Grandi Mostre #25

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DANTE/RAVENNA • LISETTA CARMI/TERMOLI

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IN APERTURA / DANTE / RAVENNA

Dante in versione pop LA MOSTRA IN 14 PUNTI

Marta Santacatterina

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el mezzo del cammin di nostra vita”, “Fatti non foste a viver come bruti”, “Galeotto fu il libro”: tutte espressioni entrate nella memoria e nel lessico quotidiano degli italiani. Ma non solo le parole: anche la figura di Dante e le immagini evocate dalla Divina Commedia hanno attraversato i secoli con una potenza e una pervasività uniche, tanto da infrangere le barriere tra cultura “alta” e pop, tra letteratura e pubblicità, tra filologia e humour. Il Sommo Poeta è tra noi, con una forza comunicativa ancora straordinaria. Da qui prende le mosse Dante. Gli occhi e la mente. Un’epopea pop al Museo d’Arte della città di Ravenna: una mostra trasversale, capace di sondare fonti inconsuete e di raccontare aneddoti spiritosi, senza dimenticare la contemporaneità che ancora oggi interpreta personaggi e temi del poema. I curatori, che abbiamo raggiunto per farci raccontare i dietro le quinte del progetto, hanno lavorato su due filoni che si annodano, pur restando indipendenti: a Giuseppe Antonelli spetta quello filologico, a Giorgia Salerno una rilettura con gli occhi del contemporaneo.

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LE ANIME Nel chiostro cinquecentesco del MAR la grandiosa architettura in rete metallica Sacral di Edoardo Tresoldi (2016) evoca l’infernale Castello degli Spiriti Magni, abitato da uomini di grande onore e fama che però non possono godere della luce divina. DANTE A MEMORIA L’eccezionale fortuna mnemonica dei versi danteschi prende il via da Petrarca, ma in mostra si racconta anche il caso di un intagliatore che finì in manicomio per aver tentato di imparare tutta la Commedia a memoria. DANTE PER IMMAGINI Dall’edizione illustrata di Gustave Doré – che fissa un vero canone iconografico del poema – alle cartoline, tutto concorre alla duratura fortuna visiva del poema.

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L’ITINERARIO FILOLOGICO: parla GIUSEPPE ANTONELLI I materiali esposti appartengono ad ambiti molto diversi tra loro: come si è svolta la ricerca? Per prima cosa abbiamo immaginato un percorso che riuscisse a raccontare i tanti aspetti della ricezione popolare di Dante: dalla fortuna trecentesca ai videogiochi, dal Dante santo laico al testimonial, dall’iconografia delle edizioni illustrate ai fumetti, dal culto della memoria alla parodia. L’obiettivo? Ricostruire l’origine e l’evoluzione delle tante facce di quel Sommo Poeta che nel tempo è diventato un’icona pop. Un tema leggero, trattato con un approccio filologico. Costellano il percorso una serie di aneddoti divertenti. Quanto conta visitare la mostra sorridendo? L’impostazione del percorso è narrativa: all’interno di una ricostruzione cronologica emergono tutte le storie che sprigionano dagli oggetti. Basti pensare al bastone intagliato con cui, negli Anni Trenta, il dantista contadino Nino Ferrari girava per le piazze declamando

passi della Commedia. Da sempre, peraltro, la ricezione popolare di Dante è legata a una ricca aneddotica che prende le mosse già da Boccaccio: come l’episodio delle donne di Verona che indicano la sua barba nera (già, Dante aveva la barba!) perché se l’era bruciata all’Inferno. Sono emersi aspetti inediti dalla ricerca sulle fonti? È difficile parlare di scoperte, altrimenti si corre il rischio di ripetere il finale di quel filmato della Settimana Incom del 1955 (in mostra ovviamente c’è) in cui la scoperta di autografi danteschi si rivela un pesce d’aprile. Scherzi a parte, abbiamo valorizzato testimonianze che non erano mai state mostrate e contestualizzate. Ad esempio i ritrattini di Dante che i lettori disegnavano sui margini della loro Divina Commedia, o i progetti originali dei tunnel dell’orrore a tema dantesco realizzati nei parchi giochi americani nel secolo scorso da ditte italiane. O ancora fumetti molto rari e la collezione più completa di oggetti e pubblicità ispirati a Dante.

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IL VIAGGIO Pietra e fango, materie prime delle opere di Richard Long, sono elementi del paesaggio che raccontano il viaggio e testimoniano un peregrinare che ritroviamo nel cammino dantesco. DANTE AL CINEMA Sono quattro gli schermi dedicati al cinema muto, alla videoarte, all’animazione e al cinema sonoro su cui scorrono le immagini, ad esempio quelle di Inferno del 1911, il primo lungometraggio della cinematografia italiana. DANTE IN GIOCO L’iconografia infernale è la preferita per scacchiere, carte da poker, giostre degli orrori per i luna park, e poi per i videogiochi: risalgono già al 1986 i primi game per Commodore 64 ispirati ai gironi danteschi. LE FIGURE FEMMINILI Le opere di Letizia Battaglia, Tomaso Binga, Irma Blank, Maria Adele Del Vecchio, Rä di Martino, Giosetta Fioroni, Elisa Montessori e Kiki Smith interpretano Beatrice, Semiramide, Cleopatra, Piccarda, Matelda, Circe e Lucia. DANTE E LA PUBBLICITÀ Nicola Zingarelli, autore del celebre Vocabolario, si infuriò alla vista di una pubblicità d’acqua purgativa con testimonial Beatrice. Ma a partire da fine Ottocento il poeta e i suoi personaggi entrarono prepotentemente nelle campagne di marketing e nel design dei packaging. DANTE IN PARODIA Dall’Inferno di Topolino alle strisce di Jacovitti sino al film Totò all’inferno: come ogni icona pop che si rispetti, anche l’universo dantesco è stato oggetto di numerose traduzioni parodiche. DANTE PERSONAGGIO Sulla vita di Dante si hanno poche notizie, ma la leggenda è ricchissima e ha alimentato un culto che comprende aneddoti ed episodi. Non mancano la monumentalistica e l’iconografia, che arriva persino a rappresentare il poeta come un “santo laico”.


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IL SOGNO Nelle illustrazioni per l’Inferno di Robert Rauschenberg i personaggi emergono dalla luce o dall’ombra, come visioni e allucinazioni. Realizzate tra il 1958 e il 1960, mettono in scena la società americana contemporanea destinata al declino: Dante è l’uomo comune o assomiglia a JFK, Virgilio è astronauta o atleta. DANTE E LA SCUOLA La Commedia è un pilastro della didattica, ma come si studia Dante a scuola? Il focus della sezione è sugli strumenti a supporto di insegnanti e allievi e sull’iconografia destinata ai ragazzi. DANTE E BEATRICE La proverbiale amata è finita addirittura sulle scatole dei biscotti, e il rapporto tra i due ha ispirato anche scenette esilaranti, come l’intervista impossibile di Umberto Eco a Beatrice. LA LUCE Così come Dante lascia alle stelle il compito di chiudere ogni cantica nonché tutta la Commedia, la stella di Gilberto Zorio conclude il percorso della mostra.

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UNA RILETTURA CONTEMPORANEA: parla GIORGIA SALERNO Grazie alla sua rilettura le opere contemporanee si “vestono” di un nuovo significato, che le lega alla Commedia e alla vita del poeta. Gli artisti viventi sono stati coinvolti nel concept? Sì, i tanti artisti viventi sono stati coinvolti personalmente e attraverso le gallerie che li rappresentano: tutti hanno accolto con entusiasmo la partecipazione al progetto. Con lo studio di Edoardo Tresoldi, ad esempio, sono in contatto dal 2019 ed è stato il primo artista a cui ho pensato per reinterpretare il Castello degli Spiriti Magni, e per la prima volta Ravenna ospiterà una delle sue grandiose installazioni. Penso inoltre a Letizia Battaglia, che ha da subito confermato il suo interesse per la mostra, e Adelaide Cioni, che ha realizzato un’installazione site specific. La collaborazione delle gallerie (Monica De Cardenas, Lorcan O’Neill, Tiziana Di Caro e P420) è stata inoltre fondamentale per coinvolgere tutti gli esponenti di una piena contemporaneità, le cui opere sono culturalmente perfette per rileggere Dante. Le sezioni contemporanee valorizzano anche il patrimonio del MAR: con quali opere in particolare?

Ho ritenuto fondamentale valorizzare in particolare tre opere non esposte nella collezione permanente: Stella-acidi di Gilberto Zorio, realizzata nel 1982 per una personale che si tenne all’allora Loggetta Lombardesca; Ricordo del piccolo Eden di Giosetta Fioroni, un dipinto del 1988 che, nella mia rilettura, interpreterà Matelda; e infine Isola di Elisa Montessori, una composizione di cinque gouache del 1998, con cui l’artista, come una Circe, ci attrae nella sua isola ideale. Le sale dedicate al contemporaneo si intrecciano con quelle “filologiche”: in base a quale pensiero? Il pubblico è condotto attraverso le sezioni che ripercorrono la popolarità di Dante grazie a temi guida individuati nella Commedia e rappresentati da uno o più artisti. Così, per le anime all’Inferno, ci sarà Sacral di Tresoldi, che tra l’altro permetterà di vivere un’esperienza unica entrando nell’installazione. Per il tema del viaggio non potevo che scegliere Richard Long, tra i principali esponenti della Land Art. Mentre la sezione sulle figure femminili manifesta tutta la forza delle donne con artiste al centro di battaglie culturali e che hanno saputo affermare con coraggio il proprio pensiero. Ogni loro lavoro rimanda a una donna citata da Dante, simboleggiando anche uno sguardo sull’arte contemporanea al femminile che spesso ricopre un ruolo marginale. E poi Francesca da Rimini è rappresentata dalla poetessa Antonia Pozzi, il sogno è invece evocato da Robert Rauschenberg e da Adelaide Cioni. Chiude il percorso il tema della luce, un riferimento alla purificazione e alla salvezza ricercata da Dante, con Stella-acidi di Zorio, dopo la quale si esce “a riveder le stelle”. dal 25 settembre al 9 gennaio 2022

DANTE. GLI OCCHI E LA MENTE. UN’EPOPEA POP

a cura di Giuseppe Antonelli e Giorgia Salerno Catalogo Silvana Editoriale MAR Via di Roma 13 – Ravenna mar.ra.it

a sinistra: Teodoro Wolf Ferrari, Affiche Olivetti M1, 1912, manifesto su carta, cm 32,6 x 21,8 x 1 (part.)


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OPINIONI

Un Paese grottesco

Riflessioni sull’arte partecipata

Fabrizio Federici storico dell'arte

Marco Bazzini storico dell'arte e curatore

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lanciati atleti, completamente nudi, si arrampicano l’uno sull’altro a formare una piramide umana, facendo roteare intorno ai loro corpi grandi cerchi, del tutto simili a hula hoop. La base della piramide è costituita nientemeno che da quattro leoni. No, non si tratta di una scena vista ai recenti giochi olimpici di Tokyo, magari di una di quelle discipline che in Italia quasi nessuno conosce; bensì del dettaglio più noto delle meravigliose grottesche che decorano la Sala degli Acrobati nel Castello di Torrechiara, a pochi chilometri da Parma. Quelle di Torrechiara sono alcune delle più riuscite e impressionanti espressioni di un genere pittorico che, tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Seicento, conobbe una straordinaria fortuna in tutta Europa, ma soprattutto in Italia: “Cose senza alcuna regola”, come ebbe a definire Giorgio Vasari le grottesche, in cui i pittori “apicca[vano] a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, a un cavallo le gambe di foglie, a un uomo le gambe di gru […] e chi più stranamente se gli immaginava, quello era tenuto più valente”. Insomma, riprendendo un vecchio slogan, “la fantasia al potere”. In effetti, capita di trovare davvero di tutto: creature incredibili, acconciature bizzarre, animali impegnati nelle azioni più strane. Nel Corridoio di Levante degli Uffizi, tra le grottesche affrescate da Alessandro Allori nel 1581, si nota addirittura un biplano: ma il velivolo è una giocosa integrazione dovuta all’ignoto restauratore che nel 1944 riparò i danni provocati all’intonaco dalle esplosioni che abbatterono i ponti sull’Arno.

LA DOMUS AUREA IERI E OGGI

Come è noto, queste decorazioni affondano (è il caso di dirlo) la loro origine e il loro nome nelle fantasiose pitture che adornano le “grotte” della Domus Aurea di Nerone, riscoperte alla fine del XV secolo. La magione dell’imperatore ha riaperto le porte al

pubblico nel giugno 2021, con una piccola esposizione dedicata al rapporto tra Raffaello (e la sua bottega) e le grottesche: l’Urbinate fu fondamentale per il loro "lancio", attraverso le imprese decorative della Stufetta e della Loggetta del cardinal Bibbiena, delle Logge di Leone X, di Villa Madama. Soprattutto, la Domus ha accolto i visitatori con un rinnovato impianto di illuminazione e un nuovo ingresso, caratterizzato dalla passerella di Stefano Boeri. Se pensiamo a cosa potrà essere questo monumento al termine dei complessi lavori di messa in sicurezza e di restauro, c’è da restare a bocca aperta, proprio come di fronte alle stravaganti scenette che animano le grottesche.

L’aggettivo ‘grottesco’ si addice all’Italia, dove convivono il meglio e il peggio IL GROTTESCO ITALIANO

Se l’origine di queste figurine è ben nota, lo è altrettanto il fatto che da loro è derivato l’aggettivo “grottesco”: ciò che è spropositato, paradossale, tragicomico. Un aggettivo che si attaglia bene alla Penisola: non solo perché le grottesche sono un po’ ovunque in Italia, e con risultati spesso ragguardevoli – a riprova del fatto che il genius loci è molto fantasioso –, ma anche perché il nostro Paese è, come pochi altri, un coacervo di cose che all’apparenza non potrebbero mai stare insieme, in cui convivono il meglio e il peggio, grandi slanci e sordidi egoismi, le aperture all’esterno e ataviche paure.

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orse qualcosa in più di una possibile rassomiglianza è rintracciabile nell’azione partecipata proposta da Ei Arakawa e terminata in questi giorni alla Turbine Hall della Tate di Londra. Il museo, così come richiesto dall’artista giapponese, ha invitato il pubblico a giocare, disegnare e divertirsi lasciando una traccia del proprio passaggio sul pavimento della sala, precedentemente ricoperta con teli come un grande foglio di carta. In questo modo il visitatore ha avuto la possibilità di realizzare un’opera in continua evoluzione, nel solco di un interrogativo: “Can you do something that has never been done before?”. Ed è proprio questo punto di domanda a suggerire una risposta affermativa: sì, è già successo. Eventi molto affini sono già accaduti e hanno visto la partecipazione di centinaia di persone soprattutto in Italia. In questo elenco non sono, però, da registrare tutte quelle esperienze che, dalle avanguardie storiche in poi, hanno dato la possibilità ad altri attori di partecipare alla realizzazione di un’opera, come la più recente produzione artistica ha molte volte attuato.

L’ARTE COLLETTIVA DI IVAN

Questa di Ei Arakawa e della Tate è qualcosa di diverso, a partire dalla dimensione, perché si tratta di una vera e propria chiamata a un evento collettivo che, aperto a tutte e tutti, si svolge in uno spazio pubblico come è quello di un museo (l’ingresso era libero con prenotazione per normativa anti-Covid). Però, poco più di un mese fa, l’11 luglio, un invito a dipingere un’opera con la partecipazione di tutte e tutti i passanti su una grande tela, grande quanto la piazza in cui si svolgeva, è arrivato durante la seconda edizione del Festivart di Lavagna, festival di poesia di strada nonché di arte partecipata che si svolge a inizio estate nella cittadina ligure. Ma anche questo evento, a cui hanno preso parte moltissime persone, non è che l’ultimo “appuntamento” degli oltre

cinquanta che Ivan, artista e poeta di strada (a marzo ha dipinto l’unghia del “dito” di Cattelan davanti alla Borsa di Milano), ha realizzato in altrettante piazze d’Italia e del mondo. La grande pagina bianca è il titolo di quell’impresa comune che Ivan realizza dal 2007 e che nel tempo ha coinvolto le piazze di città grandi e piccole da una parte all’altra del mondo.

Gli interventi di Ivan ricompongono la collettività nella vita reale LA POESIA DI STRADA

Al pubblico che arriva in piazza è richiesto di scrivere, con colori e pennello e nella maniera più libera, una parola o una frase (ma vanno bene anche disegni) sulla tela disposta a terra per comporre un grande testo collettivo che abbia anche un sorprendente impatto visivo. Perché, come dice Ivan, che del movimento della Poesia di strada (pratica diversa dal Muralismo e dalla Street Art) è uno dei massimi autori nonché l’ideatore, “una pagina bianca è una poesia nascosta” in quanto dispositivo libero e liberato nel cuore delle città. Una poesia nascosta perché scritta da grandi e piccoli, donne e uomini come momento di condivisione del proprio essere e come ricomposizione di una collettività che si incontra nella vita reale. Pagina bianca è un momento di scrittura ma anche di lettura e nasce come fonte di energia, storia, memoria, identità, arte, poesia di strada. Ivan l’ha già proposta, seppur raramente, in contesti organizzati, ma ora che è entrata in un museo, sebbene con diverso nome ma con una pratica non troppo dissimile e un esito visivo decisamente sovrapponibile, cosa succede? Speriamo che a deciderlo non siano ancora una volta soltanto gli avvocati.


OPINIONI

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La cultura del feticcio

Pensare l’Italia come una grande mostra

Antonio Natali storico dell’arte

Stefano Monti economista della cultura

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rmai è tutto un altalenare di speranze e delusioni. Quando si pensava d’essere finalmente sulla via d’uscita dalla stretta d’un morbo maligno (grazie ai vaccini e al comportamento civile di molti) l’insorgenza di varianti ha mostrato tutta la precarietà delle convinzioni acquisite, pur scientificamente fondate. Sicché la vita, come in uno slalom, séguita a zigzagare, di continuo aggiustando la rotta, ma con la bussola sempre orientata sulla salute dell’economia, che ai giorni nostri par che sia la vera – per non dir l’unica – preoccupazione. Nessuno ovviamente si sogna di negare l’importanza dell’economia, a patto però ch’essa venga collocata nel novero dei non pochi valori di cui è vitale tornare ad avvertire l’urgenza. E fra questi c’è senza dubbio la cultura; che – fuor d’ogni retorica e a dispetto degli sfottò volgari d’alcuni economisti, più ignoranti che miopi – è davvero un sostentamento indispensabile per l’uomo. Ma la cultura, dico. Non quanto per cultura venga gabellato purtroppo anche a livello governativo; di cui peraltro ci si potrebbe disinteressare se da lì non venissero finanziamenti per le imprese culturali. In quelle sfere ci si rallegra e ci s’autoincensa per le riaperture dei musei (d’arte, in primis). Poi però, a leggere le ragioni di quel compiacimento, ciascuno subito s’avvede che sono giustappunto di natura economica.

OPERE D’ARTE COME FETICCI

Essendo oggi concepiti come macchine per fare soldi, i musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano; sono perciò utili e degni di premure finanziarie quando sono redditizi: non importa come e perché lo siano; non importa se, invece di promuovere la poesia, alimentano i feticci; non importa se la promozione dei feticci comporta il sacrificio del loro patrimonio rimanente (che magari è fra i più ricchi al mondo, ancorché

meno noto); non importa se per promuoverli smettono d’essere istituti capaci di formare coscienze storiche mature e d’educare la sensibilità e il gusto. Importa che rendano; e perché rendano bisogna che spremano i loro feticci; i quali, in sé, sarebbero capi d’opera sublimi, ma, affidati ai meccanismi di un’industria culturale ognora più rozza e ingorda, vengono svuotati della loro poesia e offerti agli autoscatti dei visitatori; che sono tuttavia incolpevoli, perché nessuno (a principiare dalla scuola) più si preoccupa di dotarli di quegli strumenti di conoscenza che consentano un approccio consapevole alle opere.

I musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano

IMMAGINE VS SOSTANZA

E allora giù per la scesa delle mostre d’artefici grandi, viste e riviste, senza più nemmeno un lumicino di novità. E poi ancóra giù, con l’esposizioni in cui nomi eclatanti del passato (specie del Rinascimento) vengono abbinati ad artisti moderni, nella convinzione che quel confronto di belle stagioni lontane e l’eccellenza dei maestri chiamati a rappresentarle seducano il popolo delle mostre e lo accalchino al botteghino. L’immagine – come ovunque, d’altronde, in questa nostra età scombinata – prevale sulla sostanza, giacché l’immagine, in virtù d’una comunicazione che la tecnologia attuale ha reso istantanea, si diffonde senza il filtro d’una personale preparazione e senza alcun tramite, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione e possibilmente confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo.

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on si tratta semplicemente di reiterare, ancora una volta, il grande valore estetico, artistico, ambientale e culturale del nostro Paese. Si tratta piuttosto di organizzare l’Italia come una grande mostra: un progetto gestionale e curatoriale di rilevanza nazionale, che disegni nuovi tragitti nella nostra penisola, arricchendo di senso territori cosiddetti minori, e che racconti il nostro Paese come mai fatto prima d’ora. La riflessione, in fondo, muove da premesse semplici: ogni mostra presenta dei propri itinerari culturali, e spesso tali itinerari sono organizzati per aree (tematiche, cronologiche ecc.). Ovviamente, nella quasi totalità dei casi, itinerari e aree sono inseriti all’interno del medesimo edificio: un visitatore acquista il biglietto, accede e visita la mostra, fermandosi, talvolta in caffetteria, più raramente al ristorante, e acquistando, uscendo, un gadget ricordo. Durante la visita, spesso, al visitatore viene offerta un’esperienza culturale narrativa e diacronica: si sceglie un tema e si raccolgono, all’interno del medesimo percorso curatoriale, opere d’arte che siano in grado di rappresentare quel tema sotto differenti punti di vista o, come spesso accade, la sua evoluzione nel tempo. Per cercare di raggiungere il numero più elevato di visitatori, sovente le mostre puntano anche sui brand: artisti il cui nome è in grado, da solo, di attirare flussi di visitatori aggiuntivi rispetto a quelli che si otterrebbero in loro assenza. Questo tipo di prodotto culturale ha una propria logica interna e non a caso è il format più diffuso. Ma non è detto che debba essere l’unico.

ARTISTI E TERRITORIO

L’immagine che forniamo attraverso questo tipo di format è un concentrato di superstar, attorniate da autori di più o meno minore rilevanza. Tutti però sappiamo che questa rappresentazione riflette soltanto una verità parziale: le correnti artistiche si

estendevano territorialmente, seguendo gli itinerari degli artisti a cui venivano commissionati lavori in diversi territori nazionali. Artisti che intervenivano su territori specifici, adattando il proprio stile al nuovo gusto, e questo oggi consente di trovare opere, in molti musei periferici, a cui il grande circuito delle mostre presta poca attenzione.

NUOVI MODI DI FARE MOSTRE

Pensare a una mostra che coinvolga, in modo concreto, tutto il territorio nazionale rifletterebbe quella ricchezza del nostro territorio, che è sempre motivo di vanto, ma che pochi conoscono realmente. Integrare, in un unico percorso espositivo, città e regioni differenti, con un catalogo unico, con un biglietto valido in tutte le sedi espositive, con un importante progetto di comunicazione, permetterebbe di raccontare il nostro Paese in modo diverso, aiutando anche le piccole realtà territoriali a comprendere quale ruolo le opere esposte nel proprio museo hanno giocato all’interno di una più ampia prospettiva.

Bisogna restituire ai territori il senso di appartenenza Creare una mostra, prevedendo l’esposizione delle opere nella propria sede originaria, investendo le risorse derivanti dai minori costi di trasporto e assicurazione in valorizzazione. Trovare sponsor locali, che partecipino in associazione agli sponsor istituzionali. Definire connessioni tra i musei, sia di tipo relazionale sia di tipo funzionale (biglietteria, bookshop ecc.). Perché l’arte non è completamente sovrapponibile agli altri settori. Il brand funziona, ma non c’è solo quello. Serve ridare senso di appartenenza ai propri territori.


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FOTOGRAFIA / LISETTA CARMI / TERMOLI

La fotografia quotidiana di Lisetta Carmi Angela Madesani

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a mostra Voci allegre nel buio, allestita al MACTE, il Museo di Arte Contemporanea di Termoli, è una sorta di metaforico ponte sul Mediterraneo, costituito dalle fotografie dedicate alla Sardegna da Lisetta Carmi tra il 1962 e il 1976. Un ponte che dalla Sardegna conduce al Molise, del quale non sono, tuttavia, presenti immagini. A essere esposta è una settantina di scatti, sino a poco tempo fa inediti, di una delle figure più interessanti della fotografia italiana del XX secolo.

LISETTA CARMI E LA SARDEGNA Carmi aveva letto, alla fine degli Anni Cinquanta, su Il Mondo, la celebre rivista di Mario Pannunzio, alcuni pezzi della maestra scrittrice Maria Giacobbe sulle terribili condizioni di vita dei poveri in Sardegna, poi raccolti in un volume pubblicato da Laterza. Lisetta entra in contatto con l’intelligente autrice dei pezzi, che la presenta a una famiglia sarda, i Piras, con la quale prende a scriversi. Quindi Lisetta, curiosa e desiderosa di contatti umani, decide di partire per l’isola, dove nel corso degli anni torna più volte. Il risultato sono le immagini in mostra a Termoli. I soggetti sono i paesaggi, la gente, i bambini e le donne con le loro ritualità, ma anche uomini, tutti ritratti con grande intensità. La Sardegna è un territorio misterioso, totalmente da scoprire. Carmi, con il fiuto sociale che la contraddistingue, fotografa la Costa Smeralda prima dello scempio a favore dei super-ricchi. Ma anche Orgosolo e la sua festa della Candelaria, in cui protagonisti sono i bambini che bussano di casa in casa per fare incetta di cibi profumati che le donne hanno preparato per loro. Carmi riesce a documentare la ritualità antica, alla ricerca della quale era anche Maria Lai, che si era ristabilita nella sua terra di origine proprio in quel periodo. La mostra molisana è una rilettura di quella proposta a Nuoro qualche tempo fa. L’attuale rassegna è stata configurata appositamente per gli spazi del MACTE e include anche alcuni scatti del lavoro sui corsi d’acqua sardi, che Carmi aveva realizzato su incarico della azienda siderurgica Dalmine, in provincia di Bergamo, e che avrebbe dovuto, all’epoca, diventare un libro.

INTERVISTA A CATERINA RIVA DIRETTRICE DEL MACTE Perché la scelta di ospitare la mostra incentrata su Lisetta Carmi? La volontà è quella di dare spazio a una persona che ha saputo indagare il nostro Paese con una serie di fotografie scattate tra gli Anni Sessanta e Settanta, in particolare in Sardegna. La sua è un’analisi molto lucida del cambiamento in atto nel nostro Paese in quel particolare momento storico, alla fine degli Anni Cinquanta. Attraverso quelle immagini si riesce a scoprire il paesaggio sociale e antropologico. Mi è parso di trovare in quelle fotografie una situazione molto simile a quella del Molise nello stesso periodo. Lisetta Carmi era entrata in relazione con il mondo dell’arte sarda, che in quegli anni contava su personaggi del calibro di Maria Lai e Costantino Nivola? Non credo. Tempo prima, Carmi aveva letto su Il Mondo la lettera di una maestra che insegnava in una scuola elementare, Maria Giacobbe. La maestra raccontava delle condizioni di vita della gente. Parecchi bambini non avevano neppure le scarpe per andare a scuola e ci arrivavano dopo aver camminato per molti chilometri. Eravamo alla fine degli Anni Cinquanta. Lisetta si era messa in contatto con lei e aveva pagato gli studi a un bambino particolarmente meritevole di Orgosolo. Al centro del lavoro sardo c’è un’analisi del paesaggio. Alla fotografa era stato dato pure l’incarico, da parte dell’azienda Dalmine, di fare un’indagine sui corsi d’acqua in Sardegna e anche in Sicilia. In molte immagini viene analizzata la modifica del paesaggio attraverso l’intervento umano. Sul lavoro siciliano è stato fatto all’epoca un libro, mentre il lavoro sardo sino a oggi era poco o nulla conosciuto. In parallelo alla personale di Carmi, è esposta una selezione relativa allo stesso ambito, quello del paesaggio,

costituita dalle opere acquisite dalla cittadina molisana attraverso il Premio Termoli, a partire dal 1955. Siete una realtà relativamente recente, nata nel 2019. Qual è il vostro tipo di pubblico? Quali i progetti per il futuro? La mia sfida è, da un lato, lavorare in maniera molto ambiziosa, portando al MACTE progetti di respiro nazionale e internazionale, ma la sfida più grande, più complessa, è proprio quella di creare un’abitudine al museo in un luogo come Termoli, che non ce l’ha. Vorrei che il turismo legato al mare potesse diventare anche un turismo culturale. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]


FOTOGRAFIA / LISETTA CARMI / TERMOLI

1924 Nasce a Genova 1934 Inizia a studiare pianoforte 1938

Viene espulsa dalla scuola italiana perché ebrea

fine anni ‘50 Legge su Il Mondo i reportage della maestra Maria Giacobbe

1960

Smette di suonare il pianoforte e inizia a fare fotografia

1962/76

Viaggia in Sardegna e realizza diversi lavori in mostra

1964

Aderisce al progetto Genova porto: monopoli e potere operaio e firma un servizio fotografico sui camalli

1965/71

Realizza I Travestiti

1966

Fotografa Ezra Pound

1977/78

Smette di fare fotografia

1979

Fonda a Cisternino l’ashram Bhole Baba

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IDENTIKIT DI LISETTA CARMI È difficile trovare un sostantivo che racchiuda la complessità della figura di Lisetta Carmi, della quale qui parliamo a proposito di una piccola area della sua ricerca fotografica. Nata nel 1924 in una famiglia della buona borghesia ebraica genovese, sorella del pittore Eugenio Carmi, Lisetta, dopo un’infanzia dorata, vive gli anni dell’adolescenza fra una fuga e l’altra, a causa delle leggi razziali promulgate nel 1938 dal governo fascista. Quegli anni segnano la sua vita, il suo percorso esistenziale, teso alla ricerca della libertà individuale, con uno sguardo sempre rivolto agli altri e al significato dell’esistenza. Si dedica allo studio del pianoforte, diventando un’ottima concertista. Quando nel 1960 il suo maestro, per la sua sicurezza, le sconsiglia vivamente di partecipare al corteo antifascista contro il convegno del Movimento Sociale Italiano, che deve tenersi a Genova, Lisetta decide che le sue mani non possono essere più importanti del resto dell’umanità. Abbandona il pianoforte e inizia a dedicarsi alla fotografia. Il suo è uno sguardo curioso, intelligente, teso a scavare in una società ancora molto chiusa. Fotografa il teatro, i camalli del porto, con cui intesse soprattutto rapporti umani. Realizza un lavoro, oggi più che mai attuale, sui “travestiti” tra il 1965 e il 1971, che diventa un libro straordinario. “Per me la fotografia, che vedo e pratico esclusivamente come reportage, non è tanto un mezzo di espressione, quanto piuttosto un mezzo di comprensione e comunicazione. Penso che essa possa aiutarci

a capire gli altri e i loro problemi e quindi anche a studiare il da farsi per il benessere universale, ad abbattere le barriere che ancora separano gli uomini, a vincere le diffidenze, a cancellare i pregiudizi, a eliminare le convenzioni ingiuste ormai codificate”, afferma.

L’EMPATIA DI UNA FOTOGRAFA

Come dimostrano anche gli scatti sardi, Lisetta non si è mai posta di fronte alla gente con uno sguardo indagatore, anzi. È sempre entrata in sintonia con le persone, ha varcato la soglia delle loro case, ha cercato di capirne le ragioni. Forse l’unico lavoro nel quale Lisetta non è entrata in relazione con il suo soggetto è quello dedicato a Ezra Pound, il poeta americano antisemita, che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in Italia. Nel 1966 Carmi suona alla porta della casa del poeta, a Sant’Ambrogio di Zoagli, lui non si presenta ma, a un certo punto, considerata l’insistenza, apre e Lisetta lo cattura con il suo obiettivo. Un’azione durata pochi istanti, attraverso la quale coglie la debolezza di un povero vecchio ammalato, depresso. Anche qui riesce ad andare oltre i sentimenti negativi, per compiere una sorta di catarsi e giungere al nocciolo della realtà. Alla fine degli Anni Settanta abbandona anche la fotografia e si dedica alla spiritualità, alla ricerca della verità. Va in India, dove compie fondamentali esperienze spirituali ed entra in contatto con il maestro Babaji. Una volta tornata, fonda un ashram a Cisternino, nelle Murge, dove si sta godendo la meritata e lunga vecchiaia.

fino al 16 gennaio 2022

LISETTA CARMI. VOCI ALLEGRE NEL BUIO a cura di Luigi Fassi e Giovanni Battista Martini Catalogo Marsilio MACTE Via Giappone – Termoli fondazionemacte.com

nella pagina a fianco: Lisetta Carmi, Irgoli in Baronia, 1964 a sinistra: Lisetta Carmi, Orgosolo (cantori tradizionali nel bar), 1964


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OLTRECONFINE / RENÉ MAGRITTE / MADRID

Nuovi sguardi su René Magritte Federica Lonati

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er René Magritte (Lessines, 1898 – Bruxelles, 1967) i quadri erano pensieri visibili e la pittura un mezzo per penetrare il mistero della realtà. Se il pittore belga fu un artista enigmatico per la società del suo tempo, oggi più che mai la sua estetica ambigua, misteriosa e spesso ironica affascina un pubblico vasto ed eterogeneo. A oltre trent’anni dall’ultima retrospettiva a Madrid, il Museo Nazionale ThyssenBornemisza celebra il pittore surrealista con una grande mostra autunnale. La macchina Magritte è il progetto curato da Guillermo Solana, direttore del museo madrileno, che raccoglie un centinaio di opere provenienti da istituzioni pubbliche, gallerie e collezioni private di tutto il mondo, in collaborazione con la Fondazione Magritte di Bruxelles. Prevista per il 2020 e posticipata di un anno a causa della pandemia, dopo Madrid la mostra raggiungerà il Caixaforum di Barcellona (dal 25 febbraio al 5 giugno 2022).

CHI ERA RENÉ MAGRITTE

René Magritte nasce nella provincia vallona, figlio della piccola borghesia belga, padre commerciante e madre modista, che purtroppo si suicida, annegandosi, nel 1912. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles, si forma sulla scia di Futurismo e Cubismo, Astrattismo e avanguardie dell’epoca. La sua ansia sperimentale lo porta a indagare il rapporto fra oggetto e forma, fra immagine dipinta e immagine reale, scoprendo presto l’abisso incolmabile fra linguaggio e realtà. Da giovane lavora in una fabbrica di carte da parati e si specializza poi in grafica per manifesti e pannelli pubblicitari. Da qui l’idea di una pittura costruita su moduli ripetitivi. La decorazione di una porta in una birreria di Bruxelles e il Canto d’amore di Giorgio de Chirico (datato 1914) sono gli elementi rivelatori che orientano le sue scelte estetiche. Fondamentali anche gli anni parigini (1927-30), nell’ambiente dei surrealisti francesi. Al rientro a Bruxelles, Magritte si discosta in parte dal movimento capitanato da Breton perché non riconosce nell’arte la presenza dell’inconscio, ma di un pensiero vigile e lucido, che si rivelerà in seguito una vera e propria metodologia. In Belgio il pittore conduce una vita apparentemente modesta insieme alla moglie Georgette Berger e riprende il lavoro di pubblicitario; concepisce l’arte come attività amatoriale insieme a un gruppo di amici intellettuali e artisti (i cosiddetti surrealisti belgi), con i quali condivide una filosofia di vita ironica e scanzonata.

fino al 30 gennaio 2022

LA MACCHINA MAGRITTE a cura di Guillermo Solana MUSEO THYSSEN-BORNEMISZA Paseo del Prado 8 – Madrid museothyssen.org

in alto: René Magritte, La firma in bianco, 1965. National Gallery of Art, Washington, Collection of Mr. and Mrs. Paul Mellon © René Magritte, VEGAP, Madrid, 2021 a destra: René Magritte, Il grande secolo, 1954. Kunstmuseum Gelsenkirchen © René Magritte, VEGAP, Madrid, 2021

La prima personale in Belgio risale al 1932, ma il vero successo commerciale arriva tra la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta, con una serie di incarichi pubblici (tra i quali la decorazione del soffitto del Théâtre Royal des Galeries di Bruxelles, un cielo a nuvolette bianche), la prima retrospettiva al Palais des Beaux-Arts nel 1954 e, nello stesso anno, la presenza nel padiglione del Belgio alla Biennale di Venezia. In piena era Pop, la fama di Magritte giunge anche negli Stati Uniti grazie a un contratto in esclusiva con la galleria di Alexander Iolas, a New York, e ad alcune grandi mostre: al Museum for Contemporary Art di Dallas e di Houston nel 1960 e al MoMA nel 1965, due anni prima della morte improvvisa avvenuta nell’agosto del 1967.


OLTRECONFINE / RENÉ MAGRITTE / MADRID

LA PITTURA-NON-PITTURA DI MAGRITTE

La mostra di Madrid racconta per grandi temi la pittura-non-pittura di Magritte, con le sue innumerevoli sfumature filosofiche, semantiche e letterarie e l’analisi continua delle risorse della meta-pittura. Il percorso tematico non si limita a esplorare i classici soggetti degli esordi parigini – gli uomini con le bombette, i cavalieri, i sonagli, le nuvole, la pipa o il corpo nudo femminile – ma presenta opere realizzate durante tutta la carriera dell’artista, assai prolifico e apparentemente ripetitivo nelle combinazioni di elementi pregressi. Nello Spazio del mago i tre autoritratti, compresa la narice a pipa, sono pretesti per parlare del processo creativo e del mito classico. In Immagini e parole c’è il Surrealismo puro dei tableaux-mots. Nelle Figure e fondo i mimetismi e le sovrapposizioni di piani, con l’uso frequente di silhouette. Nel Quadro e la finestra l’ambiguità classica del quadro nel quadro, i trompe l’oeil fra il mondo dentro e quello fuori. La sezione Volti e maschere analizza le tante figure di spalle, i volti coperti e la pareidolia, ossia la lettura di segni facciali in oggetti inanimati. Mimetismo e megalomania sono infine due aspetti complementari nell’arte di Magritte: da un lato mascherare nascondendo gli oggetti nello spazio, dall’altro esaltare l’oggetto al di fuori del suo contesto.

CAPOLAVORI DALL’ESTERO E DALLA SPAGNA

Tra tanti capolavori provenienti dall’estero – come Il tentativo dell’impossibile (Toyota Municipal Museum of Art, 1928), La firma in bianco (National Gallery di Washington, 1965), Lo stupro (Centre Pompidou, Parigi, 1945), Scoperta (1927) e Il Ritorno (1940), entrambi del Musée des Beaux Arts di Bruxelles –, al Thyssen sono esposte cinque delle sei opere presenti in Spagna e alcuni pezzi rari provenienti da collezioni private spagnole. La chiave dei campi (1936) appartiene alla collezione del museo, mentre Il segreto del corteggiamento (1927) e Sonagli rosa, cieli a brandelli (1930) provengono dal Museo Reina Sofía; La bella società, quadro dell’ultima stagione del pittore belga (1965-66), è di proprietà della Fundación Telefónica. Da segnalare, inoltre, la presenza in mostra de Il duo, olio della Fondazione Francesco Federico Cerruti (in prestito al Castello di Rivoli) e di due quadri degli Anni Quaranta e Cinquanta di proprietà di un collezionista privato bolognese. Nella Sala del Balcón, al primo piano del museo, è inoltre esposta una selezione di fotografie e filmini amatoriali ritrovati negli Anni Settanta, dopo la morte del pittore, e raccolti da Xavier Canonne, direttore del Museo di fotografia di Charleroi. Si tratta di ritratti intimi e familiari, istantanee o brevi cortometraggi che testimoniano lo spirito dada, scanzonato e anti-borghese che animava gli amici del gruppo surrealista belga.

1898

Nasce a Lessines

1912

La madre si suicida

1916

Inizia gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles

1918/19

Avvia la sua attività artistica

1922

Sposa Georgette Berger

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1927/30

Soggiorna a Parigi ed entra in contatto con Breton e i surrealisti francesi

1930

Ritorno a Bruxelles

1940/43

Fugge a Carcassonne

1954

Retrospettiva al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles

1960

1925

Prime retrospettive a Dallas e Houston

1927

Mostra al MoMA di New York

Diventa amico di Mesens e dei surrealisti belgi Prima personale alla Galerie Le Centaure a Bruxelles

LA VISIONE CRITICA

Il titolo della mostra, La macchina Magritte, allude alla Macchina universale per fare quadri che il pittore belga, insieme agli amici surrealisti, aveva ideato nel 1950 nel catalogo immaginario della società cooperativa La Manifattura della poesia. Non si tratta però solo del processo fisico della pittura e del fatto che Magritte dipinge un migliaio di quadri, che spesso sono apparentemente delle varianti dello stesso soggetto. “Di solito le esposizioni su Magritte”, spiega Guillermo Solana, direttore del Museo Thyssen e curatore della mostra, “sono centrate sul periodo surrealista, tra il 1926 e il 1935, l’epoca più creativa, della prima maturità, durante la

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1965 1967

Muore improvvisamente a Bruxelles

quale inventa la maggior parte dei temi iconici e più popolari della sua pittura. Noi invece vogliamo dimostrare che Magritte non si limita a ripetersi: negli anni successivi non inventa, ma varia, replica, combina i soggetti già proposti in precedenza, secondo una logica metodica, articolata e rigorosa. Vogliamo svelare, cioè, il segreto di tale logica, il suo personale metodo di combinazione che lo porta a sperimentare, più o meno con successo, un tema attraverso le sue stesse varianti. Il catalogo di Madrid è costruito per evidenziare la matrice strutturalista della pittura di Magritte, con motivi che talora si invertono, talaltra sono simmetrici, ma variano sempre secondo un procedimento logico, malgrado l’apparente stravaganza”.


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GRANDI CLASSICI / ARTURO MARTINI / FIRENZE

Arturo Martini e il mistero dell’arte Niccolò Lucarelli

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n’opera d’arte è tale quando restituisce un respiro, un pieno dato dal vuoto che suggerisce”. Da questo assunto, che rimase una delle più salde convinzioni artistiche di Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947), si ricostruisce l’essenza di una scultura poetica che indaga il mistero dell’individuo incidendolo nel marmo, nel bronzo, nella terracotta: modellati dalle sue mani, questi materiali si fanno leggeri, scrigno di anime di altrettanti individui. Martini racconta la storia quotidiana di donne e uomini di buona volontà, che ha nel mondo contadino il suo centro ideale; ma il suo non è uno sguardo ingenuo o idealista, perché nel tratto si percepisce la fatica della vita nei campi con una spiritualità che la civiltà industriale dell’Europa moderna stava poco a poco spazzando via. L’Aratura, opera giovanile dagli echi pascoliani, è forse il fulcro di questo discorso artistico. E ancora Ofelia, La Pisana, L’Attesa sono tre opere emblematiche nelle quali è racchiusa l’incertezza che angosciava la società europea fra le due guerre.

MARTINI A FIRENZE fino al 14 novembre 2021

ARTURO MARTINI E FIRENZE

a cura di Lucia Mannini con Eva Francioli e Stefania Rispoli MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze museonovecento.it

Arturo Martini, Ulisse, 1935. Collezione privata. Courtesy Giacomo Lorello. Photo Carlo Crozzolin

ANTICO E MODERNO

Artista indisciplinato e dal percorso tortuoso, fu allievo di Antonio Carlini a Treviso, e fra il 1906 e il 1907 anche dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ma l’Italia gli andava stretta e nel 1909 si trasferì a Monaco di Baviera, per frequentare la Scuola di Adolf von Hildebrand. Tre anni più tardi trascorse alcuni mesi a Parigi, per studiare da vicino le avanguardie, una su tutte il Cubismo, e dove espone al Salon d’Automne. Sospesa fra l’Italia e l’Europa, la sua scultura sublima l’incontro dell’antico con il moderno, dall’arte etrusca e greca a quella dei maestri del Duecento e del Trecento, che affianca alle nuove concezioni plastiche dell’avanguardia. La tensione spirituale si accompagna quindi alla tensione della materia, in opere che passano dalla sfera religiosa al mondo contadino, dalla mitologia greca alla letteratura shakespeariana. Millenni di storia umana immortalati in opere che si trasformano in logos nel suo doppio significato di pensiero e parola. Opere che sono un racconto e insieme un viaggio nell’animo umano.

Pur avendovi risieduto solo per alcuni mesi nel 1931, Martini ha con Firenze un legame particolarmente stretto, che si concretizzò sia con le mostre personali e le partecipazioni alle collettive che si tennero in città, sia nell’interesse che molti collezionisti locali manifestarono verso la sua opera. Negli Anni Trenta, e per tutto il decennio successivo, Firenze fu una città culturalmente dinamica, che dopo gli eccessi del Futurismo guardava a una molteplicità di linguaggi: Casorati, Severini, de Chirico, Savinio convivevano con il razionalismo architettonico di Giovanni Michelucci o con le prime riflessioni astrattiste di Vinicio Berti. In questo clima dinamico s’inserì appunto Martini, e un’interessante sezione documentaria della mostra, costituita da lettere originali, giornali d’epoca e documenti vari, racconta il suo rapporto con gli artisti e i collezionisti della città. Fra i legami più stretti, quello con Felice Carena, all’epoca direttore dell’Accademia di Belle Arti, cui donò la versione in bronzo dell’Ulisse, esposta al Museo Novecento. Ma a Martini non mancò il sostegno di numerosi collezionisti, fra cui l’importante famiglia Contini Bonacossi, o Mario Castelnuovo Tedesco, raffinato musicista il quale volle per sé l’Ofelia, che rientra in Italia dagli Stati Uniti in occasione di questa mostra.

1906/07 1931-32

Espone nella Galleria Bellini e dona l’Ulisse a Felice Carena

1909

Frequenta la Scuola di Adolf von Hildebrand

1912

Studia il Cubismo ed espone al Salon d’Automne

Frequenta l’Accademia di Belle Arti


S R A YE FILTRI INST AG

RAM D'ART

GIULIO ALVIGINI MARA OSCAR CASSIANI

ISTA

SOFIA BRAGA

FEDERICA DI PIETRANTONIO

CLUSTERDUCK

Ogni due settimane un nuovo filtro Sul profilo Instagram di Artribune GIOVANNI FREDI

KAMILIA KARD

CHIARA PASSA

MARTINA MENEGON

VALERIO VENERUSO

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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

Il concetto di transizione ambientale passa soprattutto dalla riqualificazione delle città e in particolare delle aree verdi. Rigenerazione urbana è dunque la parola d’ordine per accorciare le distanze verso gli obiettivi di sostenibilità che dovranno essere raggiunti nei prossimi anni. Il verde urbano, insieme alla mobilità sostenibile, assume così un ruolo fondamentale in questo momento storico. Lo dimostrano i grandi progetti previsti in città come Londra, con la realizzazione di un nuovo parco lineare su una ferrovia in disuso, tipo la High Line di New York. Anche Parigi propone la pedonalizzazione e il rinverdimento dei lunghi Champs-Élysées fino all’Arco di Trionfo. Certamente una rivoluzione per città così dense. AREE VERDI A MILANO Anche in Italia sono diversi i centri che stanno attivando progetti di passaggio dal “grigio al verde”, trasformando piazze asfaltate, piene di auto, parcheggi e rumore, in aree verdi, giardini urbani in grado di dare non solo nuovo ossigeno, ma anche spazi sociali alle nostre città. Prima tra tutte Milano, con molteplici progetti in cantiere. Oltre alle imponenti riqualificazioni degli ex-scali ferroviari, diverse piazze diventeranno “green”. A partire dallo scioglimento dello snodo caotico di Piazzale Loreto, che passerà da slargo per le automobili ad anima del quartiere. Si chiama infatti LOC – Loreto Open Community il progetto vincitore del concorso bandito nell’ambito di Reinventing cities Milano. Fino al neonato Giardino Zen di Piazza Piola, piantumato con alberi di ciliegio e popolato dalle sculture dell’artista giapponese Kengiro Azuma, frutto di un riuscito dialogo tra istituzioni e cittadini. DA MANTOVA A REGGIO EMILIA A Mantova sarà interamente riqualificata l’area davanti a Palazzo Te. Una grande arena verde in grado di ricucire il tessuto urbano unendo il palazzo al centro città, attraverso un’ampia passeggiata alberata. Il progetto è affidato alle sapienti linee dello studio di paesaggio AG&P di Emanuele Bortolotti. Saranno create “stanze verdi” per attività all’aperto, zone d’ombra, sentieri, aiuole e un orto botanico urbano. A Reggio Emilia è prevista la realizzazione della più ampia “piastra verde urbana” d’Europa. Un’arena di oltre 20 ettari ideata dallo studio Iotti + Pavarani, sulla ex-area Campo Volo. Protagonisti della nuova grande piazza saranno eventi all’aperto, concerti, teatro. Pertanto l’intera pianificazione prevede spostamenti di terra per dare spazio a una sorta di anfiteatro verde, a cui si accederà grazie a camminamenti alternati ad ampie zone a prato. Ognuno di questi progetti non si pone in contrasto con l’ambiente esistente, bensì in continuità con i nuovi percorsi di riqualificazione urbana e rinverdimento delle città. Claudia Zanfi

NUOVI GIARDINI URBANI IN ITALIA

Giardino Zen, Piazza Piola, Milano. Photo Claudia Zanfi

Circondato da palazzi Anni Settanta, il complesso della Chiesa di Fulgenzio a Lecce è uno spazio di resistenza culturale francescano nell’area moderna della città. “Ogni nostro bene è destinato alla collettività. Condivisione, quindi, che è un concetto molto francescano, è un principio alla base di tutto il nostro impegno”, racconta frate Paolo Quaranta, direttore della Pinacoteca “Roberto Caracciolo” di Lecce. Accanto alla Chiesa di Sant’Antonio a Fulgenzio, c’è un museo-biblioteca, luogo di stratificazioni di collezioni e libri, cinquecentine e altre rarità per bibliomani. Di fronte, l’arco cinquecentesco di via Santi Giacomo e Filippo evoca un passato glorioso, quando l’edificio storico, oggi sede della Pinacoteca e della Biblioteca, era parte integrante della villa di Fulgenzio della Monica, nobile leccese che amava le arti. La chiesa risale all’inizio del XX secolo, mentre la Pinacoteca – che accoglie soprattutto tele provenienti dai conventi della provincia – è stata avviata negli Anni Sessanta e inaugurata nel 1964, con le primissime sale espositive, su iniziativa di frate Egidio De Tommaso. GLI ARTISTI DELLA PINACOTECA CARACCIOLO Come suggerisce Elvino Politi, storico dell’arte e responsabile dei servizi di fruizione della Pinacoteca, le opere del nucleo più cospicuo della raccolta appartengono all’ambito barocco e della controriforma cattolica. Sono soprattutto di area napoletana – e quindi caravaggesca – la maggior parte delle tele esposte in questa sezione. Tra i nomi che compongono la prima parte del percorso espositivo affiorano quelli di Gianserio Strafella, Oronzo Tiso e Serafino Elmo, e poi le scuole napoletane di Jusepe de Ribera – Lo Spagnoletto –, Luca Giordano e Francesco Fracanzano. Un nucleo monografico della Pinacoteca è invece dedicato a padre Raffaello Pantaloni, toscano di origine e poi leccese d’adozione, con impegni francescani anche in Marocco. Il frate pittore è autore anche dell’intero ciclo di pitture parietali della Chiesa di Sant’Antonio a Fulgenzio, mentre sono stati musealizzati i cartoni preparatori e altre sue opere realizzate con tecniche miste. LE OPERE DI EZECHIELE LEANDRO Il focus espositivo degno di maggiore interesse è quello dedicato all’artista outsider Ezechiele Leandro, che proprio per i francescani, nella vicina cittadina di Lequile, ha realizzato un ciclo di dipinti dedicati ai fioretti di san Francesco, oggi nella Pinacoteca Caracciolo insieme a sculture dell’artista e a documenti di grande importanza, inediti, che rivelano la genesi del suo Santuario della Pazienza, grande giardino irregolare nel paese di San Cesario di Lecce. La collezione museale dedicata a Roberto Caracciolo, predicatore francescano di origini leccesi vissuto nel XV secolo, è varia e complessa, attestandosi come uno dei luoghi più stimolanti in Europa per le ricerche iconografiche di ambito francescano. Lorenzo Madaro

LECCE PINACOTECA D’ARTE FRANCESCANA “ROBERTO CARACCIOLO”

Via Imperatore Adriano 79 pinacotecacaracciolo.it

Sala Ezechiele Leandro, Pinacoteca Caracciolo, Lecce. Photo Elvino Politi. Courtesy Pinacoteca Caracciolo


RUBRICHE

IL LIBRO

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ASTE E MERCATO

È una lettura complessa e rivelatrice quella di Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano di Eduardo Kohn, pubblicato da Nottetempo con la prefazione di Emanuele Coccia. Proprio il filosofo italiano inquadra il campo nel quale si sviluppa il pensiero antropologico dell’autore: “Piuttosto che porsi alle frontiere che separano i popoli e le culture per mostrare la loro porosità, l’antropologia si è posta alla frontiera – molto più ampia, frastagliata, discontinua – che separa ciò che è umano da ciò che non lo è, poco importa se si tratti di oggetti inanimati o di forme di vita lontane da quella dell’Homo sapiens”. I RUNA DELL’AMAZZONIA Ne discende uno spostamento di sguardo, di attitudini che possiamo racchiudere in una bella immagine che ci restituisce l’autore, affermando che il modo in cui gli altri esseri che popolano il pianeta ci guardano è importante perché l’incontro con essi ci spinge a riconoscere il fatto che pensiero e conoscenza non sono questioni esclusivamente umane. È il modo di vivere dell’etnia Runa dell’Amazzonia ecuadoriana, e in particolare il villaggio di Avila, a rivelare come convive quest’intreccio di forme di vita che è la foresta. Gli abitanti non sono selvaggi come la cultura occidentale li definisce, ma colonizzati che da secoli interagiscono con i loro colonizzatori. I Runa sono connessi con il mondo occidentalizzato attraverso acquisti al supermercato, piccoli scambi e interazioni con le ONG; ciò che li trasforma in “altro che umani” è l’atto del procacciarsi parte del loro cibo. Ecco che la foresta ai margini del villaggio diviene spazio e logos: preda e predatore si mischiano nella stessa figura.

EDUARDO KOHN COME PENSANO LE FORESTE.

Per un’antropologia oltre l’umano

Nottetempo, Milano 2021 Pagg. 448, € 20 ISBN 9788874528943 edizioninottetempo.it

Women in Art è la prima asta dedicata a sole artiste da Christie’s a Parigi. Il 16 giugno 2021 la vendita ha totalizzato oltre 3 milioni di euro, aprendo un’ampia panoramica dal Rinascimento al XXI secolo attraverso un centinaio di lotti variegati per stime e per media impiegati. Tante le forme, infatti, che ha assunto nei secoli la creazione delle artiste e che l’asta ha contribuito, nella propria sfera di competenza, a raccontare e a trarre fuori dall’ombra di un canone ancora oggi escludente. ARTISTE IN MOSTRA A incoraggiare l’operatore di mercato, a poco meno di un mese di distanza dall’asta di Sotheby’s (Women) Artists, hanno di certo contribuito gli eventi e le mostre istituzionali che i musei del mondo stanno inserendo nelle loro agende. Peintres femmes, 1780-1830 al Musée du Luxembourg, così come Elles font l’abstraction (Women in abstraction) al Centre Pompidou di Parigi, o i Mooc (Massive Open Online Courses) lanciati da quest’ultimo con il Musée d’Orsay e l’associazione AWARE. Archives of Women Artists, Research and Exhibitions, per nominare solo gli esempi più recenti. Ecco allora in catalogo i dipinti di Elisabeth Vigee Le Brun e le lettere di George Sand a Gustave Flaubert, la “Pontificia Pittrice” Lavinia Fontana insieme a Maria Lai, Leonor Fini e Dorothea Tanning, fino a Maria Helena Vieira da Silva e Sheila Hicks, passando per la prima edizione Gallimard del 1949 di Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir.

SUPERARE I BINARISMI I Runa sono uno dei tanti affascinanti esempi declinati da Kohn, esempi di uno sguardo che non si focalizza solo “sugli umani o unicamente sugli animali, ma anche sul modo in cui umani e animali entrano in relazione”. Si tratta della rottura di quella circolarità antropocentrica che confina il nostro modo di pensare e agire entro rigidi binarismi. Andare oltre l’umano significa vivere un lungo e intenso coinvolgimento con un luogo e con le persone che vi abitano. Una ricchezza di esperienze che può avvicinarci a pensare con; ad esempio con parrocchetti dagli occhi bianchi che i Runa tengono lontani dai campi di mais costruendo spaventapasseri che danno forma visiva a quelli che potrebbero apparire come dei rapaci dal punto di vista di questi uccelli voraci di chicchi. Questo strano oggetto dipinto diventa icona, rappresentazione di una fitta rete di relazioni che supera il linguaggio tradizionale per farsi altro. Intrecci, collegamenti tra forme di vita della e nella foresta. Un ecosistema che pensa e parla superando la lingua verbale per addentrarsi verso non meno loquaci modalità di convivenza e scambio.

IL VOLUME DI CLAUDE CAHUN Fuori dall’elenco degli highlight – ma non per questo meno prezioso – compare Aveux non avenus di Claude Cahun (nome d’arte di Lucy Schwob), artista, fotografa, scrittrice francese. Pubblicato a Parigi nel 1930 in edizione limitata di 500 copie, il volume offerto da Christie’s è uno tra 55 esemplari fuori commercio, donato all’amico e mentore André Gide ed è stato aggiudicato per poco più di 4mila euro. Autobiografia in parole e immagini, illustrata dai fotomontaggi di Marcel Moore (pseudonimo di Suzanne Malherbe), la compagna di Claude Cahun per tutta la vita, Aveux non avenus distilla e sintetizza i motivi fondanti della sua pratica artistica e, insieme, della sua visione dell’esistenza. A gennaio 2020 si è potuta vedere per la prima volta in Italia una selezione delle opere fotografiche di Cahun, in occasione della mostra 3 Body Configurations (a cura di Fabiola Naldi e Maura Pozzati, Fondazione del Monte, Bologna). E scoprire – o ri-scoprire – l’unicità di una ricerca visiva tesa a rintracciare una personale identità plurale, oltre i confini di genere, un’individualità androgina e metamorfica che demolisce ogni convenzione e le farà affermare, tra le pagine di Aveux non avenus: “Maschile? Femminile? […] Neutro è il solo genere che mi si addice sempre”.

Marco Petroni

Cristina Masturzo

CLAUDE CAHUN CHRISTIE’S

Claude Cahun, Aveux non avenus, Éditions du Carrefour, Parigi 1930. Courtesy Christie’s Images Ltd 2021


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