandalistici. I dipinti di Saville rifiutano di inserirsi regolarmente in un arco storico; al contrario, ogni corpo si fa avanti, autonomo, voluminoso e sempre rifiutando di nascondersi.

MOSTRE E CARRIERA

Jenny Saville attualmente vive e lavora a Oxford, in Inghilterra. Le sue opere sono incluse, tra le altre, nelle seguenti collezioni: Metropolitan Museum of Art, New York; The Broad, Los Angeles; Museum of Contemporary Art, San Diego; Saatchi Collection, Londra. Tra le sue mostre recenti si annoverano: 50° Biennale di Venezia (2003); Museo d’Arte Contemporanea Roma, Roma (2005); Norton Museum of Art, West Palm Beach, FL (2011, poi al Modern Art Oxford, Inghilterra, nel 2012); Egon Schiele-Jenny Saville, Kunsthaus Zürich (2014-15); Jenny Saville Drawing, Ashmolean Museum of Art and Archaeology, University of Oxford, Inghilterra (2015-16); Now, Scottish National Gallery of Modern Art, Edimburgo (2018); e George Economou Collection, Atene (2018-19).


n occasione della mostra dedicata a Jenny Saville, una vetrina aperta giorno e notte rende visibile il grande dipinto Rosetta II (2005-06), esposto sopra l’altare all’interno dell’antica cappella al piano terra. L’opera, che ritrae una giovane donna non vedente conosciuta dall’artista, si colloca nello spazio occupato in precedenza da una grande tavola di Ludovico Buti, raffigurante la Moltiplicazione dei pani. La scelta iconografica di un episodio del Vangelo con al centro un miracolo si conformava alla funzione dello Spedale, all’epoca adibito a convalescenziario. La decisione di Jenny Saville riporta alla ribalta le funzioni di un complesso monumentale storicamente connotato da una forte vocazione sociale, ispirata a una delle principali virtù della religione cristiana: la carità. A ribadire questo tacito dialogo, l’innovativo allestimento consente di istituire il confronto con il Crocifisso ligneo di Giotto sospeso al centro della navata di Santa Maria Novella, ben riconoscibile fin dall’esterno del sagrato quando il portale della basilica è aperto. Nelle sale del Museo attigue alla cappella è esposta una serie cospicua di ritratti, sempre di grande formato e quasi sempre frontali. Sono volti di giovani di arcaica bellezza, un olimpo di divinità terrestri dagli sguardi intensi, che restano totalmente concentrati nei confini della propria irraggiungibile intimità. Nonostante la vita scavi sui volti, oltraggiandoli e sfigurandoli, la bellezza dei ritrattati, riflesso di una bellezza interiore, rimane intatta. I visi di Jenny Saville, monumentali e sensuali allo stesso tempo, ci indicano pertanto di cosa sia fatta la vera bellezza, illuminata di immensità ed energia purissima. Ne sono elementi rivelatori gli occhi sempre luminosi, capaci di comunicare tutto della persona. Al primo piano viene riservato ampio spazio al disegno, che per Jenny Saville è un’attività quotidiana. L’artista lavora in uno studio dedicato esclusivamente a questa pratica, che si differenzia dallo spazio riservato ai dipinti per illuminazione e organizzazione di strumenti e arredi. Saville parte da disegni di carattere figurativo, sui quali interviene ripetutamente, fino ad arrivare a uno stravolgimento dell’impianto tradizionale della visione. L’incessante e vorticoso ritornare sulle figure denota una scrupolosa osservazione del corpo e dei suoi movimenti, in un’indagine che muove dallo studio del visibile per lasciar

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MUSEO NOVECENTO fino al 20 febbraio

JENNY SAVILLE

a cura di Sergio Risaliti MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze 055 286132 Stazione di S. Maria museonovecento.it Novella

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In un’epoca in cui l’avanguardia modernista pare aver perduto la forza propulsiva del secolo scorso arrestandosi ai limiti del progresso, mentre la tradizione offre la possibilità di percorrere sentieri interrotti, ecco che i dipinti di Jenny Saville possono sconvolgere per il tipo di bellezza che fanno apprezzare. I suoi nudi, i ritratti, gli studi sulla maternità, i suoi ‘compianti’ sono così esageratamente moderni, eppure così compiutamente classici, che ci sentiamo strattonati in opposte direzioni e non possiamo restare indifferenti; ne veniamo sopraffatti e dobbiamo ammettere di dover fronteggiare la pittura con tutti i sensi, profondamente coinvolti e interrogati davanti a quello che non stentiamo a vivere come misterioso shock visivo. Sergio Risaliti Direttore del Museo Novecento

emergere la complessità dei ‘moti dell’anima’. L’artista si sofferma sulle espressioni, i gesti e il loro costante mutamento. Coglie sfumature impercettibili, quasi impossibili da contenere e definire in un’unità compiuta. Rinnovando la più classica delle tradizioni rinascimentali, i disegni di Jenny Saville riescono a racchiudere e a fermare, in un’immagine imperitura, l’infinita molteplicità dell’io.

in alto: Jenny Saville, Installation view, Museo Novecento, Firenze 2021 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Photo Sebastiano Pellion di Persano, Courtesy Gagosian a sinistra: Jenny Saville al Museo dell'Opera del Duomo, Firenze © photo Ela Bialkowska OKNOstudio

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

in collaborazione con

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l Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio ospita Fulcrum (1998-99), l’opera di maggior risonanza del presente progetto espositivo che consacrò definitivamente Jenny Saville con la sua prima mostra personale, Jenny Saville: Territories, da Gagosian a New York nel 1999. Il grande dipinto (3×5 metri circa) entra dialetticamente in antitesi con i capolavori riuniti nella sublime cornice del Salone delle Battaglie, così detto per gli affreschi realizzati dal Vasari e dalla sua scuola per celebrare le vittorie dei fiorentini contro gli avversari. Il Salone è arricchito da gruppi scultorei con le Fatiche di Ercole (1562-84) di Vincenzo de’ Rossi, nonché dal Genio della Vittoria (1532-34) di Michelangelo, straordinario esempio di contrapposto anatomico e di non finito. Dal punto di vista formale, il dipinto di Jenny Saville pare voler esibire un confronto con il linguaggio della scultura, date le dimensioni imponenti dell’opera e la forte plasticità delle figure. Lo spazio di rappresentazione di Fulcrum è interamente occupato dalla massa di tre corpi riversi. L’artista ci mette di fronte alla forte esuberanza delle carni, in una composizione densa e disturbante in cui mal si distinguono i volti e le individualità delle due donne e della giovinetta, costrette in un abbraccio dai toni drammatici. La violenza, il potere, l’egemonia maschile sembrano essere messi in chiaro dalla presenza eloquente di queste tre figure femminili, strette carnalmente e spiritualmente in un abbraccio che sa di difesa e di angoscia.

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MUSEO NOVECENTO FIRENZE

fino al 20 febbraio

JENNY SAVILLE

a cura di Sergio Risaliti MUSEO DI PALAZZO VECCHIO Piazza della Signoria – Firenze 055 2768325 Piazza Santa Maria del Fiore museonovecento.it

piazza della Repubblica

via dei Calzaiuoli

MUSEO DI PALAZZO VECCHIO

piazza della Signoria MUSEO DI PALAZZO VECCHIO

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Museo degli Uffizi no

in alto: Jenny Saville, Fulcrum, 1999, olio su tela 261.6 x 487.7 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Collezione privata. Courtesy Gagosian a sinistra: Vincenzo De' Rossi, Fatiche di Ercole, Ercole e il centauro Nesso, 1570 ca., Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio, Firenze. © Fototeca dei Musei Civici Fiorentini


MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO a sinistra: Jenny Saville, Pietà I, 2019-21, carboncino e pastello su tela, 280 × 160 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Photo Prudence Cuming Associates. Courtesy Gagosian in basso: Pietà di Michelangelo, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze. Courtesy Opera di Santa Maria del Fiore. Photo Alena Fialová

Il corpo come espressione dello spirito è un tema chiave dell’arte rinascimentale, e il maestro che più sviluppò il concetto fu il fiorentino Michelangelo Buonarroti, la cui Pietà nel Museo dell’Opera del Duomo riassume lo sforzo dell’artista a dare alla carne un’anima. […]. L’atmosfera di ‘spazio sacro’ della Tribuna, idonea al gruppo rinascimentale, funziona anche per l’immagine della Saville, in cui, in analogia con la Pietà, i corpi intrecciati comunicano una rete di rapporti d’intenso pathos umano. Mons. Timothy Verdon Direttore del Museo dell’Opera del Duomo

fino al 20 febbraio

JENNY SAVILLE

a cura di Sergio Risaliti MUSEO DELL'OPERA DEL DUOMO Piazza del Duomo 9 – Firenze 055 2302885 museonovecento.it

piazza del Duomo MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO

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piazza della Repubblica

via dei Calzaiuoli

appassionato e coinvolgente dialogo di Jenny Saville con le opere e le iconografie di Michelangelo raggiunge qui la sua acme. Nella sala dove si conserva la Pietà Bandini (1547-55 ca.), tra le ultime ‘fatiche’ del ‘divino’ Buonarroti, è esposto un disegno di grande formato – circa tre metri di altezza – a cui l’artista britannica ha iniziato a dedicarsi dopo un sopralluogo a Firenze due anni orsono. Dichiara Mons. Timothy Verdon, Direttore del Museo dell’Opera del Duomo: “Non sorprende che Jenny Saville, uno dei pochi artisti contemporanei a credere nell’eloquenza del corpo, abbia dedicato un’opera alla Pietà di Michelangelo, un’interpretazione profondamente personale esposta accanto al gruppo marmoreo del Buonarroti nella ‘Tribuna’, una sala creata durante l’ampliamento 2013-15 del museo e la riprogettazione specifica per il capolavoro di Michelangelo”. Secondo Antonio Natali, Consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore: “Si può ben capire il rapporto ideale fra la composizione di Jenny Saville e la Pietà di Michelangelo nel Museo dell'Opera del Duomo. Se ne può cogliere l’ascendente e financo

la fascinazione; eppure par di leggere nell’opera moderna qualcosa che precede nel tempo il marmo del Buonarroti, quasi discendesse dalle fonti medesime di lui”. Il corpo levigato e lucente del Cristo della Pietà michelangiolesca, fortemente disarticolato nella sua posa, l’espressione amorevole di Nicodemo, che cela l’autoritratto dell’artista stesso e che sostiene il peso del Messia, lo strazio contenuto della Madre, trovano nel disegno Pietà I (2021) di Saville un naturale contraltare animato dagli intensi sguardi dei personaggi che sorreggono un giovane ragazzo, vittima forse della barbarie politica o ideologica, magari un migrante, un antagonista o un martire del terrore. Evitando di identificare spazio e tempo, Saville dichiara, in una versione contemporanea ma altrettanto universale e archetipica, la condanna di ogni violenza umana, facendo parlare con segni drammatici il tema della pietas, l’esperienza del lutto e del compianto. Wesperbild attuale e senza tempo, di una stessa universale poetica tragicità quanto quella del gruppo scultoreo realizzato da Buonarroti, l’opera di Saville pare esprimere sentimenti di dolore in una drammatica coincidenza con gli ultimi fatti della cronaca mondiale.

È come se Jenny fosse stata insieme a Michelangelo nel manipolo d’artisti che sbalordivano al cospetto degli affreschi di Piazza della sui quali lo scultore Masaccio al Carmine, Signoria MUSEO s’era affaticato in copieDI d’attori e posture. PALAZZO Nella piramide familiareVECCHIO disegnata da Jenny Saville [Pietà I, 2019-21, N.d.R.] rivive l’impaginazione solidaMuseo della Sant’Anna Ponte degli si sente allignare Metterza e nei protagonisti Vecchio Uffizi ium l’energia Fumanissima della stessa razza rude e Ar dei popolani chenoanimano le ribalte della cappella Brancacci. Antonio Natali Consigliere dell'Opera di Santa Maria del Fiore MUSEO NOVECENTO FIRENZE

in collaborazione con

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MUSEO DEGLI INNOCENTI La maternità e la ‘cultura dell’infanzia’ rappresentate nelle opere di Della Robbia e Botticelli, a confronto con il forte impatto visivo delle due di Saville, The Mothers e Byzantium, ci fanno riflettere sull’universo della cura dei più piccoli e sull’investimento di sensibilità, attenzioni ed energie che tale cura richiede. Una riflessione che trova ambientazione ideale nell’edificio progettato dal Brunelleschi che, ieri come oggi, è dedicato all’accoglienza e all’educazione dei bambini. Maria Grazia Giuffrida Presidente dell’Istituto degli Innocenti

ei due dipinti di Jenny Saville esposti nella Pinacoteca del Museo degli Innocenti è racchiusa la concezione della figura femminile in relazione alla maternità. Tra la Madonna col Bambino (1445-50 ca.) di Luca della Robbia e la Madonna col Bambino e un angelo (146576), opera giovanile di Botticelli, il grande quadro The Mothers (2011) di Jenny Saville, di forte impatto evocativo, rivela il fulminante cortocircuito atemporale di questa tematica, accolta in un edificio dove, fin dai tempi del progetto di Brunelleschi, si è avvertito il bisogno di un impegno nell’accoglienza dei bambini abbandonati e nella promozione e tutela dei diritti dell’infanzia. Un secondo dipinto di grandi dimensioni, Byzantium (2018), mostra una diversa versione di Pietà in cui il lavoro grafico accompagnato da interventi di colore assai risentiti sembra non essersi fermato alla ricerca della giusta posa, seguendo altresì il movimento dei corpi. “Il tema della maternità compare prepotentemente quando l’artista stessa diviene madre” — sottolinea la Direttrice scientifica del Museo degli Innocenti Arabella Natalini. “Il rapporto con i figli alimenta la sua creatività e genera nuove opere vigorose, come ‘The Mothers’, dove Saville si ritrae durante la gravidanza della secondogenita mentre tiene in braccio il primo figlio, scalpitante fino a ‘sdoppiarsi’ in quel movimento indomito che caratterizza la prima infanzia. Se in questo quadro convivono simultaneamente l’attesa della nascita e i primi anni di vita, con ‘Byzantium’ l’artista ci pone in presenza della perdita. La morte, sodale della vita, si incarna in un corpo ‘vivissimo’, tratteggiato naturalisticamente, con gesti veloci e mobili, in contrasto con il volto statico della figura ieratica che lo sostiene e con il fondo oro, atemporale e immobile”.

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Jenny Saville, The Mothers, 2011, olio e carboncino su tela, 270 x 220 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione di Lisa e Steven Tananbaum. Photo Mike Bruce. Courtesy l’artista e Gagosian

piazza San Marco

in collaborazione con

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JENNY SAVILLE

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MUSEO DEGLI INNOCENTI

via

fino al 20 febbraio

a cura di Sergio Risaliti MUSEO DEGLI INNOCENTI Piazza della SS. Annunziata 13 – Firenze 055 2037122 museonovecento.it

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Galleria dell’Accademia

Basilica della SS. Annunziata

Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e un angelo, 1465 ca., tempera su tavola

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

Il corpo e la carne sono da sempre temi cari a Jenny Saville che, con la sua pittura materica, genera opere dirompenti tramite le quali affronta l’esistenza della specie umana e, attraversando la propria, quella delle donne innanzitutto. Il suo corpo diviene così oggetto e soggetto di un’indagine reiterata dove la carne, le pieghe, la pelle prendono forma monumentale ricordandoci al tempo stesso la forza e la fragilità della vita. Arabella S. Natalini Direttrice del Museo degli Innocenti


CASA BUONARROTI La Casa Buonarroti, sebbene dedicata dall’Ottocento alla celebrazione della memoria e dell’arte di Michelangelo, si è già aperta in passato all’arte moderna e contemporanea […]. Continuando con questa tradizione, il palazzo di Via Ghibellina, residenza della famiglia Buonarroti e oggi sede del museo, è divenuto uno dei ‘luoghi’ della mostra fiorentina della celebre artista britannica Jenny Saville ove le sue opere possono mettersi in rapporto con i capolavori del sommo artista. Alessandro Cecchi Direttore della Fondazione Casa Buonarroti

Michelangelo Buonarroti, Madonna col Bambino, 1525 ca., penna, 54, 1 x 39, 6 cm. Firenze, Casa Buonarroti, inv.71 F © Fondazione Casa Buonarroti

Jenny Saville, Aleppo, 2017 - 18, pastello e carboncino su tela, 200 x 160 x 3.2 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Foto: Lucy Dawkins, National Galleries of Scotland. Collezione dell'artista. Courtesy Gagosian

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Borgo degli Albizi

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CASA BUONARROTI

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Basilica di Santa Croce

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n questo luogo della memoria e L’incontro fra Jenny Saville e il cosiddetto della celebrazione del genio di Mi- ‘cartonetto’, ovvero il grande e finito chelangelo, i disegni di Jenny Sa- disegno di Michelangelo Buonarroti con la ville Study for Pietà I (2021) e Mother Madonna che stringe al seno il Bambino, è and Child Study II (2009) presentano un omag- stato commovente per l’artista anzitutto, gio consapevole e per nulla anodino ai di- ma anche per noi della Casa Buonarroti segni e ai bozzetti michelangioleschi (1517- che vi assistevamo. L’occhio dell’artista 20). Non mancano tuttavia, con dipinti quali perlustrava l’immagine con intelligenza Aleppo (2017-18) e Compass (2013), le tema- amorosa, rivelando a se stessa e a noi il tiche care alla poetica di Saville, così tenace- segreto della nascita di volumi pieni e già mente legate alla contemporaneità. scultorei, attraverso il segno potente del Pietà, compianti e deposizioni, moderni e divino maestro. antichi allo stesso tempo, rispondono alla cro- Cristina Acidini naca dei nostri giorni, perché le tragedie della Presidente della Fondazione vita e della morte, del conflitto e del sopruso, Casa Buonarroti sono sempre in corso, sempre attuali. Disegni di forte impatto emotivo e segnico concertano con una delle opere su carta più celebri e ammirate del Buonarroti, il cosiddetto ‘cartonetto’, Madre con bambino (1525 ca.). Completano questo dialogo due bozzetti in terracotta, uno attribuito a un artista della cerchia di Michelangelo e l’altro di Vincenzo Danti, una riproduzione in piccola scala della Madonna Medici, oltre a una coppia di piccole invenzioni michelangiolesche per una Trasfigurazione e un’urna cineraria etrusca. Scocca qui “con piena evidenza” – come ricorda la Presidente della Fondazione Casa Buonarroti Cristina Acidini – “la scintilla dell’intesa a distanza tra i disegni e i bozzetti di Michelangelo e le opere di Saville, la quale, come lui, non solo pone al centro la figura umana, ma ne esplora la fisicità fino allo sforzo, mettendo alla prova le proprie capacità nel raggiungere, con una materia artistica perennemente gravida, i limiti del sostenibile”.

Biblioteca Nazionale lungarno alle Gr

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Ponte alle Grazie

fino al 20 febbraio

Fiume Arno

JENNY SAVILLE

a cura di Sergio Risaliti CASA BUONARROTI Via Ghibellina 70 – Firenze 055 241752 museonovecento.it

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

in collaborazione con

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FOTOGRAFIA / MARGARET BOURKE-WHITE / ROMA

La fotografia in prima linea di Margaret Bourke-White Angela Madesani

M

argaret Bourke-White è stata una professionista nel senso più completo del termine. “La mia vita e la mia carriera non hanno nulla di casuale. Tutto è stato accuratamente progettato”, diceva. Nata a New York nel 1904, figlia dell’alta borghesia imprenditoriale, studia fotografia con la pittorialista Clarence H. White. Apre il suo primo studio fotografico a Cleveland, in Ohio, nel ‘28. Influenzata dall’attività del padre, in un primo tempo si dedica alla fotografia di industria, architettura e design. Tra i suoi clienti più importanti, le acciaierie Otis. La fotografa – perfezionista, ambiziosa, mai spaventata dal lavoro – riesce a dare una chiave autoriale alla fotografia industriale. Le sue inquadrature, il suo utilizzo delle luci sono magistrali. Risale al 1929 la sua conoscenza con Henry Luce, caporedattore di Time, che la invita a collaborare con la neonata rivista Fortune. Margaret accetta, ma vuole rimanere indipendente, condizione che mantiene sino al 1936. Dello stesso anno è la pubblicazione di una sua fotografia sulla copertina del primo numero di Life. Luce aveva, infatti, comprato i diritti di una storica rivista umoristica americana, per dare vita a quella che in breve sarebbe diventata la più famosa rivista illustrata e di fotogiornalismo al mondo. La foto aveva per soggetto i lavori ultimati per la costruzione della diga di Fort Peck, nel Montana. Un’immagine che rappresenta in pieno la ricostruzione, nell’epoca del New Deal, che segna gli anni della presidenza Roosevelt.

UNA FOTOGRAFA SENZA PAURA

Nel 1930 è la prima tra i fotografi occidentali ad andare in Unione Sovietica, dove ottiene il raro permesso di fotografare Stalin. Suo, infatti, è il primo ritratto non ufficiale del dittatore, con circolazione autorizzata al di fuori del territorio sovietico. “Con il mio entusiasmo per la macchina come oggetto di bellezza, sentivo che la storia di una nazione che cercava di industrializzarsi, praticamente da un giorno all’altro, era disegnata su misura per me […]. Nonostante il mio approccio non fosse tecnico, frequentai le fabbriche a sufficienza per capire che l’industria produce una storia, le macchine si sviluppano e gli uomini crescono insieme a loro. Era un’occasione unica per osservare un Paese nel passaggio da un passato medievale a un futuro industriale”. Per Life, dove la chiamano “Maggie l’indistruttibile”, è corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Documenta così,

nel 1941, l’assedio di Mosca ed è al seguito dell’esercito americano in Italia. È presente alla liberazione di Buchenwald, di cui racconta le atrocità commesse. Nel 1947 è in Pakistan e in India, dove realizza la famosa fotografia di Gandhi che lavora all’arcolaio. Qualche anno dopo arriva in Sudafrica, dove descrive l’Apartheid e discende nelle profondità della terra per narrare la terribile vita dei minatori d’oro neri.

IMMAGINI E PAROLE

La sua forza è stata quella di capire quanto stava accadendo nel mondo per trovarsi nel posto giusto al momento giusto, senza mai realizzare immagini sensazionaliste. Lei stessa nella sua preziosa autobiografia, Portrait of Myself, redatta negli anni dolorosi della malattia, scrive: “Mi svegliavo ogni mattina pronta a ogni sorpresa che il giorno mi avrebbe portato.


FOTOGRAFIA / MARGARET BOURKE-WHITE / ROMA fino al 27 febbraio

PRIMA, DONNA. MARGARET BOURKE-WHITE

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INTERVISTA ALLA CURATRICE ALESSANDRA MAURO

a cura di Alessandra Mauro Catalogo Contrasto MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE Piazza S. Egidio 1b museodiromaintrastevere.it a sinistra: Margaret Bourke-White al lavoro in cima al grattacielo Chrysler, New York City, 1934 © Oscar Graubner. Courtesy Estate of Margaret Bourke White a destra: Greensville, Carolina del Sud, 1956. © Images by Margaret Bourke-White. 1956 The Picture Collection Inc. All rights reserved

Amavo il passo veloce delle commissioni di ‘Life’, la felicità di attraversare l’ingresso di un nuovo territorio. Tutto poteva essere conquistato. Niente era troppo difficile. E se avevi tempi stretti, tanto meglio. Dicevi sì alla sfida e costruivi la storia”. Una storia che Margaret ha costruito sino al 1971, l’anno della sua morte, prima con le immagini e poi con la scrittura.

LE SEZIONI DELLA MOSTRA A ROMA

La mostra dedicata a Margaret Bourke-White dal Museo di Roma in Trastevere è divisa in undici sezioni. La prima L’incanto delle acciaierie, propone il lavoro realizzato durante gli anni giovanili nel campo della fotografia industriale. Conca di polvere, la seconda sezione, documenta i lavori di tematica sociale, portati a termine durante gli anni della Grande Depressione nel Sud degli Stati Uniti. La terza è dedicata alla proficua collaborazione di Bourke-White con Life, mentre Sguardi sulla Russia racconta gli anni sovietici di Margaret, durante i quali documenta le fasi del piano quinquennale. La quinta sezione, Sul fronte dimenticato, esamina il periodo della Seconda Guerra Mondiale, epoca in cui la fotografa è corrispondente in Europa per Life. La liberazione di Buchenwald è documentata in Nei Campi. Qui la fotografa, sconvolta da quanto si trova di fronte, dichiara: “Per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”. La settima sezione guarda all’India, alla sua indipendenza e alla separazione dal Pakistan. Il Sudafrica durante l’Apartheid è il protagonista dell’ottava sezione, mentre è un lavoro a colori del 1956 a costituire il nono capitolo della mostra, Voci del Sud bianco, incentrato sul tema del segregazionismo nel Sud degli Stati Uniti. In alto e a casa è la penultima sezione, che raccoglie le più importanti immagini aeree di Bourke-White. La sezione conclusiva, biografica, è intitolata La mia misteriosa malattia, in cui la fotografa, colpita dal morbo di Parkinson, è il soggetto del reportage dal grande Alfred Eisenstaedt.

Qual è il testimone, umano e professionale, lasciato da Margaret Bourke-White alle generazioni successive? Mi affascina la sua costruzione del personaggio, una costruzione fatta scientemente, in modo sistematico. Margaret ha sconfitto una serie di barriere apparentemente insormontabili, arrivando dove voleva arrivare. Al punto che, alla fine della sua vita, nel momento della malattia, diventa lei stessa soggetto dei ritratti che Alfred Eisenstaedt le fa, non temendo di andare contro l’immagine che aveva creato di sé. Era così forte da permettersi di dimostrarsi debole. La sua è stata una lezione di vita e di fotografia importante e spero che la mostra riesca a porre in evidenza questi due aspetti. Vorrei affrontare un problema un po’ annoso, che riguarda le mostre di fotografia: materiali vintage o ristampati? Secondo me è un problema che va affrontato a seconda dei casi. Talvolta ha senso fare delle mostre in cui si recuperano i vintage, ma Bourke-White non aveva una grande passione per le foto d’epoca e inoltre già negli Anni Trenta, tra i primi a farlo, realizzava delle gigantografie giocando con i formati e gli ingrandimenti. Lavorando alla preparazione della mostra insieme a Life, abbiamo recuperato una serie di stampe ai sali d’argento, non vintage, realizzate una trentina di anni fa. Mancavano alcune immagini che sono state ristampate in occasione della mostra, per esempio la sezione di fotografie a colori del 1956.

Per alcune mostre di fotogiornalismo non sempre è così importante mostrare materiali vintage. In questo caso, ad esempio, avrei mai potuto non esporre il suo ritratto a Gandhi, funzionale per capire la sua modalità operativa, così connaturata alla tradizione di Life? In che senso? Bisogna considerare che Life è nata e ha avuto la sua massima espansione in un momento in cui il mezzo di comunicazione più diffuso era la radio. Life svolgeva il compito di colmare con le immagini le informazioni solo sonore. I ritratti “alla Life” dovevano essere come quelli di Margaret: immediati, sintetici, spesso frontali e senza possibili doppie letture. Così i lettori potevano subito ritrovarvi tutti gli elementi identificativi di un particolare personaggio. Se oggi di ogni personaggio abbiamo mille immagini e a un fotografo chiediamo di mostrarci qualcosa di più, per Margaret e i suoi colleghi di Life era diverso. Oggi possono ancora esistere personaggi come lei? L’attualità ha bisogno di essere raccontata in modo diverso, perché è cambiato il mondo, in particolare quello dell’informazione. Esiste oggi un equilibrio differente tra fotografia privata e fotografia pubblica, documentazione intima e documentazione storica. Per Margaret era completamente diverso: infatti noi non conosciamo le sue immagini private e sembra che negli ultimi anni della sua vita abbia distrutto tutta la documentazione che non voleva fosse tramandata. [ha collaborato Celeste Sgrò]


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GRANDI CLASSICI / GOTICO / MILANO

Bagliori gotici a Milano Marta Santacatterina

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ecoli bui? Ma non scherziamo! Il Medioevo è luminosissimo, anche grazie a quei bagliori che scaturiscono dalle tavole a fondo oro, il più caratteristico genere pittorico di un periodo così affascinante e ricco di cultura. Per lasciarsi “folgorare” dagli antichi dipinti si può visitare la mostra organizzata dalla Galleria Salamon di Milano che, per qualità delle opere e per gli studi condotti, può essere senza dubbio considerata di livello museale.

LA GENESI DELLA MOSTRA

Bagliori gotici è un progetto messo a punto da Matteo Salamon negli ultimi due anni e reso possibile anche dal lungo periodo di chiusure e stand by di alcune attività di mercato in presenza: se l’idea era già in nuce nel 2019, durante la pandemia l’équipe di cui fanno parte lo storico dell’arte Angelo Tartuferi e la restauratrice Loredana Gallo ha potuto affinare le ricerche sulle opere, svelando autentiche sorprese: i venti pezzi esposti, provenienti da collezioni private, erano infatti per la maggior parte sconosciuti o noti solo tramite vecchie fotografie. Ma qual è l’opera più preziosa della mostra? “Per il portafoglio o per il cuore?”, ci ha risposto il gallerista. Salamon svela allora come la tavola che ha un maggior valore monetario sia il Giudizio Finale (1360-65) di Niccolò di Tommaso: il suo costo? Poco più di un milione di euro. Tanti denari, in termini assoluti, ma se pensiamo alle quotazioni di molta arte contemporanea la percezione di questa cifra si ridimensiona subito: “È più facile vendere un Banksy che un Giotto”, commenta Salamon con ironia.

IL MAESTRO DEL 1310

Veniamo però al cuore: quello pulsante di Bagliori gotici è una Madonna con bambino attribuita al Maestro del 1310, e che per spirito è ancora pienamente duecentesca pur essendo datata entro i primi cinque anni del Trecento. “È il dipinto più antico che io abbia mai avuto”, ci confida Salamon, il quale fin dalla prima volta che l’ha visto ha pensato: “Questo sarà il primo mattone di una mostra”. Del pittore si conoscono pochissimi altri lavori: “Il quadro eponimo è conservato nel museo di Avignone e sul mercato negli ultimi vent’anni ne sono passati solo due, uno dei quali è curiosamente stato acquistato dalla rockstar Madonna”, spiega ancora il gallerista. La sua rilevanza non è solo di oggi: è infatti dipinto davanti e dietro, dove reca uno splendido intreccio di nodi, e le indagini effettuate dal CNR fiorentino hanno rivelato come l’opera sia stata “restaurata” negli Anni Settanta del Trecento, momento in cui è stata rifatta l’aureola della Vergine. Ciò testimonia

dall’11 novembre al 17 dicembre

BAGLIORI GOTICI. DAL MAESTRO DEL 1310 A BARTOLOMEO VIVARINI GALLERIA SALAMON – PALAZZO CICOGNA Via San Damiano – Milano salamongallery.com

Maestro del 1310, Madonna con bambino, 1300-05

come fosse considerato un prezioso oggetto di devozione già in epoca antica, poiché invece di sostituirlo lo si è aggiornato sulla lezione di Masolino da Panicale.

LE OPERE

Tra la teoria di santi, Madonne e crocefissi, nelle opere fanno la loro comparsa dettagli iconografici assai originali, come la Trinità raffigurata nella forma di tre uomini sulla cuspide del tabernacolo portatile di Cenni di Francesco, opera considerata l’apice della produzione di questo autore; oppure, una santa Margherita che, con aria serafica, emerge dalla bocca del drago che l’ha inghiottita. Lo sguardo trova poi un altro punto magnetico irresistibile: si tratta della tavola assegnata al Maestro dell’Annunciazione Ludlov: un gioiello elegantissimo che fonde elementi della cultura bizantina a una ricchezza di decorazioni che occhieggiano al Gotico internazionale e a una dolcezza nei volti e nei gesti ormai pienamente quattrocentesca. Una porta aperta sull’est, sulla Dalmazia da cui proveniva il raffinatissimo pittore che lavorò anche a Venezia.


DIETRO LE QUINTE / ALBERT OEHLEN / LUGANO

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Albert Oehlen: artista e collezionista fino al 20 febbraio

ALBERT OEHLEN “GRANDI QUADRI MIEI CON PICCOLI QUADRI DI ALTRI” a cura di Francesca Benini e Christian Dominguez Catalogo Mousse Publishing MASI LUGANO, sede espositiva LAC Via Bernardino Luini 6 – Lugano masilugano.ch

Richard Phillips, Venetia Cuninghame Left (After John D Green), 2002. Olio, alluminio e grafite su tela, 213.5 x 164.4 cm. Photo def image © 2021, ProLitteris, Zurich

Arianna Testino

È

un legame viscerale e senza compromessi quello che unisce Albert Oehlen (Krefeld, 1954) alla pittura. Non incasellabile in definizioni, movimenti o etichette, lo stile dell’artista tedesco ha affermato la propria coriacea indipendenza a più riprese, scegliendo il linguaggio pittorico quando la sua impopolarità era evidente e decostruendone le categorie formali. Nelle mani di Oehlen figurazione e astrazione diventano recinti da scavalcare, insieme all’interpretazione a tutti i costi del contenuto dell’opera. Come riportato nel catalogo che accompagna la mostra allestita al MASI Lugano, la posizione assunta dall’artista su questi temi è sempre stata netta: “In realtà non mi interessa il significato dei quadri. Le persone possono interpretarli come vogliono. La pittura, secondo me, significa provare ad allontanarsi il più possibile dal significato, e questa è forse la cosa più difficile di tutte. In realtà, cerco solo di creare qualcosa di nuovo ogni volta. Sono uno sperimentatore che riesce a convivere con le contraddizioni e con gli errori che la sperimentazione comporta”. LA MOSTRA E LA COLLEZIONE DI OEHLEN Un approccio aperto e fluido, echeggiato dall’attività collezionistica di Oehlen, che nella mostra svizzera riveste un ruolo complementare a quello di artista. Fin dal titolo – “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri” –, l’esposizione gioca sul filo dell’acume e dell’ironia per

sovvertire catalogazioni e logiche di facciata: una selezione di opere incluse nella raccolta di Oehlen (i “piccoli quadri di altri”, che in realtà hanno spesso dimensioni molto ampie) sono al cospetto della pittura dell’artista (i “grandi quadri miei”), innescando dialoghi inaspettati e mai definitivi, che svelano non solo l’orientamento di Oehlen nei confronti del suo stesso medium, ma anche le traiettorie del desiderio di un collezionista animato dall’impulso, per sua stessa natura allergico alle mediazioni. La mostra a Lugano procede nel solco dell’intuizione, accostando a opere che racchiudono l’inquieta energia creativa di Oehlen – capace di spaziare dalle colate di colore degli Anni Novanta ai richiami pop di inizio Anni Zero fino all’acceso minimalismo cromatico del 2020 con Space is the Place – lavori di Mike Kelley, Richard Phillips, Daniel Richter, Paul McCarthy, Rebecca Warren, Gino De Dominicis, Richard Artschwager, Duane Hanson e Julian Schnabel. Alla stregua della pittura, anche il collezionismo per Oehlen non conosce dinamiche ferree, ma conversazioni liquide, mutevoli, non per forza comprensibili e certamente non didascaliche, tuttavia di una potenza visiva indubitabile. Proprio come la mostra progettata dallo stesso Oehlen per il museo elvetico.

PAROLA AD ALBERT OEHLEN In questa mostra lei è l’artista, il collezionista e anche il curatore. Come ha combinato i tre ruoli e che cosa hanno in comune, dal suo punto di vista? Collezionista e curatore hanno qualcosa in comune. Come artista ho un ruolo diverso e, sempre come artista, in rapporto agli autori delle opere, possono entrare in campo sentimenti come l’ammirazione, il rispetto, l’invidia. Essere un artista, in particolare un pittore, influenza le sue scelte come collezionista? Sì, l’opera può confermare qualcosa che voglio esprimere con il mio lavoro. Oppure essere qualcosa che trovo del tutto impossibile. Parlando di scelte, in base a quali criteri ha selezionato le opere della sua collezione da includere nella mostra insieme ai suoi dipinti? Ho cercato di non prendere in considerazione la fama né il valore di mercato.

C’è una logica specifica che ha guidato l’allestimento della mostra e il dialogo tra le opere? Poiché non ci sono uno o più temi generali in questa raccolta di opere, ho dovuto raggrupparle in qualche modo. Mentre lo facevo, ho individuato un paio di argomenti che sembravano interessarmi. L’iperrealismo e le strade parallele al Surrealismo, ad esempio. Il titolo della mostra è geniale. Ritiene che l’umorismo conti nell’essere un artista (e anche un collezionista e magari un curatore)? Credo che l’umorismo sia così essenziale nell’arte e nella vita che non sia necessario pensarci molto. Le opere, al pari delle persone, che si portano dietro il loro umorismo come una etichetta non sono divertenti. Qual è la necessità che la guida nel momento in cui sceglie un’opera da aggiungere alla sua collezione? Non lo so. Vedo una cosa e penso: ecco!


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#26

RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

Sulle colline tra Piemonte e Liguria, nel meraviglioso paesaggio del Gavi, esiste un luogo speciale: Fondazione La Raia, che invita artisti internazionali a creare opere in dialogo con il territorio. DA AZIENDA AGRICOLA A FONDAZIONE La storia di questo progetto agricolo-artistico parte da lontano. Quasi vent’anni fa nasce l’azienda agricola biodinamica La Raia, allo scopo di operare in sintonia con l’ambiente, rispettando i cicli naturali delle stagioni e valorizzando il lavoro dell’uomo. L’azienda punta su una produzione vitivinicola di qualità, recupera antiche varietà di cereali e l’allevamento brado di mucche di razza fassona. Allo stesso tempo investe in progetti educativi e didattici e ospita una scuola steineriana. La stessa ristrutturazione della cantina è avvenuta seguendo i principi di sostenibilità, utilizzando un tradizionale metodo locale in terra cruda detto pisé, con terra di scavo mescolata a sassi frantumati, per permettere maggiore traspirazione delle pareti. All’interno della tenuta è stato inoltre recuperato un piccolo borgo destinato in parte ad alloggi per i lavoranti, in parte ad agriturismo. ARTE A LA RAIA Più recentemente la missione della Fondazione amplia gli orizzonti rispetto all’azienda agricola e introduce il progetto Nel paesaggio. Artisti, paesaggisti, fotografi sono invitati a vivere e sperimentare i vigneti, i campi, i boschi del territorio. Questi interventi sono occasione di una nuova conoscenza dello straordinario paesaggio circostante. Tra le installazioni nella tenuta, oltre alle sculture permanenti di Remo Salvadori, sono visibili Coreografia e cartografia del collettivo COLOCO con Gilles Clément, un orto-giardino che circonda la guest house a forma di grande foglia, con alternanza di alberi da frutto e centinaia di essenze aromatiche, che vengono quotidianamente utilizzate nelle cucine. Palazzo delle Api, opera permanente site specific realizzata da Adrien Missika, che, in risposta alle attività dell’azienda biodinamica, crea un grande bee hotel, struttura destinata a fornire riparo alle diverse specie di insetti solitari. Tra i vari autori invitati al programma, Michael Beutler realizza Bales, balle di fieno multicolore disseminate sulle colline del Gavi. L’autore tedesco, noto per le sue grandi installazioni scultoree create con materiali semplici, legati a pratiche artigianali, ha da poco inaugurato la nuova opera Oak Barrel Baroque. Si tratta di una installazione realizzata in travi di legno e doghe di barrique riciclate dalla cantina vinicola. Ispirata alle pievi rurali, l’opera strizza l’occhio alle architetture neoclassiche palladiane: una sorta di piccolo teatro tra le vigne, dove rifugiarsi e riconnettersi con la natura. Claudia Zanfi

ARTE TRA LE VIGNE. FONDAZIONE LA RAIA

Michael Beutler, Oak Barrel Baroque. Fondazione La Raia, photo Claudia Zanfi

Lo studio è il luogo della genesi, è lo spazio (segreto e non) in cui avviene fino in fondo il miracolo dell’arte. Anche se negli ultimi decenni, cambiando metodi e approcci, gli artisti hanno generato nuove tipologie di relazione con esso, uscendo dai suoi confini ed entrando nella sfera nomade e pubblica del fare creativo, lo studio continua a essere, nell’immaginario collettivo, un perimetro di magiche imprese. Accessibili e non, gli studi sono luoghi da visitare perché spesso custodiscono l’anima di chi li ha vissuti e vive, luoghi in cui poter interagire con opere, oggetti, amuleti e semplici reperti di un’esistenza trascorsa in stretta congiunzione con l’arte e le sue declinazioni. Arte e vita, quindi. LO STUDIO DI SALVATORE MEO A ROMA Ed è ciò che si avverte entrando nello studio di Salvatore Meo a Roma. Pochi passi dal caos turistico di Fontana di Trevi ed ecco che, salite alcune rampe di scale e scansando le lenzuola di un b&b, è possibile assistere a un’autentica rivelazione: ogni millimetro di questo appartamento costituito da una manciata di stanze è rimasto com’era quando Meo, artista americano classe 1914, morto a Roma nel 2004, ci lavorava giornalmente. Due mezze bottiglie di plastica, schiacciate e quindi modificate, sono inquadrate in un box di legno; segni nevrotici si muovono nello spazio bidimensionale di un supporto di recupero, componendo grammatiche nuove e impenetrabili; sassi e altri profili contundenti vivono in strutture autoportanti e poi dipinti segnici, vortici fragorosi in grado di elaborare nuovi limiti. L’ARTE DI MEO Pionieristicamente Meo comprende le potenzialità degli scarti, perciò pratica compulsivamente l’assemblaggio per dare nuova linfa a ciò che non ce l’ha più, costruendo – da autentico homo faber qual è – un repertorio maniacale di nuove immagini, teatrini di una vita domestica impossibile in cui convivono frammenti di bambole con reti di ferro, bottiglie dalla forma collassata e plastica assembrata a pietre e legni. Sulla scia delle esperienze di Schwitters – avverte Mario Diacono nel 1965 – sperimenta “la pittura nella dimensione dell’uomo raccoglitore”. A dare il benvenuto ai visitatori c’è la curatrice Mary Angela Schroth, amica di Meo e testimone oculare della sua esperienza esistenziale nel segno dell’arte, nonché angelo custode di queste stanze e direttrice artistica di Sala 1 a Roma, il più antico spazio non profit d’Italia. Racconterà con passione e competenza la storia di questo artista che il sistema dell’arte ha accantonato, invitando a osservare le accumulazioni a parete o sui mobili, ma anche le complessità che sussistono per rendere fruibile e sostenibile un luogo di questo genere. Sperando che nel mentre un museo della città – magari proprio il Macro diretto da Luca Lo Pinto – possa rendere noto al grande pubblico il percorso straordinario di un artista che a Roma ha dato tanto. Lorenzo Madaro

ROMA STUDIO-MUSEO SALVATORE MEO Vicolo Scavolino 61 339 2397762

Veduta dello studio-museo Salvatore Meo, Roma. Courtesy Mary Angela Schroth


RUBRICHE

IL LIBRO

#26

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ASTE E MERCATO

È una monografia particolarmente attesa quella data alle stampe da 24 ORE Cultura e dedicata a una delle artiste più incisive dell’epoca attuale, che dal prossimo 26 novembre sarà in mostra al Gropius Bau di Berlino. A ritmare le pagine del volume Zanele Muholi. Somnyama Ngonyama – Ave, Leonessa nera sono una novantina di scatti in bianco e nero realizzati dalla fotografa sudafricana classe 1972 che ha colpito nel segno durante la Biennale Arte di Venezia 2019. Chiunque abbia attraversato le Corderie dell’Arsenale non può non ricordare gli autoritratti in grande formato di Zanele Muholi come un elemento ricorsivo e ipnotico. GLI AUTORITRATTI DI ZANELE MUHOLI E proprio gli autoritratti tengono le redini della storia, individuale e globale, che si dispiega all’interno della monografia. A prendere forma è la vicenda di Zanele Muholi, testimone diretta dell’Apartheid e artista che ha scelto la via dell’attivismo visivo e politico per rispondere, colpo su colpo, alla minaccia del razzismo e della discriminazione, ferite aperte e sanguinanti del tempo presente. “Alla base dell’intolleranza, del razzismo e della violenza c’è l’ignoranza, alla quale si può porre un limite solo attraverso l’istruzione. Questo messaggio è per le generazioni future e per quanti avranno il desiderio di imparare”, ha affermato Zanele Muholi nell’intervista pubblicata sulle nostre pagine a pochi giorni dall’avvio della Biennale veneziana che ha consegnato al grande pubblico il suo messaggio, diretto, chiaro, senza mediazioni. “Il punto non è quando ho deciso di essere un’attivista, ma perché. È stata una necessità. Le circostanze in cui mi trovavo hanno determinato il mio attivismo. La gente non può cambiare il sistema se non si considera parte di esso”. ARTISTA E ATTIVISTA Dagli autoritratti raccolti nel volume emerge la presa di posizione di un essere umano – non solo e soltanto artista, fotografa e attivista – che fa scendere in campo il proprio corpo nel dibattito sulla blackness e sui diritti LGBTQIA. Il pensiero di Zanele Muholi trova una potente cassa di risonanza nelle parole delle autrici e poetesse che hanno consegnato alle pagine della monografia riflessioni dense – sulla poetica di Muholi, sul mezzo fotografico e sul nodo dell’identità –, alternate agli scatti, come in un racconto corale. Ama Josephine Budge, Fariba Derakhshani, Ruti Talmor e Deborah Willis sono alcune delle voci che si uniscono a quella di Zanele, accompagnando lo sguardo del lettore sino al dialogo finale tra l’artista e la curatrice Renée Mussai, intitolato emblematicamente Archivio del Sé, dove è il termine “archivio” a essere posto in discussione e calato nel cuore di un dibattito che non può più attendere. Arianna Testino

ZANELE MUHOLI (a cura di) ZANELE MUHOLI. Somnyama Ngonyama Ave, Leonessa nera

24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 212, € 79,90 ISBN 9788866485582 24orecultura.com Pag. 146, © Zanele Muholi. Courtesy of Stevenson Gallery, Cape Town/ Johannesburg, and Yancey Richardson Gallery, New York. Zanele Muholi, Faniswa, Seapoint, Cape Town 2016. Da Zanele Muholi: Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (Aperture, 2018)

Ottima l’accoglienza per l’arte italiana alle aste londinesi di ottobre, che hanno visto nelle sale room il ritorno della presenza fisica, oltre che di record e atmosfere da pre-Covid. Da Christie’s, la Thinking Italian del 15 ottobre, così come la selezione presentata il giorno prima da Sotheby’s, continua a convincere, e tutti i lotti offerti hanno trovato un nuovo proprietario. L’OPERA DI GNOLI Tra questi, Sous la Chaussure di Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) del 1967, già più che affascinante, arrivava in catalogo con una allure ancora più vivida, per essere tra i desiderata della grande retrospettiva dedicata all’artista dalla Fondazione Prada di Milano, che porta a compimento il progetto concepito da Germano Celant e sviluppato in collaborazione con gli archivi di Gnoli a Roma e Maiorca. L’opera aveva stime pre-asta tra 1,5 e 2 milioni di sterline ed è stata aggiudicata per un totale di £ 2.182.500 (oltre 2,5 milioni di euro). Tra le provenienze, pochi passaggi di proprietà precedenti, un lungo intervallo di tempo nella stessa collezione, dal 1985 a oggi, e partecipazione a importanti occasioni espositive internazionali. LA MOSTRA A MILANO Eseguita, secondo la caratteristica tecnica di Gnoli, con un misto materico di acrilico e sabbia, la tela vede campeggiare sulla superficie di grandi dimensioni (185x140 cm) una scarpa – tema ricorrente nella produzione dell’artista – dalle proporzioni monumentali. In procinto di staccarsi dal suolo nel compiere un passo, mostrando una visione ravvicinata di tacco e suola, l’oggetto viene osservato e restituito minuziosamente, diventando fuoco dell’attenzione e generatore di una sottile dissonanza che si apre tra l’adesione al dettaglio realistico e la sospensione allucinata, in quella “sfasatura rispetto a quanto sarebbe richiesto da una visione ‘normale’”, di cui Barilli scriveva nel catalogo per la mostra alla Galleria de’ Foscherari nel 1968, dove pure si legge: “Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di ‘nausea’ attraente e repellente nello stesso tempo”. E nel Podium della Fondazione Prada, che fino al 27 febbraio ospita 100 opere realizzate da Domenico Gnoli tra il 1949 e il 1969 e altrettanti disegni, c’è finalmente occasione di fare esperienza di questa fascinazione per gli oggetti, della magia insita in presenze apparentemente consuete, ordinarie, familiari, e di aprire nuove ipotesi su quanto quest’artista, innamorato del Rinascimento italiano, risuoni ancora nella ricerca visiva contemporanea. Cristina Masturzo

CHRISTIE’S DOMENICO GNOLI

Domenico Gnoli, Sous la Chaussure (Under the Shoe), 1967. Acrilico e sabbia su tela, 184,7 x 140 cm. Courtesy Christie’s Images Ltd, 2021


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