Grandi Mostre #32

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GIACOMO CERUTI/BRESCIA • GIOVANNI FATTORI/BOLOGNA ANTICO EGITTO/VICENZA
LUIGI GHIRRI/PARMA
BOB DYLAN/ROMA

Riscoprire la pittura di Giacomo Ceruti

La montagna negli scatti di Sella, Adams, Chambi e Hütte, la fotografia contemporanea di David LaChapelle, due ricognizioni storico-artistiche sul passato della città: il programma della Fondazione Brescia Musei per il 2023, che vede la Leonessa capitale della cultura insieme a Bergamo, è diversificato. Tra tutte spicca l’esposizione su Giacomo Ceruti (Milano, 1698-1767), curata al Museo di Santa Giulia da Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti. Ecco ragioni, caratteristiche e propositi della mostra nelle parole dei curatori.

Come è cambiata la percezione dell’opera di Ceruti nei secoli? In che modo la mostra affronta questo tema?

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Stefano Castelli dal 14 febbraio al 28 maggio 2023 MISERIA & NOBILTÀ. GIACOMO CERUTI NELL’EUROPA DEL SETTECENTO a cura di Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti Catalogo Skira MUSEO DI SANTA GIULIA Via Musei 81/b – Brescia bresciamusei.com
Giacomo Ceruti, Ragazzo con cesto di verdure, © National Museums NI, Ulster Museum Collection CERUTI / BRESCIA
GIACOMO alessandro morandotti: Giacomo Ceruti è oggi riconosciuto come uno dei protagonisti della storia dell’arte del Settecento europeo in virtù della sua produzione di ritratti, nature morte e soprattutto di scene di vita popolare. Queste specializzazioni, a causa della gerarchia dei generi artistici di eredità umanistica, non gli hanno permesso di entrare nel canone dei pittori più noti della sua epoca. Nonostante il suo grande successo in vita, Ceruti venne per questo dimenticato a lungo dopo la sua morte fino alla riscoperta nel corso del Novecento. Ad avvio della mostra, abbiamo seguito questa rinascita, restituendo il ruolo di Roberto Longhi; il grande studioso ha legato al nome di Ceruti opere finite nel catalogo di altri artisti, radicandone le scelte entro la tradizione della pittura lombarda della realtà.

alessandro morandotti: La tradizione degli studi su Ceruti è ormai ben consolidata, a partire dalla monografia in gran parte ancora attuale di Mina Gregori (1982). Abbiamo quindi innanzitutto radicato le scene di vita popolare di Ceruti in una rete di fatti precedenti e coevi molto serrata e credo molto nuova per il pubblico oltre che per gli studi; al contempo ampio spazio è destinato alla produzione del Ceruti più internazionale della piena maturità, anni in cui il pittore si confronta con la pittura veneta e francese a lui coeva restituendo nel suo caratteristico “dialetto” lombardo questi incontri. Non è un tradimento della realtà, ma solo un’apertura di orizzonti di uno dei più grandi sperimentatori del Settecento italiano.

L’intreccio di biografia e opera è particolarmente fitto nel caso di un autore quale Ceruti. Come si dipana questo filo lungo la mostra? francesco frangi: Nella vita di Ceruti ci sono due passaggi cruciali. Il primo è il precoce trasferimento da Milano a Brescia, all’inizio degli Anni Venti del Settecento. Quando giunge a Brescia il pittore si specializza subito nel ritratto e nelle scene pauperistiche, mettendo a punto un linguaggio fortemente orientato in senso naturalistico che ottiene il gradimento della committenza locale. Tutta la prima parte della mostra ripercorre questa stagione, alla quale fa seguito quella che si apre con il secondo episodio decisivo della biografia di Ceruti: il soggiorno in Veneto tra il 1736 e il 1739. A partire da quell’esperienza la pittura cerutiana si apre verso nuovi orizzonti. Le scene di genere diventano più rasserenate, a volte ironiche, i ritratti più scenografici, la tavolozza si schiarisce. E all’interno della mostra, di conseguenza, il clima muta vistosamente.

Come si inserisce l’opera di Ceruti nel lungo e rivoluzionario processo che porta dall’arte antica agli stravolgimenti dell’Ottocento, fino al cambio di paradigma che avverrà a fine Ottocento/inizio Novecento? Il suo pauperismo è anticipatore di mutamenti a venire?

francesco frangi: Ceruti rimane un uomo del suo tempo. Non bisogna guardarlo come un realista ottocentesco o moderno. Le sue tele non sono fotogrammi della realtà: i soggetti che mette in scena rispecchiano una tradizione ben consolidata, nata più di un secolo prima di lui. Le ragioni della grandezza dell’artista sono altre e risiedono nella capacità di rinnovare per così dire “dall’interno” quel repertorio, infondendo nelle opere una verità e un sentimento di empatia nei confronti dei ceti umili che non hanno precedenti. È per questo che chi osserva oggi i suoi dipinti giovanili ha la sensazione che essi restituiscano, come delle maestose istantanee, le concrete situazioni di vita degli emarginati. Non è così, ma in fondo la magia di Ceruti sta anche nella capacità di creare costantemente questa illusione.

GIACOMO CERUTI / BRESCIA

Il Ciclo di Padernello è annunciato come il clou dell’esposizione. Quali caratteristiche gli valgono questa posizione di importanza?

roberta d’adda: Sotto questo nome convenzionale si raccolgono sedici grandi tele con figure di poveri intenti in semplici attività quotidiane: furono scoperte nel 1931 in un castello della Bassa bresciana, a Padernello, e da allora hanno riscosso costante attenzione. Riunite in mostra a Brescia nel 1935 e poi, quasi tutte, a Milano nel 1953 per la rassegna longhiana dei Pittori della Realtà, non si vedevano insieme da allora. A Brescia ne avremo quattordici: un’occasione unica per godere di una visione d’insieme su questo nucleo, frutto forse di un’unica e ancora sconosciuta commissione e che si presenta come una delle imprese più significative del Settecento europeo. Ritroviamo nelle tele di Ceruti non solo la sostanza pittorica della polvere e degli stracci ma, soprattutto, la dignità degli umili.

Quali sono le altre opere da non perdere in mostra?

roberta d’adda: Se la Pinacoteca Tosio Martinengo è, per numero di opere, il museo di Giacomo Ceruti, i dipinti di questo artista sono per lo più conservati tutt’oggi in collezioni private: la mostra offrirà l’occasione quindi di vedere – a fianco di prestiti provenienti dall’Italia ma anche, per esempio, da Vienna e Göteborg – capolavori nella maggior parte dei casi inaccessibili al pubblico, posti in dialogo con Ribera, Fra Galgario, Rigaud e Piazzetta. Saranno presentati alcuni inediti sia di Ceruti sia di artisti che ebbero un approccio simile al suo nell’illustrare le scene di vita popolare. Tra questi ultimi, desterà grande curiosità il misterioso pittore noto come Maestro della tela jeans: un artista forse di origine nordica che sul finire del Seicento, in Lombardia, aggiorna la tradizione del naturalismo caravaggesco in modo affatto poetico e personale.

INTERVISTA ALLA PRESIDENTE E AL DIRETTORE DELLA FONDAZIONE BRESCIA MUSEI

Quale ricaduta positiva si aspetta dopo l’anno di Brescia/ Bergamo Capitali della Cultura? Non tanto sul piano degli introiti o del turismo, ma in particolare nell’ambito dei fondi e delle possibilità per la cultura e i musei di Brescia.

francesca bazoli: Sono certa che la grande attenzione mediatica e la frequentazione dei pubblici, incentivata dal grande evento, porterà i musei bresciani a essere riconosciuti come luoghi di grande qualità per la conservazione e la valorizzazione e, al contempo, veri e propri cantieri culturali di progettazione e produzione artistica. Da un lato i grandi raggiungimenti museali dell’ultimo triennio, dall’altro una modalità di approccio alla cultura che ibrida costantemente linguaggi antichi e archeologici con il contemporaneo.

Qual è l’aspetto meno conosciuto della cultura e del patrimonio museale di Brescia che verrà messo in luce durante il 2023? stefano karadjov: Certamente la straordinaria vastità del nostro patrimonio museale: dalla grande archeologia romana e longobarda riconosciuta sito Unesco alla straordinaria stagione della cultura lombarda, che trova nella Pinacoteca Tosio Martinengo la sua culla ideale. Infine i due straordinari musei del Castello dedicati uno alla memoria del Risorgimento, l’altro alla produzione bresciana di armi e armature dal 1400 al 1800.

Qual è la mostra o iniziativa che le è più cara e che è impaziente di vedere realizzata? Possiamo rispondere all’unisono. Il grande palinsesto dedicato a Giacomo Ceruti, con la contaminazione contemporanea di David LaChapelle, corona la strategia di valorizzazione della Pinacoteca quale casa museale più importante per questo grandioso pittore del Settecento.

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Quali aspetti meno conosciuti del Ceruti emergono dal percorso espositivo?

Luigi Ghirri e il labirinto

Sono oltre 150 gli scatti di Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) esposti per la prima volta nell’ambito della mostra al Palazzo del Governatore di Parma. La rassegna chiude l’anno delle celebrazioni dedicate al fotografo a trent’anni dalla scomparsa, proponendo i materiali del mockup del raro volume Viaggio dentro un antico labirinto, realizzato, insieme a Carlo Arturo Quintavalle, nel 1991.

A spiegare il senso del labirinto nella concezione di Ghirri e Quintavalle è il curatore Paolo Barbaro: “Quella del labirinto è una forma suggestiva, forse con qualche differente sfumatura tra il pensiero dell’artista e dell’intellettuale, come è spesso avvenuto nella loro lunghissima collaborazione e amicizia. Per Ghirri sicuramente c’è l’eco di suggestioni provenienti da Borges, scrittore amato e spesso citato, e l’idea delle immagini come enigma da sciogliere, in cui trovare una strada perduta. Per Quintavalle il labirinto è il percorso avvincente e complicato tra le forme dell’immagine, della comunicazione, del territorio dei beni culturali. Per entrambi si trattava e si tratta di indicare orientamenti per uscire dai luoghi comuni, dal consumo inconsapevole se non incosciente del nostro paesaggio fatto di cultura”. Ci troviamo dunque di fronte a un tema particolarmente attuale, che la mostra parmense propone in maniera avvincente.

LE RAGIONI DELLA MOSTRA

L’iniziativa, organizzata dal Comune di Parma in collaborazione con CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma), al quale Ghirri ha lasciato i materiali utilizzati per il libro, e con l’Archivio Eredi Luigi Ghirri, fa parte dell’ampio progetto Vedere oltre, promosso da tre città alle quali, da un punto di vista esistenziale ed espositivo, il fotografo era particolarmente legato: Reggio Emilia, Modena e appunto Parma.

Si è deciso, tuttavia, di non utilizzare lo stesso titolo del volume di trentuno anni fa, poiché nel frattempo gli studi su Ghirri si sono arricchiti. Oggi il suo lavoro è conosciuto in Europa, negli Stati Uniti, è oggetto di pubblicazioni e di mostre. Barbaro chiarisce: “Volevamo rendere esplicito il legame tra questa scelta e la sequenza di immagini che Ghirri aveva disposto per quel libro, fotografie che ne costituiscono il menabò, che per l’autore era spesso concepito come un’opera. Nel titolo che abbiamo scelto indichiamo una sorta di rovesciamento: ogni immagine, quelle di Ghirri ma anche le altre esposte, da quelle storiche degli

Alinari a quelle di Walker Evans, apre percorsi di relazione, indica scelte dell’autore magari solo intraviste, suggerisce a chi la guarda possibilità di altre strade, altre visioni”. Lo spettatore è portato a offrire una sua interpretazione di quanto vede, è emancipato da un’unica lettura possibile.

26 febbraio

GHIRRI E PARMA

Oltre alle immagini del mockup del libro, in mostra sono presenti altri lavori tratti da Colazione sull’erba, Paesaggi di cartone, Kodachrome. Ci sono, inoltre, documenti che testimoniano la relazione di arte e fotografia che unisce Ghirri a Franco Guerzoni: “Mi piace sottolineare che sono tutte opere provenienti dalle raccolte del CSAC, dell’Università, un bene pubblico. Una scelta dichiaratamente a-collezionistica e non commerciale, sottolineata anche dalla scelta di fare una mostra a ingresso libero. Le fotografie messe a confronto hanno tutte un legame motivato con l’opera del fotografo. Quelle dell’Ottocento, di Alinari e di Naya, oltre a riguardare temi e spazi che ricorrono nelle foto di Ghirri, erano state da lui reperite negli Anni Settanta e donate al CSAC. Le foto della FSA, in particolare quelle di Evans, erano state esposte nel 1975 in una mostra itinerante, sempre organizzata dal CSAC, che Ghirri e altri della sua generazione (Chiaramonte, Basilico, Cresci, Guidi) avevano visitato trovandovi la conferma di una direzione che la loro fotografia stava prendendo. Ghirri eseguiva il lavoro fotografico per Guerzoni e per altri artisti concettuali e da quello partivano spesso indicazioni che orientavano l’opera specificamente fotografica di Luigi”, spiega Barbaro.

In mostra ci sono anche opere di Bruno Stefani, dagli Anni Trenta uno dei maggiori nar-

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Angela Madesani fino al 2023 LABIRINTI DELLA VISIONE. LUIGI GHIRRI 1991 a cura di Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta PALAZZO DEL GOVERNATORE Piazza Giuseppe Garibaldi 19L – Parma comune.parma.it in alto: Luigi Ghirri, Il Museo Glauco Lombardi, Parma, 1985 (stampa 1990-91), stampa cibachrome, 199x247 mm. CSAC – Fondo Ghirri cat. C110041S. Photo courtesy Eredi Luigi Ghirri a destra: Luigi Ghirri, Il Teatro Farnese, Parma, 1985 (stampa 1990-91), stampa cibachrome, 171x216 mm. CSAC – Fondo Ghirri cat. C124384S. Photo courtesy Eredi Luigi Ghirri

LA MOSTRA A REGGIO EMILIA

In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive è il titolo della mostra ospitata a Reggio Emilia presso il Palazzo dei Musei, a cura di Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta, Matteo Guidi, in collaborazione con Fototeca Biblioteca Panizzi, Archivio Eredi Luigi Ghirri, ISIA Urbino.

Viene presentato uno dei lavori più geniali del fotografo emiliano sul tema del paesaggio. Si tratta di foto stranianti in cui sono ritratti edifici italiani straordinari, dalla fiorentina cupola del Brunelleschi al milanese grattacielo Pirelli. Tutto è a portata di mano, con un’occhiata si guarda il Paese intero, ma nulla è reale: si tratta piuttosto dei paesaggi artificiali di “Italia in miniatura”, il celebre parco tematico di divertimento, ideato e progettato da Ivo Rambaldi nel 1970, nelle vicinanze di Rimini.

Ghirri era profondamente attratto da quel luogo, in cui si reca in più occasioni fra la fine degli Anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Le foto in mostra, molte delle quali inedite, appartenenti al lavoro In scala, sono poste in dialogo con i materiali documentari del parco, realizzati dallo stesso Rambaldi – due modalità di approccio alla stessa realtà.

Quelle di Ghirri sono foto in cui il paesaggio è oggetto di una specie di riassunto, nel quale l’artista pare anticipare i tempi della virtualità con i quali mai sarebbe entrato in contatto. Le atmosfere sono surreali, spiazzanti e ci inducono a pensare al lavoro editoriale Viaggio in Italia, a cui si sarebbe dedicato pochissimo tempo dopo.

Non mancano in mostra i lavori creati da giovani artisti che hanno lavorato con Joan Fontcuberta e Matteo Guidi.

ratori in fotografia del paesaggio italiano per il Touring Club. “Questi lavori erano oggetto di valutazioni ambivalenti da parte di Ghirri: avversati per il loro riferirsi ai luoghi comuni turistici e per il segno fortemente autoriale – faceva l’editing del reale, avrebbe scritto poi –, ma anche ammirati per quell’immenso lavoro fatto in prima persona, girando per tutto il Paese con l’idea di rifondare l’immagine del paesaggio italiano. Anche queste immagini, come quelle di Ghirri degli Anni Settanta esposte a confronto, mostrano riverberi e relazioni”.

La mostra è un omaggio al rapporto ricco e articolato con Parma, una città dove la conoscenza e lo studio della fotografia ha avuto, a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta, uno sviluppo che potremmo definire unico nel nostro Paese.

GHIRRI E QUINTAVALLE

Nel 1979 il CSAC organizza la prima mostra antologica di Ghirri, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini, che raccoglie tutti i progetti realizzati sino a quella data. La rassegna presenta 700 fotografie organizzate in 14 sequenze narrative. Per l’occasione viene pubblicato un prezioso catalogo, in cui ogni sezione è introdotta da uno scritto dell’artista, un momento di importante riflessione teorica, di chiarimento della propria ricerca. Fondamentali per la comprensione di Ghirri e della sua ricerca sono stati gli scritti di Quintavalle, fondatore del CSAC nel 1968. “I due uomini”, spiega Barbaro, “si sono incontrati a Parma nel 1972, alla mostra ‘New Photography USA’, fatta dall’Università assieme a John Szarkowski del MoMA di New York. Il rapporto continua fino alla scomparsa del fotografo. Credo sia la persona che ha scritto di più, e più assiduamente, sull’opera di Ghirri. La mostra è stata un punto di svolta, e non solo per Ghirri. Da lì sono partite le collaborazioni con gli altri fotografi per ‘Viaggio in Italia, Esplorazioni sulla Via Emilia’ con Giulio Bizzarri, i progetti con Gianni Celati. Quella mostra aveva posto all’attenzione, anche dello stesso Ghirri, un decennio di lavoro straordinario, di originalissima ricerca anche linguistica, che apriva a una nuova stagione e a un nuovo modo di raccontare e vivere il paesaggio, il territorio”.

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ANTICO EGITTO / VICENZA

Gli artigiani dell’antico Egitto

Sarà per l’imponenza delle piramidi, sarà per il mistero delle mummie, sarà per le divinità zoomorfe o ancora per i tratti della scrittura geroglifica: di certo quella dell’antico Egitto è una delle civiltà che più affascinano, da sempre, grandi e piccini, studiosi e popolo (chi appartiene alla Generazione X ricorderà il tormentone delle Bangles Walk Like an Egyptian del 1986). Se si pensa ai protagonisti di quel mondo remoto, vengono subito in mente i faraoni e gli schiavi: una semplificazione, ovviamente, e a restituire uno scenario più realistico interviene ora la mostra ospitata sotto la grande volta lignea della Basilica Palladiana di Vicenza e organizzata dalle maggiori istituzioni locali insieme al Museo Egizio di Torino.

Il papiro con annotazioni ed esercizi di disegno No, non sono le istruzioni dell’Ikea: quello esposto in mostra è un papiro datato al Regno di Ramesse XI (11061077 a.C.) e in cui gli schizzi sul verso spiegano come costruire un mobile.

I protagonisti di questo viaggio tra grandi statue, manufatti di uso quotidiano, ricostruzioni di enormi tombe e preziosi sarcofagi sono i “creatori” evocati nel titolo: coloro che, al servizio dei faraoni, contribuivano con il proprio lavoro a realizzare le monumentali sepolture dell’Egitto antico. La vasta schiera di maestranze, più o meno qualificate, comprendeva operai, scribi, scalpellini, pittori e vari altri artigiani Tutto cominciò nel 1905 con una clamorosa scoperta avvenuta grazie agli scavi condotti dalla Missione Archeologica Italiana di Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino. Non lontano dalla Valle delle Regine, sulla sponda orientale del Nilo e di fronte a Tebe (oggi Luxor), venne alla luce un insediamento che presto si scoprì essere stato abitato proprio da chi era impiegato nella costruzione delle tombe reali. Oltre a numerose altre sepolture, a Deir el-Medina furono trovati due grossi vasi pieni di papiri in perfetto stato di conservazione, e poi statue, frammenti di iscrizioni e un’infinità di altri oggetti che permisero di ricostruire uno spaccato di vita quotidiana dell’antico Egitto.

LA MOSTRA A VICENZA

L’esposizione curata da Christian Greco, “erede” di Schiaparelli nella direzione del museo piemontese, mette quindi a fuoco l’esistenza e

Modellino della tomba di Nefertari

Negli Anni Trenta del Novecento il direttore del Museo Egizio, Ernesto Schiaparelli, fece costruire un modellino in scala 1:10 che riproduceva fedelmente la tomba della regina Nefertari. Le pedane sono dedicate ai bimbi, che così possono osservare gli interni sontuosamente decorati e la distribuzione degli spazi.

le attività degli abitanti di Deir el-Medina attraverso il prestito di reperti conservati a Torino e al Museo del Louvre. Innanzitutto viene restituito il contesto del villaggio, e a tal proposito la prima sezione è dedicata a Tebe, la grande città che durante la XVIII dinastia divenne la capitale dell’antico Egitto, definita da Omero come la “città dalle 100 porte” e nella quale sorgeva il grandioso tempio di Karnak dove si celebravano le maggiori divinità. Attraversato il Nilo, nella Valle dei Re e in quella delle Regine riposavano invece le spoglie dei faraoni che, come dimostra la monumentale scultura con la triade formata da Ramesse II seduto tra il dio Amon e la dea Mut, legittimavano il loro potere mediante il rapporto con il divino e, grazie al ruolo di

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ANTICO EGITTO / VICENZA

intermediazione tra uomini e dei, venivano considerati i custodi dell’ordine cosmico. Già queste poche parole bastano a far comprendere come per i faraoni fossero indispensabili tombe sontuose, tanto più se si considera che nell'antico Egitto la morte rappresentava un momento di passaggio verso una vita eterna.

Manufatti blu

Gli Egizi inventarono un pigmento dalla brillantezza simile al preziosissimo blu di lapislazzulo facendo cuocere a più di 900° C la malachite con un alcali naturale. Il blu egizio fu usato per tutta l’epoca romana e venne riscoperto da Raffaello.

Ecco allora la necessità di disporre di schiere di manovali e artigiani da impiegare nelle imprese architettoniche e, come nei villaggi operai sorti in Italia tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, si ritenne che fosse più pratico farle risiedere vicino al “luogo di lavoro”. Fu con il faraone Amenhotep I e soprattutto con il figlio Thutmosi I (1493-1483 a.C.) che si cominciò a costruire l’insediamento di Deir el-Medina – lo testimoniano dei mattoni con cartiglio – e ben presto vi si trovarono a vivere circa 120 famiglie. Quelle persone ad esempio costruirono e decorarono la tomba della regina Nefertari (morta nel 1255 a.C.), una delle sepolture più belle ritrovate da Schiaparelli: gli oggetti esposti accanto al modellino, tra cui scalpelli, mazzuoli, asce, bastoncini per tracciare i segni, fili a piombo, ceselli, pennelli, persino una lampada e un accendino, ci proiettano all’interno di quegli incredibili cantieri. E non si pensi che le tombe su tre livelli fossero prerogativa solo dei faraoni: anche gli abitanti di Deir el-Medina venivano tumulati in strutture simili, come documenta la pietra sommitale della piramide dello scriba reale Ramose su cui sono incisi dei brani del Libro dei morti riferiti al viaggio del dio Sole attraverso la notte e il suo risorgere.

NEL CUORE DI DEIR EL-MEDINA

Eccezionale è l’abbondanza delle fonti scritte: a Deir el-Medina si sono recuperati papiri con “giornali della necropoli” su cui venivano riportate le attività amministrative e l’organizzazione del lavoro, mentre altri recano schizzi di figure proprio come se fossero degli sketchbook. Analoga funzione avevano gli ostrakon, frammenti di calcare su cui si esercitavano gli artisti: in mostra ne vediamo con figure femminili, con un sarcofago, con un uomo seduto che tiene un fiore di loto. Altri invece aprono degli squarci sulla vita quotidiana: un personaggio che ha acquistato delle finestre, un uomo che conduce le mucche al pascolo, una donna che allatta un bambino.

I reperti ci accompagnano poi all’interno delle case, dove sono stati ritrovati vasi e bottiglie, preziosi frammenti di mobili, una scopetta

fino al 7 maggio 2023

I CREATORI DELL’EGITTO ETERNO. SCRIBI, ARTIGIANI E OPERAI AL SERVIZIO DEL FARAONE a cura di Christian Greco, Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini Catalogo Marsilio Arte BASILICA PALLADIANA Piazza dei Signori – Vicenza mostreinbasilica.it

a sinistra: Stele con orecchie dedicata da Usersatet alla dea Nebethetep, Nuovo Regno, XIX-XX dinastia (1292-1076 a.C.), Deir el-Medina. Calcare. Cat. 1546, Museo Egizio, Torino. Credito fotografico: Museo Egizio, Torino

in alto: Ushabti della Signora della Casa Taysen, Nuovo Regno, XIX dinastia (1292-1190 a.C.), Deir elMedina. Terracotta. Cat. 2770, Museo Egizio, Torino. Credito fotografico: Museo Egizio, Torino

Un esercito in miniatura Sembrano bamboline a forma di mummie, in realtà erano degli “avatar” che dovevano aiutare il defunto a svolgere gli incarichi faticosi affidatigli da Osiride, come il lavoro nei campi. Nella tomba del faraone Seti I furono trovati centinaia di ushabti: un vero e proprio esercito di manovali!

Una religione inclusiva

In Egitto il politeismo era “accogliente”. In alcune stele compaiono la dea Astarte, armata e a cavallo, o la dea Qadesh, su dorso di leone con fiore di loto e serpente, o il dio Reshep: le divinità orientali convivevano con le autoctone, come il dio Min, simbolo di fertilità e protettore dell’agricoltura.

e addirittura degli strumenti musicali come un flauto o una lira a bracci asimmetrici. Non si può immaginare quale fosse la musica ascoltata dagli Egizi, ma di certo era una componente significativa nelle feste religiose. Nelle dimore non mancavano le raffigurazioni sacre a protezione degli abitanti i quali, grazie alle piccole stele illustrate, instauravano un rapporto quotidiano con il divino e con gli antenati. Eccezionale quella con incise tante orecchie: un’invocazione affinché il Dio prestasse ascolto alle richieste del dedicante. E altrettanto affascinante è la scultura in legno della dea Tauret che, con fattezze di ippopotamo, coda di coccodrillo, zampe leonine e una tipica parrucca “all’egizia”, vegliava su partorienti e nascituri.

DALLA VITA ALLA MORTE

Infine l’attenzione si sposta sull’attraversamento della soglia tra la vita e la morte: un passaggio che consentiva al defunto di intraprendere il suo viaggio verso la rinascita. Si incontra uno splendido sarcofago, il sacro involucro su cui una defunta è raffigurata con il collare e la parrucca decorata con perline, ghirlande e fermagli. Sul petto si dispiegano le ali della dea Nut, in segno di protezione, e il resto è ricoperto da scene funerarie e iscrizioni. Ma essenziale era soprattutto conservare il corpo: quello della Signora della Casa Tariri, ad esempio, è giunto fino a noi – e possiamo intuirne la sua presenza al di sotto delle bende – grazie alle tecniche messe in atto dalla florida industria funeraria che, con grande cura, si occupava del cadavere purificandolo e rendendolo incorruttibile.

Per affrontare la vita dopo la morte, nella sua “dimora eterna” il defunto veniva circondato da un preciso “equipaggiamento” che comprendeva oggetti personali, cibo, strumenti, vasellame e statuine: nelle vetrine di Vicenza spiccano i corredi funerari provenienti dalle tombe della regina Nefertari e del faraone Seti I.

“L’intimo desiderio di ogni antico Egizio era che il proprio nome non venisse dimenticato, ma continuasse per sempre a risuonare nelle bocche dei viventi”, si racconta nel catalogo. E se in questo nostro XXI secolo l’eternità è ormai un’illusione, senza dubbio la lontana civiltà degli Egizi, con la sua cultura raffinata, la sua religiosità complessa e la sua perizia tecnica, continuerà a lungo a suggestionarci e, forse, a svelarci i suoi misteri.

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Bob Dylan oltre la musica

Anche quando impugna la matita per fermare su carta un frammento di realtà che incrocia il suo sguardo, o quando si confronta con un grande quadro che cerca la bellezza nei luoghi dimenticati d’America, Bob Dylan (Duluth, 1941) sa rappresentare la condizione umana. Arriva a Roma, dopo l’esordio a Shanghai nel 2019 e la tappa a Miami nel 2021, la mostra che invita a scoprire un aspetto inedito del cantautore americano, qui nel ruolo – assunto con il mix di lucidità e lirismo che gli è proprio – di disegnatore, pittore e scultore. Icona trasversale della cultura contemporanea, Dylan è un narratore dei nostri tempi, capace di comunicare in modo comprensibile a tutti, con quel linguaggio transgenerazionale che gli è valso il Nobel per la letteratura nel 2016, e prima ancora l’aura di artista leggendario. Retrospectrum, il progetto espositivo curato da Shai Batel che si visita al MAXXI

fino al 30 aprile, non fa che confermarlo, svelando però il Bob Dylan affascinato dalle arti visive, in quanto prolifico strumento di creatività per rielaborare osservazioni, spunti, riflessioni appuntati con costanza durante i suoi viaggi.

L’AMERICA DI BOB DYLAN

Nel campo visivo – dell’artista che osserva per cogliere la verità del quotidiano, e dello spettatore che sta davanti alle sue opere – c’è innanzitutto l’America, che cattura l’attenzione del musicista sin dalle prime trasferte, cominciando dal tragitto che dal Minnesota conduce a New York, quando negli Anni Sessanta, agli albori della sua carriera, Dylan si allontana dalla cittadina di Duluth per approdare al Cafe Wha?, nel Greenwich Village. Il ricordo di motel e tavole calde incontrati nel bel mezzo del nulla, luna park abbandonati, strade che tagliano deserti e skyline maestosi, che immortalano invece l’energia respirata nella grande città, restituisce un ritratto complesso del paesaggio

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fino al 30 aprile 2023 BOB DYLAN. RETROSPECTRUM a cura di Shai Baitel Catalogo Skira MAXXI via Guido Reni 4 A – Roma maxxi.art Bob Dylan, Marlboro Man, 2021, acrilico su tela

5 COPERTINE A REGOLA D’ARTE

1971

LA

LUNGA LIAISON TRA MUSICA E ARTE

La storia del rapporto che lega la musica alle arti figurative – tra effigi di Santa Cecilia, simulacri della musa Euterpe, strumenti musicali che sono vere opere d’arte, melodrammi che hanno per protagonisti pittori e scultori e ritratti che ci restituiscono le fattezze di musici e compositori – è una storia sterminata. In questo breve spazio non è possibile isolarne che un paio di momenti, che vorrebbero essere rappresentativi di quanto tale rapporto sia multiforme.

A Firenze, nel portico della chiesa di Santa Felicita, quella famosa per l’inarrivabile Deposizione di Pontormo, proprio al di sotto della porzione di Corridoio Vasariano che intercetta il tempio, si eleva il monumento funebre di Arcangela Paladini, che morì a 26 anni nel 1622. Nella sua breve vita la donna fu artista poliedrica: divenne nota soprattutto come cantante, ma fu abile anche come ricamatrice e pittrice. E in effetti doveva trattarsi di un’artista di valore, come attesta l’unica sua opera pervenutaci, un autoritratto agli Uffizi che colpisce per la grande forza, per la consapevolezza di sé che emana dallo sguardo penetrante della ragazza. Con enfasi barocca l’epitaffio ci dice quanto fu valente, e si chiude con l’invito a cospargere di rose il suo sepolcro (“SPARGE ROSIS LAPIDEM, COELESTI INNOXIA CANTU / TUSCA IACET SIREN, ITALA MUSA IACET”: “spargi di rose la lapide, innocente con il suo canto celeste giace la sirena toscana, giace la musa italica”). Ai lati del sarcofago, su cui si eleva il bel busto della defunta, siedono le raffigurazioni della Pittura e della Musica, entrambe sconsolate per la perdita precoce di una artefice che prometteva molto in entrambi i campi. Commovente è il fatto che capita spesso di trovare

sulla tomba un mazzo di rose rosse, lasciato da qualcuno che raccoglie pietosamente l’esortazione lanciata nell’epigrafe sepolcrale.

Lasciamo la Firenze d’inizio Seicento per venire a tempi a noi assai più vicini, anche se quello di cui si sta per parlare ha già un sapore di antico, vista la rapidissima evoluzione del modo in cui ci si “ciba” di musica, in direzione di una fruizione sempre più slegata da supporti materiali. L’incontro di grandi opere d’arte e grafici di prim’ordine ha dato vita a bellissime copertine di vinili e cd. Pensiamo ad esempio ad alcune mitiche collane di musica antica e barocca, come Galleria della Archiv Produktion, Das Alte Werk della Teldec, Florilegium de L’Oiseau-Lire. Ma anche la musica cosiddetta leggera ha attinto a piene mani dalle arti per le copertine dei propri supporti: arte contemporanea, talvolta nata con questa destinazione (l’esempio più celebre è naturalmente la banana di Andy Warhol per i Velvet Underground), ma anche arte del passato. Sulla copertina di uno degli album che hanno fatto la storia del rock, Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins (1995), spunta fuori da una stella la Santa Caterina di Raffaello (Londra, National Gallery), riveduta e corretta. O meglio, sul corpo della santa raffaellesca è innestato il volto della fanciulla protagonista di un altro dipinto londinese, di quasi tre secoli successivo, “Il ricordo” di Jean-Baptiste Greuze. Un incrocio che a leggerlo così potrebbe sembrare avventato, e che invece funziona, a dare un’espressione indimenticabile alla “tristezza infinita” celebrata nell’album.

americano, ma anche dei gesti e delle abitudini di chi lo abita. E c’è spazio per la Route 61, la Blues Highway che dal Minnesota, scendendo verso sud, porta a New Orleans, città natale del jazz, che per Dylan sarà profonda fonte di ispirazione. Alla città della Louisiana, non a caso, è dedicata una delle otto sezioni tematiche che scandiscono la visita tra le sale della Galleria 5 del museo romano.

BOB DYLAN E LE ARTI VISIVE

Sono oltre cento le opere esposte, tra dipinti, acquerelli, disegni a inchiostro e grafite, sculture in metallo, video. Gran parte della produzione è riconducibile a un arco temporale che dall’inizio degli Anni Duemila conduce a oggi: a 81 anni, Bob Dylan non ha smesso di esercitare la propria creatività con l’obiettivo di continuare a lavorare sulla lettura della realtà, e con l’approccio di un “uomo del Rinascimento” – prendendo in prestito le parole del curatore Batel – per la capacità di esprimersi in modo versatile, sempre chiaro e comprensibile, come le opere in mostra certificano. E meticoloso è

l’esercizio, inteso come costante predisposizione all’osservazione e all’ascolto, con cui Dylan si confronta con la pratica artistica, dettata dall’urgenza di mettere l’accento su ciò che merita di essere raccontato, e può trovarsi ovunque. L’ispirazione, oltre che da fonti letterarie e artistiche piuttosto manifeste quali Hemingway e Hopper, arriva dal contesto familiare – come per le sculture in ferro raccolte nella sezione Ironworks, legate al ricordo dell’infanzia vissuta nella zona mineraria del Nord del Minnesota, da luoghi e incontri – come per la serie di schizzi realizzati durante le tournée in America, Europa e Asia tra ’89 e ’92, poi tradotti in dipinti ed esposti nella sezione The Drawn Blank, da copertine iconiche di celebri riviste (con il progetto Revisionist), da film cult che ispirano il lavoro condotto durante la pandemia (la sezione si intitola Deep Focus, dall’omonima tecnica cinematografica).

BOB DYLAN TRA PAROLE E IMMAGINI

Il linguaggio elaborato è efficace specialmente quando Dylan lavora sulla connessione tra parole e immagini, come illustra il “capitolo” Mondo Scripto, che raccoglie alcuni testi di celebri canzoni dell’autore, da lui personalmente trascritti e associati a disegni a grafite, che riassumono visivamente il messaggio. Del resto, già nel ’65, Bob Dylan presentava al mondo il primo video musicale della storia –Subterranean Homesick Blues –, mostrandosi intento a far cadere una serie di fogli – sfogliati uno dopo l’altro assecondando l’andamento della musica – su cui la sera precedente un gruppo di amici aveva trascritto il testo della canzone. Nel 2018, Dylan ha riscritto il testo su 64 cartelli, che insieme al video sono presenti in mostra, ed entreranno a far parte della collezione permanente del MAXXI, per concessione dell’artista.

67 #32 BOB DYLAN / ROMA
Andy Warhol per Sticky Fingers (The Rolling Stones) 1980 Raymond Pettibon  per Jealous Again (Black Flag) 1983 Keith Haring per Without you (David Bowie) 2007 Shepard Fairey per Zeitgeist (Smashing Pumpkins) 2011 Damien Hirst per I’m With You (Red Hot Chili Peppers)

Giovanni Fattori, pittore umanista

Niccolò Lucarelli

il bolognese Palazzo Fava a ospitare Fattori. L’umanità tradotta in pittura, mostra non soltanto celebrativa ma soprattutto di ricerca sulla figura del capostipite del movimento della macchia, attraverso settanta opere custodite perlopiù in collezioni private e l’eccezionale prestito de L’appello dopo la campagna del 1866. L’accampamento, proveniente dal Palazzo della Consulta di Roma, qui esposto per la prima volta al pubblico.

Attraverso sette sezioni tematiche, la mostra documenta l’evoluzione di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) come artista e come uomo, con il suo talento e la sua sensibilità. Da ogni opera traspaiono il grande rispetto e l’umiltà di Fattori davanti a tutto quello che la realtà offriva al suo sguardo, dagli animali al paesaggio e alla figura umana, dai borghesi ai contadini: nel ritrarre l’individuo lasciava sempre emergere una profonda analisi psicologica, evidente nella complessità degli sguardi e delle espressioni facciali.

FATTORI E IL PAESAGGIO

“Credo che l’artista bisogna lasciarlo libero nelle sue manifestazioni di produrre le bellezze della natura come le sente e come le vede”. Un’affermazione coerentemente trasposta sulla tela, attraverso la struggente resa dei paesaggi maremmani e della costa livornese, scorci di una Toscana eterna e sempre

nuova, intima e sconosciuta insieme. Paesaggi nei quali ci si può perdere con la mente, ma che riescono a entrare nel cuore dell’osservatore attraverso i loro silenzi, i cieli tersi, il mare sullo sfondo oppure intuito nelle vicinanze; situazioni psicologiche prima ancora che visive, magistralmente rese percettibili da Fattori grazie a colori vivi ma delicati. Mondi agresti che

fino al 1° maggio 2023 FATTORI. L’UMANITÀ TRADOTTA IN PITTURA

a cura di Claudia Fulgheri, Elisabetta Matteucci e Francesca Panconi Catalogo Skira

PALAZZO FAVA

Via Manzoni 2 – Bologna genusbononiae.it

vedono le quotidiane fatiche di butteri, pescatori, contadini, sferzati dal vento e dalla pioggia o arsi dal sole, eppure vicini a quella terra, a quel mare, a quelle piante, a quegli animali di cui sembrano conoscere ogni storia e con cui vivono in poetica simbiosi. Al punto che, osservando i buoi di Fattori, salgono alla mente i versi di Giosuè Carducci dedicati all’umile quadrupede compagno di tante fatiche di quelle persone umili forse nell’aspetto, ma profonde per la sapienza antica che le contraddistingue.

IL MONDO MILITARE

Lo sguardo di Fattori sui campi di battaglia, le divise, i cannoni, le bandiere non è mosso da nazionalismo o bellicismo, non ritrae ideali o retorici concetti: nel fragore delle armi si battono gli uomini, e questi soldati sono prima di tutto giovani italiani (o francesi o austriaci), mandati a morire. Della guerra Fattori traspone sulla tela il lato più tragico, prova pietà per i caduti, siano essi soldati o cavalli; la precarietà degli esseri viventi al fronte la si respira sempre, anche nei momenti di riposo. Ma Fattori va oltre il rispetto per la vita, umana o animale che sia: come è vicino a butteri, pescatori e contadini, Fattori è adesso vicino agli ultimi nel mondo della guerra, ovvero ai caduti e agli sconfitti. I soldati, insieme ai pescatori, ai contadini, sono parte integrante di un’Italia che si sta formando; e Fattori è l’artista che racconta quell’Italia del dopo Unità, senza retorica ma concentrandosi sui suoi abitanti e sul suo paesaggio.

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GIOVANNI FATTORI/BOLOGNA
Giovanni Fattori, Soldati francesi del ‘59, 1859, Milano, collezione privata
È

ARTE E PAESAGGIO

ASTE E MERCATO

Seguire la linea che collega gli orti botanici in Europa è un curioso intrecciarsi di viaggi, spedizioni, scoperte di nuove terre, scambi di semi e di colture. Gli orti botanici risalgono in prevalenza alla scoperta delle Americhe, che sancì l’introduzione di specie vegetali sconosciute e stimolò la ricerca e la coltivazione. Negli anni la parte scientifica di questi luoghi lascia il posto ad aspetti collegati al commercio delle piante e al piacere estetico legato alla bellezza dei giardini.

IL JARDIN EXOTIQUE

Ne è un esempio l’orto botanico del Principato di Monaco, chiamato Jardin Exotique e collocato su un’altura da cui si gode un panorama mozzafiato con una veduta sull’intera baia.

Incluso tra i 100 giardini più belli del mondo, si presenta come un’oasi insolita ed esuberante, con migliaia di specie botaniche differenti. Negli oltre quindicimila metri quadrati del Jardin Exotique di Monaco sono ospitati cactus e succulente dalle forme più svariate, con foglie e fusti ipertrofici. Queste specie giganti offrono fioriture spettacolari: nei mesi invernali (gennaio/marzo) fioriscono le piante di origine sudafricana tipo le varietà di Aloe e di Crassula; nei mesi estivi (da maggio a settembre) i cactus provenienti dalle Americhe. Visitare quest’oasi verde significa non solo conoscere piante esotiche, minuziosamente documentate con cartellini esplicativi, ma anche potere passeggiare tra fiori, laghetti e opere d’arte distribuite lungo i vari percorsi. Particolarità del luogo è la suggestiva Grotta dell’osservatorio, un’antica via preistorica che dall’alto della scogliera scende fino al mare, disseminata di caverne con stalattiti, stalagmiti e colonne di roccia calcarea.

I GIARDINI DA VEDERE A MONACO

Circondato da palazzi e ville, il Principato ha una vera e propria politica di sviluppo delle aree verdi urbane. Di fatto si colloca al secondo posto in Europa dopo Vienna, coi suoi 250mila metri quadrati di sviluppo paesaggistico. Tra gli altri giardini da visitare c’è il Giardino giapponese: creato dall’architetto Yasuo Beppu (premio all’esposizione floreale di Osaka del 1990), è progettato nel rispetto dei canoni della filosofia zen, con piante topiate, piccoli corsi d’acqua, pietre, ponti, lanterne e laghetti. Il roseto della Principessa Grace raccoglie invece oltre 300 varietà di rose, ed è collocato all’interno del più ampio Parco di Fontvieille.

I Giardini Saint Martin, primo giardino pubblico aperto agli inizi dell’Ottocento, sono molto frequentati dai cittadini e dalle famiglie della città. Anche la maggiore parte dei musei del Principato sono attorniati da ampi e curati giardini, come Villa Sauber e Villa Paloma, sedi del Nuovo Museo Nazionale di Monaco, i cui giardini accolgono opere di artisti come Jeppe Hein, Christodoulos Panayiotou, Claire Fontaine.

PRINCIPATO DI MONACO I GIARDINI BOTANICI

È il lotto più costoso aggiudicato in asta in tutto il 2022. Allo stesso tempo è il ritratto più iconico della più iconica delle stelle dell’età moderna, Marilyn Monroe. La Shot Sage Blue Marilyn di Andy Warhol del 1964 è stata acquisita a maggio nella sessione dedicata da Christie’s alla collezione di Thomas e Doris Ammann a New York per oltre 195 milioni di dollari. A conquistarla il mega-dealer Larry Gagosian. Sfuggita al colpo di pistola sparato dalla performer Dorothy Podber, l’opera è diventata la più costosa del XX secolo mai aggiudicata in asta (superando Les Femmes d’Alger Versione “O” di Picasso). Mentre al MA*GA di Gallarate la retrospettiva Andy Warhol. Serial Identity (fino al 18 giugno) offre la possibilità di riscoprire più di 200 opere del papà della Pop Art, che ha cambiato il nostro rapporto con le immagini.

REFIK ANADOL AL MOMA

Jardin Exotique, Principato di Monaco. Photo Claudia Zanfi

Una relazione centrale, quella con le immagini, anche nel lavoro del più giovane Refik Anadol (1985), aggiornata alla luce delle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. In occasione della mostra Refik Anadol. Unsupervised, al MoMA di New York fino al 5 marzo, l’artista di origini turche – miglior artista internazionale 2022 secondo la redazione di Artribune – reinterpreta la collezione del museo attraverso la nuova estetica generata dalle macchine, in grado di trasformare dati aggregati in lavori immersivi e affascinanti. Nella Grande Mela lo scorso maggio, alla 21st Century Evening Sale di Christie’s, la sua opera Living Architecture: Casa Batlló, omaggio all’eredità del celebre architetto in forma di NFT, è stata aggiudicata per quasi 1,4 milioni di dollari. Riconoscendo la capacità dell’artista di riposizionare l’ente macchina e l’AI in un universo di fantasia e visionarietà e di illuminare aspetti inediti del processo stesso di creazione artistica, “per connettere ricordi e futuro e rendere visibile l’invisibile”, come lui stesso afferma.

GLI OMAGGI A PAULA REGO

Il mercato dell’arte sancisce dunque le icone dell’arte, così come l’immaginario che da quelle è alimentato. Immagini in grado di attraversare indenni il passaggio del tempo e di diventare eredità condivisa. Di inchiodare anche lo sguardo dello spettatore. Come ha fatto con le sue opere Paula Rego, l’artista portoghese scomparsa nel 2022, che per decenni ci ha messi di fronte a un’ostica rappresentazione dello spettro del potere e dei suoi condizionamenti nella sfera sociale, sessuale, emotiva. Raccontando l’oppressione dell’umano e del femminile in particolare e trovando, finalmente, la giusta celebrazione all’ultima Biennale di Venezia e in numerose altre sedi istituzionali tra 2022 e 2023 (Tate Britain, Kunstmuseum Den Haag, Pera Museum di Istanbul). In attesa che, dopo il record d’asta del 2015 di 1,8 milioni di dollari, anche il mercato si faccia sedurre dalla fascinosa teatralità con cui le sue opere hanno messo in scena il reale e le sue deformazioni.

CHRISTIE’S REFIK ANADOL

Refik Anadol, Living Architecture: Casa Batlló, 2022. Courtesy Christie's Images Ltd. (dettaglio)

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Claudia Zanfi
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