Grandi Mostre #22

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LIGABUE / PARMA • DE CHIRICO / PARIGI • MARMI TORLONIA / ROMA

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IN APERTURA / LIGABUE / PARMA

Antonio Ligabue e la voce della natura Marta Santacatterina n artista amatissimo, alla cui fama hanno senz’altro contribuito da un lato una vita tormentata e dolorosa, dall’altro interpretazioni cinematografiche memorabili, l’ultima delle quali ha visto come protagonista Elio Germano, diretto da Giorgio Diritti in Volevo nascondermi. Stiamo parlando di Antonio Ligabue e chi ama il cinema ricorderà pure il precedente capolavoro (correva l’anno 1977) di Salvatore Nocita, su sceneggiatura di Cesare Zavattini e con Flavio Bucci che, commuovendo ed emozionando, impersonò il pittore svizzero che trascorse per gran parte della sua vita a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. Un pittore a lungo tenuto ai margini e considerato marginale: prima dalla comunità rurale di cui fece parte, che lo considerava un “matto”, poi dalla critica d’arte, che lo incasellò nella categoria degli artisti naïf. A rileggere la vita e l’opera di Ligabue, sfatando critiche e narrazioni superficiali, ha contribuito la Fondazione guidata da Augusto Agosta Tota il quale, da ragazzino, conobbe personalmente “Toni” Ligabue: da allora ha promosso numerose esposizioni e iniziative a livello internazionale, volte a valorizzarne un’arte oggi definita espressionista.

U

LA MOSTRA A PARMA

La lunga premessa è funzionale a presentare la mostra, ospite del Palazzo Tarasconi di Parma, su Antonio Ligabue, cui fa da controcanto contemporaneo la ricerca dello scultore Michele Vitaloni. Il minimo comun denominatore tra i due artisti è esplicitato dal sottotitolo: Dare voce alla natura, quella natura con cui il pittore ebbe un rapporto profondo, viscerale, testimoniato dalle opere coloratissime e potenti, che paiono quasi gridare. Proprio come faceva Ligabue che, dipingendo o modellando nella creta gli animali selvaggi o quelli che popolavano le aie e le stalle di Gualtieri, si immedesimava a tal punto da ruggire, ululare, ringhiare, imitandone la gestualità. Non stupisce che all’epoca lo si considerasse un folle, anche a causa di altri atteggiamenti bizzarri, come il percuotersi la tempia con una pietra, fino a sanguinare, per liberarsi dai “cattivi umori” (in molti autoritratti si può notare la ferita). Ligabue si salvò dal manicomio, che pur lo ospitò più volte, grazie all’intercessione dell’amico artista Antonio Mozzali, nonché al suo talento artistico, riconosciuto da Marino Mazzacurati che lo accolse nel suo atelier e gli offrì una buona formazione artistica.

LA PITTURA DI LIGABUE

Tra le ben ottantatré opere di Ligabue esposte a Parma, dai primi lavori “sgrammaticati” e un po’ ingenui alle opere mature, con il loro linguaggio ben definito, rivestono un ruolo primario i suoi adorati animali. Oltre alle celebri bestie feroci, tra i soggetti ricorrenti – simbolici di una archetipica lotta per la sopravvivenza – vi sono i galli in combattimento, e poi mucche, cani, cavalli, talvolta calati in paesaggi che nulla hanno a che fare con la Pianura Padana: in queste opere riemerge lo skyline della Svizzera, dove il pittore visse una difficile infanzia. La mostra non trascura i ritratti “umani” realizzati da Ligabue, e ancor più sorprendenti

fino al 30 maggio

LIGABUE E VITALONI. Dare voce alla natura PALAZZO TARASCONI Strada Farini 37 – Parma a cura di Augusto Agosta Tota, Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi 0521 242703 fondazionearchivioligabue.it

in alto: © Maurizio Ceccato per Grandi Mostre a destra: Antonio Ligabue, Vedova nera, 1951

sono gli autoritratti: lo sguardo magnetico, le giacchette lise, le rughe che solcano il viso e talvolta la barba incolta, persino una mosca gigante e sproporzionata che si appoggia sulla fronte. Un dettaglio, come spiega un raffinato studioso dell’artista, Marzio Dall’Acqua, che veniva aggiunto da Ligabue quando una mosca si appoggiava al quadro che stava dipingendo.

IL DIALOGO CON VITALONI

Accanto ai dipinti fanno capolino alcune fusioni in bronzo di Ligabue, ma la mostra ha una doppia anima, rappresentata dalle creazioni di Michele Vitaloni, esponente della Wildlife Art nato due anni dopo la morte di “Toni”, e che condivide con lui un senso del naturale potente e irrinunciabile. Vitaloni trascorre lunghi periodi della sua vita in Africa e dagli animali che incontra trae ispirazione per sculture iperrealistiche sorprendenti – in mostra c’è addirittura un rinoceronte a grandezza naturale! –, persino inquietanti nel loro eccesso di “verità”. L’inedito accostamento è valorizzato dall’allestimento di Cesare Inzerillo, artista e scenografo palermitano che si è confrontato con l’ultimo protagonista di questa mostra: l’edificio che la ospita. Il secentesco Palazzo Tarasconi, il cui restauro filologico in fase di completamento ha riportato alle origini gli ambienti antichi e le decorazioni, tra cui molti affreschi. I suggestivi spazi interrati delle cantine sono quindi diventati un nuovo, eccezionale luogo espositivo, ulteriore fattore che senza dubbio attirerà l’interesse e la curiosità dei visitatori.


IN APERTURA / LIGABUE / PARMA

1899 Nasce a Zurigo

Entra in un collegio per ragazzi problematici, dove spicca per l’abilità nel disegno

Dipinge, scolpisce con l’argilla e incontra lo scultore Marino Mazzacurati

1913

1927-1928

Viene ricoverato nella clinica psichiatrica di Pfäfers 1917

1919 Espulso dalla Svizzera, arriva in Italia, a Reggio Emilia, quindi a Gualtieri

1937 È internato per la prima volta nell’ospedale psichiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia e poi dimesso

1965 Muore al ricovero Carri di Gualtieri 1962 È colpito da paresi

1948 La sua fama si diffonde tra critici e galleristi

1961 Una sua mostra è allestita a Roma

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PAROLA AD AUGUSTO AGOSTA TOTA Presidente della Fondazione Archivio Antonio Ligabue Quando si è cominciato a pensare a questa mostra? Un anno fa, quando ho conosciuto il proprietario di Palazzo Tarasconi, Corrado Galloni, un giovane imprenditore che, dopo aver acquistato lo stabile, ha intrapreso un lungo lavoro di restauro. Ha consentito che io e Vittorio Sgarbi visitassimo il cantiere e immediatamente ci siamo detti: “Sarebbe bello allestire qui una mostra su Ligabue”. Cosa vi ha convinti a scegliere questo palazzo e qual è stata la reazione del proprietario? Il palazzo è una sorpresa, sia per gli spazi incantevoli sia per gli affreschi che si sono conservati ai piani superiori. Alla proposta di

utilizzare le vastissime cantine per allestire la mostra, Galloni ha subito manifestato disponibilità e grande entusiasmo. Abbiamo intenzione di farle diventare una nuova sede per mostre ed eventi culturali in pieno centro a Parma. A chi è venuta l’idea di accostare Ligabue a Vitaloni? A me: già da tempo tenevo d’occhio i lavori, impressionanti, di Michele Vitaloni, artista che trovo abbia molte similitudini con il “nostro” Ligabue: le immagini sembrano scaturire dal di dentro di entrambi gli artisti, come se fosse un loro bisogno dipingere o scolpire gli animali. Credo che il binomio funzionerà, perché lavorano con lo stesso obiettivo: dare voce alla natura.


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OPINIONI

Quale allegria

L’anno di Dante: English-free year

Lorenzo Giusti direttore della GAMeC di Bergamo

Antonio Natali storico dell’arte

he non sia più il caso di fare finta che sia sempre un carnevale, come cantava Lucio Dalla in una delle sue canzoni più belle, ce ne siamo resi conto tutti ormai. Non occorre osservare il mondo da chissà quale distanza per capire che i problemi di oggi sono assoluti. Ho riflettuto prima di spendere questo termine. All’inizio avevo scritto “sistemici”, ma poi ho preferito peccare di approssimazione piuttosto che di inefficacia. Problemi assoluti richiedono sforzi supremi. E l’impegno che oggi ci viene richiesto non saprei come altro definirlo. Supremo significa superiore a qualsiasi altro. Ecosistemi al collasso, epidemie, carestie che bussano alle porte anche dei popoli meno abituati al sacrificio.

affaello è stato meno fortunato di Leonardo. Nel 2019 le celebrazioni per il quinto centenario della morte del Vinci non sono state turbate da un morbo aggressivo, com’è invece toccato nel 2020 alle rievocazioni per la stessa ricorrenza di Raffaello, stravolte dall’isolamento forzato. Il 2020 quasi volge al termine, ma le nubi ancora campeggiano, minacciose, nei nostri cieli, facendo temere un autunno tormentato e incertezze nuove. E intanto spunta il terzo centenario ineludibile per la cultura italiana: nel 2021 saranno sette secoli dalla morte di Dante e l’inquietudine alligna fra coloro che a giusta ragione vogliono celebrarlo, ma paventano un nuovo confinamento collettivo. Per serbare di lui memoria devota e grata c’è tuttavia un modo che non implica rischi economici e che avrebbe, per converso, effetti benefici sull’educazione dei giovani. Un modo che in questi tempi di conformismo intellettuale e di provincialismo camuffato farà storcere la bocca ai più. Parlo d’un “voto”. Un voto di quelli che si fanno alla Madonna e ai santi: nell’anno di Dante impegniamoci tutti a non ricorrere a quei lemmi inglesi che infarciscono i nostri discorsi.

C

BERGAMO, LA PANDEMIA, IL CAMBIAMENTO

La città dove vivo è stata per mesi il centro della pandemia globale. Oggi possiamo parlare al passato perché nel frattempo altri centri nel mondo hanno preso il posto di Bergamo. Ma ci sono stati giorni in cui davanti avevamo il buio. E in quei giorni ci siamo promessi l’un l’altro che se l’emergenza fosse passata non saremmo tornati a fare ciò che facevamo prima, come lo facevamo prima, ma ci saremmo impegnati seriamente per cambiare le cose. Oggi che siamo al cospetto di quella promessa ci tremano le gambe. E il sorriso ci è venuto meno. Perché l’idea del cambiamento – un cambiamento radicale – può essere un enorme freno prima ancora che una leva. Non si sa da che parte iniziare, ci si sente sopraffatti e non si riesce a muovere un passo. Psicologia spicciola, facilmente appurabile.

CANTARE NELLE DIFFICOLTÀ

Ad agosto ho trascorso due settimane in un paesino dell’Appenino toscano, dove la mia famiglia ha una casa e dove non c’è molto altro da fare a parte leggere e camminare. Il luogo ideale per riflettere. Ma non vi dico il supplizio,

l’ansia che mi ha procurato il pensiero della parola data. Poi un ricordo mi è venuto in soccorso: l’immagine degli alpini e degli artigiani bergamaschi che intonano i cori della curva dell’Atalanta mentre in sette giorni tirano su l’ospedale da campo. La gente come noi non molla mai, cantavano. Ho ripensato a quando, da ragazzo, qualcuno ha provato a spiegarmi che bisogna sempre cantare nelle difficoltà. E che ogni percorso, anche il più impervio, inizia sempre con un primo passo.

Cantavano i partigiani nei boschi attorno ai paesi rastrellati. Se hanno cantato loro possiamo farlo anche noi Cantavano i soldati nelle trincee dell’altopiano e le mondine nelle risaie. Cantavano i marinai nei lunghi viaggi lontano da casa e gli schiavi neri nei campi di cotone. Cantavano i partigiani nei boschi attorno ai paesi rastrellati e gli operai nelle fabbriche occupate. Se hanno cantato loro possiamo farlo anche noi.

UN PASSO ALLA VOLTA

In una delle ultime puntate di Radio GAMeC, Ragnar Kjartansson ha imbracciato la chitarra e ha improvvisato il Cielo in una stanza di Gino Paoli. È stato un momento magico. La Fondazione Trussardi ha annunciato che dal 22 settembre potremo ascoltare ogni giorno quella canzone nella Chiesa di San Carlo al Lazzaretto a Milano – dove i Cappuccini davano conforto agli appestati –, interpretata da diversi cantanti, come in un accompagnamento infinito. Mi sembra un progetto bellissimo. Per gli uomini liberi e capaci di avventure la difficoltà del cambiamento è un passaggio che matura la conquista di obiettivi più grandi. Mal di poco allora se dovremo cambiare tutto. Lo faremo cantando e un passo alla volta avanzeremo.

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Nell’anno di Dante impegniamoci tutti a non ricorrere a quei lemmi inglesi che infarciscono i nostri discorsi TORNARE ALLA LINGUA ITALIANA

Lemmi cavati dal vocabolario inglese con la convinzione stupida che, al pari di gemme preziose, nobilitino i concetti esibiti e ne mascherino la vacuità. Parole desunte da una lingua ch’è indispensabile per il dialogo fra genti diverse. Parole però che sovente vanno a sostituire quelle nostrali; anche quando quest’ultime

sarebbero incomparabilmente più pertinenti e belle. Non si capisce perché si voglia imbastardire l’eloquio dolce e al contempo vibrante delle nostre terre con l’inserzione sempre più frequente e spesso incongrua del gergo inglese. Almeno nell’anno dedicato a Dante (che la lingua italiana ha reso sacra) si potrebbero santiddio evitare gli ammiccamenti anglofoni e le scorciatoie linguistiche anglosassoni; che sono alla fine espedienti volgari per nascondere la pigrizia di chi neppure più si sforza di cercare il vocabolo italiano appropriato. E intanto la nostra lingua impercettibilmente declina, pervasa dai troppi lockdown, smartworking (in voga al momento), mission, step, startup, target, brand, trendy, abstract, all inclusive, fake news, e giù per la scesa fino alla fatidica location.

IL PARADOSSO DELLA LOCATION

A proposito: una volta un regista italiano venne agli Uffizi per chiedermi d’utilizzare la Galleria come location. La parola risuonò nelle mie orecchie come una schioppettata. Visto ch’era un regista lo invitai a girare di nuovo la scena: lo pregai d’uscire dalla stanza e di rientrarvi riformulando la stessa domanda nella nostra comune lingua. S’era soltanto all’inizio. A distanza di anni temo che location sia l’unico vocabolo che oggi noi italiani si comprenda al volo quando si ragioni d’ambienti, di luoghi, di spazi. A questi pensieri non è sottesa un’aspirazione autarchica, bensì il desiderio d’avvalorare, soprattutto nei giovani, la consapevolezza della nobiltà d’una lingua (la nostra) universalmente riconosciuta come una delle più liriche. Dante si merita un po’ di rispetto. Perlomeno nel 2021.


OPINIONI

Il dilemma dei servizi aggiuntivi

Un’epidemia di immagini

Stefano Monti economista della cultura

Fabrizio Federici storico dell'arte

ecentemente il Consiglio di Stato ha emanato alcune sentenze che riguardano da vicino il settore museale e, più nel dettaglio, il settore dei servizi cosiddetti aggiuntivi, come introdotti nella loro forma iniziale dalla ormai celebre Legge Ronchey nel 1993. Tali sentenze, il cui perno centrale è la sostanziale differenza tra servizi aggiuntivi (servizi di assistenza culturale e di ospitalità attivati presso i luoghi e gli istituti di cultura) e servizi complementari (come quelli di biglietteria, vigilanza e pulizia), possono rappresentare un segnale prodromico di un nuovo assetto organizzativo del mercato. Non è escluso, infatti, che, a fronte di tali sentenze, il Ministero possa adottare una politica di tipo più interventistico, modificando in modo considerevole il settore.

è da scommettere che una delle principali sfide in cui si cimenterà l’arte pubblica negli anni a venire sarà la commemorazione della pandemia che sta sconvolgendo il mondo nel 2020. Monumenti in ricordo delle vittime, monumenti agli “eroi”. Il monumento, a dire il vero, non gode di buona salute, e non da adesso (ci rifletteva su già nel 2010 la purtroppo ultima Biennale di Scultura di Carrara, dal titolo eloquente di Post monument). Le vicende legate al movimento Black Lives Matter hanno dato un’ultima spallata a cippi e statue. È vero che in questo caso non si ha a che fare con mercanti di schiavi e giornalisti con spose bambine. Il tema è condiviso, e tuttavia il modo di affrontarlo in un’eventuale monumentalizzazione può sollevare polemiche: ricordare semplicemente le vittime o evidenziare le mancanze perché certe cose non si ripetano? Disastro naturale e inevitabile o ribellione del pianeta all’uomo? Come si può, da un lato, celebrare l’eroismo del personale medico e, dall’altro, non sostenere la sanità con politiche e fondi adeguati?

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IL MERCATO DELLE MOSTRE

Le possibili conseguenze sono molteplici e gli elementi informativi ancora troppo pochi per poter fornire stime credibili basate sui fatti. Gli scenari sono tra i più vasti: dall’ingresso di un nuovo soggetto economico, di natura pubblica o in ogni caso riconducibile al settore pubblico, per la gestione di taluni servizi, a un maggior livello di liberalizzazione del mercato, con il moltiplicarsi di soggetti privati che però dovrebbero concorrere con i colossi del settore. Una tale modifica del mercato potrebbe portare a un rinvigorito interesse da parte degli attuali operatori principali verso il mercato delle mostre. Nel caso in cui le dimensioni del mercato dovessero ridursi, gli attuali operatori si troverebbero a dover individuare nuovi mercati di riferimento, al fine di garantire il volume di fatturato necessario per le loro dimensioni imprenditoriali, che dal 1993 a oggi sono notevolmente cresciute. Tali operatori, già attivi nel settore mostre, andrebbero a incrementare la propria presenza in questo mercato. Senza dubbio si potrebbero generare anche difficoltà: in fondo, i servizi aggiuntivi sono

stati creati per garantire ai visitatori un livello di fruibilità maggiore rispetto a quanto potessero fare i soli soggetti pubblici.

OPPORTUNITÀ E SERVIZI

A fronte di tali criticità, tuttavia, non mancherebbero spiragli di opportunità: sotto il profilo strategico, la modifica degli equilibri potrebbe comportare nuove alleanze tra soggetti che fino a ieri si trovavano in condizioni di concorrenza. Soprattutto, potrebbe essere l’opportunità di andare a “completare” il mercato: ragionando con una stretta logica market-oriented, per poter raggiungere flussi di visitatori idonei a rendere la produzione di mostre sostenibile nel tempo sarebbe necessario iniziare a declinare il “prodotto mostra” in differenti dimensioni, considerando non solo la “grande mostra”, che continuerebbe a esistere, ma anche la circuitazione di “mini-mostre” pure nei cosiddetti musei minori, che potrebbero rappresentare quella coda lunga del mercato raramente considerata in questo settore.

Non solo “grandi mostre”, ma anche “mini-mostre” nei cosiddetti musei minori SETTORE PUBBLICO E CULTURA

Questo tipo di impostazione potrebbe, a sua volta, attivare molteplici e prolifici effetti, sia in termini di flusso di cassa per gli operatori, sia in termini di partecipazione culturale. È chiaro, dunque, che qualsivoglia modifica apportata al settore da parte del legislatore debba avvenire secondo un preciso disegno di politica economica. Non sono ammessi errori.

C'

VIRUS E MONUMENTI

Se, dunque, di monumenti tradizionali se ne faranno ancora (già mi immagino la spugnosa sfera del virus che, gigantesca e bronzea, riluce al centro di una rotonda, nel traffico che non si arresta), più spesso si occuperanno lo spazio pubblico e la percezione dei cittadini in maniera meno invasiva, attraverso video, performance, installazioni. Quanto al linguaggio che verrà adottato, possiamo dedurre, dalle immagini circolate nei mesi scorsi e dalle statue e dai memoriali che si stanno già progettando ed erigendo, che l’aspetto delle opere sarà in larga parte molto tradizionale e molto (troppo) comunicativo, con la figurazione a farla da padrona e l’infermiere e, soprattutto, l’infermiera come personaggio più ricorrente. Una scelta “di retroguardia” appare, per certi versi, inevitabile: da decenni il mondo non

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conosceva un fenomeno di tale portata universale, che riguarda tutti; e a tutti l’arte sembra volersi rivolgere, correndo il rischio di apparire scontata.

Oggi, più che nell’intervento divino, si confida nella ricerca scientifica DALLA RELIGIONE ALLA SCIENZA

Nel passato, invece, la costruzione di monumenti ed edifici legati a epidemie assumeva spesso vesti innovative: pensiamo alle rutilanti guglie note come “colonne della peste” che ancora si levano in numerose città dell’Europa centrale, o a capolavori architettonici nati per adempiere un voto, come i templi veneziani del Redentore e della Salute. Non si tratta però di monumenti intesi a ricordare un dramma e le sue vittime, quanto piuttosto di atti di ringraziamento alla divinità per aver posto fine alla tragedia. Oggi, più che nell’intervento divino, si confida nella ricerca scientifica e nell’osservanza di alcune regole di comportamento; e tuttavia la Chiesa ha dimostrato di non aver perso la sua capacità di dare vita a immagini potenti, come testimonia in particolare la preghiera che Papa Francesco ha rivolto a Dio, in una Piazza San Pietro deserta, sotto un cielo fosco, lo scorso 27 marzo.


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PERCORSI / 3 ITINERARI

3 itinerari di prossimità da Nord a Sud Santa Nastro OPERA Via Sant’Antonio da Padova 3 011 1950 7972 operatorino.it

fino al 31 gennaio CAPA IN COLOR SALE CHIABLESE MUSEI REALI DI TORINO Piazzetta Reale 1 museireali.beniculturali.it

TORINO

CUNEO

CAPPELLA DEL BAROLO La Morra (CN) Coordinate GPS 44°37’41.312”N 7°56’41.824”E ceretto.com PART – PALAZZI DELL’ARTE RIMINI Piazza Cavour 26 0541 793879 palazziarterimini.it

dal 28 novembre al 28 febbraio 2021 CALEIDOSCOPICA. IL MONDO ILLUSTRATO DI OLIMPIA ZAGNOLI CHIOSTRI DI SAN PIETRO Via Emilia San Pietro 44

Tutti conoscono il Robert Capa in bianco e nero, quello dei reportage di guerra e delle foto rubate alla vita. Pochi invece sanno che il grande fotografo di origine ungherese, nato nel 1913 e scomparso nel 1954, ha avviato nell’ultimo quindicennio della sua vita una ricca produzione a colori. A raccontarla per la prima volta in Italia è Capa in color, mostra curata dall’International Center of Photography di New York, con 150 scatti, nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino. Ritratti, storie di persone e la fusione tra colore e reportage: per scoprire un Capa inedito fino al 31 gennaio. Bisognerà spostarsi dalla città, ma questa destinazione è veramente da non perdere. Si tratta della famosa Cappella del Barolo, costruita nel 1914 per i vignaioli e mai consacrata. Dal 1970 è di proprietà della famiglia Ceretto che l’ha riqualificata e le ha restituito vita invitando gli artisti Sol LeWitt e David Tremlett nel 1999 a trasformarla in qualcosa di nuovo. Oggi la coloratissima cappella metafisica è meta di turisti e appassionati d’arte. E anche di amanti del vino che la riscoprono davanti a un buon calice di Barolo. RIMINI E REGGIO EMILIA

IL MUSEO

REGGIO EMILIA

MACRAMÈ Via Francesco Crispi 3 0522 580693 macrame.re

LA MOSTRA

IL LUOGO

LA MORRA

dal 17 ottobre al 10 gennaio TRUE FICTIONS. AI CONFINI DELLA REALTÀ PALAZZO MAGNANI Corso Garibaldi 31 0522 444446 palazzomagnani.it

TORINO

RIMINI

Siamo a Rimini e ad accoglierci c’è una grande collezione, in un museo appena nato. All’interno di Palazzo dell’Arengo e del Palazzo del Podestà vede la luce il nuovo PART – Palazzi dell’Arte Rimini, un progetto con governance mista, pubblico-privata. I visitatori potranno qui scoprire non solo le bellezze delle due sedi, ma anche la collezione legata alla Fondazione San Patrignano, da anni impegnata nel recupero di persone tossicodipendenti. “Abbiamo intrapreso la via della collezione di opere d’arte contemporanea come riserva patrimoniale e coinvolto artisti, galleristi e collezionisti che hanno creduto e credono nel progetto e che apprezzano il lavoro svolto dalla comunità. Le relazioni tra gli artisti stanno dando vita anche ad attività di collaborazione tra gli artisti stessi e i ragazzi e le ragazze di San Patrignano. Inoltre, in una prospettiva di comune condivisione e sensibilità, le opere affrontano i temi al cuore della comunità di San Patrignano: l’emarginazione, il disagio sociale, l’accoglienza, la rinascita”, ha commentato Letizia Moratti, co-fondatrice della Fondazione San Patrignano.


PERCORSI / 3 ITINERARI

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LA MOSTRA

Ci spostiamo a Reggio Emilia alla Fondazione Palazzo Magnani, che porta il nome del famoso collezionista e critico Luigi Magnani. E dal quale assume la vocazione di luogo votato alla cultura e alla sperimentazione nelle arti visive. Dal 2010 Fondazione con governance pubblico-privata e con in capo la gestione del festival Fotografia Europea, rimandato quest’anno al 2021, ospita in autunno due importanti appuntamenti: True Fictions. Ai confini della realtà, promossa dalla Fondazione a Palazzo Magnani a Reggio Emilia è curata da Walter Guadagnini, con opere da Jeff Wall a Cindy Sherman; e dal 28 novembre al 28 febbraio, negli spazi espositivi dei Chiostri di San Pietro, Caleidoscopica di Olimpia Zagnoli: dieci anni di carriera della illustratrice originaria di Reggio Emilia. NAPOLI

LA MOSTRA

Andiamo nel capoluogo campano per una mostra in uno dei musei più importanti e attivi dello Stivale. Siamo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ospite della mostra Gli Etruschi e il MANN, a cura del direttore Paolo Giulierini e di Valerio Nizzo. L’esposizione, che attraversa sei secoli offrendo al pubblico reperti e manufatti risalenti ai secoli X-IV, segna l’inizio di un nuovo corso al museo, inaugurando un progetto di allestimento durevole nel tempo. “Gli Etruschi al MANN”, spiega infatti Giulierini, “tornano per restare. Non solo con una mostra raffinata e dall’altissimo rigore scientifico, ma con l’annuncio dell’allestimento permanente che restituirà alla fruizione del pubblico un altro fondamentale pezzo della storia del nostro Museo, ‘casa’ dei tesori di Pompei ed Ercolano, così come custode di eredità molto più antiche”.

IL LUOGO

Il monumento per eccellenza di Napoli è la sua metropolitana, grazie al progetto le Stazioni dell’Arte ideato e coordinato da Achille Bonito Oliva. Tutti conoscono ormai gli interventi di Michelangelo Pistoletto, Mimmo Paladino e Joseph Kosuth. Negli scorsi anni le linee sotterranee della città si sono arricchite di nuovi interventi, con l’arrivo delle opere di Anish Kapoor a Monte Sant’Angelo e le opere site specific di Luciano Romano, Enzo Palumbo e Gian Maria Tosatti a PiscinolaScampia, nell’ambito del progetto di riqualificazione urbana Lo Scambiapassi.

Robert Capa, Capucine, modella e attrice francese al balcone, Roma, agosto 1951. © Robert Capa, International Center of Photography - Magnum Photos

SUD Ristorante Via Santi Pietro e Paolo 8 081 0202708 sudristorante.it

QUARTO

NAPOLI

fino al 31 maggio GLI ETRUSCHI E IL MANN MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI Piazza Museo 19 museoarcheologiconapoli.it

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OLTRECONFINE / DE CHIRICO / PARIGI

De Chirico, Parigi e la Metafisica Arianna Piccolo ulla Terra. Ci sono molti più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina al sole che in tutte le religioni passate, presenti e future”. Con queste poche parole, pronunciate nel 1911, Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) rintracciò il senso della sua pratica artistica, al centro della mostra a lui dedicata dal Musée de l’Orangerie di Parigi.

S

PAROLA ALLA DIRETTRICE CÉCILE DEBRAY

“L’artista italiano è stato sostenuto a Parigi dal 1913-14 da Guillaume Apollinaire e Paul Guillaume. Quest’ultimo, fondatore della collezione del Musée de l’Orangerie, fu il mercante dell’opera ‘metafisica’ di de Chirico. Tuttavia, nessuna opera vi figura più oggi, poiché i suoi dipinti sono stati venduti da Domenica Walter, la vedova del gallerista. È il grande assente che vogliamo mostrare nel momento della nuova presentazione delle collezioni. Abbiamo fatto appello a uno dei migliori intenditori del pittore, Paolo Baldacci, per la curatela della mostra accanto a Cécile Girardeau, conservatrice del Musée de l’Orangerie”, afferma Cécile Debray, direttrice del Musée de l’Orangerie. E sui rapporti intrattenuti in

Francia dal pittore italiano prosegue: “Il legame tra Apollinaire, che inventa la terminologia della ‘pittura metafisica’, e de Chirico è ben noto. Qui torniamo al primo soggiorno parigino, al suo incontro con il poeta che lo introduce presso il giovane mercante Paul Guillaume ma anche ai suoi amici artisti o scrittori come il giovane

Breton. De Chirico, alla fine della sua vita, ha in qualche modo rinnegato questo periodo che lo collegava all’avanguardia artistica. Ha riscritto molto questa storia. Cerchiamo di rimettere in evidenza la radicalità e l’inventiva di questo momento che Apollinaire incarna enormemente”.

fino al 14 dicembre

Il percorso espositivo si snoda in tre sezioni – “Monaco: La proto-metafisica”, “Parigi: La metafisica”, “Ferrara: La grande follia de mondo” – riunendo un totale di novantuno opere, di cui quarantotto dipinti e una serie di documenti tratti dall’Archivio dell’Arte metafisica, grazie ai quali si sono ricostruite le vicende e le influenze artistiche e filosofiche che hanno caratterizzato l’opera dell’artista. “I quadri di de Chirico sono enigmatici, se non ermetici, e così i loro titoli, e spesso si considera la sua opera come una creazione particolare, totalmente a parte. L’esposizione è volta a mostrare come la sua arte si inserisce in un contesto artistico preciso fatto di scambi, di influenze, che permette di meglio decifrare, di esplicitare il cammino del pittore: la sua concezione ciclica del tempo, il suo approccio poetico al reale e agli oggetti, l’influenza della Grande Guerra negli ultimi dipinti...”, conclude Debray.

GIORGIO DE CHIRICO La peinture métaphysique MUSÉE DE L’ORANGERIE Jardin de Tuileries – Parigi a cura di Paolo Baldacci e Cécile Girardeau Catalogo Coédition Musée d’Orsay/Hazan +33 (0)144778007 musee-orangerie.fr in alto: Giorgio de Chirico, Composition métaphysique, 1914, Collezione privata © Etro Collection/Manusardi SRL © ADAGP, Paris, 2020 Giorgio de Chirico, L’incertitude du poète, 1913, Tate, Londra. Photo © Tate, Dist. RMN-Grand Palais / Tate Photography © ADAGP, Paris, 2020

LA MOSTRA A PARIGI E LE OPERE


OLTRECONFINE / DE CHIRICO / PARIGI

LA GEOGRAFIA DI GIORGIO DE CHIRICO

New York 9 1936-37

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Monaco di Baviera 2 1908

5 1911 Parigi 1925 8

Ferrara 6 1915

3 1909 Milano

4 1910 Firenze

1 1888 ∆ Volos 7 1919 Roma 10 1944 11 1978 Ω

INTERVISTA AL CURATORE PAOLO BALDACCI Sotto quale lente si è voluta analizzare l’opera di de Chirico? Per la prima volta viene esaminata l’influenza delle avanguardie moderniste di Parigi sull’arte di de Chirico. La nostra tesi, ben dimostrata in catalogo ma forse meno evidente in mostra a causa delle difficoltà del momento, è che de Chirico arrivò a Parigi nel 1911 con un pensiero artistico già perfettamente formato ma un’esperienza pittorica ancora limitata a quella del tardo Romanticismo tedesco. La sua concezione artistica, la Metafisica, non era antimoderna ma scavalcava le ideologie moderniste anticipando di almeno un decennio temi e idee che si sarebbero affermati tra le due guerre, e proponeva precocemente pratiche postmoderne, come la reinvenzione architettonica manierista e l’uso di un archivio visivo di immagini. Ma è ben documentabile che de Chirico poté costruire il suo efficacissimo sistema di comunicazione visiva solo nel quotidiano contatto e confronto con le innovazioni delle avanguardie, dalle quali prese tutto ciò che poteva dare maggior forza all’espressione del suo pensiero. Ne concludiamo che de Chirico è andato al di là del moderno servendosi del modernismo.

Ci riassume l’apporto culturale ed estetico che Germania e Italia hanno dato all’opera dell’artista? Psicologicamente e intellettualmente de Chirico ha un animus germanico, incline alle cifre romantiche dell’interiorità e della profondità, alla solitudine e al sogno. Il pensiero che sta alla base della Metafisica è quasi tutto di origine tedesca. Avvertì tuttavia il pericolo delle derive irrazionali e sulfuree del Romanticismo, che contrastò con la ricerca e conquista di un equilibrio classico, a cui contribuirono la giovanile esperienza greca e la profonda cultura letteraria, filosofica e storica di cui si dotò nei venticinque mesi trascorsi a Milano e a Firenze tra il 1909 e il 1911. Una formazione molto avanzata per quel tempo e indirizzata soprattutto allo studio delle civiltà antiche, della storia delle religioni e dei sostrati simbolici della comunicazione linguistica e visiva. In questa cultura, e nell’esperienza estetica artistica, architettonica e archeologica del contesto italico, si radica la sua scelta di italianità, che costituì un elemento fondante del suo stato d’animo creativo: quel “sentimento della preistoria” che si nutre non solo di reminiscenze greche filtrate attraverso Nietzsche, ma soprattutto

dell’elaborazione di immagini archetipe di una classicità senza tempo dettategli dai resti delle antichità romane e trasformate in una “lingua morta” di profonda efficacia poetica. Alle origini del linguaggio metafisico vi è poi la riflessione sulla poetica di Leopardi, italiano ma tra i massimi interpreti europei di una classicità nutrita di inquietudine romantica. E sul contributo dell’esperienza francese cosa può dirci? La Francia, allora il centro della modernità, gli permise di esprimersi con la libertà e l’efficacia formale appresa dalle avanguardie. A parte Rimbaud, dal quale prende l’intuizione linguistico poetica dell’abolizione del senso nell’espressione artistica, e Matisse, che rivoluzionò completamente l’impostazione spaziale dei suoi quadri, de Chirico non deve molto altro alla cultura e all’arte francese, ma sicuramente deve moltissimo all’atmosfera di assoluta libertà che si respirava in Francia. Non per nulla, il meglio di sé e della sua inventività lo ha sempre espresso quando viveva a Parigi, negli Anni Dieci, e negli Anni Venti e Trenta.


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GRANDI CLASSICI / MARMI TORLONIA / ROMA

Dopo Raffaello Roma vuole sbancare con l’archeologia Giulia Mura rende finalmente il via a ottobre, presso Villa Caffarelli, in una Roma che, nonostante la pandemia, stila un calendario espositivo di spessore, la mostra dedicata alla Collezione Torlonia, selezione di circa novanta pezzi (su oltre seicento in totale) tra busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi restaurati a cura di Anna Maria Carruba con il contributo di Bulgari. Dopo 145 anni dalla nascita del Museo Torlonia, rimasto aperto fino agli Anni Quaranta del Novecento, in seguito all’accordo tra la Fondazione – istituita nel 2014 da Alessandro Torlonia – e il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, la raccolta è presentata nella Capitale. Prima tappa di un tour che la porterà in giro per il mondo, dando risalto a capolavori studiati da decenni solo attraverso riproduzioni.

P

I TEMI DELLA MOSTRA

Il fil rouge della mostra è la storia del collezionismo. La raccolta del Museo Torlonia si presenta, infatti, come una collezione di collezioni, uno spaccato della storia del collezionismo di antichità dal XV al XIX secolo. Un tema, questo, che a Roma, a partire dal Quattrocento, portò alla formazione di quella pratica socio-culturale di raccogliere sculture antiche negli spazi privati, destinata a dare impulso allo studio dell’archeologia, alla “scienza” degli antiquarii e allo sviluppo di ricche collezioni private. Rappresentare in mostra il Museo Torlonia – che presto avrà una nuova sede, scelta al termine del tour espositivo – vuol dire non solo far conoscere illustri esempi di scultura antica, ma anche mettere in luce un processo culturale in cui Roma e l’Italia ebbero un primato incontestabile.

IL PERCORSO ESPOSITIVO

La rassegna è caratterizzata da una sequenza cronologico-concettuale “a ritroso” che inizia dall’evocazione di come sarà il Museo Torlonia e dalla sua sezione più impressionante, i ritratti. A seguire, riflettori puntati sui ritrovamenti ottocenteschi nella proprietà Torlonia, sugli esiti del collezionismo settecentesco, sulla raccolta secentesca di Vincenzo Giustiniani e infine sulle opere di cui è documentata la presenza in raccolte del Quattro e Cinquecento. Fondamentale qui era far sì che l’allestimento non prevalesse sulle opere ma coadiuvasse la linea concettuale e narrativa della mostra, rendendola leggibile a tutti, specialisti e visitatori. Obiettivo primario era creare una osmosi significativa tra i contenuti storici, i Musei Capitolini e i loro spazi, alcuni dei quali riaperti al pubblico per l’occasione. Il percorso, infatti, si lega all’adiacente Esedra di Marco Aurelio, restituendo concretamente il nesso fra gli albori del collezionismo privato di antichità e i bronzi del Laterano donati alla città da Sisto IV nel 1471.

dal 14 ottobre al 29 giugno

I MARMI TORLONIA Collezionare capolavori MUSEI CAPITOLINI – VILLA CAFFARELLI Via di Villa Caffarelli – Roma a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri Catalogo Electa 06 0608 torloniamarbles.it in basso: Collezione Torlonia, Hestia Giustiniani, © Fondazione Torlonia, photo Lorenzo De Masi a destra: Collezione Torlonia, c.d. Eutidemo, © Fondazione Torlonia, photo Lorenzo De Masi


GRANDI CLASSICI / MARMI TORLONIA / ROMA

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I NUMERI DELLA MOSTRA

93 5 6 620 1875 LE OPERE

LE SEZIONI

I SECOLI PRESI IN ESAME

I MARMI DELLA COLLEZIONE TORLONIA

PAROLA AL CURATORE SALVATORE SETTIS La scelta del suo nome come curatore è stata unanime. Così come la convergenza di intenti tra il Ministero, la Fondazione e il co-curatore Carlo Gasparri, archeologo che per la famiglia da quarant’anni si occupa di restauri. Un progetto scientifico co-firmato, che non ha mai subito modifiche rispetto a quello presentato all’inizio di questa avventura, quattro anni fa. Cosa vedremo esposto in mostra e perché? Il principio che ci ha guidati è stato rendere visibile ed evidente, a tutti i visitatori – addetti al settore e non – che questa mostra è solo un’anticipazione di quello che sarà il Museo Torlonia. Tutto parla di lui, evocandolo: ecco spiegato il percorso a ritroso, che parte dai giorni nostri e poi va indietro, fino al Quattro-Cinquecento, passando per i rinvenimenti ottocenteschi e il collezionismo del Settecento e del Seicento. Qual è stato il criterio curatoriale che vi ha portato alla scelta dei pezzi e quanto tempo avete impiegato per trovare il giusto numero? I pezzi finali sono novantatré. Ci abbiamo messo diversi mesi, direi cinque-sei, ma le confesso che è stato un rimaneggiamento continuo, perché talvolta ci accorgevamo di alcuni pezzi migliori e li abbiamo sostituiti. Abbiamo scelto facendo convergere due criteri: uno qualitativo (la bellezza delle singole opere) e uno connesso all’interesse del racconto, all’idea cioè di rappresentare al meglio la formazione della collezione nei secoli. Tra i pezzi scelti ce n’è uno preferito? Grande attenzione è stata posta alla selezione dei ritratti imperiali (i Torlonia ne possiedono centotrenta in ottimo stato). Studiando la collezione abbiamo trovato questa statua, intera – non manca nulla! – risalente al III secolo d.C.: è una fanciulla sconosciuta, il cui panneggio dell’abito e il modo in cui il marmo simula la stoffa trasparente sul busto e sulla mano sono strepitosi. Delicata ma iperrealistica. E in condizioni perfette. Direi che mi ha sorpreso. Purtroppo non sappiamo chi sia la giovane donna!

Parliamo, infine, del suo rapporto con l’architetto David Chipperfield, che ha curato l’allestimento. È soddisfatto del risultato finale? Nelle mostre che ho curato ho sempre ricercato – e ottenuto, anche in questo caso – che ci fosse un dialogo serrato tra le parti, le opere e lo spazio. Questo implica avere da subito uno scambio con il progettista, poiché ritengo che il criterio dell’allestimento e il criterio della narrazione debbano sposarsi. In questo caso l’architetto Chipperfield fu scelto, con mio pieno benestare, dall’allora sovrintendente Prosperetti. Lo avevamo apprezzato per il suo lavoro di ricucitura al Neues Museum di Berlino, in cui era stato capace di rimettere insieme i pezzi di un contenitore storico danneggiato, attualizzandolo ma mantenendone intatte le tracce. Un grande segno di sensibilità estetica e storica, esattamente quello che serviva anche a noi. È stato più volte qui, sia per osservare bene la collezione che gli ambienti dei Musei Capitolini. Abbiamo lavorato in un’ottica di valorizzazione e reciproco rispetto, ripercorrendo lo stile narrativo della mostra attraverso artifici mnemonici, come la rievocazione cromatica (il rosso pompeiano della prima sala o il verde prato dell’ultima, ad esempio). C’è un continuum tra i colori delle pareti e il pavimento di cotto scuro delle sale, con grande attenzione all’aspetto illumino-tecnico, centrale quando si parla di scultura. In generale, è una mostra poco scritta, con didascalie sobrie. Non volevamo essere troppo dettagliati: volevamo solo poter finalmente raccontare una bella storia.

L’ANNO DI ISTITUZIONE DEL MUSEO TORLONIA


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

In un viaggio tra i giardini d’Italia non può mancare il rinascimentale Giardino Giusti, sulla Collina di San Zeno a Verona. Meno conosciuto rispetto ad altri giardini all'italiana, si apre a sorpresa dietro al cinquecentesco Palazzo Giusti, prolungamento ideale del palazzo medesimo. L’impianto del giardino fu creato alla fine del 1300, sulla base del tradizionale hortus conclusus, ovvero un giardino per coltivare ortaggi e frutta, circondato da mura. Attualmente si presenta nella forma ideata nel 1570 dal conte Agostino Giusti, Cavaliere della Repubblica Veneta e Gentiluomo del Granduca di Toscana, raffinato collezionista d’arte di autori quali Veronese, Bassano, Moretto, Parmigianino. La parte storica del giardino è stata impostata geometricamente, vicino a fonti d’acqua, racchiusa da una fila di alti cipressi, tra cui il “Cipresso di Goethe”, pianta secolare di oltre seicento anni, citata dallo scrittore nel suo Viaggio in Italia. LA VEGETAZIONE DEL GIARDINO GIUSTI Aiuole quadrangolari con fantasiosi disegni geometrici, statue di Minerva e Apollo, fontane con delfini, fregi e lapidi provenienti da scavi archeologici, scalinate e grotte artificiali sono disposte ai lati del lungo viale centrale di cipressi che porta ai terrazzamenti superiori. Il Belvedere offre una spettacolare vista d’insieme sull’intero giardino con palazzo. Da qui si gode inoltre di uno dei panorami più belli su tutta la città di Verona e sul fiume Adige. Per i viali sono state scelte piante sempreverdi, oltre a siepi di bosso topiate. Salendo al Belvedere la vegetazione diventa più naturalistica e variata. Appaiono alberature diverse, cespugli più bassi e ammassati, alcune fioriture semplici come rose canine, garofani, acanti, varie erbe aromatiche, oltre a magnifici esemplari di alberi da frutto coltivati “a spalliera”. Il parco ha poi subito varie trasformazioni nel tempo, fino all’ultimo restauro del 1930, che ha ripristinato l’assetto originario. DAL PALAZZO AL GIARDINO All’interno del giardino sono di rilievo alcuni dettagli architettonici come le serre per gli agrumi addossate all’antico muro di cinta; una serie di statue dello scultore Bernardino Ridolfi, genero di Falconetto e collaboratore di Palladio; una grotta artificiale scavata nel tufo con colonne e travature che le danno l’aspetto di un tempietto greco, in origine rivestita di conchiglie, coralli e mosaici e con giochi d’acqua. L’accesso a questo giardino “segreto” avviene attraverso un ampio portale sul fronte di Palazzo Giusti, bell’edificio costruito con il classico impianto a U, frammenti di antiche pitture sulla facciata e una rara collezione di epigrafi latine nell’androne. All’interno del Palazzo le ampie sale offrono un percorso nella storia della famiglia Giusti, attraverso oggetti e arredi originari. Claudia Zanfi

VERONA

GIARDINO E PALAZZO GIUSTI

Via Giardino Giusti 2 045 8034029 giardinogiusti.com

Giardino Giusti, Verona, photo Claudia Zanfi

Poco più di duemila abitanti e tante opere d’arte diffuse per il paese, a stretto contatto con lo sguardo quotidiano di chi vi transita: Casacalenda, in Molise, è un caso speciale. Da oltre trent’anni l’impegno dell’architetto Massimo Palumbo, che oggi dirige il museo, di tanti amici dell’arte e soprattutto degli artisti (maestri anche di generosità) consente di potersi immergere in una collezione diffusa che privilegia i linguaggi della scultura e che include opere e interventi di alcuni tra i più grandi artisti italiani della seconda metà degli Anni Sessanta. GLI ARTISTI DI CASACALENDA Il grande arcobaleno di Carlo Lorenzetti svetta tra cielo e terra, indicando la via. Quella di Casacalenda è votata all’arte. Dice bene Lorenzo Canova, docente di storia dell’arte proprio nell’ateneo molisano: “La Galleria Civica Franco Libertucci diventa un ulteriore cardine di continuità all’interno di questa lunga vicenda che ha saputo unire artisti di valore nazionale e internazionale, nel tentativo, forse, di riscoprire il significato di un’arte che possa essere ancora un elemento basilare della storia e dell’esistenza di una comunità che vuole dare un senso più profondo alla sua memoria e al suo futuro”. Già, la comunità. Qui vive per esempio – dividendosi con Roma – Baldo Diodato, artista napoletano classe 1938. Il suo studio potrebbe diventare parte integrante di un percorso diffuso con vocazione artistica: le sculture degli Anni Sessanta dal sapore minimal convivono con i calchi di sanpietrini e altre pavimentazioni e superfici degli ultimi trent’anni di ricerca attraverso cui “progetta il passato”, come ricorda Achille Bonito Oliva, suo compagno di strada e altro amico di Casacalenda e del museo. UN GRAND TOUR IN MOLISE La grande installazione Efesto di Hidetoshi Nagasawa, il poeta gigante effigiato in una enorme scultura di Costas Varotsos, le finestre di un palazzo storico oscurate dalle superfici plastiche dello stesso Diodato. E poi, nel museo, Achille Pace, Annalisa Pintucci, Pino Pipoli, Fabio Mauri, Virginia Ryan, Felice Levini, H.H. Lim, Luca Maria Patella, Paolo Laudisa, Teodosio Magnoni e molti altri. Insieme ci ricordano la forza intrinseca della periferia, dei territori altri, dei paesaggi poco battuti, nell’arte come nella geografia. E allora un grand tour nell’arte in Molise potrebbe incominciare proprio da questo borgo, denso di spazi aperti della visione, rintracciando l’energia sottesa a ogni singolo passo di un doppio museo che vive la dimensione propria di un tempo dilatato, in divenire. Lorenzo Madaro

CASACALENDA

GALLERIA CIVICA D’ARTE CONTEMPORANEA “FRANCO LIBERTUCCI” Via Emilio De Gennaro 78 338 2725437

Baldo Diodato, Poker di stelle, 2010


RUBRICHE

IL LIBRO

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ASTE E MERCATO

Se cercherete su Google qualche informazione in più su questo libro, vi imbatterete in una storia ambientata fra la Virginia e Washington DC. È la storia dei coniugi Loving, inizia nel 1958 e non si tratta di un simpatico aneddoto di come l’amore non possa che sbocciare se si porta un cognome del genere. È invece la storia – a lieto fine, almeno questo – di una coppia mista, lui bianco e lei nera, che in sacrosanto spregio del Racial Integrity Act si sposarono e diedero la vita a tre figli. La loro battaglia legale durò anni ma infine la Corte Suprema diede loro ragione e cancellò quella norma assurda (solo l’Alabama si incaponì a mantenerla e inasprirla fino al 1970). STORIA E PREGIUDIZI Quel senso di disapprovazione, o almeno di tollerante imbarazzo (“potete fare quello che volete, ma fatelo a casa vostra, lontano dallo sguardo dei bambini”), è il medesimo che in tanti, troppi, provano osservando una coppia omosessuale. La storia si ripete, applicando i medesimi schemi a soggetti differenti. Chissà se Hugh Nini e Neal Treadwell hanno pensato a Grey Villet – il fotografo che raccontò per Life la storia dei coniugi Loving – quando, vent’anni fa, hanno scoperto in un negozio d’antiquariato a Dallas quello scatto realizzato intorno al 1920, un po’ sbiadito, che ritrae “due giovanotti” palesemente innamorati. È una domanda che abbiamo rivolto loro, e la risposta potrete leggerla su artribune.com. UNA COLLEZIONE STRABILIANTE Ma chi sono Hugh e Neal? Sono una coppia di collezionisti che, senza averlo deciso a tavolino, hanno messo insieme una raccolta strabiliante, ora pubblicata in un libro edito in quattro lingue e in uscita a ottobre. Perché quella prima foto scovata in Texas è soltanto la prima di una lunga serie: un anno dopo fu la volta di una coppia di soldati fotografati negli Anni Quaranta, cheek to cheek, e passo dopo passo la collezione ha acquisito la consistenza numerica di 2.800 foto, realizzate dalla metà del XIX secolo alla metà del secolo successivo. LEGGERE LE FOTOGRAFIE Per leggerle si può scegliere uno degli infiniti criteri con i quali osserviamo le immagini: Hugh e Neal raccontano che loro prediligono osservare gli sguardi dei soggetti, evidenza (o meno) di un amore reciproco; personalmente mi sono concentrato sulla bocca, che spesso rende i volti e le loro espressioni diversi l’uno dall’altro all’interno della coppia. Intendo dire che quasi sempre emerge l’elemento più estroverso, più coraggioso, più ostinato: è l’uomo che sorride, che ha proposto al suo compagno di scattare quella foto, che gli ha detto “non preoccuparti”. L’espressione di chi, abbracciando il proprio compagno di fronte a un obiettivo, ha combattuto per una tessera della gigantesca lotta per i diritti civili. Marco Enrico Giacomelli

LOVING. UNA STORIA FOTOGRAFICA

5 Continents, Milano 2020 Pagg. 336, € 49 ISBN 9788874399291 fivecontinentseditions.com

Quando, in primavera, abbiamo raccolto le prime impressioni sulle strategie necessarie a far fronte al lockdown, le case d’asta hanno manifestato una rapida capacità di reazione e un ottimismo, seppur cauto, rispetto a un mercato da virare online. Gli operatori hanno di certo tratto vantaggio dall’esperienza consolidata sul web, presidiando da tempo la Rete con le vendite online, e dai rapporti di fiducia con i bidder che, da anni, affollano le sale room anche virtualmente, ai telefoni e in streaming. La verifica sullo stato di salute del mercato non può però che arrivare dall’analisi delle prime sessioni estive. Riorganizzatisi in tempi record, con un calendario più mobile e cataloghi più variegati, i giganti globali del settore, Christie’s e Sotheby’s, si sono orientati su “aste ibride”, un mix tra presenza online e reale, con dirette in streaming e partecipazione fisica in sala, dove possibile. A fronteggiarsi, fra i top lot con aggiudicazioni a otto cifre, Francis Bacon e Roy Lichtenstein. CHRISTIE’S Nude with Joyous Painting (1994) di Roy Lichtenstein, aggiudicato a Hong Kong per 46.2 milioni di dollari, è stato il lotto di maggior valore per Christie’s e la sua ONE. Impegno muscolare senza precedenti, per logistica e tecnologia, per l’asta-evento a staffetta del 10 luglio: quattro città e quattro ore di vendite ininterrotte, trasmesse attraverso la piattaforma Christie’s LIVE™, per un sale total di 421 milioni di dollari. Una vera maratona tra i grandi hub del mercato, Hong Kong, Parigi, Londra e New York, con in catalogo opere dall’Impressionismo al contemporaneo (è di giugno la notizia della fusione dei due dipartimenti di Impressionist & Modern Art e Post-War & Contemporary Art). SOTHEBY’S Secondo posto per fatturato per Sotheby’s il 29 giugno, con un totale da 363.2 milioni di dollari, in una sessione durata più di quattro ore e divisa in tre parti, in streaming a Hong Kong, Londra e New York. E non poteva esserci un test migliore per saggiare la fiducia del mercato se non offrire un’opera come Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus (1981) di Francis Bacon, con una provenienza di prestigio e la presenza in tutte le maggiori retrospettive. L’aggiudicazione a 84.6 milioni di dollari diventa il terzo miglior risultato in asta per l’artista. IL TEST DELLE SESSIONI IBRIDE Se le cifre pre-lockdown restano lontane (circa -50% rispetto alle aste “reali” di maggio 2019), questa nuova modalità operativa resterà, certo, uno spartiacque nella storia del settore. E se guardiamo alle sessioni ibride come test sulla fiducia di cui il mercato può godere, i risultati fugano in parte i dubbi rispetto a una quota di resistenza di consignor e acquirenti (pur con tutte le garanzie messe in campo). Cristina Masturzo

ASTE IBRIDE CHRISTIE'S SOTHEBY'S

Roy Lichtenstein, Nude with Joyous Painting (part.), 1994. Photo courtesy Christie’s Images Ltd 2020


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RECENSIONI

fino al 20 marzo

fino al 10 gennaio

PALAZZO GRASSI Campo San Samuele 3231 – Venezia a cura di Annie Leibovitz, Wim Wenders, Javier Cercas, Sylvie Aubenas, François Pinault Catalogo Marsilio Editori 041 2001057 palazzograssi.it

PALAZZO FAVA Via Manzoni 2 – Bologna a cura di Mauro Natale e Cecilia Cavalca Catalogo Silvana Editoriale 051 19936305 genusbononiae.it

HENRI CARTIER-BRESSON

Equilibrio. È questa la sensazione che sfiora lo sguardo quando si posa su una delle fotografie di Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 – Montjustin, 2004). Equilibrio compositivo, formale, di stati d’animo. La mostra di Palazzo Grassi mette in fila – al pari della fotografia per Cartier-Bresson rispetto a testa, occhio e cuore – cinque punti di vista sulla sua storia e su un corpus di scatti enigmatico quanto affascinante, la Master Collection “assemblata” dallo stesso Cartier-Bresson nel 1973, su richiesta degli amici e mecenati John e Dominique de Menil, che lo invitarono a scegliere le sue immagini migliori. Cartier-Bresson ne selezionò 385, senza mai chiarire i criteri alla base della sua decisione. A oggi sono sei gli esemplari esistenti della preziosa Master Collection e uno di questi fu acquistato da François Pinault, dando il via al “gioco” che innerva la mostra. Lo stesso Pinault – insieme alla fotografa Annie Leibovitz, allo scrittore Javier Cercas, al regista Wim Wenders e a Sylvie Aubenas, conservatrice della Bibliothèque National de France – è stato chiamato a scegliere una cinquantina di scatti fra quelli voluti da Cartier-Bresson, senza conoscere le preferenze degli altri curatori e stabilendo in piena autonomia l’allestimento finale delle opere. CARTIER-BRESSON SECONDO I CURATORI François Pinault guarda alla strada e alla quotidianità come scenario nel quale calare la propria selezione, summa e conseguenza di un fare da

LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO

collezionista che affonda le radici in una nostalgia del tutto umana, costellata di ricordi e associazioni inaspettate. Ricordi e sprazzi emotivi nella cui traccia si inscrivono anche le scelte messe in atto da Annie Leibovitz, che nel 1976, al suo debutto come fotografa per la rivista Rolling Stone, incontrò Cartier-Bresson, “rubandogli” una serie di ritratti mai pubblicati, perché avrebbe significato, come lui stesso le spiegò, renderlo riconoscibile alla moltitudine e dunque impedirgli di continuare a immortalare la strada. Per lo scrittore Javier Cercas la poetica di Cartier-Bresson non era un terreno familiare, ma è diventata uno spazio di vicinanza e corrispondenze, basti pensare al comune sfondo di indagine sulla Guerra civile spagnola. LE SCELTE DI WIM WENDERS E SYLVIE AUBENAS Le scelte di Wim Wenders, sono disposte e illuminate alla guisa dei fotogrammi che compongono una pellicola e incentrate sullo sguardo del cineasta, per il quale è ancora vivido il ricordo dell'incontro con Cartier-Bresson. Sylvie Aubenas non si sottrae al proprio ruolo di conservatrice e di storica della fotografia, anzi, lo trasforma in bussola per orientare decisioni visibili nella parte finale della mostra. Le uniche pareti colorate dell’intera rassegna accolgono immagini che parlano di gioco – d’azzardo –, di riflessi e di un doppio che racchiude il sé e l’altro da sé.

Henri Cartier-Bresson, Lac Sevan, Arménie, URSS, 1972, 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos

Arianna Testino

La mostra allestita a Bologna negli ambienti di Palazzo Fava, che ospita gli affreschi dei Carracci, presenta una storia appassionante. Una storia che racconta le vicende del Polittico Griffoni per il quale collaborano due artisti straordinari, Francesco del Cossa e il suo allievo Ercole de’ Roberti, facenti parte di quella Officina Ferrarese del Quattrocento tanto studiata da Roberto Longhi. L’opera, composta da una serie di dipinti racchiusi in una monumentale cornice realizzata dall’intagliatore cremasco Agostino de’ Marchi, originariamente decorava l’altare della Cappella di Floriano Griffoni, nella grande basilica di San Petronio a Bologna. Mauro Natale, curatore della rassegna insieme a Cecilia Cavalca, spiega: “La mostra muove nell’ambito di quel recupero storiografico del ruolo che ebbe Bologna come centro di convergenza e di saldatura di diverse espressioni figurative nella seconda metà del Quattrocento”. IL POLITTICO GRIFFONI IERI E OGGI All’inizio del Settecento l’opera viene smembrata per motivi di eredità e danaro, vicende che vedono protagonisti nobili spiantati e clero. I dipinti che componevano il polittico diventano dei quadri, facilmente commerciabili. La loro sorte è segnata e nell’Ottocento l’opera viene dispersa. Oggetto di studio da parte di alcuni fra i più importanti storici dell’arte tra Ottocento e Novecento, oggi la troviamo ricostruita. Ma la storia dell’ex polittico è scritta e le diverse opere, a fine mostra, torneranno a essere divise in nove

importanti sedi museali dell’intero globo: la National Gallery di Londra, la National Gallery of Art di Washington, il Louvre, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Pinacoteca di Brera, i Musei Vaticani, la Fondazione Cini di Venezia, la Pinacoteca Nazionale di Ferrara e Villa Cagnola alla Gazzada, nei pressi di Varese. LE TECNICHE RICOSTRUTTIVE E LA STORIA DELL’ARTE Abbiamo oggi l’occasione di vedere riuniti i diversi dipinti che componevano il grande dipinto. È, tuttavia, mancante la cornice lignea originaria. Ci pare incredibile che un oggetto di tale preziosità e bellezza possa essere stato smembrato. Ma noi sappiamo bene che l’arte è stata ed è spesso valutata attraverso le mode culturali del momento. E un polittico di questo genere nella Bologna settecentesca non suscitava grande interesse. La mostra offre anche un’occasione di studio delle diverse metodologie ricostruttive della storia dell’arte attraverso documenti originali, modelli architettonici, fotografie ad alta risoluzione e utili testi di sala che guidano il visitatore curioso. Angela Madesani

La riscoperta di un capolavoro, exhibition view at Palazzo Fava, Piano 1, Sala Giasone, Bologna 2020. Photo Paolo Righi


8 channel video and sound installation © William Kentridge

William Kentridge More Sweetly Play the Dance 03.09—02.12.2020 Antico Arsenale della Repubblica di Amalfi

Progetto artistico curato da / Artistic project curated by Galleria Lia Rumma Curato e realizzato nell’ambito del progetto Amalfi e Oltre da / Curated and realized as part of Amalfi e Oltre by Scabec S.p.A. www.scabec.it/williamkentridge

— Archivi del Contemporaneo


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