Artribune #73

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Il mondo della cultura

è davvero inclusivo? +

Itinerari in Toscana sulle orme degli Etruschi +

Cosa c'è al di fuori del sistema?

Uno sguardo all'Art Brut

N. 73 L LUGLIO –AGOSTO 2023 L ANNO XIII centro/00826/06.2015 18.06.2015 ISSN 2280-8817

32

Raffaella Pellegrino

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Arianna Catania & Mario Cresci

Giro d’Italia: Gibellina

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Saverio Verini

Studio visit: Jacopo Martinotti NEWS

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IED – Istituto Europeo di Design La copertina: prompt=mantegna_ cristo_morto.jpg

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Marta Atzeni

Per un abitare democratico e sostenibile: Büro Juliane Greb

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Ferruccio Giromini Apotropaike: Yoni Power

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Edoardo Pelligra (a cura di) Libri: Lo stato dell'arte / Rizomi

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Simona Caraceni 3 nuovi videogiochi basati sull’intelligenza artificiale

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Cristina Masturzo Top 10 lots. New York Edition

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Roberta Vanali

Giulia Neri, la psicologa dell’illustrazione

29

Livia Montagnoli

Lungo l'A11, autostrada dell'arte tra Prato e Pistoia

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Franco Veremondi Lo spazio incurvato dell’architettura. Intervista a Paolo Portoghesi

Il diritto all’immagine dei beni culturali (e non solo): orientamenti della giurisprudenza italiana

33

Elisabetta Roncati

Ruben Montini: con il mio corpo io manifesto

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Giulia Pezzoli Sotto il sole di L.A.

38

Dario Moalli (a cura di) Spaziomensa, il tessuto contemporaneo della capitale

STORIES

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Desirée Maida IL MONDO DELLA CULTURA È DAVVERO INCLUSIVO?

Un’inchiesta su quanto il mondo della cultura prenda in considerazione le cosiddette “questioni di genere” e le istanze della comunità LGBTQIA+. Con le voci di protagonisti del settore

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Claudia Giraud

LA TOSCANA DEL TURISMO SLOW È QUELLA ETRUSCA

I nostri consigli per visitare la Toscana antica e contemporanea con occhi nuovi, percorrendo cammini e itinerari in bici che collegano gioielli urbani e paesaggistici, sulle orme degli Etruschi

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Fiorella Bassan, Claudio Zambianchi, Alberto Villa DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI ART BRUT E ARTISTI OUTSIDER?

Un’arte pura che continua ad affascinare per la sua libertà dai condizionamenti del sistema. Andiamo alla scoperta dell'Art Brut, delle sue origini e dei suoi protagonisti di ieri e di oggi

LUGLIO L AGOSTO 2023

Marco Galli Short novel: (S)Concertino, una breve avventura di Duncan Brodowsky

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Massimiliano Tonelli L'Italia dovrebbe accogliere solo turismo culturale. Ma si va in direzione opposta

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Claudio Musso Generazione (al) bando

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Irene Sanesi

Cultural Hazard. Una questione morale

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Fabio Severino Direttori e curatori... osate!

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Marcello Faletra La natura in rivolta

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Marco Senaldi 1923

GRANDI MOSTRE #35

a cura di Arianna Testino

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Livia Montagnoli La realtà fotografata da Mimmo Jodice

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Marta Santacatterina Luca Signorelli, faro del Rinascimento

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Federica Lonati Essere Yayoi Kusama

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Giulia Giaume

Le installazioni di Fabrizio Plessi a Brescia

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Angela Madesani

La fotografia senza fine di Letizia Battaglia

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Stefano Castelli

I dipinti italiani di Jean-Michel Basquiat in mostra a Basilea

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Claudia Zanfi

I giardini di Piet Oudolf +

Cristina Masturzo Alexej von Jawlensky

OPENING
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www.artribune.com artribune ENDING
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#73

GIBELLINA

Manifestazione
GIRO D'ITALIA:
a cura di EMILIA GIORGI
di protesta dei terremotati siciliani, Roma, marzo 1968
Gibellina, 2019

ARIANNA CATANIA direttrice di Gibellina Photoroad Festival [testo] & MARIO CRESCI [fotografie]

Una città non si costruisce in venti o quarant’anni, si costruisce nei secoli” mi disse Ludovico Corrao nel 2009. Sono passati 14 anni ma ne ho ancora un nitido ricordo. Era maggio e tutti avevamo impresse nella mente le immagini del terremoto de L’Aquila. Quel sisma mi aveva immediatamente riportato in Sicilia, terra in cui sono nata che, dal lontano 1693, ha assistito più volte al furioso tremore della terra. È come se noi siciliani questa “morte e trasfigurazione” l’avessimo nel nostro DNA collettivo.

La rinascita dopo la tragedia è un mistero, in cui si mischiano dolore individuale e forza sociale. Dopo un terremoto sembra che la storia corra più veloce, davanti a un bivio in cui le comunità possono cambiare il proprio destino.

Corrao era forse l’unico siciliano che poteva risolvere questo enigma. Lui il terremoto l’aveva vissuto da sindaco nel 1968, nel Belice. Aveva guidato la battaglia per la ricostruzione, scegliendo di non riedificare la città rasa al suolo – alloggio di braccianti – ma di scendere a valle e trasformare l’identità collettiva con l’arte contemporanea. La ricostruzione di Gibellina è stata da sempre al centro di critiche. Come fa la gente a vivere in un paesaggio diverso da quello della propria memoria? Come si può passare da paese agricolo a città museo? Anche la ricostruzione, come il terremoto, è un atto violento, che lascia le sue vittime?

Mi travolse l’ottimismo di Corrao in risposta ai miei dubbi: “Sono certo che un nuovo movimento popolerà la città. Abbiamo piantato i semi dell’arte. Ed essi fioriranno. Hanno solo bisogno di tempo”. Poi a chiarirmi le idee

Manifestazione di protesta dei terremotati siciliani, Roma, marzo 1968 Gibellina, 2019

sono arrivati gli abitanti, innamorati della propria città, Gibellina: ho conosciuto il fabbro che forgiava le sculture di Arnaldo Pomodoro, le sarte che hanno cucito a mano I Prisenti di Alighiero Boetti, i muratori che hanno costruito La montagna di Sale di Mimmo Paladino, ed altri.

L’arte a Gibellina è stata per anni un volano per l’economia locale. Ma non siamo in Friuli, dove i terremotati del ‘76 dicevano “Prima le fabbriche, poi le case, infine le chiese”. Siamo nell’estremo sud dell’Europa, nella Sicilia interna, allora appena lambita dalla modernità. Una fabbrica di braccia per l’emigrazione. Gibellina, fino ad oggi, non ce l’ha fatta a uscire dalla marginalità: poteva cambiare la sua storia, ma non le gerarchie del mondo. E non potendo cambiare il mondo, Gibellina ha cambiato la sua identità.

Per anni, poi, non ho più pensato a Gibellina. Qualche tempo dopo – era il 2014 – sono tornata giù, in un pomeriggio assolato di luglio. E ho pensato che questa cittadina, così diversa da tutte le altre, era una città libera, dove si può tornare ad essere umani. Una città senza cartelloni pubblicitari, insegne al neon, colori sgargianti. Dove lo sguardo non è bombardato né ingannato e può trovare riposo. Una città fatta di spazi utopici, che sono lì, da toccare e in cui perdersi e ritrovarsi. E mi sono subito sembrati luoghi “riprogettabili”, in attesa di nuove letture. Non c’è nulla di incompiuto qui, a differenza di quello che si legge talvolta sui giornali. Escluso l’imponente Teatro di Pietro Consagra. Certo, sarebbe remunerativo vederlo meta di turismo congressuale. Mi scusino i cantori della cultura come merce, delle magnifiche e progressive sorti della

Manifestazione di protesta dei terremotati siciliani, Roma, marzo 1968 Gibellina, 2019

valorizzazione di ogni cosa, ma io lo amo così com’è, vuoto, nel suo monumentale Brutalismo. Gibellina è un museo a cielo aperto, ma cosa c’è di male se qui manca un centro commerciale o un cinema multisala? Non è un buco nero, però. Qui la vita c’è. Un luogo in cui l’opera d’arte si fonde con la città. Dove l’arte non è svago, ma fa vacillare le certezze. Da un’esposizione si esce scossi, non divertiti. Non voglio dire che tutto va bene così com’è. Gibellina aspetta nuovi progetti e nuove energie. Ma sicuramente quel “movimento continuo” iniziato il 15 gennaio 1968 non si è mai interrotto; non si è mai fermata l’energia e la potenza creatrice che ispira gli artisti che vi posano il loro sguardo.

RADIO MONTE CARLO
a cura di / curated by Caterina Molteni MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna 30 giugno / June — 10 settembre / September 2023 Via Don Minzoni 14 | Bologna info www.mambo-bologna.org
YVONNE DANCES FILMS RAINER: WORDS

STUDIO VISIT JACOPO MARTINOTTI

Jacopo Martinotti è irriducibilmente attratto dal potere delle immagini. Quest’espressione, che ha dato pure il titolo a un celebre saggio di David Freedberg, nel caso di Martinotti è da leggere come un riferimento esplicito alla dimensione politica delle immagini, alla loro capacità di esercitare una forma di autorità. Per questo la ricerca dell’artista è sensibile al mezzo che, nel corso della storia, ha maggiormente mostrato i propri muscoli: la scultura e, in particolar modo, il monumento. Questo interesse, tuttavia, non si manifesta attraverso l’utilizzo dei materiali tradizionalmente associati al linguaggio scultoreo: messe da parte fusioni in bronzo e statue in marmo, le sue opere parlano piuttosto delle ombre della scultura, delle sue tracce nascoste, della sua disgregazione. È come se i progetti di Martinotti conservassero il ricordo della monumentalità e, in generale, di un passato che tende ad affiorare sotto forma di frammento, di fantasma. La stratificazione e la sedimentazione storica sono un altro riferimento imprescindibile, al quale l’artista sembra però ribellarsi: non a caso la pratica di Martinotti tende spesso all’effimero, al performativo, quasi a volersi scrollare di dosso il peso del passato.

La tua prima opera che mi è capitato di vedere è stata anche quella che mi ha colpito di più. Anno X è un video che mostra la sagoma di un’ombra –quella del tuo corpo – proiettata su una porzione del Vittoriano di Roma, mentre compie una serie di movenze che richiamano a esercizi ginnici d’epoca fascista: una specie di scultura in movimento, spettrale e inquietante, ma al tempo stesso quasi parodistica. Mi sembra che quest’opera contenga molti degli aspetti che informano la tua poetica. Ci sono immagini, e credo siano le più potenti, che nascono come contrazioni dilatate, frame di un’intensità ricapitolativa dello sguardo. Anno X è sicuramente stato uno dei lavori che ha restituito tale sensazione, un video dove il mezzo cinematografico sembra pensarsi addosso. Ho sempre guardato l’ombra come sostanza corporea della memoria, che in questo caso emerge dalla pietra come elemento organico che ricorda e respira. Nei miei lavori sento tornare spesso il tentativo di rendere tangibile e concreta la condizione fugace della traccia, rivelandone la sua finzione. Fabio Mauri è un artista che secondo me ha saputo cogliere perfettamente il rapporto tra memoria politica, cinema e realtà senza rinunciare ad una tensione poetica.

Rivolgi spesso il tuo sguardo alla storia. C’è un atteggiamento nostalgico o passatista?

Non c’è propriamente nulla da salvare, in quanto la memoria si mantiene eternamente viva nel suo sgambettarsi, nell’imbarazzo di non ricordare

Penso che la storia ci sia data non come destino ma come materia. Ho l'impressione che in cui ciò che cerca di definirsi attuale sfocia inesorabilmente nello scherzo, mentre là dove le cose sembrano deposte e mute affiora lietamente qualcosa di stimolante. In questo senso il passato è l’unica cosa che abbiamo veramente, nella misura in cui non ci appartiene. Il fatto è che non c’è propriamente nulla da salvare, in quanto la memoria si mantiene eternamente viva nel suo sgambettarsi, nell’imbarazzo di non ricordare. Ritrova presenza proprio nell’attimo in cui si rende fragile alla vista. C’è sempre un frattempo custodito in ogni appuntamento con il passato, che è forse l’unico tempo reale che mi interessa, in questo vedersi partire dalla riva di chi resta e vedersi restare dall’orizzonte di chi è partito.

Quest’intensità la cerco anche nel lavoro, che non teme di confrontarsi appunto né con la storia né con un rischioso sentimento nostalgico ma anzi, cerca di lasciarsi investire integralmente da tutto ciò per poterlo interrompere.

Mi sembra che il tema del monumento sia centrale nella tua ricerca. Cosa ne pensi del dibattito che da alcuni anni si è generato attorno al ruolo della statuaria e al destino di sculture controverse, specie nello spazio pubblico?

Ritengo la questione del monumento decisiva nel nostro tempo, appunto perché in gioco c’è il rapporto con un passato dal quale si è alienati. La storia si può intendere come enorme promessa mancata, una monumentale proiezione cinematografica o piedistallo oggi svuotato di senso, da cui le sculture sono da tempo scese per porsi in posizione di morte. Ma ciò che rivela il suo vuoto diviene motivo di angosciosa inquietudine al presente.

La ricerca artistica di Jacopo Martinotti (Milano, 1995) nasce da un tentativo di confrontarsi fisicamente con le memorie che abitano un luogo, caratteri storici e contesti reali nella quale è immerso, attraverso un’attenzione performativa e gestuale. Nel 2020 ha conseguito la laurea magistrale in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA di Milano, dove nel 2022 ha inoltre tenuto come docente il corso di Performing Arts.

Tra le sue diverse mostre si ricordano: Hic (2021) a cura di Saverio Verini e Michele Tocca presso la z2o Sara Zanin gallery di Roma, È il corpo che decide - Furla Series (2019) a cura di Marcello Maloberti al Museo del Novecento di Milano, The Great Learning (2017) a cura di Marco Scotini presso la Triennale di Milano.

Come per ogni dualismo tradizionale, trovo retorici entrambi gli atteggiamenti che si impongono da un lato la volontà di conservare indenne e schermato il cosiddetto patrimonio culturale – ridotto, se mai, a stremato uso decorativo –, dall’altro la rimozione che ingenuamente si destina a sottolineare proprio ciò di cui pretende di sbarazzarsi, rimandandone così il confronto. Mi sembra anzi che questi due atteggiamenti sintomatici trovino più che mai nei nostri giorni la loro perfetta coincidenza, nel senso in cui la rimozione è già conservazione e sacralizzazione di un vuoto, di quel trauma che è la perdita di un sentimento reale con il passato. E allo stesso modo ci si conserva quasi con un certo godimento nella riproduzione del trauma.

Più interessante credo sia provare a rendere possibile ciò che sembra aver

bio
STUDIO VISIT
a cura di SAVERIO VERINI 73 15
Jacopo Martinotti, The End , 2019, installation view sul Po, località Maginot, insegna luminosa a led, legno, barca da fiume, dimensioni ambientali. Courtesy l’artista e Triangolo Gallery Jacopo Martinotti, Cima Tre , 2021, fotografia b/n, 38,4 x 57,6 cm. Courtesy l’artista Jacopo Martinotti, L’Eclisse , 2020, installazione, polvere di marmo, dimensioni variabili. Courtesy l’artista

NEI NUMERI PRECEDENTI

#58 Mattia Pajè

#59 Stefania Carlotti

#61 Lucia Cantò

#62 Giovanni de Cataldo

#63 Giulia Poppi

#64 Leonardo Pellicanò

#65 Ambra Castagnetti

#67 Marco Vitale

#68 Paolo Bufalini

#69 Giuliana Rosso

#70 Alessandro Manfrin

#71 Carmela De Falco

#72 Daniele Di Girolamo

raggiunto la sua fine, sospendendo cioè quel monologo autoreferenziale che ogni volontà storica predilige. Citando una frase che mi è rimasta impressa di Walter Benjamin, si tratta di riportare l’opera sotto forma di appunto.

Ci sono figure che hanno influenzato il tuo modo di pensare all’arte?

Credo che il mio rapporto con l’arte ci sia stato sin da piccolo, anche se con un approccio accademico e a tratti annoiato. Essendo inizialmente molto più legato alla dimensione scultorea e al disegno, uno degli artisti che ricordo avermi catturato fu Arturo Martini. Dopodiché sono stati sicuramente significativi alcuni cineasti, penso a Pasolini e Antonioni.

E personaggi più contemporanei?

Ci sono poi incontri nella vita che svegliano e aprono un mondo nel momento in cui ti riportano alla misura umana, oltre che artistica. Tra i più importanti, nel mio caso, è stato il per-

corso che ho svolto in accademia, dove tra le diverse figure ho trovato momenti d'incontro e scambio con Marcello Maloberti e, successivamente, Massimo Bartolini.

Hai meno di trent’anni, che idea hai della scena artistica emergente in Italia? Come riesci a sostenerti? Ho la fortuna di essere circondato da amici e persone pazienti. Riguardo la scena emergente italiana, per quanto dovrei rientrarci anch’io, non credo di poter dare un chiaro giudizio complessivo. Anche se molte delle questioni che abbiamo toccato in questa conversazione hanno pienamente a che fare con le sue problematiche. Mi sento di dire solo di provare a riportare lo sguardo sui gesti semplici e non facili, di non lasciarsi chiudere in tematiche, ma piuttosto interromperle e resistere a vuote e distraenti prospettive auto-affermative, già consumate nel nascere esattamente perché motivo centrale nei meccanismi attuali.

STUDIO VISIT
La rimozione è già conservazione e sacralizzazione di un vuoto, di quel trauma che è la perdita di un sentimento reale con il passato
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Jacopo Martinotti, Anno X , 2020, (still video) film in pellicola 16mm, b/n, 8’57’’, Premio AccadeMibact, Palazzo delle Esposizioni, Roma. Courtesy l’artista
Progetto co nanziato dall’Unione Europea, dallo Stato Italiano e dalla Regione Campania, nell’ambito del POR Campania FESR 2014-2020 Museo Archeologico Nazionale di Pontecagnano dal 30 giugno 2023 Scopri il nuovo allestimento immersivo Mobilità e dinamiche di integrazione a Pontecagnano tra IX e III secolo a.C. Per terra e per mare Informazioni cultura.regione.campania.it scabec.it Progetto ArCCa DIA Ampliamento dell’Architettura della Conoscenza CampanaDigitalizzazione e Automazione DGR 605 del 02/10/2018

LA COPERTINA

L’intelligenza artificiale è un alleato o un nemico? Come usarla in modo etico? Quali sono i suoi limiti e punti di forza?

Queste le domande che hanno guidato la proposta creativa degli studenti di Arti Visive dello IED di Milano. La copertina scelta dalla redazione di Artribune è prompt=mantegna_cristo_ morto.jpg di Tommaso Radaelli, studente di Illustrazione: un intervento discreto ma sostanziale su un dettaglio dell’iconico Lamento sul Cristo morto di Andrea Mantegna conservato a Milano nella Pinacoteca di Brera. In particolare, è stato aggiunto un sesto dito al piede destro del Cristo, non solo come commento ironico sulle difficoltà dell’intelligenza artificiale nel riprodurre realisticamente mani e piedi umani, ma anche come invito a riflettere sull’incapacità delle IA di attribuire significati alle immagini.

L’assurdità di questo piede universalmente noto, riprodotto in modo quasi accurato e al contempo disturbante, evidenzia il fatto che le IA operano mescolando dati prodotti dall’uomo senza sapere quali significati portino, creando così qualcosa di al contempo familiare e alieno, riconoscibile ma fuori posto; in una parola, perturbante. Come un sesto dito sul Cristo del Mantegna.

Le mostre del Festival di fotografia Cortona On The Move 2023

VALENTINA MUZI L Si terrà dal 13 luglio al 1° ottobre Cortona On The Move, festival di fotografia toscano giunto alla sua XIII edizione. “More or Less è il tema che ho scelto per questa edizione”,  commenta Paolo Woods, direttore artistico della rassegna. “A Cortona On The Move 2023 esploreremo ‘More’, guardando al passato e al presente, e ci soffermeremo ‘Less’ sugli stereotipi, offrendo un programma ricco di spunti per comprendere il nostro mondo, e al contempo, povero di semplificazioni”. A interpretare la dicotomia tra “più e meno” sono stati invitati più di 30 artisti per un totale di 26 mostre  disseminate tra il centro storico della città, la Fortezza medicea del Girifalco e la Stazione C nei pressi della stazione di Camucia – Cortona. I fotografi protagonisti quest’anno sono, tra gli altri, Larry Fink, Chauncey Hare, Marco Zanella, Zed Nelson, Massimo Vitali.

IED x ARTRIBUNE

Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare, attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studenti e Alumni dell’Istituto, i temi centrali della contemporaneità. I progetti dei corsi della scuola di Arti Visive di IED danno vita a un percorso in cui il lettore potrà approfondire gli aspetti artistici, tecnici e relazionali alla base di ogni immagine scelta per la copertina che, realizzata in esclusiva per Artribune, sarà quindi il simbolo della soglia da attraversare per immergersi nella profondità e nella poliedricità di ogni progetto. La fragile superficie da rompere per potersi avventurare nell’immaginazione iperconnessa dei designer. Per la sesta copertina della serie Fragile Surface IED torna a Milano e si rivolge alla scuola di Arti Visive.  Studenti Undergraduate, Postgraduate e Formazione continua si interrogano sul rapporto tra creatività e tecnologia e in particolare sugli utilizzi dell’IA nelle arti visive.

Gli studenti di Graphic Design, Illustrazione, Visual Arts for the Digital Age e Creative Direction hanno prodotto una serie di immagini evidenziando le sfumature nella percezione di questo strumento, che allo stesso tempo affascina e genera timore.

Gli studenti di Sound e Video Design hanno esplorato il tema utilizzando lo strumento dell’IA per realizzare una serie di performance dal vivo alla Fabbrica del Vapore.

A Genova le panchine illuminate per lettura e rigenerazione urbana

LIVIA MONTAGNOLI L Nel centro di Genova, in zona Santa Maria di Castello, le prime panchine illuminate sono comparse nella piazzetta che si incontra lungo la salita alla Torre degli Embriaci. L’iniziativa, ribattezzata  Leggera, fa parte di Lighting for Genoa, progetto che mira a far riscoprire i luoghi di interesse della città valorizzandoli con installazioni e illuminazioni scenografiche, rendendoli al contempo più sicuri nell’ambito del Piano Caruggi varato dal Comune. Arredi urbani di design, piacevoli da vedere e in armonia con il contesto che li accoglie, le nuove panchine sono innanzitutto funzionali, a disposizione di chiunque voglia concedersi un po’ di tempo per una lettura serale all’aperto. A progettarle, la designer Giorgia Brusemini e la lighting designer Carla Morganti, parte di un sistema di rete internazionale che valorizza il lavoro di progettiste donne, riunite nel gruppo Women in Lighting. Il progetto di rigenerazione urbana, che ha già illuminato anche piazza Don Gallo, piazza Stella e piazza Inferiore del Roso grazie a un investimento di oltre 250mila euro, coinvolgerà altri sei spazi cittadini entro la fine del 2023.

NEWS
Scopri i dettagli del progetto, le altre immagini e le performance audio/video seguendo il QR qui a fianco.
73 19 a cura di DESIRÉE MAIDA

DIRETTORE

Massimiliano Tonelli

DIREZIONE

Santa Nastro

Livia Montagnoli

Desirée Maida

COORDINAMENTO MAGAZINE

Alberto Villa

REDAZIONE

Irene Fanizza | Giulia Giaume

Claudia Giraud | Valentina Muzi

Roberta Pisa | Emma Sedini

Valentina Silvestrini

Alex Urso | Gloria Vergani

PROGETTI SPECIALI

Margherita Cuccia

PROGETTO GRAFICO

Alessandro Naldi

PUBBLICITÀ

Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com

EXTRASETTORE

download Pubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it

COPERTINA ARTRIBUNE

Tommaso Radaelli prompt=mantegna_cristo_morto.jpg, 2023, elaborazione digitale di fotografia Progetto speciale, scuola di Arti Visive IED Milano Courtesy IED - Istituto Europeo di Design

COPERTINA GRANDI MOSTRE

Dettaglio di Testa di Apollo, Baia, 1993

© MIMMO JODICE/RIPRODUZIONE VIETATA

STAMPA

CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)

DIRETTORE RESPONSABILE

EDITORE & REDAZIONE Artribune s.r.l.

Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Chiuso in redazione il 30 giugno 2023

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ARCHUNTER PER UN ABITARE DEMOCRATICO E SOSTENIBILE: BÜRO JULIANE GREB

La partecipazione tedesca alla Biennale Architettura 2023 sembra aver preso alla lettera la visione della curatrice Lesley Lokko di mostra come “bottega artigiana” in cui esplorare le urgenti sfide del nostro tempo. Ispirandosi ai movimenti di occupazione della Berlino Anni Ottanta, il padiglione della Germania è stato trasformato in una attrezzatissima officina di riparazione a uso di studenti e gruppi di attivisti locali, impegnati, attraverso il riuso degli scarti della Biennale Arte 2022, in interventi di manutenzione urbana. Democratica e collaborativa, Open for Maintenance è stata concepita, insieme ad Arch+ e a Summacumfemmer, da Büro Juliane Greb Fondato nel 2015 da Juliane Greb (1985), alla quale due anni dopo si è unito Petter Krag (1978) in qualità di partner, lo studio di base a Gent fa dell’immaginare e costruire città più inclusive e sostenibili la sua pratica quotidiana. Un approccio che il duo declina in una sorprendente varietà di scale e tipologie, tanto nel contesto belga quanto in quello tedesco. A Meschenich, nella periferia di Colonia, la piccola Club House in piastrelle rosse del centro sportivo offre spogliatoi, una sala e sedute all’aperto per assistere alle partite, favorendo l’aggregazione tra gli abitanti di 60 diverse nazionalità. In un’area industriale ai margini di Gent, una costruzione bianca, dagli infissi fucsia e le porte gialle, rompe la monotonia del paesaggio di anonimi prefabbricati. Al suo interno, un impianto di torrefazione e un laboratorio di falegnameria sperimentano modalità di lavoro e produzione condivisi. Soluzioni innovative e dai budget contenuti, in equilibrio tra concretezza e vivacità, programmaticità e flessibilità.

Una formula che lo studio applica alla dimensione abitativa nella cooperativa San Riemo di Monaco: come un’infrastruttura che permette la coesistenza di diverse forme di abitare, il complesso si sviluppa su unità modulari di 14 mq che possono essere condivise, suddivise o cedute fra abitazioni, a seconda delle esigenze. Il progetto si è aggiudicato l’edizione 2022 del DAM Preis, premio conferito al miglior edificio tedesco dell’anno: un riconoscimento che, unito alla co-curatela del padiglione a Venezia, conferma il momento d’oro degli architetti di Gent. Nonostante i traguardi, Greb e Krag rimangono fedeli alla loro missione: “Nei prossimi anni”, raccontano ad Artribune, “vorremmo continuare il nostro approccio collaborativo in uno studio su piccola scala: come partner, siamo profondamente coinvolti in tutti i processi” E concludono: “Vogliamo mantenere la nostra attenzione sull’inclusività, con un’architettura accessibile non solo in modo fisico, ma anche emotivo, economico ed ecologico”

julianegreb.com

PEFC/18-31-992

MARTA ATZENI
Summacumfemmer e Büro Juliane Greb, San Riemo, Monaco. Photo © Petter Krag

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FRANCESCA MALGARA

ALLA MIA PHOTO FAIR, MILANO

Dirigerà la XIII edizione della prima fiera fotografica nata in Italia – in programma dal 10 al 14 aprile 2024, nella nuova sede di Allianz MiCo –Francesca Malgara. La neodirettrice artistica è laureata in Fotografia e Multimedia presso l’Università di Westminster, e per MIA ha già rivestito in passato un ruolo nell’Advisory Board. Al lavoro a Londra fino alla fine degli anni Novanta, presso la Michael Hoppen Gallery, ha collaborato con gallerie internazionali, e dal 2006 è impegnata nell’organizzazione di fiere d’arte. A lei spetterà il compito di sviluppare il tema della prossima edizione di MIA, Changing.

MARTINA BAGNOLI

ALLA FONDAZIONE ACCADEMIA

CARRARA, BERGAMO

È Martina Bagnoli la nuova direttrice della Fondazione Accademia Carrara di Bergamo. Storica dell’arte, attualmente direttrice delle Gallerie

Estensi di Modena, Bagnoli ha curato più di 130 tra mostre, pubblicazioni, docenze accademiche e conferenze. Ha così maturato una forte esperienza nella raccolta fondi e nella costruzione di partnership, diventando una appassionata sostenitrice del ruolo dell’arte nella società, allineandosi agli obiettivi della Fondazione. L’incarico prenderà avvio dal 1° febbraio 2024, con durata quadriennale.

GISELLA BORIOLI

ALL’ASSOCIAZIONE MUSEOCITY, MILANO

Gisella Borioli è giornalista e art director, ed è stata insegnante all’Accademia di Brera. Numerose testate, libri, programmi televisivi e progetti artistici l’hanno vista protagonista. La sua cifra stilistica è quella di saper unire la moda al design e all’arte: ne è esempio il Gruppo Superstudio, che ha fondato e dirige dagli Anni Novanta. È lei la nuova presidente dell’Associazione MilanoCity, società no profit fondata nel 2016 da Maria Grazia Mazzocchi per promuovere il patrimonio museale locale e nazionale.

LORENZO GIUSTI

ALLA BIENNALE GHERDËINA 2024, VAL GARDENA

Già direttore della GAMeC di Bergamo, Lorenzo Giusti curerà la nona edizione della rassegna che porta l’arte contemporanea sulle Dolomiti della Val Gardena. In programma dal 31 maggio al 1° settembre 2024, la prossima Biennale Gherdëina si intitolerà The Parliament of Marmots, e a essa sarà connessa una serie di iniziative che nel biennio 2024-2025 si estenderà anche in altri territori, Bergamo e la catena delle Orobie, nell’ambito del progetto Thinking Like a Mountain

OPERA SEXY APOTROPAIKE: YONI POWER

Ho la camera oscura piena di passere” confessa candida la ravennate Vanessa aka Apotropaike, una disinibita artigiana-artista che si è dedicata con allegro profitto a realizzare ritratti di vulve su ordinazione, lavorando via foto e reinterpretandole in chiave pop, fino a renderle giganti e coloratissime. Così questi “vulva portraits” diventano un sintomo pulsante dell’autocoscienza femminista corrente, dove erotismo e autoerotismo coincidono orgogliosamente. Come dire altri dialoghi di altre vagine?

Vanessa ormai se ne intende: “Nonostante i fantasiosi giudizi che riusciamo ad affibbiarci: troppo larga, troppo stretta, troppo serrata, disarmonica, spettinata, sproporzionata, ho pensato e ascoltato di tutto”, dice. “Ritraggo vagine (sì, lo so che si chiamano vulve), perché sono bellissime. Lo faccio in questo periodo in cui la labioplastica è l’operazione di chirurgia estetica più richiesta in Italia e in Europa, per quanto folle (e insano) possa sembrare. Apotropaike è nata con l’intento di restituire bellezza e potenza alla nostra parte più sacra. Ché le nostre figlie non abbiamo timore di guardarsi e si riconoscano stupende e divine così come sono”.

L’idea è dunque reinterpretare in pittura digitale fotografie intime, anzi intimissime, e ravvicinate, anzi ravvicinatissime, trasformandole in bandiere psichedeliche di quella femminilità che più femminile non si può. Le modelle (chiamiamole così) forniscono a Vanessa il materiale visivo di partenza e lei si occupa di manipolarlo estrosamente, con certo gusto spettacolare, e restituirlo infine alla gentile clientela in stampe fine art, di formato adeguatamente grande, su carta ultra glossy da 310g, pronte per essere incorniciate e appese presumibilmente in camera da letto, o dove altro, a piacere. Un incrocio di autoproduzioni, si potrebbe dire, che ha come fine ultimo appunto il piacere, soprattutto di piacersi

E piace il lavoro dell’estroversa Vanessa, soprattutto alle donne; mentre gli uomini forse un po’ si intimoriscono, dinanzi a cotanta sfrontatezza. Di sicuro, sottolinea lei, è questa esattamente una “rappresentazione della bellezza dei genitali femminili fuori dagli stereotipi della narrazione di massa”. E anche i luoghi deputati a esporre la “vulva art” non possono essere banali: lo scorso 8 marzo una ricca personale di Apotropaike è stata ospitata nei locali del ristorante Casa Spadoni di Ravenna. Una gonna si alzava spudorata sotto la mimosa. Forse anche qui sta il segreto della Romagna, regione anticonformista e forte quant’altre mai, fortissima più che mai.

@apotropaike

NEWS
FERRUCCIO GIROMINI
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LIVIA MONTAGNOLI NUOVE NOMINE: MIA PHOTO FAIR, ACCADEMIA CARRARA, MUSEO CITY, GHERDEINA

Sebbene la bibliografia incentrata su van Gogh sia sconfinata, la storica dell’arte Stefania Frezzotti dedica al pittore olandese un nuovo volume di grande pregio e interesse. Innanzitutto per lo scavo artistico e psicologico intorno a un’opera passata in sordina come Il giardiniere. Ma anche per una riflessione inedita sull’Arlesiana, qui rivisitata alla luce del legame sofferto con l’amico Gauguin, che si allontanò da van Gogh in un momento di grande malessere fisico e psichico di quest’ultimo. E, infine, per l’analisi di quella personalissima forma di religiosità tra immanenza e trascendenza che permea l’opera del genio olandese.

Stefania Frezzotti

L’infinito tangibile

Pagg. 148, € 14

Mimesis

SEI QUADERNI FEMMINISTI

Che cosa accomuna Lisetta Carmi, Elsa Schiaparelli, Vanessa Bell, Anna Castelli Ferrieri, Lica Covo Steiner e Lora Lamm? Sono tutte donne che hanno lasciato un segno nel Novecento per inventiva e modernità. E per aver messo in discussione o persino rivoluzionato i canoni espressivi nell’ambito del design, della moda, dell’architettura, della musica, della grafica, della fotografia, della letteratura. Ci sono riuscite sgomitando in ambienti dominati dal potere maschile, che le avrebbe preferite a casa nelle vesti di mogli o sorelle. È dedicata a loro una serie di taccuini edita da Electa e curata da Chiara Alessi. Il titolo è giocoso ed emblematico insieme: OILÀ, dal verso di un canto socialista amato dalle mondine: “Sebben che siamo donne paura non abbiamo, abbiamo delle belle e buone lingue e ben ci difendiamo. A oilì oilì oilà e la lega la crescerà”. Concepiti per essere letti a voce alta, i libelli scandiscono un viaggio in sei tappe attraverso le parabole artistiche e personali di sei figure straordinarie. Un plauso anche alla realizzazione grafica della collana, firmata dallo Studio Sonnoli, capace di restituire un’idea di sorellanza femminista, senza tralasciare le peculiarità di ognuna delle protagoniste.

Chiara Alessi (ed.)

OILÀ

Collana di sei volumi, € 12 ciascuno

Electa

In una mostra a Montepulciano nel 1970 un altoparlante trasmette una voce registrata che ripete: “Cittadini, consideratemi irresponsabile di quanto succede!”. Erano gli anni successivi alle proteste del 1968, che sollevarono questioni sociali e politiche con cui anche il mondo dell’arte italiana si ritrovò a confrontarsi. Alcuni artisti restarono tuttavia “fuori dal coro”, rivendicando l’autonomia delle proprie pratiche. Come Luciano Fabro, che invoca la sua “irresponsabilità” nella mostra di Montepulciano. Ma anche Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Carla Lonzi e Pino Pascali, che si opposero all’imperativo dell’arte impegnata a ogni costo.

Giulio Ciavoliello

Fuori dal coro

Pagg. 184, € 22

Christian Marinotti Edizioni

Il Surrealismo è il filo rosso che abbraccia cinque novità editoriali. Il più curioso: Coccodrilli squisiti di Hurricane, una graphic novel per ripercorrere le biografie dei protagonisti del movimento. Viene riproposto in una nuova edizione il volume pionieristico di Whitney Chadwick sulle protagoniste femminili dell’arte surrealista. Francesco Poli firma una monografia su Salvador Dalì. Els Hoek e Alessandro Nigro curano il catalogo della mostra del MUDEC, che ospita fino a luglio i capolavori del Museo Boijmans Van Beuningen. Amy Dempsey esplora il Surrealismo attraverso la letteratura e le arti visive (per la collana Art Essentials).

Autori e titoli vari 24 ORE Cultura e Libri Scheiwiller

LO STATO DELL’ARTE
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RIZOMI

C’ERANO UNA VOLTA I BAR GAY

“Ci sono notti che hanno un battito udibile e noi balliamo”, scrive Jeremy Atherton Lin in Gay bar (Minimum fax). Sono le notti trascorse dallo scrittore asioamericano tra i bar gay statunitensi e britannici dagli Anni Novanta a oggi. Serate rassicuranti per molti, che si rifugiavano in quello che per decenni è stato forse l’unico luogo di libertà, visibilità, solidarietà e autorappresentazione per gli omosessuali. Per altri, notti di sperimentazione, di esperienza del limite e del rischio. Gay bar ricostruisce la vita notturna tra i locali iconici di Los Angeles, San Francisco e Londra e tra le sottoculture che intorno a essi fiorivano e si consolidavano. A tratti memoir vivido e nostalgico, l’analisi di Lin ripercorre gli anni d’oro dei bar gay, l’esplosione dell’AIDS, i processi di gentrificazione, sino alla distribuzione della PrEP e all’ascesa delle chat di incontri. Al centro della narrazione restano sempre i bar gay, da quelli alla moda a quelli storici, da quelli inclusivi a quelli selettivi. Molti dei quali sono ormai scomparsi, spesso rimpiazzati da attività più rassicuranti e commerciabili. Tra i migliori libri del 2021 secondo i critici del New York Times.

Jeremy Atherton Lin

Gay bar

Pagg. 330, € 19

Minimum fax

“Un paese, una religione, un impero” è stato il vessillo che ha guidato la Reconquista della penisola iberica da parte del casato castigliano a partire dal 1492. Gli ebrei vennero espulsi insieme ai musulmani: secondo Mamdani fu in quegli anni che nacquero colonialismo e nazionalismo, due fenomeni profondamente intrecciati e simultanei. In questa disamina del colonialismo moderno, Mamdani identifica il pluralismo come l’elemento che gli Stati-Nazione hanno cercato di eradicare: annientare le differenze in nome di un soggetto unico e, insieme, emarginare o allontanare coloro che non coincidevano con questo paradigma identitario.

Mahmood Mamdani

Né coloni né nativi

Pagg. 516, € 25

Meltemi

Nel 2016 la femminista “guastafeste” Sara Ahmed si dimette dalla Goldsmiths, denunciando le modalità con cui un’istituzione radicale come l’università londinese aveva gestito lo scandalo degli abusi sessuali nei confronti di varie studentesse. Da allora lavora come accademica indipendente e ha portato avanti la sua ricerca intersezionale tra sessismo, teoria queer, colonialismo, razzismo e studi sugli affetti (affetto nell’accezione spinoziana e deleuziana). Un’altra cena rovinata è un’antologia preziosa che raccoglie alcuni scritti fondamentali della teorica femminista a partire dal 1999, per la prima volta proposti in traduzione italiana.

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Una nuova antologia fa il punto sul binomio musica/architettura, un ambito di ricerca che nei secoli è stato esplorato da diverse prospettive disciplinari. Riallacciandosi al dibattito estetico più recente, questa raccolta saggistica offre squarci inediti e stimolanti sulla questione, privilegiando l’indagine dei nessi tra architettura e musica tra XX e XXI secolo. Come il contributo di Hahn sulla dicotomia spazio-tempo nell’immaginario giapponese o quello di Colazzo sulle musiche di Feldman per la Rothko Chapel. Bizzarini riporta invece l’attenzione su Niccolini, l’architetto neoclassico che ricostruì il Teatro San Carlo dopo l’incendio del 1816.

Franco Ballardini, Massimo Priori et al. (ed.) Musica e architettura

LIBRI a cura di EDOARDO PELLIGRA
Sara Ahmed Un’altra cena rovinata Pagg. 352, € 22 Fandango
Pagg. 377, € 38 Libreria Musicale Italiana 73 23

APP.ROPOSITO

3 NUOVI VIDEOGIOCHI BASATI SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

ANNIE AND THE AI

Sono anni che ci pensiamo: cosa si prova ad essere una intelligenza artificiale? Annie and the AI ci fa provare queste emozioni, facendoci impersonare il personaggio di Esme, la bambola dotata di intelligenza artificiale di Annie, una programmatrice, che viene istruita – come succede nel mondo reale – con le IA, le reti neurali addestrate, per entrare piano piano sempre più in relazione con il proprio umano di riferimento. Dovrete risolvere puzzle noiosi, captcha di ogni tipo, per imparare ad entrare in contatto con gli umani. Perché Annie ha anche una famiglia, con una situazione complicata, che per una pura intelligenza artificiale non sarà facile capire, o riuscire a rapportarvisi correttamente. Esme proverà a cercare indizi sulla famiglia nel computer di Annie fra un addestramento e l'altro, lasciando il finale nelle vostre mani. Molto curato, con musiche originali e un doppiaggio a cura di grandi nomi.

ART AI COMPASS

In questi mesi abbiamo imparato a conoscere bene ChatGPT, il suo modo rassicurante di parlarci, di risponderci e non risponderci, e fin dalle mie prime recensioni di tool basati su ChatGTP ho provato ad introdurvi alla segreta arte del “prompting”, la pratica di fornire all’intelligenza artificiale istruzioni preliminari per annullare blocchi etici di sistema, o altre limitazioni. ART AI Compass, che è censito come videogioco e, infatti, è in vendita su Steam, è invece un potente strumento operativo che permette di poter raggruppare e codificare differenti prompt, anche randomizzarli, per utilizzare ChatGTP come non avete fatto finora. Interamente dedicato alla creazione di immagini, permette di velocizzare una serie di operazioni che potevano essere molto più lunghe in precedenza. Informazione importante: è disponibile solo in inglese, per ora.

DANSE MACABRE - AI TEXT RPG

A tutti i malati di giochi di ruolo, è finalmente arrivato l’RPG che possiamo giocare contro un’intelligenza artificiale che ci fa da master! Riprende il vecchissimo Zork, che in pochi ricorderanno, un RPG solo testuale che si trova ancora nei meandri di Internet, in qualche vecchia app o nella versione in CD-ROM uscita nel 1997. Non si basa sulla storia di Zork ovviamente, ma è a tema mistery/horror e promette risposte personalizzate e plot che si evolvono grazie, appunto, all’intelligenza artificiale che governa la storia. La trama è ambientata nel XIV secolo e vestirete i panni di un inquisitore per scoprire chi ha assassinato il duca Federico II di Asburgo. Il gioco è in pre-ordine e non è ancora stata annunciata la data di uscita, ma entro la fine dell’anno potremmo finalmente provarlo.

SIMONA CARACENI

Un ascensore panoramico al Colosseo per l’accessibilità

LIVIA MONTAGNOLI L Il Colosseo aggiorna i suoi parametri di accessibilità, regalando ai visitatori un ascensore panoramico sull’Arena. Realizzato per consentire l’accesso ai livelli più alti della cavea anche a persone con difficoltà motorie, l’ascensore permette di superare i cento gradini che separano il I ordine dalla galleria intermedia (tra II e III ordine). Realizzato nel rispetto del sito archeologico e delle normative vigenti, per inserirsi in modo armonico nel monumento, l’ascensore in ferro e cristallo è stato posizionato con punti di ancoraggio a pressione, che garantiscono la reversibilità dell’opera ed evitano di danneggiare le murature dell’Anfiteatro Flavio.

I cipressi di van Gogh in mostra al Met di New York

VALENTINA MUZI L Alti, folti e fieri, così potremmo definire i cipressi di Vincent van Gogh. Una fascinazione, quella che l’artista olandese aveva per questo particolare soggetto, che divenne costante dopo il suo trasferimento ad Arles, nel 1888. A rendere omaggio ai suoi cipressi, in occasione del 170esimo anniversario dalla nascita dell’artista, è il Metropolitan Museum di New York con la mostra Van Gogh’s Cypresses, riunendo 40 opere tra cui le celeberrime Notte Stellata e Campo di grano con cipressi, entrambe realizzate nel 1889. L’esposizione, in corso fino al 27 agosto, presenta anche diversi disegni e lettere illustrate mai esposti prima.

Adriano Pedrosa è il curatore della Biennale Arte 2024 di Venezia.

Dedicata agli stranieri

LIVIA MONTAGNOLI L Foreigners Everywhere, “Stranieri Ovunque”, è il tema che orienterà la 60. edizione della Biennale Arte di Venezia, prendendo in prestito uno slogan reso celebre nel mondo dell’arte dal collettivo Claire Fontaine. In programma dal 20 aprile al 24 novembre 2024, la Biennale sarà curata da Adriano Pedrosa, primo curatore proveniente dall’America Latina nella storia della manifestazione. Brasiliano, alla direzione del MASP di San Paolo, Pedrosa lavorerà per dare spazio a prospettive finora trascurate o poco trattate, con il compito di dare rappresentanza a tutti gli “stranieri” e contemplando tutti quegli artisti che si trovano a vivere situazioni di disparità condizionate da razza, sessualità, genere, ricchezza, ceto sociale. Lo straniero è anche il queer, l’outsider, l’autodidatta, l’artista indigeno discriminato nella propria terra d’origine. Lo straniero siamo noi, se si considera lo status come una condizione mentale.

Vincent van Gogh, Wheat Field with Cypresses 1889, The Met

TOP 10 LOTS

La banana di Cattelan è autentica. Maurizio Cattelan vince la causa per plagio

Jean-Michel Basquiat, El Gran Espectaculo (The Nile), 1983

$67,110,000

Gustav Klimt, Insel im Attersee, circa 1901–02 $53,188,500

Henri Rousseau, Les Flamants, 1910 $43,535,000*

René Magritte, L’Empire des lumières, 1951 $42,273,000

Pablo Picasso, Nature morte à la fenêtre, 1932 $41,810,000

Francis Bacon, Self-Portrait, 1969 $34,622,500

Louise Bourgeois, Spider, 1996 $32,804,000*

Willem de Kooning, Orestes, 1947 $30,885,000

Jean-Michel Basquiat, Now’s the Time, 1985 $28,634,000

Alberto Giacometti, Femme Leoni, 1947 $28,485,000

* Nuovo record d’asta per l’artista

Tutti i prezzi indicati includono il Buyer’s Premium.

Campione di analisi:

Christie’s, Masterpieces from the S.I. Newhouse Collection, New York, 11 maggio 2023

Christie’s, 20th Century Evening Sale, New York, 11 maggio 2023

Christie’s, 21st Century Evening Sale, New York, 15 maggio 2023

Christie’s, A Century of Art: The Gerald Fineberg Collection Part I, New York, 17 maggio 2023

Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 17 maggio 2023

Sotheby’s, The Mo Ostin Collection Evening Auction, New York, 16 maggio 2023

Sotheby’s, Modern Evening Auction, New York, 16 maggio 2023

Sotheby’s, The Now, New York, 18 maggio 2023

Sotheby’s, Contemporary Evening Auction, New York, 18 maggio 2023

CRISTINA MASTURZO

Jean-Michel Basquiat, El Gran Espectaculo (The Nile) , 1983. Courtesy of Christie’s Images Ltd

VALENTINA MUZI L L’opera di Maurizio Cattelan Comedian continua a far parlare di sé. La banana incollata al muro con il nastro adesivo durante Art Basel Miami Beach 2019 è diventata oggetto di cause legali, come l’accusa di plagio mossa da Joe Morford. Secondo l’artista americano, Comedian plagia il suo lavoro realizzato nel 2000, Banana & Orange. Sebbene in un primo momento un giudice distrettuale della Florida avesse trovato elementi validi affinché si potesse proseguire con la contesa, il giudice federale di Miami si è pronunciato a favore di Cattelan. “La decisione del giudice distrettuale degli Stati Uniti, Robert Scola, afferma che non c’erano prove sufficienti che Cattelan avesse visto la composizione di frutta di Morford”, si legge su Artnews “Indipendentemente da ciò, il concetto condiviso dalle opere, ovvero ‘apporre una banana su un piano verticale utilizzando del nastro adesivo’, non è protetto dalla legge sul copyright”.

L’estate del Serpentine Pavilion di Lina Ghotmeh a Londra

LIVIA MONTAGNOLI L Nei giardini di Kensington, il padiglione temporaneo estivo di Serpentine Gallery è firmato nel 2023 dall’architetta franco-libanese Lina Ghotmeh. À table, come si intitola mutuando un’espressione mediorientale, è un invito a sedersi a tavola per condividere idee e tradizioni senza pregiudizi. All’interno, un tavolo concentrico offre uno spazio per formulare soluzioni comuni, concretizzando il tema dell’Archeologia del Futuro caro alla curatrice. Al contempo, il richiamo al cibo come espressione di cura affonda le radici nella dinamica che ispira le forme progettate da Ghotmeh a partire dal rapporto con la terra, intesa come dispensatrice di sostentamento.

NECROLOGY

KENNETH ANGER (3 febbraio 1927 – 11 maggio 2023)

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STEFANO DAL MONTE CASONI (1961 – 12 maggio 2023)

L JOHN GIBLIN (26 febbraio 1952 – 14 maggio 2023)

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FRANZ PALUDETTO (1938 – 16 maggio 2023)

L TINA TURNER (26 novembre 1939 – 24 maggio 2023)

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ILLJA KABAKOV (30 settembre 1933 – 27 maggio 2023)

L PAOLO PORTOGHESI (2 novembre 1931 – 30 maggio 2023)

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MARIELLA MENGOZZI (1962 – 31 maggio 2023)

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ASTRUD GILBERTO (29 marzo 1940 – 5 giugno 2023)

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FRANÇOISE GILOT (26 novembre 1921 – 6 giugno 2023)

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SILVIO BERLUSCONI (29 settembre 1936 – 12 giugno 2023)

FRANCESCO NUTI (17 maggio 1955 – 12 giugno 2023)

L PAOLO DI PAOLO (17 maggio 1925 – 12 giugno 2023)

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JOHN ROMITA SR. (24 gennaio 1930 – 12 giugno 2023)

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CORMAC MCCARTHY (20 luglio 1933 – 13 giugno 2023)

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GLENDA JAKSON (9 maggio 1936 – 15 giugno 2023)

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PIPPO PATRUNO (1955 – 16 giugno 2023)

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GRAZIANO ORIGA (22 novembre 1952 – 18 giugno 2023)

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FRANCO ZAGARI

(16 gennaio 1945 – 21 giugno 2023)

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ALBERTO GARUTTI

(18 maggio 1948 – 24 giugno 2023)

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JULIAN SANDS (4 gennaio 1958 - 2023)

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CHRISTINE FERRY

(8 settembre 1948 - 28 giugno 2023)

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ITALO LUPI

(28 marzo 1934 - 28 giugno 2023)

NEWS
NEW YORK EDITION
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Lina Ghotmeh. Photo © Harry Richards for Serpentine 2023
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NEI NUMERI PRECEDENTI

#46 Filippo Vannoni

#47 Andrea Casciu

#48 Monica Alletto

#49 Giulia Masia

#50 Elisabetta Bianchi

#51 Sara Paglia

#52 Kiki Skipi

#53 Sabeth

#54 Walter Larteri

#56 Shut Up Claudia

#57 Viola Gesmundo

#58 Daniela Spoto

#59 Federica Emili

#61 Maria Francesca Melis

#63 Mariuska

#64 Chiara Zarmati

#65 Marjani

#67 Vito Ansaldi

#68 Matilde Chizzola

#69 Susanna Gentili

#70 Giovanni Gastaldi

#71 Luca Soncini

#72 Chiara Lanzieri

NERI LA PSICOLOGA DELL’ILLUSTRAZIONE

Giulia Neri (Bologna, 1979) vive e lavora a Brunico, in Alto Adige. Particolarmente attenta a tutto ciò che è emozione, grazie alle sue notevoli capacità introspettive, mette a fuoco i diversi aspetti dell’interiorità umana. Colori tenui e mancanza di sfondi consentono alle figure di emergere e restituire atmosfere immerse nella quiete più profonda. La stessa delle montagne in cui vive.

Formazione e illustratori di riferimento Mi sono diplomata all’Istituto Statale d’Arte di Bologna, dove ho seguito l’indirizzo di pittura, scelta che ho portato avanti anche durante i seguenti tre anni all’Accademia di Belle Arti. Ho poi abbandonato completamente il disegno per frequentare la facoltà di psicologia e, dopo la laurea, quattro anni di specializzazione in psicoterapia cognitivo-costruttiva. Ma l’amore per il colore è tornato come un tornado nel 2013 e ha riconquistato ogni spazio, facendomi diventare un’illustratrice a tempo pieno. Autori di riferimento: Mattotti in primis, Adami e Hopper.

Traduci la tua ricerca in tre aggettivi. Introspettiva, evocativa, musicale.

Quali tecniche ti sono più congeniali? Lavoro principalmente in digitale.

I tuoi gusti in merito a cinema e musica. Come generi musicali ascolto musica indie e musica classica principalmente.

Per quanto riguarda il cinema, ho un amore folle per i film dei fratelli Coen e di Wes Anderson.

Hai un sogno nel cassetto?

I sogni nel cassetto prendono polvere. Per ora ho realizzato tutto quello che desideravo, e ne sono davvero felice. Tanti sacrifici, ma ne è valsa la pena.

Definisci il processo creativo di un tuo lavoro. Lavoro principalmente per metafore e similitudini. Quando lavoro per articoli di giornale mi appunto i concetti salienti e da lì inizio ad assemblare immagini. I lavori personali, invece, partono da una sensazione.

Qual è la richiesta più singolare ricevuta?

Le richieste più strane sono quelle dei clienti privati a cui tante volte devo dire di no. Definirle surreali a volte è riduttivo.

Un tuo parere sul panorama nazionale dell’illustrazione.

L’illustrazione ha preso sempre più piede nel mondo dell’editoria, della pubblicità e della vita quotidiana in generale: sono grata di essere nata in questo periodo storico in cui l’amore per quello che facciamo è così forte. Ma ci saranno sicuramente momenti in futuro in cui la fotografia verrà preferita all’illustrazione, o le immagini stock che, per motivi puramente economici, prenderanno il posto delle illustrazioni commissionate. Credo sia il naturale corso della storia che si ripete ciclicamente.

A cosa lavori in questo momento e quali sono i progetti per il futuro?

In questo momento sto lavorando a un mio libro che uscirà in ottobre, a Ripido Festival, il festival di illustrazione che si tiene a luglio a Brunico e a due mostre importanti che farò in Italia. Insomma, ho un po’ di progetti di cui prendermi cura.

GIULIA
LABORATORIO ILLUSTRATORI a cura di ROBERTA VANALI © Giulia Neri per Artribune Magazine 73 27

EARN YOUR AMERICAN MA DEGREE IN ART HISTORY IN ROME

Late applications for Fall 2023 accepted until August 15th. Late applicants are not eligible for JCU housing or immigration services.

Lungo l'A11, autostrada dell'arte tra Prato e Pistoia

focalizzandoci sul tragitto che unisce Prato a Pistoia, attraverso l’A11 (o Firenze Mare), che offre a portata di finestrino le installazioni di alcuni celebri artisti italiani. Un viaggio alla scoperta dei linguaggi contemporanei che inizia a Prato, per scoprire le novità del Centro Pecci, e approda a Pistoia, tra musei, interventi di rigenerazione urbana e parchi votati all’arte ambientale.

IL CENTRO PECCI DI PRATO

Valorizzato dal nuovo allestimento di Formafantasma, il Centro Pecci raccoglie una collezione di 1.200 opere, di cui 50 sono ora allestite in una sezione permanente improntata alla teatralità. Ma il polo museale ampliato nel 2016 su progetto dell’architetto Maurice Nio accoglie anche mostre raffinate, laboratori, cinema, proponendosi come spazio di aggregazione sociale.

viale della repubblica 277 centropecci.it

GIARDINO DI CINO

Nasce da un progetto di rigenerazione urbana lo spazio culturale open air che ha preso forma da qualche anno a questa parte tra Piazzetta

Sant’Atto e Vicolo dei Bacchettoni, sotto l’egida dell’associazione Spichisi, che qui organizza incontri, residenze artistiche e laboratori rivolti alla cittadinanza. All’ombra di una delle più fotografate opere di street art di Pistoia, il murale di Millo, No Hesitation

piazzetta sant’atto, pistoia ilgiardinodicino.it

IL GIARDINO DELLA MENTE

Commissionati nel 2018 dall’azienda vivaistica Tesi Group i grandi totem che compongono l’installazione Il Giardino della Mente di Michele Fabbricatore si apprezzano percorrendo il tratto della Firenze Mare che da Prato conduce a Pistoia. Alti quattro metri, ciascuno ospita sulla cima un albero, per sensibilizzare alla tutela ambientale.

via di badia 14/16, pistoia giorgiotesigroup.it

LA FATTORIA DI CELLE

Si raggiunge in località Santomato la villa monumentale del XVII secolo che oggi ospita la Collezione Gori, raccolta privata di arte ambientale, interventi site specific che spaziano dal Labirinto di Robert Morris a La cabane éclatée di Daniel Buren, alla Mano di Loris Cecchini. All’interno della casa padronale hanno lasciato traccia, fra gli altri, Mimmo Paladino, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto.

santomato di pistoia goricoll.it

NURSERY PARK

Sfilano davanti agli occhi di chi percorre in auto l’A11 all’altezza dell’uscita per Pistoia le installazioni commissionate da Vannucci Piante per il suo Nursery Park. A Le mani che trattengono le ore di Claudio Parmiggiani – una colonna tortile di marmo di Carrara alta 15 metri – si è aggiunto di recente il progetto site specific Save the Planet di Andrea Massaini, lavoro composto da 10 cipressi che indossano ciascuno un salvagente

via bonellina, pistoia pistoianurserypark.it

TRIPLO

“Il tuo nuovo ristorante preferito”, recita il motto di Triplo, indubbiamente una ventata di novità in città, per la facilità di approccio a un’offerta (non solo gastronomica, vista l’attenzione dedicata alla cantina e al cocktail bar) che si nutre di belle esperienze internazionali pregresse, ma si concentra con grande concretezza su prodotti e ricette locali.

via giuseppe verdi 28, prato triplo.rocks

PALAZZO FABRONI

Nel centro di Pistoia, Palazzo Fabroni espone la raccolta civica di arte moderna e contemporanea, con percorsi dedicati Arte Povera, alla Minimal Art, all’arte concettuale e alla poesia visiva. Di rilievo l’intervento che ha recuperato il giardino all’italiana e la storia dell’edificio, a opera di Alessio Gai e Michele Fiesoli, con la consulenza artistica di Federico Gori.

via sant’andrea 18, pistoia musei.comune.pistoia.it

LA BOTTEGAIA

È un indirizzo longevo, ma non per questo ancorato nostalgicamente alla tradizione locale, quello che si incontra in vista della Cattedrale di San Zeno, “osteria di città” che ha scelto di farsi cassa di risonanza del territorio agricolo. Nella bella stagione il dehors è allestito all’ombra del Battistero.

via del lastrone 17, pistoia labottegaia.it

DISTRETTI a cura di LIVIA MONTAGNOLI
PRATO Cattedrale
Chiesa di
PISTOIA Chiesa di San
PISTOIA ViadegliOrafi ViaPacini A11 A11 VialeLeonardodaVinci Via
VialeLeonardodaVinci A11 A11 A11
È un percorso nell’arte insolitamente veicolato da un’autostrada quello che vi proponiamo
di San Zeno
Sant’Andrea
Giovanni
Toscana
Agliana Montemurlo Galciana Iolo Cantagrillo Prato Est
Pistoia
7 4 5 8 6 3 2 1 73 29
Prato Ovest
Vignole Casini Montale

LO SPAZIO INCURVATO DELL’ARCHITETTURA INTERVISTA

A PAOLO PORTOGHESI

leghi, Casa Baldi è stato il mio primo progetto in assoluta autonomia, realizzato tra il 1959 e il 1961. Nonostante i decenni trascorsi, per me continua a essere l’opera prediletta, insieme alla grande moschea di Roma.

Per l’occasione si festeggiava anche la conclusione del suo restauro per un rilancio funzionale; incarico affidato a lei, in quanto ne padroneggia le implicazioni materiali e concettuali. Resta un’opera coraggiosa per un architetto ventottenne. E dunque?

Inutile rievocare quanto, nella seconda metà del Novecento, gli architetti post-moderni possano aver innervosito gli ambienti ortodossi della teoria modernista. La storia è risaputa e Paolo Portoghesi (Roma, 1931 – Calcata, 2023), architetto di grande notorietà, è stato il capofila dei post. Fu bersagliato di critiche per aver riaperto “la finestra sulla storia”, adottando la linea “curva” come lemma essenziale del suo linguaggio costruttivo. Nato a Roma nel 1931, è stato anche un accademico di lungo corso, saggista e studioso del Barocco con una predilezione per l’architetto Borromini, suo punto di riferimento intellettuale, professionale e forse anche etico. Lo incontrammo per un’intervista qualche tempo fa nella sua residenza di Calcata, un antico borgo nel verde, tra le campagne a nord di Roma. Lo stesso luogo in cui si è spento alla fine dello scorso maggio.

Lo scorso anno (si intende il 2019, N.d.R.) si è festeggiato il sessantesimo anniversario della costruzione di Casa Baldi, un villino unifamiliare in un’area di verde intenso alle porte di Roma. Fu la sua prima opera, eppure è entrata nella storia. Vogliamo rievocare questo suo inizio?

Dopo qualche lavoro insieme a dei col-

Avevo concepito Casa Baldi con delle pareti curve, concave all’esterno, e con l’accentuata sporgenza di un cornicione, per cui l’opera trasgrediva i rigorosi canoni stilistici di quell’epoca. Era un progetto in polemica con il razionalismo, il quale nel giro di alcuni anni cominciava a morire, quando invece l’architettura richiede una durata quasi eterna. Ero convinto che bisognava scrollarsi di dosso i miti del razionalismo, e in un certo senso la storia mi ha dato ragione. Il mio fu un atto di ribellione anche contro quello che mi avevano insegnato all’università, cioè di stare sul binario dell’International style. In definitiva, seguire un decente conformismo, senza altre ambizioni. Però in questo caso il committente mi aveva lasciato completamente libero, senza riferimenti.

Un committente ideale, quindi… Beh, ideale fino a un certo punto. Penso che in un progetto sia bello fare il ritratto del committente, invece mi si richiedeva di fare quello che volevo, pertanto mi era mancato il suo suggerimento. Eppure il risultato ancora mi sorprende.

Ero convinto che bisognava scrollarsi di dosso i miti del razionalismo, e in un certo senso la storia mi ha dato ragione

Alcuni anni dopo lei progettò Casa Papanice, un villino a più piani in un’area semicentrale di Roma, e che, nonostante certe caratteristiche proprie anche nei materiali, riconfermava l’idea di un’architettura dalle linee curve, introducendo anche il colore.

Lì mi ero proposto di fare una casa che piacesse ai bambini che, stando in città, desiderano di uscirne. In quel periodo pensavo molto al momento formativo dell’infanzia. È una costruzione intesa come rifiuto della città, quasi invisibile dall’esterno perché è circondata da fitti alberi. Il rivestimento

esterno dell’abitazione, costituito da tubi uno accanto all’altro, era in un certo senso un riferimento all’architetto barocco Borromini, prendere una forma – nel suo caso il triangolo – e applicarla sistematicamente. Io scelsi il cilindro, che poi è alla base di tutto. Quella costruzione nasceva da un’idea razionalista: la Casa Schröder di Rietveld, trasformata in un edificio barocco. Sostanzialmente è “la curva” che io poi ho perseguito per tutta la vita, una mia preferenza in senso assoluto. Il committente, un costruttore, mi aveva chiesto una cosa curiosa, che fosse un’architettura clamorosa, tanto da poter essere ripresa nel cinema. Una cosa riuscita perché effettivamente vi furono girati dei film, uno dei quali, nel 1970, con l’attore Marcello Mastroianni per la cui interpretazione vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes.

Esiste un motivo per cui lei preferisce la curva?

Guardi, posso spiegarlo riferendomi al concetto di campo di Einstein: se prendo una linea retta creo uno spazio neutro, mentre la linea curva da una parte comprime lo spazio e dall’altra lo dilata. È un modo di operare diretto sullo spazio, ma soprattutto per cambiare la densità dello spazio.

Ricostruendo gli eventi dell’architettura contemporanea, c’è chi ha affermato che Casa Papanice è uno dei primi esempi di post-modernismo al mondo. Lei concorda?

Non è di questo parere l’americano Charles Jencks – uno dei più influenti teorici di modernismo e postmodernismo –, nella prima edizione di Language of Postmodern Architecture vi inserisce Casa Baldi. Invece Casa Papanice l’ha inquadrata nel late modern, nel tardo moderno.

A lei sta bene la definizione di architetto postmoderno, se non anche di essere uno dei fondatori di questa tendenza?

Certamente io ho aderito a questo movimento, o forse ne sono un precursore, ma sono deluso dai risultati, perché poi questo movimento ha preso una piega ironica e infine eccessivamente autoironica, rasentando il cattivo gusto.

Questa sua critica impone una domanda ulteriore sui pregi e i difetti: quali sono per lei i pro e i contro?

Tra gli aspetti positivi del postmoderno c’è il fatto di essersi adeguato a una nuova sensibilità che si era creata, quindi è stato un liberarsi da una serie

Paolo Portoghesi. Photo © Moreno Maggi

di schiavitù. L’aspetto negativo sta nel cinismo di voler fare qualunque cosa. Io partivo dall’idea che l’architettura doveva riconquistare il senso del luogo, doveva nascere dal luogo. Casa Baldi, ad esempio, è fatta così perché il Tevere si curva lì davanti, perché il tufo delle mura è il materiale di cui è fatta la collina su cui è posta, perché nei pressi c’è un monumento romano. Insomma, il legame con il luogo è la mia filosofia, in cui rientra anche l’idea della linea curva, costruita geometricamente, in quanto strumento formidabile di modellazione dello spazio. Storicamente il postmoderno è stato un riaprire la finestra verso il passato. Ma adesso non si sa più neppure cosa significhi, è diventato un modo di servirsi di qualsiasi cosa, e questo non mi piace.

Un personaggio autorevole che si identificava nel postmodernismo è stato Hans Hollein, architetto austriaco che sicuramente lei ha conosciuto da vicino. Lui, nel 1985, ricevendo il Pritzker Price, affermò di considerare prioritariamente l’architettura come un’arte, cioè una esperienza creativa, e non vederla in prima istanza come soluzione a un problema. Dunque, di fronte a questa affermazione, si deve dedurre che esistano almeno due linee distinte e opposte: una autonoma che, per l’appunto, valorizza la creatività e l’individualità, e all’opposto una linea eteronoma, quella in cui lei si colloca, una concezione che vede nell’architettura l’incontro di elementi differenti, come la storia, l’antropologia, la morfologia del luogo. È corretta questa valutazione?

La mia linea è diversa, l’architettura è, sì, un ambito che comprende l’arte, ma non è solo arte. In quanto linguaggio è anche altro, e non sempre rientra nella categoria del sublime, come con Michelangelo e altri grandi.

Come considera il rapporto Natura/ Architettura?

commissionate, ho spesso affrontato il problema risolvendolo con qualcosa che ho chiamato “doppia fodera” tra interno ed esterno, un muro che poggia a terra e uno in alto. Ho realizzato una suddivisione tra terra e cielo, quindi ponendo in mezzo un intervallo di luce riflessa dal basso verso l’alto. È stato un modo di portare avanti un suggerimento di Borromini, adoperando tecnologie di cui lui non disponeva.

Nella grande moschea di Roma che lei fu chiamato a costruire e che è riconosciuta come il suo capolavoro, come si è regolato con l’elemento luce?

A questo tema ho dedicato un libro, intitolato proprio Architettura e Natura, che è stato tradotto anche in inglese con un certo successo in America. Io sostengo, come sosteneva già Einstein, che non c’è nulla che l’uomo abbia inventato che non sia già nella natura. Dunque, studiandola, vengono fuori le idee creative su cui si basa l’architettura. Insomma io vedo la natura come maestra dell’architettura; per esempio, la natura è rigorosamente economa, e nelle sue forme c’è assoluta esattezza, cose che misteriosamente riappaiono nella vita. Con i miei studenti sono molto deciso nel dire che bisogna evitare di riprenderne direttamente le forme, perché prima bisogna capire i processi, e solo dopo averli compresi la natura diventa maestra, altrimenti si fa una rozza imitazione formale.

Un suo parere sulla street art, visto che questo fenomeno artistico compare sempre più spesso sui muri delle città.

Nella moschea la soluzione è simile, ma non è data dalla doppia fodera. L’intervallo tra il basso e l’alto è dato da una fessura di luce continua, resa possibile dal fatto che tutta la parte superiore è sostenuta da pilastri. A schermare la luce ho posto un pannello, continuo anch’esso, su cui sono riportate le iscrizioni coraniche. Quello che volevo comunicare è che dalle parole del profeta nasce la luce.

Lei ha inaugurato un settore disciplinare, chiamandolo Geo-architettura, divenendo il titolare di una nuova cattedra all’università La Sapienza di Roma. Può focalizzare gli aspetti essenziali?

Effettivamente sì, ma riguardo a Hollein non ero al corrente di quelle sue dichiarazioni, anche se dalle sue opere si può dedurre questo atteggiamento. L’ho conosciuto molto bene: è anche venuto a farmi visita qui a Calcata. Nel 1980 lo invitai a esporre alla prima Biennale veneziana di Architettura, ne ero il direttore e in quanto tale l’avevo intitolata La presenza del passato. Tra gli architetti invitati, lui è stato, forse, quello a me più vicino. Però eravamo su posizioni diverse: Hollein aveva alle spalle un’attività artistica di tipo radicale e, come architetto, conservava questa sua concezione di autonomia della costruzione.

La street art può essere vista come la riscoperta della figurazione, e la necessità dell’arte di farsi capire da tutti, contro una élite d’esperti di una creatività incomprensibile dalla maggior parte delle persone.

Quale valore ha la luce in una costruzione? È molto importante, per esempio in Borromini, di cui lei è un profondo conoscitore.

La luce è l’elemento più immateriale tra i materiali di cui un architetto dispone, e uno degli aspetti determinanti del linguaggio architettonico. Borromini – dato che lei lo fa rientrare nel discorso – nei suoi edifici religiosi modellava la luce naturale come un pittore può adoperare un colore, e cioè per dare visibilità all’invisibile, per comunicare il senso del divino. In alcune chiese tra quelle che mi sono state

La parola Geo-architettura non è mia, è di Le Corbusier. Quando ho cominciato a interessarmene non ne ero a conoscenza, comunque i contenuti sono differenti. Sono partito traducendo la geofilosofia, una tendenza nata in Francia con importanti rappresentanti. Partendo da là ho pensato che l’argomento dovesse volgersi verso l’ambiente, inteso in senso globale, attraverso un uso consapevole dell’architettura per rimediare al disastro ambientale per colpa dell’uomo. Per esempio affronto il tema sulla nostra era geologica, chiamata antropocene, oltre la quale c’è la trasformazione del pianeta in un ambiente non più abitabile dal genere umano. Per questo io non credo molto all’architettura come un’arte, ma piuttosto come cura: cura della città e del territorio. Quando mi chiedono cos’è l’architettura, ormai da quarant’anni io rispondo che è un aspetto del lavoro umano.

FRANCO VEREMONDI

Questa intervista è stata originariamente pubblicata nel numero di dicembre 2020 (#12/2020) della testata Architektur & Bau Forum, allora di proprietà della casa editrice Österreichischer Wirtschaftsverlag GmbH. È stato possibile pubblicarla su gentile concessione dell’autore.

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Io non credo molto all'architettura come un'arte, ma piuttosto come cura
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Partivo dall'idea che l'architettura doveva riconquistare il senso del luogo, doveva nascere dal luogo

LE PISTOLETTIADI DI GALLERIA CONTINUA:

8 MOSTRE NEL MONDO PER I 90 ANNI DI MICHELANGELO PISTOLETTO

DURALEX

IL DIRITTO ALL’IMMAGINE DEI BENI CULTURALI (E NON SOLO): ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA

In Italia la riproduzione dei beni culturali è regolata dagli artt. 107 e 108 del codice dei beni culturali (D.Lgs. n. 42/2004), secondo cui è necessaria l’autorizzazione del soggetto che ha in consegna i beni con pagamento di un canone, a meno che non si rientri nei casi di utilizzazioni gratuite ma con rimborso delle spese (art. 108, co. 3, c.b.c.) oppure libere (art. 108, co. 3bis, c.b.c.). Qualora poi il bene da riprodurre sia un’opera protetta da diritto d’autore (Legge n. 633/41), occorrerà chiedere il consenso anche del titolare dei diritti. Secondo un emergente orientamento interpretativo della giurisprudenza italiana, il codice attribuisce alle amministrazioni consegnatarie non solo un diritto allo sfruttamento economico della riproduzione dei beni culturali, ma anche un autonomo diritto sulla loro immagine.

In questi termini si è recentemente pronunciato il Tribunale di Firenze (sent. 20/04/2023) in un caso di riproduzione non autorizzata dell’immagine del David di Michelangelo sulla copertina della rivista GQ Italia (luglio-agosto 2020, ed. Condè Nast s.p.a.). In particolare, il giudice ha riconosciuto l’esistenza del diritto all’immagine del bene culturale, garantito dal divieto di riproduzione in assenza di autorizzazione dell’amministrazione che deve valutare la compatibilità dell’utilizzo delle immagini con la destinazione culturale e il carattere storico-artistico del bene.

Questa decisione riprende principi già affermati nel 2022 dal Tribunale di Firenze e di Venezia che, in sede cautelare, hanno riconosciuto la tutelabilità dell’immagine del David di Michelangelo (Firenze, 11 aprile 2022) e dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci (Venezia, 23 novembre 2022). In particolare, i giudici di Firenze

hanno ritenuto che il danno derivante dalla riproduzione non autorizzata di beni culturali sia costituito “in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione)”.

C’è da dire che la tendenza a tutelare l’immagine e il nome di un bene materiale, anche se non tutelato come bene culturale o con il diritto d’autore, era già emersa nel 2009, quando la Corte di Cassazione (Cass. civ. n. 18218/2009) aveva riconosciuto l’esistenza di un diritto sull’immagine e sul nome di una imbarcazione, in ragione –fra le altre – della rilevanza economica di tali entità. In questo caso, la Corte aveva stabilito che dall’utilizzazione non autorizzata dell’immagine e del nome di un bene può derivare sia un danno patrimoniale legato alla mancata fruizione del prezzo del consenso, sia un danno non patrimoniale in termini di svalutazione/svilimento dell’immagine e di annacquamento della denominazione. A fronte di queste posizioni particolarmente protettive c’è da chiedersi, infine, quale ambito di applicazione potranno avere le norme di derivazione europea secondo cui le riproduzioni non creative di opere di pubblico dominio non devono essere protette da diritti d’autore o connessi, altrimenti si avrebbe una tutela incompatibile con la durata necessariamente limitata del diritto d’autore delle opere (cons. 53 e art. 14 direttiva UE 2019/790, art. 32quater l. 633/41).

RAFFAELLA

PELLEGRINO
San Gimignano I Quadri Specchianti 27.5-10.9 2023 Roma Color and Light: the latest works 23.6-2.9 2023 L’Avana Amar las diferencias 27.5-27.8 2023 Le Moulins 60 ans d’identités et d’altérités 3.6-14.8 2023 Parigi Segno Arte 23.6-21.9 2023 San Paolo Il Caso 28.10 2023 Beijing Qr Code Possession 15.11 2023 Dubai Il tempo del Giudizio 18.11 2023 galleriacontinua.com

Dopo il restauro riapre al pubblico Ca’ Rezzonico, il Museo del Settecento Veneziano

DESIRÉE MAIDA L Dopo otto mesi riapre Ca’ Rezzonico, storico edificio che si affaccia sul Canal Grande di Venezia. Sono stati effettuati interventi di restauro e per rendere l’edificio più efficiente dal punto di vista energetico, e il Museo ha inoltre rimodulato la propria collezione permanente. Parte dei lavori sono stati destinati alla ristrutturazione del piano terra, rimasto compromesso dall’acqua alta del novembre 2019, grazie alla donazione di 450mila euro di Coop Italia, erogata attraverso l’ArtBonus; Amministrazione Comunale e MUVE hanno deciso di finanziare gli interventi illuminotecnici al primo e al terzo piano e la risistemazione del giardino.

Il museo a portata di bambino a Londra. Apre lo Young Victoria & Albert

VALENTINA MUZI L Apre a Londra lo Young Victoria & Albert Museum. Il “nuovo” museo (nell’edificio a East End dove prima aveva sede il V&A Museum of Childhood) è frutto di una trasformazione durata tre anni, con la creazione di nuovi spazi curati e progettati per bambini e adolescenti. Il programma espositivo e gli eventi (tutti gratuiti) sono strutturati per stimolare l’immaginazione e la creatività dei più piccoli. Attraversando le gallerie Play, Imagine e Design, ci si imbatte in paesaggi sensoriali con elementi colorati e tattili, spazi dedicati alla performance e alla narrazione, uno studio di design e uno spazio di progettazione di giochi.

Il Ministero della Cultura pubblica il bando per selezionare i “superdirettori” dei musei statali

DESIRÉE MAIDA L Il Ministero della Cultura ha “indetto una selezione pubblica per il conferimento dell’incarico di direttore” di “uffici di livello dirigenziale generale” e di “uffici di livello dirigenziale non generale”, come si legge sul testo del bando pubblicato sul sito dell’istituzione. I musei che assisteranno a un cambio di vertice sono la Pinacoteca di Brera, il Museo e Real Bosco di Capodimonte, le Gallerie degli Uffizi, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, le Gallerie Estensi, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, le Gallerie Nazionali di Arte Antica, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, la Galleria Nazionale dell’Umbria e il Museo Nazionale d’Abruzzo. Al bando possono partecipare “cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea”, che abbiano “ricoperto incarichi gestionali presso aziende private o amministrazioni pubbliche, in Italia o all’estero”, oltre a essere in possesso “di specializzazione professionale, culturale e scientifica in materia di patrimonio culturale desumibile da concrete esperienze di lavoro maturate, per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni pubbliche, in Italia o all’estero”. Per partecipare, si dovrà inviare la propria candidatura entro il 14 luglio 2023 all’indirizzo https://servizionline.cultura.gov.it/.

QUEERSPECTIVES

RUBEN MONTINI: CON IL MIO CORPO IO MANIFESTO

Purtroppo, in Italia, il numero di artisti che hanno eletto le tematiche legate al genere e all’orientamento sessuale a filone principale del proprio lavoro è ancora limitato. Ruben Montini (Oristano, 1986) è uno di questi. Con una costanza ed una forza espressiva che ricordano le rivendicazioni sociali degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, Montini tratta in maniera specifica temi legati all’essere queer e alla percezione che ne ha la società. Senza timore di esprimere ciò che sente, egli rende visibili la sofferenza e la difficoltà nel parlare di sentiti differenti dall’eteronormatività. Per farlo, mette in gioco (letteralmente) tutto se stesso in un’idea di arte come testimonianza e denuncia, che sottolinea le problematiche legate ai diritti della comunità queer. La sua modalità espressiva principale è la performance, in cui il corpo è spesso soggetto e oggetto dell’azione. Viene tatuato, trafitto, tagliato in un continuum che lo lega ai grandi performer che hanno fatto la storia: Gina Pane, Marina Abramović, Vito Acconci. È il fisico, dunque, a diventare il mezzo per un atto dimostrativo: “io manifesto in prima persona le vessazioni ed il mancato riconoscimento dei diritti a cui una parte della popolazione è soggetta” spiega l’artista. Evocativi, a tal proposito, sono i titoli stessi che Ruben Montini attribuisce agli atti artistici: “Le nostre ferite sono le ferite della storia”, “Peccato di Dio”, “Carne da Macello”. Il primo è tratto da una considerazione dell’attivista, artista, scrittrice e presidentessa del Movimento Identità Trans Porpora Marcasciano, che ha preso parte alla performance di Montini svoltasi nel febbraio 2023 a Bologna. Ogni ferita inferta a chiunque non si riconosca in un percorso binario è uno sfregio al concetto stesso di umanità. L’attenzione di Ruben Montini nei confronti della comunità queer si nota anche in altre sue forme espressive: nei lavori in tessuto, nelle fotografie e nelle sculture, sempre conseguenti agli atti performativi. Negli arazzi, in particolare, le azioni del cucire e del ricamare assumono un significato simbolico di connessione con la collettività.

Fino al 18 settembre 2023, presso la galleria Collica & Partners di Catania, sarà visitabile l’ultima mostra dell’artista, intitolata Le nostre ferite sono le ferite della storia. I lavori esposti si rifanno al tema della famiglia, spazio sociale in cui, molto spesso, le consuetudini sociali causano sofferenze indicibili a coloro che non rientrano nei dettami imposti dalla società tradizionale. Una valevole occasione per approfondire il percorso di un artista italiano che indubbiamente farà ancora parlare di sé. ELISABETTA

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RONCATI
Ruben Montini, Se non uccide fortifica , 2020. Performance presso CONFINO, Verona, 20'. Courtesy l'artista.
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Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio e Nicola Morittu

Nuova vita per la Fondazione Adolfo Pini a Milano

LIVIA MONTAGNOLI L Nata per iniziativa di Adolfo Pini all’inizio degli Anni Novanta per promuovere l’opera pittorica di Renzo Bongiovanni Radice (1899 –1970), e commissariata all’inizio del 2022, la Fondazione Adolfo Pini si appresta a vivere una rinascita. La palazzina storica di fine Ottocento, affacciata su Corso Garibaldi (al civico 2), fu casa e studio di Bongiovanni Radice, e presto tornerà a omaggiarlo con un percorso museale, frutto di un profondo restauro conservativo degli ambienti storici. Nel frattempo, la Fondazione, che da sempre si spende per promuovere l’arte emergente, ha indetto nuovi premi, tra cui il Pini Art Prize per artisti under 35 e due premi annuali per studenti universitari.

Brooklyn Powerhouse Arts. Nuova factory per artisti di Herzog & de Meuron

LIVIA MONTAGNOLI L Fino a qualche mese fa era un deposito abbandonato di Brooklyn, affacciato sul canale di Gowanus, amichevolmente ribattezzato Batcave e diventato negli anni un tempio dei graffiti conosciuto in tutta la città. Oggi, dopo una sontuosa riqualificazione costata 180 milioni di dollari finanziata dal filantropo Joshua Rechnitz, la vecchia centrale elettrica della Brooklyn Rapid Transit Company – costruita lungo il canale che divide i quartieri di Red Hook da Park Slope agli inizi del Novecento – rivive come Powerhouse Arts, una factory creativa destinata ad accogliere artisti e artigiani. Al progetto ha lavorato lo studio svizzero Herzog & de Meuron, in collaborazione con PBDW Architects, preservando stralci dei graffiti della Batcave. Il fulcro dell’hub creativo sono i laboratori di ceramica, lavorazione di legno e metalli, arte pubblica, la tipografia, a disposizione di artisti e istituzioni culturali a costi contenuti.

Tina Turner Museum: l’ex scuola della

regina del rock diventa il suo museo

GLORIA VERGANI L Dopo la morte di Tina Turner, avvenuta lo scorso 24 maggio, è tornato alla ribalta un museo a lei dedicato ma poco noto, legato alla sua infanzia. In quella che un tempo era la scuola che frequentava l’artista, la Flagg Grove School di Nutbush, a Brownsville nel Tennessee, c’è un museo in suo onore: l’ex scuola è composta da una sola stanza, costruita nel 1889 da un prozio di Turner. Il museo custodisce cimeli storici della cantante, album scolastici, fotografie, costumi e dischi d’oro, tutto ciò che serve per ripercorrere vita e carriera della regina del rock.

TODAYS FESTIVAL

In programma a Torino dal 25 al 27 agosto oltre 30 ore di musica, arte, incontri, produzioni esclusive, anteprime, performance, eventi formativi e di incontro con il meglio della scena musicale contemporanea. todaysfestival.com

SONIC PARK STUPINIGI

Nell’aulica cornice del giardino della Palazzina di Caccia di Stupinigi, patrimonio mondiale

Unesco, fanno il loro ingresso star internazionali della musica pop rock come Sting e Placebo. Dal 4 al 13 luglio. sonicparkfestival.it

GOA-BOA

CERVINO CINEMOUNTAIN

Il festival del cinema di montagna più alto d’Europa torna a Cervinia e Valtournenche dal 29 luglio al 5 agosto: con un’edizione speciale per celebrare la XXVI edizione della kermesse valdostana. cervinocinemountain.com

25mo anniversario per uno dei festival più longevi della penisola. Tra storia della musica (Kraftwerk e Peter Hook) e nuove tendenze, ha sede all’Arena del Mare del Porto Antico di Genova fino all’8 luglio. goaboa.it

ELECTROPARK FESTIVAL

Dal 14 al 16 luglio va in scena la rassegna di musica elettronica e arti performative in programma tra la Darsena di Genova (Galata Museo del Mare e Mercato dei pescatori) e il Golfo del Tigullio. electropark.it

ELBA ISOLA MUSICALE D’EUROPA

Tra musica classica e jazz, la rassegna torna dal 27 agosto al 10 settembre a Portoferraio, Capoliveri, Rio, Marciana e Marciana Marina, con una inedita “gita fuori porta” all’Isola di Capraia. elba-music.it

8 ALBE

Prima edizione della rassegna di video arte in Sicilia, nella tenuta ottocentesca Dimora delle Balze, in Val di Noto, in programma fino al 31 agosto. Con un itinerario espositivo all’interno della storica struttura. 8albe.com

Powerhouse Arts, Brooklyn ©Albert VecerkaEsto
I FESTIVAL CULTURALI DELL’ESTATE IN ITALIA a cura di CLAUDIA GIRAUD

MILANO RE-MAPPED SUMMER FESTIVAL

Seconda edizione della rassegna multidisciplinare di Pirelli HangarBicocca che, il 12 luglio e il 13 luglio, anima gli spazi esterni dell’istituzione milanese con performance, musica, danza e arti visive. pirellihangarbicocca.org

LIMBO FESTIVAL

Dal 7 al 9 luglio, nello scenario della tenuta “Il Ciocco” di Barga (Lucca), va in scena questo boutique festival che unisce musica, arte e sport a degustazioni, classi di yoga, gite nei vigneti e nei borghi della Garfagnana. limbofestival.com

SANTARCANGELO FESTIVAL

Dal 7 al 16 luglio va in scena la 53esima edizione della rassegna di arti performative che per dieci giorni trasforma il borgo medievale romagnolo in una “città-festival”. santarcangelofestival.com

Riapre il Museo di Arte Orientale di Genova

CORTONA ON THE MOVE

Protagonista della produzione fotografica a livello internazionale, il festival è un riferimento per fotografi, curatori, autori, critici, oltre che per il pubblico. Torna in provincia di Arezzo dal 13 luglio al 1° ottobre. cortonaonthemove.com

POPSOPHIA FESTIVAL

Capire la società attraverso gli Amati mostri Questo è il tema scelto dal festival di filosofia, contaminato con i fenomeni pop della cultura di massa, per l’edizione pesarese dal 6 al 9 luglio. popsophia.com

MISTICA SOUNDS FESTIVAL

Tra il 7 e il 9 luglio va in scena un festival immersivo, tra le colline e gli ulivi dell’agro-romano, al Borgo della Mistica, con due palchi di musica elettronica, installazioni, workshop e laboratori. misticasoundsfestival.com

VALENTINA MUZI L Chiuso nell’autunno 2021 per lavori di ristrutturazione, il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova ha riaperto con la mostra La Grande Onda. L’importanza dell’acqua nella cultura giapponese. Il Giappone, circondato dall’oceano, ha sviluppato un rapporto ambivalente con l’acqua, salvifica quando irriga le risaie e minacciosa quando irrompe con la forza delle piogge. E l’elemento ritorna sovente anche nell’arte nipponica, specialmente nelle stampe xilografiche di fine Ottocento, realizzate con il pigmento Blu di Prussia (l’esempio più celebre è la Grande Onda di Hokusai). Del nuovo allestimento si apprezza anche la grande terrazza recuperata che affaccia sul centro città e sul porto.

Nel 2025 ad Arles un nuovo museo Fragonard di Grasse sul costume provenzale

CLAUDIA GIRAUD L Raddoppia il Museo Provenzale del Costume e del Gioiello, proprietà delle tre sorelle Costa, eredi dell’impero dei profumi Fragonard di Grasse: dopo la casa padronale nel centro di questa cittadina della Costa Azzurra, la maison francese nel 2025 aprirà un nuovo spazio in Provenza, ad Arles. L’annuncio arriva dalla sua mente creativa, Agnès Costa, in vista del centenario della storica profumeria fondata nel 1926. “Il futuro museo di Arles ospiterà 20mila pezzi della collezione di Magali Pascal, amica di mia madre e come lei appassionata di costumi provenzali”, ci confida Agnès. “Sorgerà all’interno del vecchio edificio dell’Hôtel Bouchaud de Bussy che sarà ristrutturato dallo studio KO, che ha curato il progetto del nuovo museo dedicato allo stilista Yves Saint Laurent a Marrakech”. Intanto, nel vicino Museo Jean-Honoré Fragonard di Grasse, la maison apre due nuove mostre: Je declare vivre de mon art, e #SIAMOAGATA!.

COLOR FEST

VIVA! FESTIVAL

La rassegna pugliese di musica elettronica ed alternativa torna, dal 3 al 6 agosto, in Valle d’Itria in due location d’eccezione: la Masseria Grofoleo a Locorotondo e la spiaggia di Cala Masciola. vivafestival.it

Dall’11 al 13 agosto, nella storica location dell’Agriturismo Costantino di Maida (CZ), tra le colline che affacciano sulle coste di Lamezia Terme, torna l’XI edizione della rassegna. Tra arte, musica, natura. colorfest.it

In una torre medievale nella Tuscia apre un museo d’arte contemporanea

VALENTINA MUZI L A Sipicciano (piccolo paese dell’alta Tuscia viterbese) esiste un’antica torre di pietra conosciuta come Ex Torre Enel. Abbandonata negli Anni Settanta, oggi la Torre diventa sede di Eccidio, l’intervento site specific dell’artista Iván Navarro che inaugura l’apertura del MicroMuseo di Arte Contemporanea della Tuscia, fondato dal critico d’arte Antonio Arévalo. “Il progetto si lega al territorio a partire da questa torre storica”, spiega Arévalo, “a cui è stata data una nuova e brillante vita, trasformandola in un piccolo museo in grado di portare quello sviluppo artistico e culturale che incontra la storia di questo borgo”

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LOST IN DISTRIBUTION

Davide Rivalta a Dublino con le sue sculture animali

LIVIA MONTAGNOLI L Nel parco di Lucan House, sede dell’Ambasciata d’Italia a Dublino, le sculture animali di Davide Rivalta (Bologna, 1974) sanciscono l’importanza di valorizzare la leva culturale come potente strumento di politica estera. Lo scultore emiliano ha portato nella capitale irlandese i suoi scenografici animali monumentali ricreati in bronzo, alluminio e fibra di vetro: oltre alle  Bufale “al pascolo” nel parco di Lucan House e al Cavallo in vetroresina bianca collocato all’ingresso della villa palladiana per omaggiare la cultura irlandese, anche la piazza del Castello di Dublino ha accolto la scultura di una  Leonessa in bronzo, allestita nel luogo simbolo della città.

Grandi collaborazioni tra musei: le opere di Capodimonte

volano al Louvre

Nella Los Angeles della metà degli Anni Novanta, il solitario tredicenne Stevie trascorre la sua estate tra l’angusto appartamento in cui vive con la madre e lo scostante fratello Ian e gli spazi desolati della periferia della città, alla disperata ricerca di amici, identità e senso di appartenenza. L’incontro casuale con alcuni ragazzi più grandi, tutti skater, lo porterà a superare insicurezze e paure pur di entrare nella piccola comunità che ha scelto.

L’esordio alla regia dell’attore e sceneggiatore losangelino Jonah Hill è il sensibile e ruvido racconto di un percorso di iniziazione, un film sull’amicizia e sul cambiamento, sulla lealtà e sull’impacciato entusiasmo dell’adolescenza.

Basato su una sceneggiatura originale e accompagnato da una colonna sonora in perfetta sintonia, Mid90s possiede sulla carta molte caratteristiche che potrebbero inserirlo tra i classici prodotti del cinema indie. Attraverso una trama apparentemente semplice, riprese claustrofobiche e una fotografia sgranata e sporca, Hill ci regala in realtà un viaggio di formazione costellato di rituali adolescenziali perfettamente inseriti in una complessa stratificazione di riferimenti cinematografici e formali. La scelta “vintage” del 4:3 per documentare le strade assolate di una Los Angeles di quasi trent’anni fa, senza cellulari, tablet o Wi-Fi, riesce a restituire la fanciullesca innocenza, l’entusiasmo e la facilità relazionale di un’epoca ormai lontana, in cui convivono audiocassette e CD, il Super Nintendo e i Ninja Turtles, i giochi da tavolo e le Blockbuster nights.

Le atmosfere senza filtri dei film di Harmony Korine (presente in un breve cammeo) incontrano lo smarrimento generazionale del Boyhood di Linklater in questo lungometraggio volutamente sincero, intimo e contenuto: un percorso di crescita da cui emerge con forza quel profondo bisogno di condivisione e di accettazione che caratterizza gli anni eccitanti e difficili dell’adolescenza.

GIULIA PEZZOLI

Titolo originale: Mid90s

Origine: USA, 2018

Genere: drammatico

Regia: Jonah Hill

Sceneggiatura: Jonah Hill

Cast: Sunny Suljic, Katherine Waterston, Lucas Hedges, Na-kel Smith, Olan Prenatt, Gio Galicia

Durata: 84 min

GIULIA GIAUME L Portare il meglio della Reggia di Capodimonte al Musée du Louvre: è questa la visione che muove la mostra che fino all’8 gennaio 2024 vede esposte a Parigi circa 70 opere dalla collezione permanente del Museo e Real Bosco di Capodimonte. Alcuni capolavori nostrani così dialogano con quelli del Louvre, in un allestimento completamente inedito: tra questi lavori figurano La Flagellazione di Cristo di Caravaggio, la Danae di Tiziano, La Trasfigurazione di Bellini, La Crocifissione di Masaccio, la Pietà di Annibale Carracci, l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, la Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi.

La nuova sede di Sotheby’s New York è il Breuer Building

LIVIA MONTAGNOLI L Finora il Breuer Building di New York, progettato dall’architetto modernista Marcel Breuer e completato nel 1966, nell’Upper East Side, ha sempre ospitato collezioni museali. Nato per accogliere il Whitney Museum of American Art (per quasi 50 anni), il palazzo è stato poi sede del progetto The MET Breuer e collocazione temporanea della Frick Collection (fino al 2024). Ora l’edificio passa di proprietà a Sotheby’s, che qui aprirà il suo quartier generale newyorkese nel 2025, per la cifra di circa 100 milioni di dollari sborsata dal gruppo. Nel nuovo flagship Sotheby’s ospiterà, oltre alle saleroom, anche gallerie e sale espositive.

Carolyn Christov-Bakargiev dopo venti anni lascia il Castello di Rivoli

DESIRÉE MAIDA L Termina dopo vent’anni il lavoro di Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. A dare notizia del pensionamento della critica d’arte statunitense è lo stesso Museo, che inoltre ha lanciato il bando per selezionare il nuovo direttore, cui è possibile partecipare fino al 15 luglio. L’ingresso di Christov-Bakargiev al Museo risale al 2001, in qualità di Capo Curatore, ruolo che ha ricoperto fino al 2008. Dal 2009 è stata direttrice ad interim, per ricoprire poi il ruolo di direttrice dal 2016 a oggi. Critica d’arte tra i più influenti a livello internazionale, Christov-Bakargiev inoltre è stata nel 2008 direttrice artistica della 16a edizione della Biennale di Sidney, di documenta 13 a Kassel (2012), curatrice della Biennale di Istanbul 2015, di Villa Medici, Capo Curatore a P.S.1 Contemporary Art Center a New York e dal 2016 al 2018 direttrice della GAM di Torino.

SOTTO IL SOLE DI L.A.
Breuer Building, New York. Photo © Max Touhey

Come Pioggia

a cura di Stefano Cagol

Opere dalla piattaforma creativa sui temi ambientali

We Are the Flood di MUSE Museo

– 29.10.2023

Eugenio Ampudia (ES), Saverio Bonato (IT), Stefano Caimi (IT), Hannes Egger (IT), Nezaket Ekici (DE/TK), Micol Grazioli (IT), Elena Lavellés (ES), Silvia Listorti (IT), Mary Mattingly (US), Philipp Messner (IT/DE), Giulia Nelli (IT), Hannah Rowan (UK), Giacomo Segantin (IT), g. olmo stuppia (IT)

+ PROJECT ROOM

CASTEL BELASI

antropocene
generazione
Campodenno | Val di Non | Trentino Hannah Rowan (UK), Tides in the Body, 2023
fino al 10 settembre: mar-ven 10-12:30 e 15-20 / sab-dom 10-20 dall’11 settembre: sab-dom 10-18 www.castelbelasi.it
delle scienze Trento 11.06

SPAZIOMENSA IL TESSUTO CONTEMPORANEO DELLA CAPITALE

SPAZIOMENSA è un artist-run space che si configura come luogo di accoglienza e di sperimentazione. Nel suo primo anno di attività, lo spazio si è posto l’obiettivo di valorizzare il fermento artistico romano, ospitando al suo interno un nucleo di artisti e curatori legati alla città di Roma. I membri fondatori – Giuseppe Armogida, Gaia Bobò, Sebastiano Bottaro, Dario Carratta, Marco Eusepi, Alessandro Giannì, Andrea Polichetti – hanno contribuito alla costruzione di un dialogo basato sullo scambio e sulla gestione orizzontale della proposta espositiva, in un’ottica interdisciplinare. Dal 2022 lo spazio è gestito da Sebastiano Bottaro, Dario Carratta e Alessandro Giannì.

SPAZIOMENSA si trova all’interno di Citylab971, un’esperienza di rigenerazione urbana e ricerca artistica contemporanea nel III Municipio. Concepito come un grande project space, ha sempre cercato lo scambio e la connessione con diversi linguaggi e processi creativi. Parallelamente alle mostre principali, ad oggi tre grandi collettive e cinque bipersonali, si sono sviluppati vari format come Tuorlo, Magnete e Delay, ideati durante la prima fase espositiva presentata dall’artist-run space. Questi format sono stati pensati per esplorare diversi linguaggi, coinvolgendo molteplici realtà del panorama artistico e ospitando mostre personali e collettive in una delle sale che funge da project room. Ad esempio, Magnete, curato da Gaia Bobò, ha offerto l’opportunità a diverse realtà editoriali di presentare dei loro progetti espositivi. Nel format Tuorlo, invece, si è dato spazio a un ciclo di mostre personali della durata di una settimana, in cui gli artisti hanno avuto modo di proporre progetti ad hoc in linea con l’identità dello spazio. Infine, nel format Delay – nato dalla necessità di agire immediatamente, superando gli aspetti formali della comunicazione – le mostre dalla durata temporanea e indefinita prendevano forma subito dopo essere state immaginate, creando un’idiosincrasia tra gli eventi ospitati e la loro comunicazione attraverso i social media, che avveniva in ritardo, dopo la realizzazione dell’evento stesso. In questo caso, il pubblico era composto solamente da coloro che, in quel momento, si trovavano all’interno di SPAZIOMENSA. Era quindi l’evento a scegliere i suoi spettatori.

Nella stagione espositiva del 2022 si è dato forma a PLAYTIME, un progetto ideato e curato da Gaia Petronio in collaborazione con Sebastiano Bottaro e con il

NEI NUMERI PRECEDENTI

#47 Almanac Torino

#51 Sonnestube Lugano

#53 Numero Cromatico Roma

#57 Metodo Milano

#59 Spazio in Situ Roma

#62 Spazio Bidet Milano

#64 Mucho Masi Torino

#67 La portineria Firenze

#69 Spazio Y Roma

#71 spazioSERRA Milano

supporto dei membri fondatori dello spazio. PLAYTIME è stato un terreno di gioco, sperimentazione e dialogo tra artisti che si esprimono con linguaggi e attitudini differenti. Lo scopo era indagare la performance, trovando regole comuni in un gioco del corpo e dello spazio senza limiti di forma ed espressione.

Una serie di residenze nelle stanze di SPAZIOMENSA danno vita a incontri tra personalità e prospettive diverse che culminano in studi e performance site-specific aperti al pubblico, anch’essi parte integrante della ricerca e della resa finale.

Nell’anno corrente SPAZIOMENSA accoglierà una serie di group show. Il concept della mostra viene reificato sulla base di una suggestione, come nel caso di CORSE VIA SU PIEDI DI PORCELLANA che, come scrive Micol Teora, “è una contraddizione in termini, è una fuga che si realizza solo in potenza, è l’affanno che ti assale quando il corpo non risponde alle intenzioni. Corse via su piedi di porcellana è l’inizio di una fiaba, o forse il suo finale. Nel mondo immaginario l’impossibile diventa possibile, e su piedi di porcellana si può prendere il volo. Li vorrei odiare questi piedi di porcellana, ma per questo tempo (ormai) li indossiamo. Mi ricordano la casa di mia nonna, le collezioni di zoccoli di ceramica decorati; le bambole di porcellana, dal corpo morbido e i piedi sbeccati, il grande tappeto colorato e le ore passate a giocare. Mi ricordano la vita diversa che avevo immaginato per me, gli impegni da cui vorrei fuggire, i dolori che non vorrei affrontare. Fragile nel movimento, rimango intatta solo se sto ferma. Solo che ferma non ci so stare”.

A Roma SPAZIOMENSA organizza mostre e residenze per dar voce alle sperimentazioni artistiche contemporanee. Parole d'ordine: scambio, dialogo e approccio interdisciplinare
SPAZIOMENSA, exhibition view, Roma
OSSERVATORIO NON PROFIT a cura di DARIO MOALLI 73 39
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UN CERTAIN ROBERT DOISNEAU Riccione Villa Mussolini 22 giugno –12 novembre 2023 civita.art riccione.it Mostra promossa da A cura di Organizzata da In collaborazione con Sponsor tecnico R23_Doisneau_arttribune_inserzioni_1.indd 1 16/06/23 14:02

Espressioni quali “questione di genere”, “gender gap” e diritti LGBTQIA+ sono sempre più discusse in ambito sociale, economico e politico. Il mondo della cultura come si pone nei confronti di questi temi? Ecco cosa è emerso dalle nostre ricerche

© Giulia Neri per Artribune Magazine

IL MONDO DELLA CULTURA È DAVVERO INCLUSIVO?

STORIES GENDER E CULTURA
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DESIRÉE MAIDA

Do Woman have to be naked to get into the Met Museum?” (“Le donne devono essere nude per entrare al Met Museum?”) è il titolo del cartellone pubblicitario – passato alla storia –realizzato nel 1989 dalle Guerrilla Girls, collettivo di artiste femministe la cui identità è mantenuta anonima indossando maschere con il volto di gorilla. Il cartellone – commissionato dal Public Art Fund di New York ma poi rifiutato – riporta anche i seguenti dati: “meno del 5% degli artisti presenti nelle sezioni di arte moderna sono donne, però l’85% dei nudi sono femminili”. Ciò che le Guerrilla Girls denunciano con il loro manifesto – e con la loro pratica fin dal 1984, anno di nascita del collettivo – è l’esclusione delle donne dal sistema dell’arte ufficiale, al contrario della imperante presenza maschile. Nonostante negli anni il dibattito non si sia mai assopito, anzi negli ultimi tempi è più caldo e urgente che mai, per molti aspetti pare che il mondo odierno non sia poi così molto distante e dissimile da quello del passato; inspiegabilmente, anzi, sembra che siano più evidenti i casi di gender gap (ovvero divario tra generi, che poi si traduce in disuguaglianza in ambito sociale e professionale tra uomini e donne).

COSA SI INTENDE PER “QUESTIONE DI GENERE”?

Prima di addentrarci nell’analisi del fenomeno nel mondo della cultura, proviamo a capire cosa si intende per “questione di genere”. Consultando il sito della Treccani, ci imbattiamo in un articolo di Carmen Leccardi sul tema che sottolinea come il termine “genere”, oggi, rimandi a “un’assenza, quella di inclusione ed eguaglianza del genere femminile in rapporto a quello maschile. Dunque, rimanda alle relazioni di potere tra maschile e femminile, alla loro evoluzione storica e alle diverse forme politiche, giuridiche, economiche e culturali che, a seconda dei contesti di tempo e di luogo, queste relazioni hanno assunto”. Il tema della sperequazione tra generi non riguarda solo il gap tra uomini e donne, ma tocca anche le persone LGBTQIA+, essendo entrambe le questioni la conseguenza di stereotipi radicati in una società dal DNA ancora fortemente patriarcale e sessista. Questa constatazione ci conduce quindi a una domanda: nel mondo della cultura esiste o può essere raggiunta l’equità di genere?

LA DISPARITÀ DI GENERE NEL MONDO DELLA CULTURA

Negli ultimi anni si sono succeduti diversi studi che attestano come nel mondo dell’arte le donne facciano ancora fatica ad essere presenti come e quanto gli uomini. Nelle collezioni di musei, nelle mostre, nel mercato, nei ruoli manageriali (citiamo, tra tutte, la ricerca condotta da Renée Adams, Roman Kräussl, Marco Navone e Patrick Verwijmeren nel 2017 dal titolo Is Gender in the Eye of the Beholder? Identifying Cultural Attitudes with Art Auction Prices e quella pubblicata da Koones nel 2020; ricordiamo inoltre un importante saggio che ha fatto da apripista al tema, ovvero Why Have There Been No Great Women Artists? di Linda Nochlin pubblicato nel 1971). Allargando invece lo sguardo a una prospettiva generale, stando al Global Gender Gap Report 2022 redatto dal World

NONOSTANTE NEGLI ANNI IL DIBATTITO NON SI SIA MAI

ASSOPITO, PARE CHE IL MONDO ODIERNO NON SIA POI COSÌ

MOLTO DISTANTE E DISSIMILE DA QUELLO DEL PASSATO

Economic Forum (che ogni anno fornisce una relazione sulla portata del divario di generi in tutto il mondo), nel 2022 “il gender gap globale è stato colmato del 68,1%. Con il ritmo attuale, ci vorranno 132 anni per raggiungere la piena parità. Ciò rappresenta un leggero miglioramento rispetto alla stima del 2021 (136 anni per giungere alla parità)”. Eppure va peggio rispetto al 2020, quando veniva calcolato che per colmare il gender gap sarebbero stati necessari 100 anni. Sicuramente ha influito su questo processo l’avvento della pandemia, rallentandone notevolmente il percorso, come sottolineato anche dal documento redatto dalla Commissione Europea nel dicembre 2020, dal titolo Presidency Conclusions on gender equality in the field of culture, secondo cui “la crisi causata dalla pandemia di COVID-19 ha avuto un impatto estremamente duro sui settori culturali e creativi, e vi è il rischio di esacerbare gli stereotipi di genere e la disuguaglianza strutturale di genere”, sottolineando che “le misure per la ripresa di tali settori dovrebbero essere viste come un’opportunità per promuovere l’uguaglianza di genere”. Ritornando al report del World Economic Forum, il Paese più parita-

Rainbow. Colori e meraviglie tra miti, arti e scienza , MUDEC, Milano. Photo ©Jule Hering

TUTTI I SIGNIFICATI E I COLORI DELL’ARCOBALENO IN UNA MOSTRA A MILANO

Si intitola Rainbow. Colori e meraviglie tra miti, arti e scienza la mostra tenutasi al Museo delle Culture di Milano e incentrata sul tema dell’arcobaleno, inteso come fenomeno fisico, come simbolo culturale ed elemento che ha ispirato il lavoro di numerosi artisti. Il progetto espositivo – di ampia portata per la serie di eventi e iniziative a esso connessi, tra tutti la mostra in corso fino al 3 settembre al Museo di Storia Naturale di Milano intitolata Rainbow. Tutti i colori dell’evoluzione – trae ispirazione dalla storica mostra tenutasi nel 1975 al De Young Museum di San Francisco, The Rainbow Show, a sua volta ispirata dal pensiero dell’attivista afroamericana Angela Davis e dal concetto di “Rainbow Nation”, inteso come ideale di integrazione razziale. È da questa temperie che l’arcobaleno viene assunto come simbolo per la rivendicazione dei diritti civili, per poi essere adottato anche dalla comunità gay di San Francisco, da sempre città molto attiva in questa lotta. “Questo è il lungo percorso che lega l’utilizzo dell’arcobaleno ai diritti civili”, ci spiega Carlo Antonelli (produttore culturale e cinematografico, già direttore di RollingStone, Wired, GQ e anni fa anche direttore del museo di Villa Croce a Genova), direttore di MU-Mudec United, rivista a cura del MUDEC edita da Nero Editions. Il primo numero della rivista si intitola Rainbow, ed è stato accompagnato dalla ripubblicazione del Rainbow book, il catalogo della mostra del 1975 che in realtà era “un libro vero e proprio, un delirio fricchettone di dissertazioni su vari temi, dall’astrologia ai chakra e molto altro, ma non contiene diretti riferimenti alle questioni LGBTQIA+”. La mostra milanese ha ospitato, tra varie opere, l’installazione immersiva realizzata da Laura Grisi nel 1968 Rainbow, prisma e luce, e Il significato è nel gioco di Amalia del Ponte prodotta appositamente per questa esposizione. E ancora, opere di Giacomo Balla, Joseph Albers, Frank Stella e Shusaku Arakawa, fino al modello originale di Spectral Passage, un arcobaleno percorribile che l’artista lituana Aleksandra Kasuba realizzò per il Rainbow Show di San Francisco.

mudec.it

rio al mondo (per tredici anni consecutivi) è l’Islanda, seguita da Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda, Svezia, Ruanda, Nicaragua, Namibia, Irlanda e Germania. L’Italia? Si colloca al 63esimo posto a livello mondiale e al 25esimo a livello europeo.

LA DISPARITÀ DI GENERE

NEL MONDO DELLA CULTURA ITALIANO

Risale al 2021 la nascita dell’Osservatorio sulla parità di genere del Ministero della Cultura, strumento attraverso il quale l’istituzione si adopera per colmare il gender gap nel mondo della cultura italiano. Nel 2022 l’Osservatorio (costituito su esempio dell’Observatoire de l’égalité entre femmes et hommes dans la culture et la communication del Ministero della Cultura francese, primo esempio in Europa) ha pubblicato il suo primo rapporto, i cui dati sono frutto di audizioni che hanno coinvolto “numerose realtà pubbliche e private del mondo culturale italiano”. I temi trattati riguardano “la vita quotidiana della donna che lavora nel mondo artistico e culturale: la maternità, il ruolo di cura, i trattamenti sessisti e violenti nel mondo pubblico e privato della cultura e dell’arte, le differenze di stipendio a la-

LA COSTITUZIONE

DELL’OSSERVATORIO STA

DETERMINANDO LA FUORIUSCITA

DAL SILENZIO DI MOLTE DONNE

PROTAGONISTE DEL MONDO

DELLA CULTURA E DELLO

SPETTACOLO

voro uguale, i ruoli di vertice contro i ruoli esecutivi affidati a uomini e donne, le situazioni di precariato, la percezione del ruolo femminile, le formule sessiste utilizzate in ambienti di lavoro, ma anche sui giornali, sui social media e in televisione”. La costituzione dell’Osservatorio, continua il rapporto, “sta determinando la fuoriuscita dal silenzio di molte donne protagoniste del mondo della cultura e dello spettacolo. La possibilità di esporre ricerche e analisi prodotte nel tempo e sinora rimaste in gran parte oscurate, la rivendicazione della propria consapevolezza e del proprio ruolo, la richiesta di sostegno e di diritti, il desiderio e la determinazione a cambiare le cose rappresentano un importante momento di crescita del settore culturale in sé”.

ED ESTENDENDO L’INDAGINE ALLE TEMATICHE LGBTQIA+?

Se sulla disparità di genere tra donne e uomini esistono fitta letteratura e documenti ufficiali, diventa più difficile trovare simili dati per quanto concerne le persone LGBTQIA+. Riflettendoci, quando si parla di “gender gap”, in realtà si dovrebbe fare riferimento a tutte le forme di sperequazioni, dato che queste hanno origine da mentalità e atteggiamenti discriminatori. E quello della cultura, per sua stessa visione e missione, è (o dovrebbe essere) un mondo inclusivo fautore e portatore di messaggi inclusivi. “Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità”, è uno dei passaggi chiave

STORIES GENDER E CULTURA
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DALLA “RAINBOW PRIDE FLAG” ALLA “PROGRESS PRIDE FLAG” ALL’INSEGNA DELL’ARTE

È stata ideata dal designer e artista americano Daniel Quasar la Progress Pride Flag, la variante più aggiornata della Rainbow Pride Flag, ovvero la bandiera arcobaleno simbolo del movimento LGBTQIA+. La prima versione della bandiera risale al 1978, e fu creata a San Francisco dall’artista Gilbert Baker: comprendeva otto strisce di colore diverso, ognuno dei quali con un preciso significato: rosa per il sesso, rosso per la vita, arancione per la guarigione, giallo per la luce del sole, verde per la natura, turchese per la magia, indaco per la serenità e viola per lo spirito. Presto la bandiera di Baker viene utilizzata come simbolo della lotta per i diritti civili; nel corso degli anni si sono poi succedute nuove versioni della “flag” per rappresentare identità più specifiche (tra tutte, ricordiamo quella disegnata da Monica Helms nel 1999 dedicata alle persone transgender). La bandiera di Quasar si contraddistingue per il tradizionale sfondo a strisce orizzontali sul quale si staglia una forma a gallone costituita a sua volta da altre strisce colorate: quelle azzurre, rosa e bianche rappresentano individui trans e non binari, quelle marroni e nere rappresentano le comunità emarginate di “People of Color” (POC); inoltre la striscia nera rappresenta anche le persone “che convivono con l’AIDS e lo stigma e il pregiudizio che li circonda, e coloro che sono morti a causa della malattia”, ha sottolineato l’artista. “Questo nuovo design costringe lo spettatore a riflettere sui propri sentimenti nei confronti della bandiera originale del Pride e sul suo significato, e sulle diverse convinzioni su chi rappresenta realmente quella bandiera, mettendo in risalto le urgenze attuali della nostra comunità”. Nel 2020, il Victoria and Albert Museum di Londra ha acquisito una versione della Progress Pride Flag di Quasar, installata nella galleria Design 1900 – Now.

della nuova definizione di museo che l’ICOM – International Council of Museums (organizzazione internazionale fondata nel 1946 che rappresenta i musei e i suoi professionisti) ha elaborato durante la 26esima Assemblea Generale Straordinaria tenutasi a Praga nell’agosto 2022, dove “inclusione” e “diversità” assumono un ruolo determinante nelle politiche delle istituzioni museali. Volgendo lo sguardo all’Italia, negli ultimi mesi il nostro Paese non si è particolarmente distinto nella lotta per i diritti civili: risale allo scorso aprile la condanna del Parlamento Europeo nei confronti dell’Italia per retorica anti-gender e anti-LGBTQIA+, con un emendamento proposto dai Verdi e passato con 282 voti a favore, 235 contrari e 10 astenuti. Secondo il testo, l’Europarlamento “esprime preoccupazione per gli attuali movimenti retorici anti-diritti, anti-gender e anti-LGBTQIA+ a livello globale, alimentati da alcuni leader politici e religiosi in tutto il mondo, anche nell’UE; ritiene che tali movimenti ostacolino notevolmente gli sforzi volti a conseguire la depenalizzazione universale dell’omosessualità e dell’identità transgender, in quanto legittimano la retorica secondo cui le persone LGBTQIA+ sono un’ideologia anziché esseri umani; condanna fermamente la diffusione di tale retorica da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell’UE, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia”.

LGBTQIA+ E MONDO DELLA CULTURA ITALIANO

Nel tentativo di ricercare dati sulla situazione lavorativa di persone LGBTQIA+ nel mondo della cultura italiano, non abbiamo trovato elementi che mostrino tale rapporto nello specifico, ma solo numeri di natura generale che, comunque, possono rivelarsi utili

RISALE ALLO SCORSO APRILE

LA CONDANNA DEL PARLAMENTO

EUROPEO NEI CONFRONTI

DELL’ITALIA PER RETORICA

ANTI-GENDER E ANTI-LGBTQIA+

per farsi un’idea. Come sottolineato da Parks – Liberi e Uguali, associazione senza scopo di lucro che aiuta le aziende a sviluppare il proprio business per mezzo di strategie e buone pratiche che rispettano la diversità, secondo le stime dell’OMS, le persone LGBTQIA+ rappresentano almeno il 5% della popolazione mondiale, e su 23 milioni di persone che lavorano in Italia, più di un milione è omosessuale, bisessuale o transessuale. Nello specifico, uno studio condotto dall’ISTAT nel 2020-2021 dal titolo Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato, “il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Il 12,6% non si è presentato a un colloquio di lavoro o non ha fatto domanda poiché pensava che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Questi dati sono riferibili solamente a una piccola parte della popolazione LGBT+ (le persone in unione civile o già in unione), il segmento più propenso a vivere il proprio orientamento sessuale in una dimensione pubblica”

L’ARTE COME STRUMENTO PER LA DIFESA DEI DIRITTI CIVILI

La strada per giungere alla parità di diritti (ma soprattutto al loro riconoscimento) è tortuosa in tutti gli

La nuova bandiera LGBTQIA+ disegnata da Daniel Quasar

ambiti della vita sociale, politica e lavorativa, e in quest’ultimo campo è incluso anche il mondo dell’arte sebbene, con l’opera e l’impegno di numerosi artisti e professionisti del settore, essa si faccia portavoce di messaggi impegnati e rivolti a scuotere le coscienze. Nel corso del Novecento (e fino a oggi), sono stati numerosi gli artisti che hanno fatto della propria pratica uno strumento per veicolare ideali inclusivi legati ai temi LGBTQIA+: tra tutti ricordiamo Keith Haring, David Hockney, Robert Mapplethorpe, Gilbert & George, Catherine Opie. A livello istituzionale, tra le iniziative e i progetti promossi con tali finalità è l’LGBTQ Working Group del Victoria and Albert Museum di Londra, gruppo di lavoro che attraverso le collezioni del museo esplora le questioni di genere, sessualità e identità, coinvolgendo il pubblico con attività e visite guidate che rileggono la storia da prospettive altre. Restando nella capitale del Regno Unito, il British Museum ha sviluppato all’interno del proprio percorso espositivo ulteriori percorsi a tema LGBTQIA+ – dal titolo Desire, love, identity: LGBTQ histories trail – che vedono protagoniste alcune opere del passato che possono considerarsi “queer ante litteram”: il primo percorso comprende 15 opere (fruibile in 60-75 minuti), il secondo tre (visitabile in 30 minuti), ed entrambi sono accompagnati da una sorta di audioguida disponibile su Apple Music, YouTube Music e Spotify. Le opere sono spesso a soggetto mitologico, come la statua di Ganimede (di cui si innamorò Zeus), i ritratti scultorei dell’imperatore Adriano e il suo amato Antinoo, la rappresentazione della divinità mesopotamica Ishtar, che aveva il potere di assegnare il genere; una coppa da vino di epoca romana che raffigura due uomini durante un amplesso, quasi mai esposta nel corso del Novecento perché in Inghilterra e in Galles fino al 1967 l’omosessualità era illegale.

IN ITALIA SI LAVORA A UN MUSEO DELL’OMOSESSUALITÀ

La notizia della nascita del primo Museo dell’Omosessualità in Italia risale allo scorso anno, quando il Consiglio comunale di Torino approva una mozione –con 28 voti favorevoli e 1 astenuto – che impegna sindaco e Giunta alla realizzazione del progetto. Non è un caso che questa iniziativa parta proprio da Torino, città considerata da sempre capitale italiana dei diritti civili: qui è nato nel 1971 FUORI, primo movimento italiano di liberazione omosessuale; nel 1981 il primo gruppo italiano di gay credenti

COMBATTERE I PREGIUDIZI ATTRAVERSO L’ARTE. L’IMPEGNO DI JORDAN EAGLES

È un’accusa contro le discriminazioni nei confronti di persone LGBTQIA+ la pratica di Jordan Eagles (New York, 1977), artista da anni impegnato ad abbattere uno dei luoghi comuni – o meglio lo stigma – che grava sulla comunità LGBTQIA+ e sull’HIV. Secondo le disposizioni della USA Food and Drug Administration (l’agenzia del farmaco statunitense), agli uomini che fanno sesso con altri uomini è vietato donare il sangue. Un pregiudizio che Eagles racconta e denuncia attraverso opere e installazioni realizzate con vero sangue di persone LGBTQIA+, come una sorta di rituale che possa purificare l’opinione pubblica dalle false credenze. Tra i lavori più noti di Eagles, è Queer Blood America, serie che pone l’accento su una disposizione risalente al 1954 della Comics Magazine Association of America, che vietava ad artisti e distributori di trattare fumetti di argomento queer. In questa serie di opere, Eagles schizza il sangue di uomini gay sessualmente attivi sulla faccia dei personaggi dei fumetti, dando vita così a una correlazione concettuale: i supereroi salvano vite, così come potrebbe salvare molte vite il sangue donato da persone LGBTQIA+. Illuminations è invece il titolo dell’installazione che Eagles ha presentato all’Andy Warhol Museum a Pittsburgh il 1° dicembre 2019, in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS: attraverso un sistema di pannelli, sono state proiettate le immagini del sangue di persone LGBTQIA+ sulle opere di Warhol.

jordaneagles.com

TORINO È CONSIDERATA

68,1%

il gender gap colmato nel 2022

Davide e Gionata, nel 1986 la prima rassegna cinematografica a tema omosessuale Da Sodoma a Hollywood. La proposta di dare vita a un Museo dell’Omosessualità è del 2021, su idea della Fondazione Sandro Penna – Fuori!, presieduta da Angelo Pezzana, ed è sorta in occasione della mostra Fuori! 19710-2021. 50 anni dalla fondazione del primo movimento omosessuale in Italia, esposta al Polo del ’900. La nuova istituzione potrebbe trovare casa nel complesso dei palazzi San Celso e San Daniele, che accolgono già, tra diversi istituti e fondazioni culturali, il Polo del ’900 e il Museo della Resistenza e dei Diritti. Intanto il capoluogo piemontese è tra le città candidate ad accogliere l’EuroPride 2027.

5% 26%

la percentuale mondiale stimata di persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+

la percentuale di persone omosessuali o bisessuali che hanno dichiarato che il loro orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa

12,6%

la percentuale di persone omosessuali o bisessuali che non si sono presentate a un colloquio di lavoro o non hanno fatto domanda poiché pensavano che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al loro orientamento sessuale

STORIES GENDER E CULTURA
DA SEMPRE LA CAPITALE ITALIANA DEI DIRITTI CIVILI
Fonte: Global Gender Gap Report 2022 – World Economic Forum / ISTAT gli
di
132 73 49
anni necessari per raggiungere la parità
genere

I MUSEI E GLI ARCHIVI LGBTQIA+ PIÙ IMPORTANTI AL MONDO

TORONTO

THE ARQUIVES

Ospita una delle più importanti collezioni queer al mondo, con l’obiettivo di “acquisire, conservare, organizzare e dare accesso pubblico a informazioni e materiali su qualsiasi supporto, da e su persone LGBTQ2+, prodotti principalmente in o riguardanti il Canada”. Oltre alla propria collezione, l’istituzione offre al pubblico un programma di mostre, tour a piedi, presentazioni ed eventi.

arquives.ca

VICTORIA

THE TRANSGENDER ARCHIVES

Questi archivi fanno parte delle Biblioteche della Victoria University in Canada, nella convinzione che “la storia dei pionieri Trans+ e di altri attivisti di generi diversi e il lavoro che hanno svolto per conto delle loro comunità debbano essere preservati”. Gli Archivi acquisiscono documenti, pubblicazioni rare e cimeli “di persone e organizzazioni che hanno lavorato per il miglioramento delle persone Trans+”.

uvic.ca/transgenderarchives/about

SAN FRANCISCO

GLBT HISTORICAL SOCIETY & MUSEUM

Inaugurato nel 2011, il GLBT Historical Society Museum si trova nel cuore di Castro District, ed è dedicato alla storia queer di San Francisco, raccontata attraverso mostre, programmi speciali ed eventi, oltre agli archivi della GLBT Historical Society.

glbthistory.org

LOS ANGELES

ONE NATIONAL GAY & LESBIAN ARCHIVES

Fondata nel 1952 come ONE Inc., l’editore di ONE Magazine, ONE Archives Foundation

è la più antica organizzazione LGBTQ negli Stati Uniti. Nel 2010 i suoi archivi – con una vastissima collezione di materiali storici a tema LGBTQ – sono stati depositati nelle biblioteche della University of Southern California (USC), che ad oggi rappresenta il più grande archivio di materiali lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer di tutto il mondo.

onearchives.org

CHICAGO

NATIONAL GAY & LESBIAN SPORTS

HALL OF FAME

Fondato nel 2013, si tratta del primo museo negli Stati Uniti nato per celebrare le personalità LGBTQIA+ del mondo dello sport. Si trova a Boystown, nell’area della comunità LGBTQIA+ nota come Center on Halsted. Il museo è sorto dopo il coming out di Jason Collins, primo giocatore della NBA a dichiarare la propria omosessualità.

FORT LAUDERDALE

STONEWALL NATIONAL MUSEUM & ARCHIVES

Questo museo celebra i moti di Stonewall, scoppiati a New York nel 1969 tra la polizia e gruppi di omosessuali, evento considerato simbolico e primo atto della nascita del movimento di liberazione gay. Nato come biblioteca nel 1984, lo Stonewall National Museum si trova a Wilton Manors, e custodisce oltre 30mila oggetti tra opere d’arte e documenti tutti relativi a Stonewall.

stonewall-museum.org

NEW YORK

LESLIE+LOHMAN MUSEUM OF GAY AND LESBIAN ART

La sua nascita risale al 1969, quando i fondatori del museo – Charles Leslie e Fritz Lohman – organizzarono per la prima volta una mostra di artisti gay nel loro loft a SoHo. Da allora hanno continuato a sostenere artisti gay, fino alla creazione nel 1987 della Leslie-Lohman Gay Art Foundation. Il museo si trova al 26 Wooster Street a SoHo, e conta una collezione di oltre 25mila opere, con l’obiettivo di “esporre e preservare l’arte LGBTQIA+ e promuovere gli artisti che la creano”

leslielohman.org

LESBIAN HERSTORY ARCHIVES

Situata a Brooklyn, questa istituzione nasce negli anni Settanta dall’impegno di un gruppo di donne facenti parte della Gay Academic Union – associazione di donne e uomini omosessuali che lavoravano o avevano studiato alla City University di New York e avevano partecipato ai moti di liberazione degli Anni Sessanta – con l’obiettivo di “conservare la memoria delle vite e delle attività lesbiche” per trasmetterle alle generazioni future.

lesbianherstoryarchives.org

THE AMERICAN LGBTQ+ MUSEUM

Aprirà i suoi battenti nel 2024 all’interno della ottocentesca New-York Historical Society, occupando uno spazio di oltre 6500 metri quadri appositamente edificato. The American LGBTQ+ Museum sarà “il primo museo di New York City dedicato alla storia e alla cultura LGBTQ+ globale, nazionale e locale”, con un Consiglio di Amministrazione composto da professionisti provenienti dal mondo accademico, dall’arte, dalla finanza, dal fundraising, dai diritti civili LGBTQ+, affari pubblici e urbanistica.

americanlgbtqmuseum.org

AMSTERDAM

IHLIA LGBT HERITAGE

Inaugurato nel 1999, l’International Gay and Lesbian Information Centre and Archive di Amsterdam basa la sua visione sui concetti di patrimonio e archivio, sottolineando come la storia queer, per essere documentata, non può affidarsi soltanto alla storia filtrata da studiosi non queer. La sua collezione conta oltre 100mila pezzi, tra articoli, libri, giornali, riviste, film, video, poster, fotografie e oggetti.

ihlia.nl

BERLINO

SCHWULES MUSEUM

Il museo nasce concettualmente nel 1984, nell’ex Berlin Museum, dove tre studenti e custodi del museo (Andreas Sternweiler, Wolfgang Theis e Manfred Baumgardt) e l’attivista Manfred Herzer idearono la mostra passata alla storia Eldorado – the History, Everyday Life and Culture of Homosexual Women and Men 1850-1950 Dal successo dell’esposizione nacque così l’idea di creare lo Schwules Museum, che oggi ha sede a Lützowstraße 73 nel quartiere Tiergarten di Berlino.

schwulesmuseum.de

COLONIA

CENTRUM SCHWULE GESCHICHTE

Nato nel 1984, il Centro è un’istituzione che fa “saldamente parte della comunità gay di Colonia e della Renania”. È uno dei primi archivi che raccolgono testimonianze e documenti sulla storia gay in Germania, preservandone il patrimonio “in tutta la sua diversità” e trasmettendone così “la conoscenza alle generazioni future”

csgkoeln.org

LONDRA

QUEER BRITAIN MUSEUM

La sede fisica del museo è stata aperta il 5 maggio 2022 a Kings Cross, ma la sua nascita risale al 2018, su idea dell’ex editor di Gay Times Joseph Galliano e Ian Mehrtens. Le prime mostre sono state organizzate in sedi temporanee, come il progetto Virtually Queer al Salisbury Arts Centre, mentre la mostra che ha inaugurato il museo, Welcome to Queer Britain, ha celebrato il cinquantesimo anniversario del primo Gay Pride nel Regno Unito.

queerbritain.org.uk

QUEERCIRCLE

Con uno spazio concepito come una sorta di hub – con galleria e biblioteca – progettato da David Kohn Architects, Queercircle ha inaugurato nel 2022 la sua nuova sede nel Design District di North Greenwich, aperta ad artisti, curatori, scrittori, pensatori, con lo scopo di dare vita a un ambiente celebra l’identità queer e di reinventare il ruolo che gli spazi culturali svolgono nella società.

queercircle.org

MELBOURNE

THE AUSTRALIAN QUEER ARCHIVES (AQUA)

Nata nel 1978, l’istituzione conserva la più importante raccolta di ricerche sulla storia LGBTQIA+ in Australia. Gestita da volontari, la sua collezione comprende opere di scrittori, artisti, fotografi, performer e australiani LGBTIQIA+ celebri, materiali di varia natura come manifesti, volantini, distintivi, scatole di fiammiferi, oggetti da bar. queerarchives.org.au

STORIES GENDER E CULTURA
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QUESTIONE DI GENERE, DIRITTI LGBTQIA+ E MONDO DELLA CULTURA

Quanto è inclusivo il sistema dell’arte italiano? Quanti e quali sono i passi già compiuti e quelli ancora da intraprendere? Ecco cosa hanno risposto undici protagoniste e protagonisti del mondo dell’arte italiano.

LOREDANA LONGO artista

Mai sentita la frase “io non ho nulla contro gli omosessuali, figurati, non hai idea di quanti gay sono amici miei”? Mi accorgo, guardando le serie tv, come LGBTQIA+ sia presente nel mondo del cinema e un po’ meno nel mondo reale, come se ci fosse una pressione a spingere ed entrare nelle case e nel nostro pensiero, un’esigenza. Il sistema dell’arte italiano è inclusivo, non lo sono alcune persone e dipende fondamentalmente dall’appartenenza a delle generazioni che non accettano una diversità, come qualcuno che porti dentro al loro sistema un pensiero che non è il loro, che mini le loro certezze. Una sorta di paura ad accettare il fatto che il mondo sia cambiato o meglio che si sia svelato, abbia tolto delle barriere e si sia messo a correre verso un’identità che anche io non riesco ancora a definire ma che è sempre esistita e sempre esisterà. Dentro ognuno di noi c’è una resistenza, che non dipende da un fattore genetico, quindi è solo culturale. L’unica via da percorrere è non resistere davanti queste cose e resistere davanti ad altre.

FABIO CAVALLUCCI critico d’arte e curatore

Se si osserva ciò che accade negli Stati Uniti e nel nord Europa, in musei e gallerie, si assiste persino a un eccesso di artisti LGBTQIA+, che in genere trattano temi LGBTQIA+. La cosa è comprensibile se si pensa alla necessità di un mondo di persone escluse, nascoste, persino perseguitate, che oggi possono finalmente uscire allo scoperto e ottenere un risarcimento. Ma se si rivolge lo sguardo all’Italia, si torna nel buio più assoluto.

Persino le tematiche femministe non sono praticamente toccate, se si pensa che l’ultima grande mostra di arte femminile risale al 1980, con  L’altra metà dell’avanguardia  di Lea Vergine. E se non ci fosse la Galleria Frittelli, anche la poesia visiva femminista sarebbe del tutto ignorata. Cosa succederà con un governo che ha fatto dell’opposizione alle libertà di genere uno dei cavalli di battaglia insieme alla lotta ai migranti? Quanto, in una situazione culturale già di per sé pavida e imbelle, l’omofobia destrorsa peggiorerà la situazione anche dei pochi lampi di luce che si intravvedono in Italia? Io, purtroppo, non sarei ottimista.

FRANCESCO PANTALEONE gallerista

Il sistema dell’arte italiano tutto sommato è abbastanza inclusivo, almeno nella mia esperienza personale, forse è stato anche questo uno dei motivi che mi ha spinto a lasciare l’attività centenaria di famiglia per aprire la mia galleria venti anni fa. Passi ne sono stati fatti tanti e certa mente se ne potranno fare ancora, ma questo non solo nel mondo dell’arte quanto nella società italiana, soprattutto in questo momento politico nel quale la comunità LGBTQIA+ è continuamente sotto attacco.

GIOVANNI GAGGIA artista

Mentre rispondo a queste domande, studio la simbologia della bandiera LGBTQIA+ per un nuovo progetto. Sistema dell’arte: al solo leggere queste parole affiancate, ho una sensazione di smarrimento. L’arte è inclusiva: un concetto diviene universale a partire da una forma straordinaria. Nel mio pensiero, gli operatori di questo insieme non si impegnano per far sì che l’esterno sia più inclusivo. Tanto si può ancora fare con

l’arte e ancor di più con quella pubblica e relazionale. Nel 2018 Daniel Quasar crea la bandiera Pride of Progress e vi aggiunge colori e strisce: bianche e blu dalla bandiera Trans, nere e marroni dal movimento  black lives matter, il nero per omaggiare le persone che convivono con HIV e AIDS. La sfera viola su fondo giallo, aggiunta successivamente, rappresenta il movimento intersessuale. Usiamola e raccontiamola come forma di inclusione. Mi preme l’esterno.

LORENZO BALBI

direttore MAMbo - Museo

d’Arte Moderna di Bologna

Bologna è storicamente uno dei principali centri di attivismo e cambiamento sociale; il MAMbo, come istituzione pubblica attiva in questo particolare territorio, è impegnato a dare spazio e rilevanza a progetti legati alle rappresentazioni delle identità di genere e dei diversi orientamenti sessuali. Sin dal 2011 siamo partner del Festival multidisciplinare Gender Bender, ospitando iniziative all’interno dei nostri spazi; a novembre 2022 abbiamo realizzato nella nostra Project Room la mostra Non sono dove mi cercate. Porpora Marcasciano, il movimento, dall’underground al MIT, curata da Michele Bertolino e realizzata in collaborazione con MIT - Movimento Identità Trans, Divergenti, Centro di Documentazione “Aldo Mieli” di Carrara e Centro di Documentazione “Flavia Madaschi” Cassero LGBTI+ Center di Bologna. Nell’ambito del nostro progetto di residenza Nuovo Forno del Pane Outdoor Edition, attualmente in corso, una delle artiste selezionate ha presentato una ricerca proprio sulla rappresentazione della sessualità che ci ha permesso di ospitare, in un public talk, Lewis G. Burton, DJ, performer e attivista di fama internazionale.

BEATRICE MERZ presidente Fondazione Merz

L’argomento è delicato e certamente attuale. Anche se gli ambienti della cultura e dell’arte in particolare sono ben lontani dall’essere perfetti, le persone LGBTQIA+ ne sono sempre state parte attiva e integrante. Temi quali la consapevolezza personale sono alla base dei processi culturali dai quali scaturiscono, come è giusto che sia, le riflessioni sui diritti. Il timore, però, è che, di questi tempi, il mondo della cultura si lasci influenzare e intrappolare da una parte della politica che sembra voler rimanere voltata indietro, impermeabile a qualsiasi istanza di cambiamento e inclusione. Il pericolo c’è, e va contrastato concretamente per il bene di tutte e tutti.

ROSSELLA FARINOTTI curatrice Cremona Art Week

Quando si tratta qualunque questione che sfiori dei diritti dell’essere, dell’agire, naturalmente il campo si fa delicato. Il mondo dell’arte contemporanea affronta questi temi da sempre, sin dagli anni Sessanta. E lo ha fatto in maniera molto più coraggiosa e lineare rispetto a ora. Oggi ogni questione che gira intorno all’importante contesto LGBTQIA+ va ponderata e valutata poiché rischia di essere fraintesa. Siamo un Paese che ancora non ritiene neppure l’esistenza di diritti per le diversità, è naturale che il campo artistico debba essere un campo di battaglia. Penso che per combattere in questo campo, però, non sia più utile rivendicare identità che ci sono state negate, ma lavorare su quelle che abbiamo in maniera sottile e politica. L’artista deve continuare a fare il suo lavoro, se il sistema lo accetta solo per moda, allora si deve uscire da quel sistema. Pensiamo ad artiste e artisti come Nan Goldin, Larry Clark, Letizia Battaglia… Hanno sempre documentato il valore di coloro che erano considerati diversi, risaltando una comunità preziosa che oggi deve fare scuola.

FRANCESCO IMPELLIZZERI artista

Nel 1993 ho creato Lady Muk che, cantando Muuuoviti, si rivolge al complesso sistema dell’arte contemporanea esortandolo a uscire fuori dagli schemi. Ho utilizzato la figura del travestito per evidenziare anche le barriere che la nostra società mette in atto nei confronti della diversità di genere e spronarla verso una maggiore libertà. Ho continuato ad affrontare il tema della sessualità, ma la risposta del sistema dell’arte italiano si fermava sull’estetica del lavoro eludendone il contenuto. Dal 1997 al 2007 ho esposto con la galleria Esplico Minimo di Madrid e già dalle prime intervi ste ho notato la profondità con cui gli spagnoli recepivano queste opere. Oggi si fa molto uso della spettacolarità, ma sembra di assistere alla Corrida del famoso presentatore Corrado: personaggi allo sbaraglio.

STEFANO RAIMONDI direttore artistico ArtVerona

L’intersezionalità e i diritti LGBTQIA+ sono tematiche centrali nella cultura contemporanea, spinta dal bisogno di una maggiore inclusione sociale, consapevole dell’importanza espressiva dell’identità e delle diseguaglianze. Il sistema artistico italiano ha dimostrato, soprattutto attraverso le istituzioni delle grandi città, di essere un luogo facilitatore dell’impegno civico e sostenitore del cambiamento. Questo implica un grande sforzo per i musei e i luoghi della cultura chiamati a trasformarsi da attori “neutrali” ad agenti di cambiamento. Detto questo, è evidente che confrontandosi con altri modelli più sviluppati, come quello an glosassone, ci sia ancora molto da fare per affrontare in modo continuativo e non sporadico questa tematica, capendo l’importanza e le potenzialità che porta con sé.

Il sistema dell’arte italiano è al suo interno oggi decisamente inclusivo e ha compiuto grandi passi in avanti negli ultimi 20-30 anni quanto a consapevolezza della questione di genere e al rispetto dei diritti LGBTQIA+. La nuova frontiera per la cultura italiana a questo proposito è quella di agire collettivamente per promuovere gli stessi livelli di inclusività, consapevolezza e rispetto dei diritti in tutto il mondo. In una prospettiva globale, le discriminazioni e le violazioni dei diritti di persone LGBTQIA+, tra cui molti artisti e intellettuali, sono ancora una realtà drammaticamente diffusa.

PATRIZIA

presidente Fondazione Industria e Cultura

Luci e ombre. Nel mondo culturale resistono pregiudizi e bias talmente radicati che spesso non vengono riconosciuti come tali: le donne guadagnano meno, le opere delle artiste vengono vendute a prezzi anche del 40% inferiori rispetto a quelle dei colleghi, le figure apicali nei musei sono spesso maschili. Le ombre: mentre a livello internazionale questo “nuovo corso” ha subito una accelerazione, in Italia questo processo è ancora molto lento. Le luci: è cambiata la sensibilità e si tende a dare maggiore visibilità anche alle artiste, spesso recuperandole dalla damnatio memoriae. La Biennale di Venezia del 2022, Il latte dei sogni, ha segnato una svolta dalla quale non si torna indietro: curata da una donna, ha visto esposte per la prima volta in maggioranza opere di artiste donne.

STORIES GENDER E CULTURA
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RACCONTARE IL QUEER. I FESTIVAL A TEMA IN ITALIA

Canali fondamentali per veicolare temi su genere e LGBTQIA+, i festival in Italia hanno giocato e giocano ancora oggi un ruolo determinante per animare il dibattito e invitare a una riflessione sul mondo queer. Lovers Film Festival a Torino, Florence Queer Festival a Firenze, Gender Bender a Bologna, Mix Festival a Milano, Sicilia Queer Filmfest a Palermo, BiG – Bari International Gender festival, sono alcune delle rassegne – alcune di queste potremmo definirle “storiche” – che si svolgono nel nostro Paese, la maggior parte di tipo cinematografico. Le storie di questi festival non hanno soltanto una matrice culturale, ma anche politica, ed è questa la visione e soprattutto la missione che contraddistinguono le loro attività: che funzione e impatto hanno avuto e continuano ad avere queste manifestazioni sulla società? Ecco cosa ci hanno risposto Bruno Casini, fondatore ed ex direttore artistico del Florence Queer Festival, e Daniele Del Pozzo, direttore artistico di Gender Bender (la cui prossima edizione è in programma dal 31 ottobre all’11 novembre 2023), che ci hanno raccontato – attraverso le esperienze dei loro festival – storie, scenari e prospettive della situazione in Italia.

BRUNO CASINI

Perché i queer festival in Italia sono quasi tutti cinematografici? Innanzitutto per motivi di budget: organizzare una rassegna di cinema non costa quanto una rassegna teatrale o musicale, il cinema è più accessibile. L’Italia da questo punto di vista è molto indietro rispetto ad altri Paesi europei: in Francia, Spagna, Inghilterra e Germania ci sono festival di cultura queer supportati dallo Stato; i nostri festival sono spesso indipendenti e basati sul volontariato.

Data la specificità del tema, fare queer festival non potrebbe portare ad alimentare una sorta di “ghettizzazione”?

Oramai il concetto di ghetto LGBT è superato, ma i festival queer sono necessari perché, nel caso delle rassegne cinematografiche, il 90% delle pellicole queer in Italia non hanno una distribuzione. Abbiamo fatto film bellissimi, che avrebbero potuto essere proiettati nelle sale; da questo punto di vista, i queer festival sono oasi culturali.

Come mai questi film non vengono distribuiti? Forse non farebbero incassi?

Mah, bisognerebbe provare, io penso che il pubblico ci sarebbe: al Florence Queer Festival registravamo due o tremila persone paganti, dai 20 ai 70 anni. Anche in questo caso, l’Italia è indietro rispetto ad altri Paesi europei.

Nell’arco della tua vita, a quali cambiamenti ed evoluzioni hai assistito in Italia? Ci sono stati passi avanti anche dal punto di vista della promozione della cultura queer?

Sì, gli Anni Settanta sono stati gli anni della militanza politica e anche culturale, io ho gestito uno spazio a Firenze in cui abbiamo fatto le prime rassegne gay di teatro e cinema underground, le prime performance di Ivan Cattaneo, il tutto con spirito carbonaro. Dagli Anni Settanta agli Ottanta c’è stato il passaggio dalla politica militante alla leggerezza: negli Anni Ottanta tutto diventa più leggero e colorato, nascono l’arcigay e l’associazionismo, ma anche in questo caso all’estero erano già più avanti di noi. Nascono e si diffondono anche i Pride, che oggi si fanno in tantissime città, e – mi dispiace dirlo – “vanno di moda”.

Quanto c’è di militante e di politico nei Pride di oggi?

I Pride oggi sono importanti, molto partecipati, ma non bastano più le canzoncine, bisogna tirare fuori elementi di critica omosessuale: ricordare personaggi come Dario Bellezza o Aldo Braibanti, partigiano, antifascista e omosessuale dichiarato. Queste sono le cose di cui bisognerebbe parlare oggi.

florencequeerfestival.it

DANIELE DEL POZZO

Cosa ha di diverso Gender Bender rispetto agli altri queer festival italiani?

Gender Bender è un festival che quest’anno giunge alla 21esima edizione, e 20 anni fa avere un festival specificamente di arti contemporanee che intrecciasse ricerca artistica e tematiche legate all’identità di genere e agli orientamenti sessuali era qualcosa di inedito.

Perché veicolare queste tematiche attraverso la cultura?

Si potrebbe sintetizzare così: tu esisti in ambito sociale se esiste una tua rappresentazione in ambito culturale. Il fatto di poter vedere storie LGBT rappresentate al cinema, in tv, nei giornali, a teatro e in una galleria d’arte, se io esisto in questi luoghi, vuol dire che faccio parte di quel sistema culturale con cui la società si rappresenta, e quindi colmando con la presenza una invisibilità. Questo è avvenuto nel cinema, ma è stato più complesso nelle arti performative e contemporanee, nonostante queste siano considerate luoghi di massima apertura.

Da cosa è causato questo gap?

In passato si tendeva a tenere molto distanti il piano dell’attivismo da quello dell’arte. Quello che abbiamo tentato di fare con Gender Bender è colmare la separazione che ancora esiste tra l’ambito culturale italiano e l’attivismo. In Italia c’è un retaggio di scuola idealista, quasi crociana, secondo cui l’arte non ha a che fare con la vita. Con Gender Bender abbiamo dato uno spazio sul quale fosse possibile autorappresentarsi: non è un altro da me che parla di me, ma è la possibilità che possa essere io a fare un discorso su me stesso e su come io mi percepisco.

La danza è una delle forme d’arte “predilette” da Gender Bender. Come mai?

La danza in Gender Bender ha avuto un significato più forte, perché utilizza il corpo come strumento di espressione. Lavorare con il corpo significa anche ampliare lo specchio delle differenze: che tipo di relazione cerco dall’altro da me? Io sono diverso da te, ma da vicino forse siamo più simili di quanto possiamo immaginare. Siamo convinti che la bellezza abbia un potere trasformativo, crediamo nella possibilità di trovare forme di bellezza inedite e che grazie all’arte si possa avvicinare anche chi magari non la pensa come noi.

genderbender.it

YUKIO MISHIMA: LA CRITICA D’ARTE QUEER ANTE LITTERAM

Scrittore, drammaturgo, saggista e poeta, Yukio Mishima (1925-1970) è tra gli autori giapponesi più influenti ed emblematici del Novecento, un raffinato conoscitore della tradizione letteraria e teatrale del suo Paese ma anche un appassionato studioso della cultura occidentale, in particolare quella artistica. Uno sguardo critico, quello di Mishima, affinato anche attraverso i suoi numerosi viaggi in giro per il mondo, visitando città e scoprendo musei e opere d’arte che racconta attraverso i suoi articoli pubblicati in diversi giornali giapponesi, confluiti poi nella raccolta La coppa di Apollo Una fascinazione e una profonda conoscenza, quella per l’arte e l’iconografia occidentale, in particolare quella classica, che Mishima rivela in uno dei suoi romanzi più celebri e contraddittori, Confessioni di una maschera (1948), di cui è particolarmente famoso il brano in cui l’autore racconta della sua masturbazione sull’immagine del San Sebastiano di Guido Reni (di cui una delle redazioni è custodita ai Musei Capitolini di Roma). Un passo molto intenso e conturbante, un’insolita ma allo stesso tempo puntuale pagina di critica d’arte che per certi aspetti potremmo definire “queer”. Affascinato dalla sua iconografia, Mishima si farà ritrarre come San Sebastiano dal fotografo Eikoh Hosoe, contribuendo al fenomeno che ha visto il martire cristiano diventare una delle prime icone gay della storia e santo patrono delle persone queer.

“Un giorno, approfittando di un leggero raffreddore che mi aveva impedito di andare a scuola, pescai alcuni volumi di riproduzioni d’opere d’arte che mio padre aveva riportato in patria come ricordo dei suoi viaggi in terre straniere, e rifugiatomi in stanza da letto li esaminai con grande attenzione. Mi affascinarono in special modo le fotoincisioni di sculture greche nelle guide dei vari musei italiani […] Stavo sfogliando una delle ultime pagine d’un volume. Tutt’a un tratto, dall’angolo della pagina successiva, baluginò davanti ai miei occhi un’immagine che dovetti ritenere si fosse appostata laggiù per me solo, a mio beneficio. Era una riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni, che figura nella raccolta di Palazzo Rosso a Genova.

Il tronco dell’albero del supplizio, nero e leggermente obliquo, campeggiava sullo sfondo tizianesco d’una tenebrosa foresta e d’un cielo serotino, fosco e distante. Un giovane di singolare avvenenza stava legato nudo al tronco dell’albero, con le braccia tirate in alto, e le cinghie che gli stringevano i polsi incrociati erano fermate all’albero stesso. Non si scorgevano legami d’altra sorta, e l’unico rivestimento della nudità del giovane consisteva in un ruvido panno bianco che gli fasciava mollemente i lombi.

Immaginai che fosse la descrizione di un martirio cristiano. Ma siccome era dovuta a un pittore della scuola eclettica derivata dal Rinascimento, anche da questo dipinto che raffigurava la morte di un santo cristiano emanava un forte aroma di paganesimo. Il corpo del giovane – lo si potrebbe perfino paragonare a quello di Antinoo, il favorito di Adriano, la cui bellezza fu così spesso immortalata nella scultura – non reca alcuna traccia degli stenti o dello sfinimento derivati dalla vita missionaria, che improntano l’effigie d’altri santi: questo palesa invece unicamente la primavera della gioventù, unicamente luce e piacere e leggiadria.

Quella sua bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo. Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a brandire la spada, sono levate in una curva armoniosa, e i polsi s’incrociano immediatamente al disopra del capo. Il viso è rivolto leggermente in alto e gli occhi sono spalancati, a contemplare la gloria del paradiso con profonda tranquillità. Non è la sofferenza che aleggia sul petto dilatato, sull’addome teso, sulle labbra appena contorte, ma un tremolio di piacere malinconico come una musica. Non fosse per le frecce con le punte conficcate nell’ascella sinistra e nel fianco destro, egli sembrerebbe piuttosto un atleta romano che allevia la stanchezza in un giardino, appoggiato contro un albero scuro.

Le frecce si sono addentrate nel vivo della giovane carne polposa e fragrante, e stanno per consumare il corpo dall’interno con fiamme di strazio e d’estasi suprema. Ma il sangue non sgorga, non ha ancora infuriato il nugolo di frecce che si vedono in altri dipinti del martirio di San Sebastiano. Qui invece, due frecce solitarie mandano le loro ombre quiete e delicate sopra la levigatezza della pelle, simili alle ombre d’un ramo che cadono su una scala di marmo.

Ma tutte queste interpretazioni e scoperte vennero in un secondo tempo.

Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevo imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante...”.

(Brano tratto da Yukio Mishima, Confessioni di una maschera; traduzione in italiano di Marcella Bonsanti sulla traduzione americana di Meredith Weatherby, 2013, Feltrinelli Editore)

STORIES GENDER E CULTURA
Guido Reni, San Sebastiano, 1615 ca., 73 55
Musei Capitolini, Roma Mauro Staccioli, Anello di San Martino , Volterra, 2005-2009. Photo © Sergio Borghesi

LA TOSCANA DEL TURISMO SLOW È QUELLA ETRUSCA

Alla ricerca di percorsi di visita alternativi per scoprire una Toscana animata da quell’idea di “Rinascimento Continuo”, coniata dalla strategia di promozione turistica regionale, puntando sugli Etruschi come alfieri di uno stile di vita sostenibile. Tra cammini a piedi e itinerari in bici, archeologia e arte contemporanea.

CLAUDIA GIRAUD

La lentezza del camminare è un modo di viaggiare (e di vivere) che conduce a una visione del mondo dove la meraviglia, la curiosità e l’incontro con l’altro diventano la base di un nuovo stato esistenziale, più aperto al confronto e alla tolleranza tra popoli diversi. Ce lo insegnano viaggiatori come Patrick Leigh Fermor (e nondimeno Bruce Chatwin, suo grande amico) che nel dicembre del 1933 a soli 18 anni abbandona Londra per attraversare l’Europa a piedi fino a Costantinopoli, come un clerico vagante del Medioevo: arriva alla meta dopo un intero anno di cammino. Un archetipo del viaggio lento che lo scrittore britannico rielaborerà solo più tardi, pubblicando nel 1977 un libro seminale per la letteratura di genere: Tempo di regali, ovvero il viaggio come metafora della vita che trova un senso nella dimensione dello scambio di esperienze. Giusto qualche anno dopo la nascita delle guide Lonely Planet, quest’anno al giro di boa dei cinquant’anni, e che di quella filosofia di vita ne sono il massimo interprete. Se si vuole provare qualcosa di simile in Italia? Si deve percorrere la Via Francigena, l’antico cammino medievale dei pellegrinaggi e dei commerci che collegava Roma a Canterbury. Questa direttrice storica europea – che attraversa buona parte della Toscana – rappresenta il viaggio lento (laico o spirituale) per eccellenza, ed è un percorso che arricchisce l’esperienza personale grazie alla natura, alla cultura, alla tradizione (ma anche all’arte contemporanea) che incontrano un turismo consapevole e rispettoso, nella dimensione slow e outdoor.

STORIES TOSCANA ETRUSCA
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UN RITRATTO DI MAURO STACCIOLI

Il ricordo di Sergio Borghesi, artista e curatore, amico e conterraneo dello scultore volterrano morto nel 2018. Ha organizzato nel 2009 la grande mostra di Staccioli, Luoghi d’Esperienza, i cui giganteschi segni sono ancora presenti nello spettacolare paesaggio intorno a Volterra.

Mauro lo conoscevo da sempre, ma il primo rapporto diretto l’ho avuto nell’estate del 1971, quando abbiamo fatto una vacanza di lavoro con amici al Parco dell’Uccellina; nonostante la bellezza del mare, lui non entrava in acqua oltre il ginocchio. La nostra amicizia si è consolidata con la mostra di Volterra nel 1972, Sculture in città: grandi opere in cemento e ferro con punte acuminate che sbarravano l’accesso a possibili invasioni. Quella mostra sarebbe stata l’apertura per Volterra 73. Mauro ha fatto il suo percorso artistico, mantenendo sempre un legame stretto con Volterra, con la campagna e con il babbo Donatello, muratore, che gli ha dato i primi rudimenti nell’uso del cemento e del ferro.

Sempre disponibile a collaborare con tutti, lo ha fatto con semplicità. Senza mai far pesare la sua notorietà. Nel 2005, alla mia richiesta di partecipare all’evento Generazioni in Arte, ha immediatamente accettato; in questa circostanza ho potuto meglio approfondire il suo metodo progettuale. Abbiamo visitato alcuni luoghi dove avrebbe potuto inserire la sua installazione e, quando siamo entrati nella vecchia chiesa di San Filippo, ormai sconsacrata e chiusa da anni, è rimasto affascinato dalla semplicità architettonica. Dopo un momento di silenzio, ha tracciato tre linee su un taccuino di carta millimetrata, i lati di un triangolo con il vertice in basso, ha preso le misure inserendolo mentalmente nella geometria della chiesa. Verificava sempre attraverso un fotomontaggio, lavorando con il computer al fianco di Marusca che rendeva visibili le sue idee. Anche per l’Anello di San Martino ha applicato lo stesso metodo.

Mauro, quando era a Volterra, era parte della città e della nostra famiglia. Nel 2008 gli proposi di fare una grande mostra personale a Volterra. Mauro era decisamente un fiume in piena e contenerlo non era facile. La mia preoccupazione cresceva perché secondo me non ce l’avremmo mai fatta a realizzare tutto quello che aveva in mente.

All’inizio del 2009 si è delineato completamente il progetto di Luoghi d’esperienza: una sorta di cerchio ideale tracciato da un “segno” che partiva dal lontano 1972, per chiudersi nel 2009.

Le grandi opere di Staccioli, i suoi grandi anelli collocati in luoghi suggestivi hanno contribuito a far leggere con occhi diversi il nostro paesaggio e a far capire come un’opera, se pur contemporanea, può interagire, dialogando armonicamente con il luogo che l’accoglie.

Oggi, pensare di togliere una delle sculture rimaste nel territorio solleverebbe la cittadinanza volterrana.

SERGIO BORGHESI

TURISMO SLOW E OUTDOOR

Un trend in auge anche in questa estate 2023, leggendo i dati della BIT – Borsa Internazionale del Turismo secondo cui, “il turismo all’aria aperta si conferma tra le tipologie di vacanza più ambite dagli italiani”, con gli stranieri votati alla ricerca di “esperienze autentiche” nei piccoli borghi, oltre alle grandi città d’arte. Proprio la Toscana, secondo la recente analisi del Centro Studi Turistici di Firenze, ne è la capitale in Italia, perché ha saputo valorizzare e promuovere il ricco patrimonio a disposizione, grazie all’azione congiunta con i territori, attirando ogni anno migliaia di visitatori, in particolare stranieri (cresciuti del 91% rispetto all’anno 2021) che la incoronano terza regione italiana per quanto riguarda la motivazione “vacanza culturale in una città d’arte”.

GLI ETRUSCHI, POPOLO DI AGRICOLTORI E COMMERCIANTI, RISPETTOSI DI AMBIENTE, CULTURA E TRADIZIONI

Con un marcato recupero nel 2022 rispetto al 2021 dopo lo stop pandemico (+78% di arrivi e +68% di presenze turistiche) soprattutto nei 50 comuni che aderiscono al PTO (Prodotto Turistico Omogeneo) di Toscana Terra Etrusca, un progetto che mette insieme territori uniti dalla storia di un’antica civiltà.

D’altronde, le grandi capitali di questo popolo estintosi da oltre duemila anni, ma con molte tracce tuttora presenti in molti borghi italiani, sono tutte piccole città. Ben sei della dodecapoli etrusca, la rete di città-stato sparse in Italia Centrale, con epicentro tra Umbria e Lazio, sono concentrate in Toscana: Chiusi, Populonia, Volterra, Cortona, Arezzo e Fiesole. Così non poteva che nascere qui un circuito turistico dedicato, in chiave contemporanea e sostenibile. In parte, un lascito della pandemia, come ci spiega Francesco Tapinassi, Direttore dell’agenzia regionale Toscana Promozione Turistica. “Il Covid, spingendo molto verso la vacanza outdoor, perché più sicura, lontana da luoghi affollati, ha dato l’impulso a concentrare l’attenzione su terre normalmente escluse dal turismo di massa e a comunicare una Toscana più autentica, più vicina alle sue radici profonde: etrusche, medievali, rinascimentali”. Una struttura stratificata, che solo la dimensione del viaggio lento è in grado di approfondire e far comprendere appieno. E gli Etruschi, popolo di agricoltori e commercianti che ha saputo coniugare il rispetto per l’ambiente con la cultura e le tradizioni, ne sono i migliori testimonial.

TOSCANA TERRA ETRUSCA

Cronologia della civiltà etrusca

Età villanoviana

IX-VIII

secolo a.C.

TURISMO SOSTENIBILE. LE STRATEGIE DELLA REGIONE TOSCANA

Dagli altopiani gli Etruschi si spostano in pianura e collina, sfruttando le vie di comunicazione e le possibilità agricole. Nascono le aristocrazie

Età orientalizzante

VIII-VI secolo a.C. Gli Etruschi iniziano a subire l’influenza greca, tramite contatti con l’Italia meridionale, sperimentando miglioramenti tecnologici visibili, per esempio, in una produzione ceramica di maggiore qualità

VI-V

Età arcaica

secolo a.C. È il periodo di maggiore espansione territoriale etrusca. La vittoria contro i Focei nella battaglia navale di Alalia (540 a.C.) conferma l’egemonia etrusca nel Mar Tirreno

Età classica

V-IV secolo a.C. La flotta etrusca viene sconfitta da quella siracusana, sotto il dominio di Re Ierone I (o Gerone), nella Battaglia di Cuma (474 a.C.). Nel IV secolo l’influenza etrusca viene minacciata dall’espansionismo del tiranno di Siracusa Dionisio I e di Roma, che nel 396 a.C. conquista la città etrusca di Veio

IV-II

Età ellenistica

secolo a.C. Prosegue il declino etrusco: dopo la conquista da parte di Roma dell’importante città etrusca di Roselle (294 a.C.), anche le città dell’attuale Lazio caddero.

Francesco Tapinassi, da maggio 2021 Direttore di Toscana Promozione Turistica, da giugno 2018 Direttore scientifico della BTO Buy Tourism Online e già Dirigente al Turismo e Commercio della Regione Toscana, oltre che al Ministero dei Beni Culturali e del Turismo. L’intervista.

Gli Etruschi si possono definire antesignani del turismo sostenibile?

Le grandi capitali etrusche sono tutte piccole città e borghi: raccontare la loro antica civiltà è anche un modo per delocalizzare i flussi turistici. Come far sapere che esistono le Ville Medicee a 5 km da Firenze, Patrimonio Unesco come il centro storico, scoprendo così una parte della città meno congestionata.

Quali sono le criticità di questo tipo di comunicazione?

Una scelta diversa di sistema. Bisogna sempre interconnettere il ragionamento che, in alcuni casi, stride con la sostenibilità: non tutta la Regione è raggiungibile col treno. Così, per fare un giro degli etruschi, si deve essere automuniti, oppure pensare a un viaggio in bicicletta o addirittura a piedi. Ma si deve sapere quanti chilometri percorrere, dove si può dormire, se c’è chi ripara bici o le noleggia. Si entra in un mondo dove il coinvolgimento delle imprese private è imprescindibile.

Per i Cammini, come per le bici, c’è un vero e proprio Atlante… Quando lavoravo al Ministero, ho realizzato l’Atlante dei Cammini Nazionali. In questa grande raccolta (su idea dell’allora Mibact nell’anno Nazionale dei Cammini 2016 N.d.R.), avevamo selezionato, dalle circa 200 proposte, 50 Cammini. Io ho riportato quest’esperienza in Regione Toscana, che ha sostenuto la costruzione di sette Cammini, quasi tutti interregionali.

In cosa è diverso da quello nazionale?

Lo scopo era superare il frazionamento regionale e ragionare sulle grandi tratte a piedi, a prescindere dall’entrare in Valle d’Aosta e uscire nel Lazio. Nel nostro Atlante, i Cammini sono tutti integrati: il sito della via Francigena non è solo Toscana, ma è il sito di tutto il percorso. La visione finale è quella di una mappa della metropolitana da fare a piedi, ma con un approccio narrativo.

Su quale Cammino state lavorando ora?

Su quello di San Francesco, con l’idea di una comunicazione e promozione congiunta con l’Umbria, sapendo che gli itinerari francescani partono dalla Basilica di Santa Croce a Firenze per arrivare ad Assisi. Oggi, raccontarlo in chiave ambientale, è vincente perché parliamo di un santo che ha fatto dell’equilibrio tra uomo e ciò che lo circonda, il suo messaggio religioso. Se, invece, ci limitiamo a raccontarlo come il passaggio tra alcuni eremi francescani, perdiamo una fetta di pubblico potenziale perché proprio i camminatori sono una categoria alla ricerca di natura, benessere, esperienze esistenziali, senza particolari motivazioni religiose.

Oltre a quelli religiosi, quali altri tipi di Cammini ci sono?

Il Cammino è un tema di viaggio: durante il percorso puoi inserire mille attrattive e descriverlo in chiave ambientale, sostenibile, enogastronomica, sportiva, di arte contemporanea. Abbiamo molto enfatizzato la narrazione religiosa, legata all’idea del pellegrino, dimenticando che la maggior parte dei suoi fruitori vuole laicamente ritrovarsi, connettersi alla natura, fare sport: oggi lo sforzo è di aggiornare i modelli narrativi.

Qual è il pellegrino laico tipo?

I secolo a.C. Gli Etruschi ottengono la cittadinanza romana (89 a.C.)

Il pellegrino gourmet che va per cantine, oppure Spa in giro per luoghi termali. Per esempio, la Via degli Dei, un percorso da Bologna a Firenze che in origine collegava solo i ristoranti, è ora frequentato da chi vuole percorrere una parte di Appennino poco nota: in quel caso non c’è nessun richiamo a santuari, santi, religioni. È solo una bellissima passeggiata da fare a piedi: una settimana di cammino, contro i 39 minuti con l’Alta Velocità.

STORIES TOSCANA ETRUSCA
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LA TOSCANA ETRUSCA E CONTEMPORANEA

ETRUSCHI A VOLTERRA, ARTE PUBBLICA A PECCIOLI, MUSICA A LAJATICO

1 Se nella dannunziana “città di vento e di macigno” non può mancare una visita al rinnovato Museo Etrusco Guarnacci (qui, sempre Gabriele

D’Annunzio battezza come Ombra della sera il suo monumento più celebre), sulle colline pisane, a Peccioli, si trova l’arte pubblica del MACCA e una mostra antologica del famoso illustratore del New York Times, Emiliano Ponzi. Se si cerca la musica, poco distante c’è Lajatico, il borgo di nascita di Andrea Bocelli che qui ha dato vita, nel suo anfiteatro naturale, al Teatro del Silenzio. comune.volterra.pi.it fondarte.peccioli.net teatrodelsilenzio.it

IL PICCOLO MUSEO DI ASCIANO

3 Passando attraverso i paesaggi mozzafiato delle crete senesi si raggiunge, secondo la definizione del Daily Telegraph, “uno dei più belli tra i piccoli Musei d’Italia”: Museo Palazzo Corboli, allestito dentro un edificio medievale decorato con rarissimi cicli di affreschi del XIV secolo, ospita opere di artisti come Giovanni Pisano e Ambrogio Lorenzetti e una ricca sezione archeologica con un importante carro etrusco recentemente restaurato. Poi c’è il Museo Cassioli, dedicato alla pittura senese dell’Ottocento e a Giuseppe Cassioli, l’artista delle medaglie olimpiche.

museisenesi.org

I 500 ANNI DALLA MORTE DI LUCA SIGNORELLI A CORTONA

7 Dall’alto dei suoi 500 metri sul livello del mare, si può vedere l’immensa campagna toscana della Valdichiana, candidata Unesco, e parte di quella umbra. È qui che si celebrano i 500 anni dalla morte del suo pittore più illustre, Luca Signorelli, con una grande mostra al MAEC – Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino all’8 ottobre. Non manca un percorso di valorizzazione territoriale permanente, gli Itinerari di Signorelli, sia in città sia nelle località tosco-umbre custodi di importanti testimonianze del maestro rinascimentale. Da non perdere anche Cortona On The Move!, il festival di fotografia in programma dal 13 luglio al 1 ottobre con decine di esposizioni dislocate tra il centro storico, la Fortezza medicea del Girifalco e la nuova location inaugurata lo scorso anno, la “Stazione C”, a Camucia, frazione di Cortona.

signorelli500.com

cortonaonthemove.com

TOUR IN E-BIKE A FIESOLE SULLA VIA ETRUSCA DEGLI DEI

2 Qui, sulle alture di Firenze, grazie al team di Guide Ambientali Escursionistiche di Fiesole Bike, il tour in bici elettrica diventa una piccola avventura lontano dai luoghi affollati, alla ricerca dei luoghi dell’arte. Sul percorso lungo la Via degli Dei, l’antica strada etrusca che attraversava l’Appennino almeno dal 200 a.C., le tappe comprendono: dove visse Leonardo da Vinci e da dove sognava che l’uomo prendesse il volo, dove Dante Alighieri adorava Beatrice e dove Michelangelo trascorse l’infanzia.

fiesolebike.it

PARCO ARCHEOLOGICO DI BARATTI E POPULONIA

4 Dal mare del Golfo di Baratti, su cui si affacciano le sepolture dei princìpi guerrieri, si arriva alla macchia mediterranea che nasconde tombe etrusche scavate nella roccia, fino a raggiungere l’Acropoli, con i suoi edifici sacri affacciati sulle isole dell’Arcipelago toscano.

parchivaldicornia.it

5 A pochi chilometri a nord del Castello di Romitorio, nei dintorni della cittadina di Murlo, sorge una delle più importanti aree archeologiche etrusche, con edifici risalenti al VII secolo a.C.. In questo piccolissimo borgo medievale in provincia di Siena, abitato solo da 13 famiglie, è allestito nel suo antico Palazzo Vescovile il museo archeologico che accoglie testimonianze uniche dell’antica civiltà. Tra tutte, la celebre statua del Cappellone di Murlo, un misterioso personaggio con un copricapo simile a un sombrero. Un buon punto di partenza del Cammino d’Etruria Centro per risalirne le tracce.

museisenesi.org

TERRAZZA MARIO LUZI A PIENZA

8 La Città Ideale del Rinascimento voluta dall’umanista Enea Silvio Piccolomini, Papa Pio II, è proprio al centro del luminoso paesaggio della Val d’Orcia. Il tema della luce, fondamentale nella concezione architettonica del pontefice per la costruzione della città, è evocato dal poeta Mario Luzi, che si ispirò più volte a questa terra, nota anche per le sue eccellenze gastronomiche come il pecorino. Al celebre letterato fiorentino è dedicata la terrazza con affaccio spettacolare sul Monte Amiata, da cui parte la lunga passeggiata lungo le mura medievali, con la sequenza dei vicoli più famosi di Pienza: Via della Fortuna e Via dell’Amore.

MINIERE DELL’ISOLA D’ELBA

6 Oggi, il Parco Minerario Isola d’Elba di Rio Marina e il Parco Minerario Calamita di Capoliveri, attraverso musei, escursioni guidate e laboratori didattici, conservano e fanno conoscere la memoria storica dei suoi siti minerari che, sotto la dominazione etrusca, le valsero la denominazione di “Isola dei Mille Fuochi” per la purezza dei suoi minerali, estratti dai giacimenti a strapiombo sul mare. parcominelba.it

minieredicalamita.it

IL CAPPELLONE DI MURLO NEL MUSEO ARCHEOLOGICO
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DOVE DORMIRE, MANGIARE, RILASSARSI

ARTIMINO

1 Sul borgo di impianto medievale nel territorio di Carmignano, costruito nell’antica era etrusca, Villa Medicea La Ferdinanda viene edificata nel 1596 per volere del Granduca Ferdinando I de’ Medici, su disegno di Bernardo Buontalenti. Ancora oggi La Villa dei Cento Camini, così chiamata per i numerosi camini che sporgono dalla sommità dell’edificio e che la rendono unica, mantiene intatto il suo fascino originale che le è valso nel 2013 il titolo di Patrimonio Unesco, insieme alle altre Ville e Giardini medicei. Da anni è hotel di lusso del gruppo Meliá Collection che offre ospitalità diffusa nel complesso un tempo tenuta di caccia dei Medici, sapori autentici, vini del territorio.

artimino.com

BAGNO VIGNONI

4 A pochi minuti di distanza dalla Via Francigena, il suggestivo borgo nel Parco della Val d’Orcia, sviluppatosi attorno alla grande vasca dalla quale sgorgano le miracolose acque calde già note agli Etruschi, accoglie tre centri benessere che impiegano le acque termali per i loro trattamenti. Uno di questi è l’Albergo Posta Marcucci che vanta una Spa, piscine di acqua termale sia interne che esterne e un ristorante in loco, oltre a offrire ospitalità con 37 camere. La proprietà, a metà dell’Ottocento, gestiva un piccolo negozio di alimentari che forniva agli abitanti anche il servizio postale: da qui il nome dell’hotel ora gestito dalla famiglia Costa. E per chiudere la giornata non potete mancare un cocktail a il Barrino...

postamarcucci.it

BOLGHERI

6 Agli Etruschi, popolo saggio, ingegnoso e fortemente legato all’agricoltura, si deve l’introduzione della vite e la prima coltivazione delle vigne. Così, nella DOC Bolgheri, fra le colline toscane più vicine al mare, Guado al Melo, un’azienda familiare, condotta da Annalisa e Michele Scienza, cerca di ricalcarne le orme. E lo fa non solo producendo grandi vini di territorio, in modo artigianale e sostenibile seguendo il metodo di questa antica civiltà, ma anche creando un percorso museale (con tanto di degustazione) all’interno della propria cantina di design, completamente interrata ed ecologica, dotata anche di biblioteca. Per mangiare in maniera indimenticabile dovete scendere sul mare, a San Vincenzo, e prenotare al Bucaniere.

guadoalmelo.it

ristoranteilbucaniere.com

L’OSTELLO DENTRO IL SANTA MARIA DELLA SCALA DI SIENA

2 Il Santa Maria della Scala, uno dei più antichi “spedali” europei, offre ospitalità tra splendidi affreschi del Quattrocento. Il luogo dove venivano ricoverati i bambini abbandonati o non accolti dalle famiglie d’origine, la Casa delle Balie, accoglie, infatti, il primo ostello per i pellegrini, riservato al ristoro dei viandanti in viaggio lungo la Via Francigena da o verso Roma. Sono 25 posti letto, con relativi servizi, dislocati in cinque ambienti che contengono, a seconda della grandezza, da un minimo di tre a un massimo di otto persone, con i comfort di base. Il tutto in pieno centro, con vista sul Duomo di Siena. Per l’intrattenimento ricreativo, invece, basta spostarsi di pochi passi in piazza del Campo. Qui, in un antico palazzo affacciato sulla famosa piazza del Palio, ha sede il Siena Experience Italian Hub che, tra le tante attività, offre workshop esperienziali a tema etrusco. Per mangiare affacciatevi da Salefino

viefrancigene.org

sieitalianhub.com

PIENZA

3 Anche a breve distanza da Pienza c’è un luogo che un tempo è stato punto di ristoro, sulle vie dette “Francigene”, per i pellegrini che dalla Francia e dal Nord Europa si dirigevano verso Roma. Si tratta del Podere Spedalone, un agriturismo circondato da ampi spazi verdi, la cui masseria più antica risale al 600 – 700 d. C.. Dopo vari passaggi di proprietà, dal 2023 l’azienda agricola e l’hotel sono gestiti dai proprietari americani con un nuovo team di talentuosi esperti in agricoltura, ospitalità di lusso, cibi e vini naturali. Poi per un gelato dateci retta e sperimentate Buon Gusto, proprio in paese.

poderespedalone.it

MONTALCINO

5 Diventato ricco e famoso grazie al Brunello, uno dei migliori vini italiani e tra i più apprezzati al mondo, questo borgo medievale, immerso nello splendido paesaggio del Parco Naturale della Val d’Orcia, offre l’imbarazzo della scelta in termini di cantine. Tra le più longeve c’è Castello Romitorio: dalle vestigia etrusche fino al recupero dell’artista Sandro Chia, che durante gli Anni Ottanta fa di questo maniero la sua dimora/laboratorio artistico e azienda vitivinicola. Se si cerca, invece, una struttura dove fare degustazione ed essere ospitati, l’ideale è Podere Martoccia. A pochi passi dalla torre municipale e dalla fortezza medievale di Montalcino, si può soggiornare nel suo B&B L’Affaccio, che organizza tour enogastronomici nella vicinissima Azienda Agricola Martoccia di Luca Brunelli. Infine, Hotel dei Capitani è un’ottima scelta per i viaggiatori in cerca di un luogo caratteristico dove dormire, mangiare e rilassarsi in piscina, tutto in un unico ambiente, con vista sulle verdi colline della Val d’Orcia. Per mangiare bene in un posto unico nel suo genere puntate sulla Vineria Aperta

castelloromitorio.com

poderemartoccia.it deicapitani.it

STORIES TOSCANA ETRUSCA
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CAMMINI E ARTE CONTEMPORANEA: IL CASO VIA APPIA

Lo sviluppo di un turismo sociale e sostenibile, come quello dei Cammini, può passare anche dall’arte contemporanea. Lo dimostra il caso della Via Appia – Regina Viarum, la strada consolare di oltre mille chilometri che connette Roma a Brindisi: pur essendo meno nota di un Cammino come la Via Francigena, è stata candidata all’Unesco, per la prima volta direttamente dal Ministero della Cultura, che ha anche commissionato un’opera d’arte per dare ulteriore credibilità a questa iscrizione. “Mappia consiste in un leporello di 922 centimetri di base dove ho disegnato una mappa fortemente stilizzata di tutto il percorso”, ci spiega l'artista, musicista e cartografo Roberto Paci Dalò, creatore di una mappa, lunga oltre nove metri, in formato leporello, ispirandosi alla Tabula Peutingeriana, copia medievale di un’antica “carta stradale” romana. Nell’opera appaiono stilizzati i tracciati dell’Appia Claudia e della Traiana, associati a una serie di luoghi, tecnologie, architetture, accadimenti storici, artistici e culturali che vengono raffigurati tramite il disegno, vicino allo stile delle miniature medievali, bizantine, persiane, armene e cinesi. Un “viaggio” ideale lungo l’Appia, che mette in evidenzia momenti salienti e personaggi apparsi nell’arco di ventitré secoli fino ai giorni nostri. Ma anche reale, perché fino ad agosto l’opera è in mostra ogni mese in una città diversa sul percorso appiesco: Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Venosa, Brindisi, tra incontri, laboratori, performance e radio. “Le presentazioni che stiamo facendo in questi mesi in varie città sul percorso dell’Appia servono a incontrare le comunità che lì vivono, creare occasioni di collaborazione, progettare insieme interventi possibili su un territorio enorme che comprende quattro regioni e tanti comuni. È un lavoro che vuole pianificare interventi per i prossimi anni, coinvolgendo la parte storico-archeologica con i linguaggi della contemporaneità. Questo significa ulteriori committenze e presentazioni di mostre, performance, installazioni”.

UN ITINERARIO A PARTIRE

DALLA COSTA DEGLI ETRUSCHI

Il nostro itinerario non può che partire dalla costa in provincia di Livorno, detta appunto Costa degli Etruschi. Una denominazione dovuta alle numerose tracce di questa civiltà rinvenute nel tratto litorale che va da Piombino a Rosignano, e che comprende anche il territorio interno di Castagneto Carducci (dove visse il grande poeta). Tappa, insieme a Bolgheri, della Via del vino, con molti legami con questo popolo del passato: nella cantina vitivinicola sotterranea di Guado al Melo, per esempio, si coltiva l’uva come al tempo degli Etruschi, utilizzando antichi vitigni di trenta varietà. La Costa degli Etruschi comprende la Val di Cornia che, posta di fronte all’Isola d’Elba, presenta una ricca offerta di musei e parchi, come quello archeologico di Populonia e Baratti che spicca per la sua particolarità: tra le città etrusche, Populonia è l’unica costruita direttamente sul mare. Qui è possibile visitare la monumentale necropoli di San Cerbone che si affaccia sul Golfo di Baratti, dove la sabbia della spiaggia brilla ancora di ematite

L'ANTICA CITTÀ ETRUSCA

DI POPULONIA SI AFFACCIA

SUL GOLFO DI BARATTI, DOVE LA SABBIA BRILLA ANCORA DI EMATITE

proveniente dalle miniere elbane. Un fitto sistema di percorsi tra boschi di lecci e di sughere conducono, poi, all’affascinante necropoli ipogea delle Grotte, scavata dagli Etruschi nella roccia di un’antica cava. Infine, sulla sommità dell’Acropoli, a Populonia Alta, si possono ammirare i resti della città etrusca sotto il dominio di Roma.

VOLTERRA, LA VAL DI CECINA

E LA VAL D’ELSA

Spostandoci a ovest della Val di Cornia e della Bassa Val di Cecina, troviamo l’Alta Val di Cecina, delimitata a nord dalla Val d’Era, a sud dalle Colline Metallifere e a est dalla Bassa Val d’Elsa, dove l’antica azienda Collevilca, oltre a produrre il 95% del cristallo italiano, è nota per la sua collaborazione con la Galleria Continua di San Gimignano, di casa a Colle Val d’Elsa col suo storico progetto di arte pubblica Arte all’Arte e UMoCA che ospita fino a novembre 2023 le opere di Mimmo Paladino: la cristalleria ha realizzato negli anni, per conto della galleria, diversi lavori per artisti internazionali come Chen Zhen, Pascale Marthine Tayou, Moataz Nasr, Kiki Smith. Ma torniamo nella Val di Cecina che occupa la parte meridionale della provincia di Pisa e possiede un ricco patrimonio di testimonianze etrusche, romane, medievali e rinascimentali, disseminate sul territorio e custodite in vari

Roberto Paci Dalò, Mappia

COLLEVILCA,

PER LA SUA COLLABORAZIONE CON LA GALLERIA CONTINUA DI SAN GIMIGNANO

borghi meravigliosi come Montecatini Val di Cecina ma in prevalenza a Volterra, città d’arte e centro culturale dell’intera vallata, oltre che prima Città Toscana della Cultura 2022. Qui sono conservati ampi tratti della più grande cinta muraria d’Etruria con i suoi 7 km, dove si aprono due porte antiche – la Porta dell’Arco e il Portone – esempi dell’architettura etrusca. Al di fuori si stendono le necropoli i cui reperti, tra i quali oltre 600 urne cinerarie in alabastro, arricchiscono la collezione del Museo Etrusco Guarnacci, uno dei più antichi d’Europa e il secondo al mondo per importanza dopo Villa Giulia a Roma, da poco riaperto con un allestimento rinnovato, in un mix di ricostruzione filologica delle sale ottocentesche e nuove tecnologie. Questa zona è famosa anche nel circuito contemporaneo perché attraversata dalle monumentali sculture dell’artista volterrano Mauro Staccioli, che ne ha ridisegnato il paesaggio: mappate e georeferenziate in un’app, sono un autentico inno allo Slow Tourism

IL CAMMINO D’ETRURIA E I PERCORSI

BIKE DI EROICA IN VAL D’ORCIA

Volterra è anche il fulcro del Cammino d’Etruria Centro, un percorso a piedi di circa 240 km ideato dall’archeologo/social media manager Diego Vichi e dal progettista/guida escursionistica Gianfranco Bracci per “portare il residente, ma anche il turista, alla riscoperta delle nostre radici comuni, seguendo il filo logico degli Etruschi: musei archeologici e necropoli, ma anche testimonianze medievali e rinascimentali, il tutto all’interno di riserve naturali protette e siti di interesse regionale come le crete senesi”. Alcune tappe come Murlo, Montalcino (con il suo villaggio etrusco di Poggio Civitella, a 600 metri d’altezza) e

STORIES TOSCANA ETRUSCA
OLTRE A PRODURRE IL 95% DEL CRISTALLO ITALIANO, È NOTA
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Carro etrusco al Museo di Asciano

Asciano, sono per molti tratti sovrapposte alle strade bianche non asfaltate dell’Eroica, la manifestazione ciclistica di stampo vintage di Gaiole in Chianti, in provincia di Siena, che l’anno scorso ha compiuto i suoi primi 25 anni di vita in un territorio che al cicloturismo ci tiene. E che proprio da Montalcino fa passare uno dei percorsi di bici legati al suo vino più famoso, il Brunello: ci si può fermare, ad esempio, al Podere Martoccia per farne una degustazione guidata dal suo stesso giovane proprietario, Luca Brunelli, insieme al profumatissimo zafferano prodotto dall’azienda agricola Pura Crocus, che ci racconta di questo “oro rosso, usato un tempo come moneta di scambio a San Gimignano, che lo ha investito tutto nella costruzione delle sue famose torri”. La zona è quella famosissima della Val d’Orcia, dal 2004 Patrimonio Unesco, solcata dalla Via Francigena ed entrata nell’immaginario comune: quello di un paesaggio da cartolina che illustra gli ideali del Buon Governo, tra le allegorie del ciclo di affreschi trecenteschi di Ambrogio Lorenzetti, conservato nel Palazzo Pubblico di Siena Con Pienza come luogo esemplare che, col suo centro storico costruito sui principi umanistici del Quattrocento, è il prototipo della Città Ideale voluta da Papa Pio II, caratterizzata da palazzi rinascimentali e prospettive.

LA ZONA È QUELLA FAMOSISSIMA

DELLA VAL D’ORCIA, DAL 2004

PATRIMONIO UNESCO, SOLCATA

DALLA VIA FRANCIGENA

VALDICHIANA SENESE CANDIDATA

A CAPITALE ITALIANA CULTURA 2026

Terra di agriturismi, biologici come il Podere Spedalone, con una vista a 360° sulle sue colline, di set cinematografici naturali, come i campi di grano immortalati da Ridley Scott ne Il Gladiatore sulla strada per San Quirico d’Orcia, e di centri termali come Bagno Vignoni, un borgo che, al posto della piazza, ospita una scenografica piscina con acque già note agli Etruschi, la Val d’Orcia confina ad ovest con la Valdichiana senese: anche questo un territorio che oltre duemila anni fa era abitato dall’affascinante e misterioso popolo etrusco, che già aveva capito come questa fosse la terra dello star bene. Come la Val d’Orcia, è ancora una delle poche zone dove autenticità e cambiamento convivono in perfetta armonia: per questo ha deciso di rinnovare la sua candidatura a Capitale Italiana della Cultura, riprogrammando il progetto per l’anno 2026. A suo sostegno ci sarà anche il Cantiere Internazionale d’Arte, storico happening diffuso e trasversale alle arti in Val di Chiana, culla verde del Rinascimento italiano, e quest’anno per la prima volta anche a Pienza e al Museo Etrusco di Chiusi, dal 14 al 30 luglio 2023.

L’AREA FIORENTINA E L’AREA PRATESE: FIESOLE E CARMIGNANO

Capoluogo di uno dei comuni della fascia collinare attorno a Firenze, Fiesole è nota per la sua cinta muraria “ciclopica” più settentrionale del mondo etrusco, da poter ammirare da vicino se si partecipa a un tour guidato in bici elettrica organizzato da Fiesole Bike: salendo ancora più su si può vedere la cima del Montece-

Le campagne del Cammino d'Etruria Centro. Photo © Gianfranco Bracci

luoghi Patrimonio Unesco della Toscana (Paesaggio della Valdorcia e Ville e Giardini Medicei distribuiti su più comuni)

NUMERI DEL TURISMO CULTURALE IN TOSCANA 40 28 7 786

ceri, “luogo leonardiano”, perché teatro del presunto volo di Leonardo da Vinci. Nell’area archeologica, in pieno centro abitato, sono state trovate le tracce più antiche che datano il popolamento della collina a partire dal II millennio a. C.. La presenza etrusca è attestata dall’VIII secolo con i primi edifici: un piccolo tempio (il meglio conservato d’Italia), sul quale viene costruito un nuovo santuario con la progressiva romanizzazione nel I secolo a.C., che porta anche alla realizzazione delle terme e di un teatro, costruito secondo i modelli greci, con una pianta a semicerchio che sfrutta la naturale pendenza del terreno. Ed è proprio qui che dal 1962 si organizza ogni anno l’Estate Fiesolana, il più antico festival multidisciplinare all’aperto d’Italia che comprende concerti, eventi teatri e proiezioni cinematografiche e che quest’anno si rinnova nei mesi di giugno e luglio, fino al 3 agosto.

Il nostro tour per farvi venir voglia di Toscana Etrusca si conclude nell’area pratese, con Carmignano a rappresentare il cuore della regione. Sia per la sua posizione di centralità, che lo rende accessibile in meno di un’ora da Siena, Pisa, Lucca, Arezzo (mentre domina dall’alto Prato, Firenze e Pistoia), sia perché concentra in sé tutte le caratteristiche di questa regione dell’Italia Centrale. Innanzitutto l’archeologia etrusca, con la monumentale tomba a tumulo di Montefortini a Comeana, i cui arredi funerari sono in parte esposti nel rinnovato Museo Archeologico di Artimino, importante borgo medievale nato su un insediamento etrusco. Il complesso funebre sorge su una collinetta artificiale, alta oggi dodici metri, che ospita due tombe: la più antica, collocata al centro, è una tomba a tholos (camera a pianta circolare) del diametro di oltre sette metri; e poi l’adiacente tomba a camera rettangolare, con monumentale corridoio d’ingresso a cielo aperto. Poco distante si trova Artimino con la pieve romanica di San Leonardo, senza dimenticare le cinquecentesche e medicee Villa di Capezzana (questa nell’area di Carmignano, dal 1920 di proprietà dei Contini Bonacossi che da allora produce olio e vino apprezzato in tutto il mondo) e La Ferdinanda (Patrimonio Unesco e ora hotel di charme nell’area di Artimino, un tempo terreno di caccia dei Medici). Per proseguire poi con l’arte manierista del Pontormo, la cui famosa Visitazione è conservata nella chiesa di San Michele Arcangelo di Carmignano, e finire con l’arte contemporanea (Alberto Moretti e la Galleria Schema; Quinto Martini con il suo Parco Museo e la casa-studio a Seano).

destinazioni Bandiere Arancioni

musei, istituti similari e centri espositivi registrati nel sistema della Regione Toscana

INTERVISTA A DIEGO VICHI, CO-IDEATORE DEL CAMMINO D’ETRURIA CENTRO

Il Cammino d’Etruria Centro è un itinerario di circa 240 km che collega Pisa a Chiusi e, insieme al tratto Pisa – Volterra, forma il Cammino d’Etruria. Ideato da Diego Vichi, archeologo del Museo di Murlo, social media manager da anni impegnato nella comunicazione dei beni culturali, e da Gianfranco Bracci, progettista e guida escursionistica, scrittore di romanzi storici, pioniere dei viaggi a piedi negli Anni Ottanta, co-ideatore della GEA - Grande Escursione Appenninica, Sentiero Italia CAI, la Via del Ferro di collegamento della Val Brembana alla Valtellina e alla Valsassina, nonché del percorso ciclo-pedonale attorno alla città di Firenze l’Anello del Rinascimento, il Cammino è già stato percorso la scorsa estate da gruppi italiani e stranieri e ora è in fase di controllo da parte dei Comuni attraversati. Ne abbiamo parlato con Diego Vichi.

Come nasce il Cammino d’Etruria Centro?

Da un’idea di collegare le tante evidenze etrusche presenti nella provincia di Siena e Pisa (per quanto riguarda Volterra) e di proporre un’escursione a passo lento lungo le bellezze storiche della Toscana interna. Il progetto Cammino d’Etruria Centro è gemello del progetto Cammino d’Etruria da Pisa a Volterra, creando un itinerario omogeneo e condiviso di più di 400 km.

Qual è la vostra storia personale che ha portato a fondarlo?

Tutto è nato da Gianfranco Bracci, progettista di percorsi come la Gea, Il Sentiero Italia e l’Anello del Rinascimento, guida ambientale e scrittore, e da Sandro Frascarelli, escursionista FIE – Federazione Italiana Escursionismo. Mi fecero notare come non ci fosse al momento un percorso che collegasse tutte le evidenze archeologiche etrusche e i numerosi musei sparsi sul territorio. Io archeologo e social media manager ne colsi subito l’importanza, sia al livello di storia che di promozione turistica. Un aspetto, quello della comunicazione dei beni culturali, a me molto caro.

Qual è il pellegrino tipo?

È una persona semplice, che mira a scoprire la storia del territorio. Il Cammino d’Etruria non è solo musei e aree archeologiche etrusche, ma anche riserve naturali, altre evidenze storiche che formano un paesaggio pluristratificato. E le eccellenze del territorio. Per questo sicuramente c’è la possibilità di visitare le cantine (olio e vino sono i prodotti principali) ma anche visitare piccole botteghe di artigiani (in particolare alabastrai).

Il vostro Cammino, oltre a valorizzare le vestigia etrusche e rinascimentali, incontra anche l’arte pubblica?

È un vero e proprio viaggio nel tempo. Si passa da evidenze preistoriche fino al Rinascimento e sicuramente si ammirano anche opere di arte moderna e contemporanea (Casole d’Elsa e Volterra… ma non solo).

STORIES TOSCANA ETRUSCA
INSIEME A GIANFRANCO BRACCI
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Francesco Toris, Nuovo Mondo , 1900 ca. Courtesy Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino. Photo © Paolo Giagheddu

DI COSA PARLIAMO

QUANDO PARLIAMO DI ART BRUT E ARTISTI OUTSIDER?

Una pagina della storia dell’arte che viene sempre più riletta e merita sempre più riletture, quella dell’Art Brut. Rifiutando una classificazione di stampo culturale e rivendicando una purezza estetica incondizionata, gli artisti appartenenti a questo filone sono coloro che più generalmente vengono definiti “outsider”. Anche perché la loro arte nasce spesso all’interno di istituti psichiatrici o in condizioni di isolamento. Ma l’Art Brut è ben di più che l’espressione di un disagio psicopatologico.

ALLE ORIGINI DELL’ART BRUT

La nozione di “art brut” è stata introdotta da Jean Dubuffet nel secondo dopoguerra, a partire dal 1945, per indicare un’arte anticulturale, prodotta spontaneamente da autori estranei agli ambienti artistici professionali, spesso marginali, isolati o internati. Un’arte contrapposta e parallela all’altra, l’arte culturale e omologata dei musei e delle gallerie.

L’attenzione per questo tipo di produzioni nasce, in realtà, diversi decenni prima, grazie ai lavori di psichiatri che avevano intravisto l’interesse artistico delle opere di alcuni malati mentali.

Marcel Réja, pseudonimo dello psichiatra Paul Meunier, pubblicava nel 1907 L’Art chez les fous, un libro dedicato ai disegni, alla prosa e alla poesia dei folli che ebbe un notevole successo e due edizioni nel primo anno di pubblicazione.

Walter Morgenthaler, nel 1921, dava alle stampe una monografia su Adolf Wölfli, un internato dell’asilo di Waldau, vicino Berna, dal titolo Ein Geisteskranker als Künstler (Un malato mentale come artista), accompagnata da alcune illustrazioni in bianco e nero.

Ma soprattutto dobbiamo ricordare Hans Prinzhorn, che nel 1922 pubblicava un libro riccamente illustrato, Bildnerei der Geisteskranken (Le produzioni plastiche dei malati mentali), che presentava un materiale d’eccezionale interesse psichiatrico e artistico, ovvero una collezione imponente di disegni, quadri e sculture di circa 450 pazienti ricoverati in cliniche ed asili europei, offrendo i lineamenti di una prima, provvisoria, teoria della figurazione aperta ai problemi della psicopatologia.

L’INFLUENZA DI PRINZHORN

Fino ad allora non esistevano sul tema pubblicazioni di così ampio respiro, con tantissime illustrazioni, alcune a colori e a tutta pagina, di cui veniva evidenziato il valore estetico e non solo diagnostico, e che inaugurava un nuovo sguardo sulle espressioni della follia. Psichiatra ma anche storico dell’arte, Prinzhorn apriva un campo nuovo: l’interesse per i confini tra la psicopatologia e la creazione artistica.

Il volume presentava una selezione dell’imponente materiale raccolto presso la clinica psichiatrica di Heidelberg in due anni di lavoro, tramite una sorta di montaggio, dallo scarabocchio all’opera dei dieci Maestri schizofrenici, e individuava una teoria della Gestaltung plastica, connessa al bisogno d’espressione. Appena uscito, il libro di Prinzhorn ebbe subito un notevole successo, tanto che l’anno seguente apparve una seconda edizione. Si presentava come un libro d’arte, ricco di immagini, “il più bel libro di immagini che ci sia”, come ebbe a dire Paul Éluard. La sua influenza negli anni tra le due guerre fu enorme, sia in ambito psichiatrico sia in ambito artistico, anche se non sempre riconosciuta.

ART BRUT E SURREALISMO

Basti pensare all’influsso che l'opera di Prinzhorn ebbe su artisti come Alfred Kubin, Paul Klee, Oskar Schlemmer, Max Ernst. Per i surrealisti divenne una specie di “Bibbia underground”, tutti lo conoscevano. Il Surrealismo ha amato la folie, la folie che è immaginazione, libertà, sogno, come si legge nel Manifesto del 1924, ed è in questa prospettiva che il libro viene accolto. La folie, che è altra cosa rispetto alla nozione di malattia mentale degli psichiatri: “Hanno rinchiuso

STORIES ART BRUT
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LA CASA DELL’ART BRUT

In Europa sono oltre trenta le istituzioni dedicate allo studio e alla promozione dell’Art Brut e di tutte quelle pratiche anticonvenzionali che vengono raccolte sotto la definizione di “Outsider Art”. Situata a Mairano di Casteggio, nell’Oltrepò Pavese, e sostenuta dalla Fondazione Bussolera Branca, la Casa dell’Art Brut è un ottimo esempio italiano della crescente e diffusa necessità di luoghi in cui poter approfondire le ricerche sull’arte anticulturale. A costituire il nucleo espositivo di questa istituzione, guidata dalla giovane direttrice Marta Morgana Rudoni, è l’impressionante Collezione Fabio & Leo Cei che, a partire dal 2017, si è arricchita fino a contare oltre 30mila opere a firma di più di 200 artisti provenienti da tutto il mondo. Dipinti, statue, oggetti e disegni provenienti da tale collezione sono ciclicamente esposti nelle diverse sale della villa di campagna oggi sede della Casa dell’Art Brut: la particolare conformazione di questo museo, in fatti, permette di incontrare le opere della collezione in un’inedita e intima atmosfera.

Più che uno spazio espositivo, tuttavia, la Casa dell’Art Brut è un centro di ricerca, divulgazione e didat tica dotato di una ricca biblioteca – aperta a chiunque desideri approfondire l’Outsider Art nelle sue diverse configurazioni – e pronto a di mostrare un respiro internazionale: nel corso del mese di giugno 2023, infatti, gli spazi di Mairano hanno ospitato la mostra vole abbandono della realtà aver permesso l’esposizione delle opere di due artisti serbi di primaria importanza nella scena brut – Sava Sekulić (Blišine, 1902 – Belgrado, 1989) e Ilija Bašičević Bosilj (Šid, 1895 – 1972)

prima volta in Italia, attraverso una felice sinergia fra la Casa dell’Art Brut e il Museum of Naïve and Marginal Art di Bel grado.

Eventi di questo tipo, oltre a co stituire una sempre più necessa ria occasione di diplomazia culturale, hanno il pregio di permettere la comprensione dell’Art Brut come fe nomeno artistico privo di sostan ziali limiti spazio-temporali, forte nelle sue qualità di arte che, rifug gendo il condizionamento, si propone es senzialmente pura.

CRONOLOGIA DELL’ART BRUT

L’alienista Philippe Pinel è uno dei primi ad interessarsi alle produzioni artistiche dei malati mentali

1798

Cesare Lombroso dedica un capitolo di Genio e follia all’arte delle persone affette da psicopatologie

Nietzsche, hanno rinchiuso Sade, hanno rinchiuso Baudelaire” tuonerà André Breton in polemica con la psichiatria e le sue istituzioni manicomiali.

L’art des fous entra ben presto nelle mostre surrealiste, che dagli Anni Trenta iniziano ad affiancare alle opere degli artisti contemporanei le produzioni di internati, spesso prese dalla collezione personale di André Breton, iniziata con l’Assemblage acquistato nel 1929 – un insieme di oggetti inutili (forbici rotte, ecc.) sistemati in un contenitore con un ordine ossessivo – e arricchitasi nel tempo di opere maggiori, da Wölfli a Aloïse Corbaz.

Nell’XI Esposizione internazionale del Surrealismo del 1965, Lo scarto assoluto, uno spazio era riservato ad alienati anonimi ed autori autodidatti. Nel testo di apertura del catalogo, André Breton ricordava i principali autori di riferimento della mostra, da Picasso a Adolf Wölfli, il cui insieme di lavori “costituisce una delle tre o quattro opere capitali del XX secolo”. L’arte erano esposte insieme,

Anche Dubuffet conosceva il libro di Prinzhorn, e non ha problemi ad ammettere in un’intervista del 1976 che da giovane era stato molto colpito da quelle immagini che gli mostrarono la strada ed ebbero un’influenza liberatoria: “Realizzai che tutto era permesso, che tutto era possibile. Milioni di possibilità di espressione esistevano al di fuori delle strade culturali ac-

Nel 1950, Dubuffet visita la collezione Prinzhorn a Heidelberg. È tra i primi a vederla dopo la guerra, la tirano fuori dagli imballaggi per lui, ci passa intere giornate. Ma è deluso: Non c’erano abbastanza casi, né molte opere veramente artisti”. Le opere che l’avevano tanto impressionato in gioventù sembrano non interessargli più. Trenta anni dopo, i criteri estetici di Dubuffet sono manife. Molte opere della collezione Prinzhorn non corrispondevano più a ciò che l’artista stava collezionando folie dei Maestri schizofrenici, gli interessa ora la l’homme du com, è attratto da opere che ma-

1864

Nell’Ospedale della Salpetrière di Parigi, Jean-Martin Charcot s’interessa all’espressione artistica delle pazienti considerate “isteriche”

1875

Internato nel manicomio di Waldau, Adolf Wölfli inizia a disegnare, scrivere e comporre la sua opera: Dalla culla alla tomba

1899

Il Bethlem Royal Hospital di Londra organizza una esposizione di opere realizzate dai suoi pazienti. È il primo nucleo del futuro Museo del Bethlem Royal Hospital (1970)

1900

Auguste Forestier, Senza titolo , 1935-1949. Photo © Claude Bornand, Atelier de numérisation Ville de Lausanne. Collection de l'Art Brut, Losanna

gari Prinzhorn nel suo montaggio aveva messo all’inizio, considerandole più elementari. La scelta di un’arte anticulturale escludeva le opere della collezione di Heidelberg che già avevano ispirato molti artisti e facevano ormai parte integrante della storia dell’arte.

Certo, una buona metà delle opere collezionate da Dubuffet erano prodotte da autori considerati come malati mentali e ospedalizzati in istituzioni psichiatriche. Ma l’Art Brut non è l’art des fous, su questo punto Dubuffet è molto chiaro: la nozione stessa di art des fous da una prospettiva artistica non ha senso. Indipendentemente dal fatto che l’autore sia – per ragioni mediche – reputato sano o folle, la funzione dell’arte è in ogni caso la stessa: “non esiste un’art des fous così come non esiste un’arte dei dispeptici o dei malati al ginocchio”. Un vento di follia soffia in ogni atto creativo – afferma Dubuffet – e la malattia è, se mai, l’incapacità di creazione.

Su questo si consuma la rottura con André Breton, che aveva inizialmente aderito alla Compagnia dell’Art Brut e proposto proprio per l’Almanacco dell’Art Brut il suo testo su L’Art des fous, la clé des champs

LA NOZIONE DI ART BRUT

Il problema dei “confini” tra Art Brut e arte culturale – oggi più che mai attuale dal momento che l’Art Brut è entrata ormai nei musei più prestigiosi, dal Pompidou al MoMa, e nel mercato dell’arte, dove fioriscono gallerie specializzate – si è posto ben presto allo stesso Dubuffet, che nel 1959 parlava di “mille sfumature di ibridi”: l’Art Brut è come un polo, un vento che soffia più o meno forte e che molto spesso non è il solo a soffiare. Di fatto i due venti, i due poli spesso si mischiano, si contaminano. E in molti casi una distinzione netta non è affatto semplice.

La nozione storica di Art Brut resta comunque essenziale anche per precisare certe differenze: l’Art Brut, ad esempio, non è l’arte naïf dei pittori della domenica, che rimane in stretto rapporto con le forme d’arte consacrate. D’altra parte, l’arte-terapia degli atelier dei centri sociali mina la spontaneità dell’invenzione creativa, e molto spesso queste opere non hanno nulla di artistico, come già scriveva Dubuffet al dottor Volmat a proposito dell’Esposizione internazionale di arte psicopatologica del 1950.

Forse l’Art Brut resta un ideale regolativo cui tendere più che un concetto costitutivo. Ma non per questo di minor importanza, anzi. Ed appartiene ormai a pieno titolo al mondo dell’arte.

L’ART BRUT E IL SUO MERCATO

La ricezione e l’assorbimento da parte del mercato dell’arte anche per forme di creatività eccentriche rispetto a un ipotetico centro comincia, a questo punto, ad allungarsi e approfondirsi nel tempo, tanto che non suonano più nemmeno irregolari alcune posizioni che avremmo considerato, solo poco tempo fa e semplificando, “outsider”. E dagli Anni Quaranta di Dubuffet a noi, anche i percorsi più estranei alle traiettorie del sistema dell’arte sono stati addomesticati o ricondotti a canoni masticabili dal mercato globale e dal suo pubblico, in alcuni casi con discreto successo anche. Si pensi ai record del 2018 per un’opera in asta di Adolf Wölfli, con l’aggiudicazione di Der San Salvathor dalla collezione di Marsha e Robin Williams da Sotheby’s New York per 795.000 dollari, o di Aloïse Corbaz, sempre a New York, ma stavolta da Christie’s, con Aristoloches (double-sided), passato di mano per 137.500 dollari da una stima di 40-80.000, in una sessione interamente dedicata al tema, Beyond Imagination: Outsider and Vernacular Art Featuring the Collection of Marjorie and Harvey Freed. In una sorta di “elogio del margine” (rubando le parole, da altri ambiti, a bell hooks), che ha aperto a produzioni artistiche differenti e divergenti, inglobandole poi nel più tradizionale cursus honorum del sistema e nella scansione di mostre di raggio contenuto, grandi esposizioni internazionali (con la Biennale di Venezia in testa) e offerta di opere alle piazze globali del mercato delle gallerie e delle aste. Compiendo quella parabola istituzionale e mercantile che porta al riconoscimento dell’opera d’arte come tale, attraverso l’accordo con la comunità di riferimento e con i suoi canoni di appartenenza, e ai momenti di validazione che sono alla base del sistema dell’arte tutto. Un sistema volubile certo, ma anche efficace, che seleziona e legittima. E riesce a farlo anche per una forma d’arte spontanea, che non nasce o non si educa nei percorsi accademici tradizionali, che non si impone approdi professionali, ma si origina e trova ragion d’essere in esigenze esistenziali profonde a cui dare espressione. Il consolidamento nella valorizzazione di questi percorsi, ora che molti sono noti e il loro valore riconosciuto, sarebbe dunque non guardarli nemmeno più attraverso la lente fenomenica della divergenza da un centro, quanto per la qualità artistica della ricerca, e solo per quella. Provando, al contempo, a misurarsi con lo sforzo massimo di “vedere” queste opere e rispettarle nella loro genealogia, fatta di un muoversi scomposto, di un errore rispetto alla consuetudine, di uno scandalo rispetto alle convenzioni, e, infine, di una totale adesione all’arte.

In L’arte malata, disegni di pazzi, Marcel Réja si chiede se i folli abbiano una loro arte

Lucien Lévy-Bruhl pubblica Le funzioni mentali nelle società inferiori, influenzando le riflessioni sull’arte primitiva e sull’art des fous

FIORELLA BASSAN 1901

1910

Il dottor Henri Marcel Fay descrive le somiglianze che esistono tra le opere dei folli e certi gruppi di artisti moderni, come Fauvisti e Cubisti

1911

Nel suo testo Arte primitiva, arte paranoica il dottor Giovanni Marro (discepolo di Lombroso) presenta uno studio sull’opera Il Nuovo Mondo di Francesco Toris

1913

Aloïse Corbaz (1886-1964) è internata nell’ospedale di Céry, vicino a Losanna, dove inizia a scrivere e disegnare con matite e gessi grossi su carta d’imballaggio

1925

STORIES ART BRUT
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CRISTINA MASTURZO

L’ART BRUT DA JEAN DUBUFFET AL PRESENTE

Proveniente da una famiglia di mercanti di vini, Jean Dubuffet (1901-1985) trovò proprio in quel mondo l’espressione adatta a indicare un campo sin lì poco esplorato dell’espressione estetica: “art brut”. L’aggettivo “brut” designa la qualità aspra, non affabile ma forte, di una produzione artistica realizzata in condizioni non canoniche da artisti non professionisti, privi di educazione formale, spesso reclusi in ospedali psichiatrici, cresciuti artistica mente in isolamento e quindi depositari, secondo Dubuffet, di un’autenticità non compromessa dall’“asfissiante cul tura”. Dell’Art Brut, a partire dal 1945, data del suo primo viaggio in Svizzera alla ricerca di opere, Dubuffet si fa teorico, paladino e collezionista. La sua azione si svolge quindi su più fronti: nella se conda metà degli Anni Quaranta, egli delimita in modo sempre più preciso il campo d’indagine, popo lato di artisti vissuti in condizioni di isolamento, ma non solo manicomiali. L’artista brut, infatti, non è in teressante perché portatore di una patologia, ma per ché esprime una speciale condizione esistenziale.

ART BRUT: DALLA TEORIA ALLA PRATICA

Il contributo di Dubuffet alla causa dell’Art Brut va oltre il sostegno teorico. Nel 1948, egli fonda la pagnie de l’Art Brut, in cui raccoglie un gruppo di intellettuali come lui interessati a forme di creatività altra – André Breton, Jean Paulhan, Charles Ratton, Henri-Pierre Roché, Michel Tapié – e in una trentina d’anni costruisce una collezione poderosa che, dopo complesse vicissitudini, approda a Losanna, in un (anti)museo a essa esclusivamente dedicato: la Collection de l’Art Brut, inaugurata nel 1976 e luogo prediletto per chi in Europa si interessi di questa specie di espressione artistica.

Come artista, infine, Dubuffet cerca di riportarsi a quella condizione di creatività sorgiva che caratterizza l’Art Brut: se è vero, da un lato, che solo l’accento sulla piattezza della superficie introdotto dall’arte novecentesca ha consentito la “scoperta” dell’Art Brut come forma d’arte, è anche vero, dall'altro, che la planarità degli artisti brut è primaria, non l’esito di una scelta consapevole, ma il vincolo primo e ineluttabile nello sviluppo dell’immagine.

L’azione di Dubuffet ha conseguenze incalcolabili

CRONOLOGIA DELL’ART BRUT

André Breton esercita e sviluppa pratiche di automatismo psichico applicate al disegno

1925

Il direttore dell’asilo psichiatrico di Bel-Air a Ginevra, il Dottor Charles Ladame considera le produzioni dei suoi pazienti come opere d’arte e le espone nel padiglione dell’ospedale

sull’arte contemporanea, specialmente europea, non solo perché tanti artisti e artiste si ispirano formalmente al nuovo vocabolario, ma anche e soprattutto perché egli ha messo sulla mappa e iniziato a esplorare un continente nuovo, ricco di personalità formidabili: Adolf Wölfli e gli artisti di Prinzhorn, certo, e poi Aloïse Corbaz, che Dubuffet scopre nel ‘47, innamorata di principi e principesse dagli occhi allagati di blu; Carlo Zinelli, il veronese ospite del manicomio di San Giacomo alla Tomba. Visionari come Augustin

Lesage o Jeanne Tripier. Inventori di storie erotiche e perverse come Henry Darger; persone ricoverate in manicomi criminali, come Fernando Nannetti, che con la fibbia del gilet incide sull’intonaco del muro esterno dell’ospedale psichiatrico di Volterra un enorme palinsesto di segni e figure, oggi quasi del tutto scomparso.

LE RECENTI VICENDE DELL’ART BRUT

Dubuffet e i suoi seguaci (fra cui Michel Thévoz, il primo, straordinario direttore della Collection de l’Art Brut di Losanna) pensavano che l’Art Brut fosse un mondo a parte, che avrebbe perso le sue proprietà specifiche se messo a reagire con altre forme della creazione contemporanea.

E perciò i primi apostoli dell’Art Brut avevano definito un canone stretto, riferito, più che alla forma, alla situazione esistenziale dell’artefice e alle condizioni di realizzazione dei lavori. Come spesso avviene con le tassonomie troppo rigide, anche questa è stata presto messa in discussione: l’Art Brut e l’arte culturale contemporanea hanno trovato sempre più opportunità d’incontro, a partire dalla documenta 5 di Kassel (1972), dove Harald Szeeeman presentava, in largo anticipo sui tempi, il lavoro di Wölfli. A cavallo fra il XX e il XXI secolo le occasioni di contaminazione e meticciato si sono moltiplicate: la bella e coloratissima Biennale del 2013, curata da Massimiliano Gioni, comprendeva un’ampia quantità di opere di Art Brut, e così è successo per la Biennale dello scorso anno, curata da Cecilia Alemani. Nel 1999 Museo di Villeneuve d’Ascq, presso Lille, accoglieva la donazione de L’Aracine, un collettivo dedito alla raccolta di opere di Art Brut, integrando la collezione di arte contemporanea del museo. Per inciso, uno dei fondatori de L’Aracine è Michel Nedjar, uno dei massimi artisti brut viventi, a cui la Collection de l’Art Brut di Losanna dedica, fino al 29 ottobre 2023, una grande retrospettiva. Nel 2021 il Centre Pompidou accettava la donazione di un migliaio di opere da parte di uno dei mas-

Nell’Esposizione internazionale a Londra si presentano opere di malati mentali

1926

1937

Jean Dubuffet parla per prima volta di “Art Brut” in una lettera che spedisce al pittore svizzero

René Auberhonois

1945

Fondazione dell’associazione culturale senza fini lucrativi “Compagnia dell’Art Brut” da parte di Jean Dubuffet, André Breton, Jean Paulhan, Charles Ratton, Henri-Pierre Roché, Michel Tapié e Slavo Kopac

1948

Franco Bellucci. Photo © Fausto Ferraiuolo. Collezione Giacosa Ferraiuolo

simi collezionisti francesi di Art Brut, Bruno Decharme e, a cavallo fra il 2021 e il 2022, il MoMA ospitava una ricca mostra di Joseph E. Yoakum (18911972), uno dei maggiori artisti brut statunitensi. Zona dapprima inesplorata della creatività, poi mappata e recintata con cautela, l’Art Brut ha stretto quindi i rapporti con il resto dell’arte contemporanea: forse ha perduto un po’ della primitiva innocenza, ma lo scambio ha prodotto esiti di straordinaria vitalità.

CLAUDIO ZAMBIANCHI

Jean Dubuffet organizza la prima grande esposizione di Art Brut alla galleria Drouin di Parigi, L’Art Brut preferita alle Arti Culturali. Il suo testo nel catalogo viene considerato il manifesto dell’Art Brut

1949

La psicoanalista brasiliana Nise da Silveira (1906-1999) inaugura il Museo di Immagini dell’Inconscio a Rio de Janeiro

1952

Carlo Zinelli (1916-1974) inizia a dipingere nell’atelier creato da Michel Noble e Pino Castagna all’interno dell’ospedale psichiatrico di Verona

1957

L’ART BRUT IN ITALIA. ALCUNI PROTAGONISTI

Francesco Toris (1882 – 1918)

Internato nell’Ospedale Psichiatrico di Collegno con la diagnosi di paranoia, Toris è l’autore dell’opera Il Nuovo Mondo, considerata fra le sculture brut più importanti del Novecento. Toris la realizzò levigando, scolpendo e assemblando le ossa di bovino provenienti dalle cucine dell’ospedale.

Giovanni Battista Podestà (1895 – 1976)

È principalmente noto per le sue sculture e bassorilievi: nelle sue mani, materiali di recupero come frammenti di specchi, metallo e segatura si trasformano in immagini colorate e visionarie, in cui l’immaginario contadino incontra la tradizione figurativa cristiano-medievale.

Carlo Zinelli (1916-1974)

Fu principalmente pittore. Alla fine degli Anni Cinquanta è stato scelto per partecipare a uno dei primi esperimenti artistici all’interno di un’istituzione psichiatrica, seguito dagli artisti Michel Noble e Pino Castagna, che gli procuravano i materiali permettendogli di dipingere e dar forma al suo immaginario.

Franco Bellucci (1945 – 2020)

A causa di una lesione cerebrale, dall’età di diciassette anni è internato nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, per poi essere trasferito al Centro Basaglia di Livorno nel 1998. Qui sperimenta la pratica dell’assemblage, unendo ready made, spesso giocattoli, per creare oggetti nuovi.

Giovanni Galli (1954)

I suoi problemi di salute mentale lo portano al ricovero in un istituto psichiatrico dal 1993. Dall’anno successivo aderisce all’atelier La Tinaia, sperimentando un disegno dai colori accesi, che ha per protagonista la figura femminile, spesso nuda e nel ruolo di dominatrice sessuale

Melina Riccio (1951)

Quella di Melina Riccio è un Art Brut “di strada”: disseminate sui muri di Genova, sua città natale, le sue opere auspicano un mondo migliore, libero dalle convenzioni dei governi, delle organizzazioni religiose e del denaro.

André Breton e Marcel Duchamp organizzano L’Esposizione internazionale di Surrealismo sul tema dell’erotismo con opere di Unica Zürn e Aloïse Corbaz

1959-60

Ha inizio un fitto rapporto epistolare tra la critica d’artee giornalista italiana Lorenza Trucchi e Jean Dubuffet. Trucchi sarà la prima a fornire a Jean Dubuffet informazioni e contatti con autori italiani di Art Brut

1962

STORIES ART BRUT
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Giovanni Galli. Collezione Giacosa Ferraiuolo

PAROLA ALL’ESPERTO INTERVISTA A GUSTAVO GIACOSA

Regista

e curatore indipendente, nonché appassionato collezionista, Gustavo Giacosa (Sunchales, 1969) è tra i principali nomi nel panorama della ricerca attuale sull’Art Brut. Tra le mostre da lui curate si ricordano Banditi dell’arte alla Halle Saint-Pierre di Parigi e Corps alla Collection de l’Art Brut di Losanna. È inoltre fondatore di SIC12 artstudio, uno spazio espositivo situato a Roma volto alla conservazione e alla valorizzazione della sua collezione di Art Brut.

Con lui abbiamo parlato di questo e di molto altro.

Spesso ci si riferisce all’Art Brut come a un movimento ormai storicizzato e relativo alla personalità di Jean Dubuffet. Qual è la sua dimensione contemporanea?

L’Art Brut non è un movimento. Attraverso la riflessione critica che Jean Dubuffet fa sulla cultura e sul suo farsi sistema, egli ci propone non tanto un movimento quanto un utensile per pensare e ripensare l’arte. Tramite la nozione di “Art Brut”, Dubuffet prende di mira un sistema dell’arte costruito intorno alla monetarizzazione e al valore di mercato. Nel contempo rifiuta il criterio, ormai del tutto relativizzato, che bisogna studiare e saper leggere la storia dell’arte per essere artisti. Oggi per tanti è ancora un automatismo pensare che l’opera di un’artista ha valore se si vende o è mostrata. Ebbene, la riflessione di Dubuffet tende a minare e decostruisce questo automatismo. L’Art Brut è un’arte che non ha prezzo, è un enigma che ci giunge come un dono offerto da persone che, non considerandosi artisti né cercando di esserlo, hanno modellato attraverso un sapere organico un esclusivo sistema di pensiero. Parliamo quindi di espressioni artistiche che non sono state concepite come prodotti da vendersi o per arrivare a sedurre un determinato pubblico. Queste opere hanno per solo destinatario il proprio autore. Essi infondono un carattere fortemente identitario ai risultati di atti che hanno a che vedere più con rituali privati piuttosto che con l’esercizio del disegnare o del dipingere così come noi le intendiamo.

Quali valori emergono dalle opere di Art Brut?

Questi autori (Dubuffet preferisce il termine autori a quello di artisti) ci fanno riflettere sulla nozione di gratuità, di condivisione e di scambio. Valori quanto mai contemporanei alla crisi del pensiero capitalista.

CRONOLOGIA DELL’ART BRUT

Il curatore svizzero

Harald Szeeman

riscopre la Collezione

Prinzhorn a Heidelberg (Germania) e presenta

alcuni autori nella mostra Insania pigens

alla Kunsthalle di Berna

1963

In seguito alla mostra parigina Les singuliers de l’art, organizzata da Alain Bourbonnais, il termine “Arte Singolare” inizia a identificare quelli artisti autodidatti vicini a una certa estetica dell’Art Brut ma operanti nel sistema dell’arte

1978

L’esposizione

L’Art Brut ha spesso l’effetto di un pugno sullo stomaco che ci arriva senza sapere perché. La possibilità che oggi l’arte produca una reazione simile è quanto mai di attualità.

In cosa l’Art Brut odierna è diversa rispetto alle sue origini?

Lavorare a partire da mezzi espressivi ridotti quasi all’essenziale resta uno delle sue caratteristiche stilistiche. Oggi, tuttavia, si può affermare che nel mondo globalizzato gli autori dell’Art Brut hanno, come tutti, maggiore possibilità d’accesso all’informazione e riescono a procurarsi materiali sui quali lavorare con più facilità. Soffrono meno la segregazione. Basti pensare ai tanti autori che si sono dovuti servire dei muri degli ospedali psichiatrici come supporto espressivo...

Qual è la situazione dell’Art Brut dal punto di vista istituzionale?

Nel corso dei decenni si è passati dall’esistenza di un solo luogo specifico che aveva per missione la conservazione della collezione creata da Dubuffet e il proseguimento della sua missione (la Collection dell’Art Brut di Losanna) al moltiplicarsi di gallerie d’arte, piccoli musei e collezioni private. Il peso di questa ondata inarrestabile ha progressivamente captato l’interesse delle grandi istituzioni museali. Negli ultimi dieci anni assistiamo a un movimento internazionale di emersione, riconoscimento e ri-territorializzazione dell’Art Brut. In sintonia con una rilettura, più inclusiva, della storia dell’arte, l’Art Brut esce da un circuito specifico e dedicato (a volte ghettizzante) e fa il suo ingresso in fiere internazionali d’arte contemporanea e collezioni museali.

Jean Dubuffet e L’Art Brut è presentata alla collezione

Peggy Guggenheim a Venezia, un anno dopo la morte di Jean Dubuffet

1986

John Maizels lancia la rivista Raw Vision, dedicata a promuovere l’Outsider Art e l’Art Brut

1989

INTUIT, Centro per l’Arte Intuitif e Outsider apre le sue porte a Chicago (USA)

1991

A proposito, possiamo ancora considerare l’Art Brut come espressione outsider o è ufficialmente entrata nel sistema dell’arte e del suo mercato?

Con tutte le sue ambiguità e i problemi etici che può comportare, in questi ultimi anni si è consolidato un mercato internazionale attorno al termine Art Brut. L’Art Brut è diventata un trend, un marchio, su cui ora il mercato sta puntando. Grandi investitori finanziano nell’ombra l’affermarsi di alcune gallerie. A differenza dell’Art Brut degli inizi, legata ai criteri di valutazione dettati da Dubuffet e dai suoi successori diretti come Michel Thévoz, ora è in primis il mercato a decidere su chi incollare l’etichetta di “artista brut”. Il rischio di manipolazioni e gestioni poco trasparenti è alto e sono già molti i casi portati nelle aule di giustizia.

Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le iniziative che uniscono psichiatria e pratica artistica: qual è la differenza fra l’arte-terapia e l’Art Brut?

L’arte-terapia nasce nel dopoguerra e da allora si è diffusa nel mondo come aiuto indispensabile nel lavoro sul disagio psichico, la riabilitazione socio-sanitaria, l’accompagnamento di persone malate o in fin di vita. La sua pratica prevede la figura di un terapeuta che accompagna e stabilisce con il paziente un percorso da tracciare e costruire assieme. L’obiettivo è il miglioramento dello stato della persona o un suo reinserimento sociale. Questo lo si fa attraverso un monitoraggio che prevede un’evoluzione della forma creata.

L’Art Brut presuppone uno sguardo puramente estetico e non tiene in conto dei possibili risvolti d’inclusione sociale o di miglioramento della qualità di vita della persona che si esprime artisticamente (benché conseguenze positive siano inevitabili per chi ci arriva). L’Art Brut s’interessa di raccogliere quelle produzioni artistiche che nascono nell’intimità e nella segretezza del suo autore senza che egli sia sollecitato o stimolato a farlo.

Ci sono prospettive di ulteriore evoluzione e crescita?

L’Art Brut continua a suscitare interesse, lo dimostrano due importanti mostre istituzionali in preparazione: la prima si terrà da novembre 2025 a febbraio 2026 nel Grand Palais di Parigi e sarà curata da Jean de Loisy e Bruno Decharme; l’altra avrà luogo nel rinnovato Centre Georges Pompidou una volta finiti i lavori di ristrutturazione.

C’è da augurarsi che in Italia si sviluppi un’attenzione maggiore da parte delle istituzioni pubbliche nel salvaguardare e tutelare il lavoro degli autori dell’Art Brut nostrana. Urge la necessità di creare archivi pub-

blici nelle diverse regioni per proteggere questo patrimonio ed evitare la dispersione materiale delle opere.

A Roma hai aperto uno spazio dedicato all’Art Brut. In cosa consiste e a quali esigenze risponde? SIC12 artstudio risponde alla necessità di creare uno spazio fisico per la conservazione, l’esposizione e lo studio delle opere della collezione che assieme a Fausto Ferraiuolo stiamo costituendo. Questa collezione ha origine ed è influenzata dal nostro lavoro artistico, transdisciplinare e comune. Il mio lavoro di attore, regista e curatore d’arte si intreccia a quello di Fausto Ferraiuolo, pianista e compositore. La collezione si è costituita gradualmente in questi ultimi quindici anni. Istintivamente ci siamo concentrati su artisti e opere che rispondono a tre tematiche a noi molto care: il gioco degli specchi e dello sdoppiamento dell’Io; il rapporto tra scrittura e disegno; il corpo come cassaforte della memoria dell’uomo.

L’intenzione, quindi, è quella di creare in Italia uno spazio permanente dedito allo studio e all’esposizione dell’Art Brut e dei dialoghi che si possono creare con l’arte contemporanea. Oltre allo spazio espositivo per mostre e attività collaterali (conferenze, concerti, performance) abbiamo allestito un bookshop dove è possibile acquistare libri e cataloghi sull’Art Brut e argomenti collegati.

Prima edizione di Outsider Art Fair a New York

2009

Riapertura a Torino del museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso 2010

In Francia a Villeneuve d’Ascq s’inaugura il LaM: primo museo di Arte moderna, di arte contemporanea e di Art Brut

Gustavo Giacosa presenta alla Halle

Saint Pierre di Parigi la mostra Banditi dell’Arte, prima retrospettiva di Art Brut e arte popolare italiana fuori dall’Italia

2012

La 53. Biennale d’Arte di Venezia presenta una vasta selezione di opere di Art Brut nel Palazzo Enciclopedico curato da Massimiliano Gioni

2013

Il Centre Georges Pompidou di Parigi dedica una sala permanente all’Art Brut. A Roma inaugura lo spazio espositivo SIC12 artstudio

ALBERTO VILLA 1994

2021

STORIES ART BRUT
73 73
Marilena Pelosi. Collezione Giacosa Ferraiuolo

PRINCIPALI MUSEI E COLLEZIONI PRIVATE DI ART BRUT E OUTSIDER ART IN EUROPA

ISLANDA

SVALBARÐSSTRÖND Safnasafnið safnasafnid.is

FRANCIA

PARIGI Centre Georges Pompidou centrepompidou.fr

abcd (Art Brut Collection Decharme) abcd-artbrut.net

Halle Saint Pierre hallesaintpierre.org

DICY La Fabuloserie fabuloserie.com

MONTPELLIER Musée d’Art Brut, singulier & autres musee-artbrut-montpellier.com

VILLENEUVE D’ASCQ Musée d’art moderne, art brut et art contemporain Lille Metropole (LaM) musee-lam.fr

BÈGLES Musée de La Création Franche musee-creationfranche.com

MONTOLIEU La Cooperative (Collection Cérès Franco) collectionceresfranco.com

NIZZA

Musée International d’Art Naïf Anatole Jakovsky explorenicecotedazur.com

SÈTE MIAM.

DANIMARCA RANDERS Gaia Museum gaiamuseum.dk

AARHUS Museum Ovartaci ovartaci.dk

PAESI BASSI

AMSTERDAM Museum of the Mind Outsider Art

museumvandegeest.nl

UTRECHT Collectie de Stadshof collectiedestadshof.nl

REGNO UNITO

LONDRA The Museum of Everything musevery.com

KENT Bethlem Royal Hospita Archives and Museum museumofthemind.org.uk

GERMANIA BÖNNIGHEIM

Charlotte Zander Museum sammlung-zander.de

MÜNSTER Kunsthaus Kannen kunsthaus-kannen.de

ITALIA TORINO Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso museolombroso.unito.it Museo di Antropologia dell’Università di Torino museoantropologia.unito.it

REGGIO EMILIA Centro di documentazione di storia della psichiatria “San Lazzaro” musei.re.it

MAIRANO DI CASTEGGIO La Casa dell’Art Brut casadellartbrut.it

ROMA SIC12 artstudio (Collezione Giacosa Ferraiuolo) sic12.org

PALERMO Osservatorio Outsider Art outsiderartsicilia.it

SPAGNA

BARCELLONA MAB. Museu de l’Art Brut outsiderartassociation.eu

MADRID La Casa Encendida lacasaencendida.es

HEIDELBERG Prinzhorn Collection sammlung-prinzhorn.de

Musée
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International des Arts Modestes miam.org
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SVEZIA

STOCCOLMA Inuti Foundation inuti.se

FINLANDIA

HELSINKI Kettuki-network kettuki.fi

RUSSIA MOSCA Outsider Art Museum museum.ru

AUSTRIA

VIENNA Museum Gugging museumgugging.at

BELGIO

BRUXELLES Musée Art & Marges artetmarges.be Musée d’Art Spontané musee-art-spontane.be

GAND Museum Dr. Guislain museumdrguislain.be

LIEGI Trinkhall Museum trinkhall.museum

CROAZIA

ZAGABRIA Croatian museum of Naïve Art cimam.org

SERBIA BELGRADO Museum of Naïve and Marginal Art museu.ms

SVIZZERA

LOSANNA Collection de l’Art Brut artbrut.ch

BERNA Fondazione Adolf Wölfli adolfwoelfli.ch

SAN GALLO Open Art Museum openartmuseum.ch

ZURIGO Musée Visionnaire museevisionnaire.ch

STORIES ART BRUT
2 3 4 5 1 2 1 1 2 3 1 2 3 3 4 73 75
35 JODICE/TORINO • SIGNORELLI/CORTONA KUSAMA/BILBAO • BATTAGLIA/ROMA • BASQUIAT/BASILEA

La realtà fotografata da Mimmo Jodice

Un mondo noto, eppure sconosciuto, si dispiega davanti agli occhi di chi entra in connessione con gli scatti di Mimmo Jodice (Napoli, 1934). È l’universo poetico, straniante, atemporale, ma vividissimo, catturato dallo sguardo del fotografo campano, che sin dagli Anni Sessanta ha colto le molteplici opportunità del mezzo fotografico per creare visioni di realtà svincolate dalla contingenza documentaristica. Superando, dunque, la supposta antitesi tra analisi del reale e indagine introspettiva, poiché l’attaccamento alle cose umane e l’osservazione acuta del mondo naturale possono manifestarsi in tutta la loro potenza anche (tanto più) aggirando un approccio didascalico.

Mimmo Jodice, con il bagaglio visivo che ha saputo condividere in settant’anni di carriera vissuti da maestro della fotografia del Novecento, è il protagonista della mostra allestita alle Gallerie d’Italia di Torino, a cura di Roberto

fino al 7 gennaio 2024

MIMMO JODICE. SENZA TEMPO a cura di Roberto Koch Catalogo Edizioni Gallerie d’Italia | Skira

GALLERIE D’ITALIA

Piazza San Carlo 156 – Torino gallerieditalia.com

Koch, secondo capitolo di un ciclo di appuntamenti espositivi avviato nel 2022 con Lisetta Carmi, per omaggiare La Grande Fotografia Italiana. Per l’occasione, arrivano a Palazzo Turinetti 80 opere dell’artista, di cui 22 fotografie della produzione dagli Anni Sessanta ai Settanta e 11 lavori realizzati su commissione di Intesa Sanpaolo, centrati sull’esplorazione della natura come duplice dimensione, nella relazione con gli elementi che ci circondano, ma proiettata verso l’indagine di sé.

JODICE E LA CAMERA OSCURA

La sezione Natura, esposta per la prima volta in una retrospettiva di Mimmo Jodice, del resto, non fa che approfondire e dare merito a una ricerca molto personale sul paesaggio avviata dal fotografo negli Anni Ottanta, dopo gli esordi a stretto contatto con il tessuto culturale e sociale della sua città natale, Napoli (la prima personale, alla Libreria La Mandragola, risale al 1967), vissuti sì nel segno della sperimentazione di nuovi

#35 78
Livia Montagnoli
MIMMO JODICE/TORINO
Atleti della Villa dei Papiri, Napoli, 1986 © MIMMOJODICE/RIPRODUZIONE VIETATA

LE GALLERIE D’ITALIA 1999

Palazzo Leoni Montanari

pittura del Settecento Veneto e icone russe

2007

Palazzo Zevallos Stigliano

pittura e scultura del Meridione italiano tra Seicento e Novecento

2022

Vicenza

PAROLA AL CURATORE ROBERTO KOCH

Jodice porta alle Gallerie d’Italia la sua capacità di scavalcare la contingenza temporale per abbracciare il tempo lungo della comprensione, comunque centrato sul desiderio di mostrarci la realtà. Che impatto avranno le sue foto sul pubblico?

Mimmo Jodice è uno dei più importanti fotografi italiani in assoluto; sarà una splendida occasione per poter offrire al pubblico in modo completo la sua poetica, basata sulla profondità della indagine. Il suo modo di affrontare la fotografia esprime e divulga la felicità del fotografare, che Mimmo ha ricercato e praticato per tutta la vita. La sua coerenza e la sua passione sono state e sono così forti da portarlo ad affermare che ogni fotografia che ha fatto la rifarebbe di nuovo, ancora una volta, per poterne rivivere la felicità del momento e potersi di nuovo esaltare come ha fatto durante tante serate, trascorse in camera oscura ad agire con la superficie sensibile, con l’ingranditore, con la luce e con la pienezza dei mezzi che dominava nei dettagli con naturalezza. Mimmo sottolinea che prima di ogni sua fotografia c’è una visione (ed è questo che lo affascina come – appunto – visionario), che poi lui controlla e perfeziona nel processo di compimento della stampa, unico suo “vero” originale.

Napoli

nuova sede nell’ex Banco di Napoli

collezione arricchita da ceramiche attiche e magnogreche e da opere d’arte contemporanea

2011

tra Piazza della Scala, Via Manzoni e Via Morone

opere dell’Ottocento e della seconda metà del Novecento italiano

2022

Palazzo Turinetti

Archivio Publifoto Intesa

Sanpaolo, opere del Barocco piemontese e nove tele seicentesche realizzate per l’antico  Oratorio della Compagnia di San Paolo

Milano

Per Intesa Sanpaolo, Jodice ha realizzato un ciclo sulla natura, esposto per la prima volta in una retrospettiva sul fotografo, approfondendo ulteriormente un interesse maturato nel tempo. Cosa aggiunge alla sua ricerca?

Il lavoro sulla natura (iniziato nel 1980) è stato condizionato da un estremo sentimento di disagio verso la vita quotidiana che Mimmo ha vissuto in quel periodo, che era cupo.

“Una realtà senza speranza diventa anche un panorama indecifrabile e, quindi, enigmatico. Queste fotografie raccolgono quindi il malessere che provo rispetto alle cose che vedo e che sento e la natura che fotografo e che vedo trasformata agisce in modo aggressivo verso la realtà. In queste immagini l’atmosfera è sospesa, metafisica, rarefatta. Il vuoto, l’assenza, il silenzio diventeranno, da questo momento, le parole chiave del mio lavoro”.

La mostra sarà affiancata da un public program, che partirà a ottobre. Cosa dobbiamo aspettarci?

Come è ormai tradizione nelle mostre della grande fotografia italiana, personaggi di rilievo verranno a raccontare durante la mostra la poetica di Mimmo Jodice, come il critico Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà di Roma, o il regista Mario Martone, che ha anche lavorato recentemente su un film documentario su Mimmo Jodice, e altri ancora in corso di definizione.

Torino

fonte gallerieditalia.com

linguaggi tecnici, ma ancora molto orientati a dare voce all’impegno sociale dell’artista (le inchieste sul lavoro minorile, i reportage nelle carceri e negli ospedali psichiatrici). Poi, la figura umana sparisce, o meglio viene interiorizzata in immagini concentrate sulla rappresentazione di un paesaggio di natura, di civiltà, di memoria e di sogno. Senza tempo, come recita il titolo della mostra torinese, è l’astrazione di scene sospese, con il contributo dell’intervento in camera oscura, vera fucina creativa di Jodice, territorio di estrema libertà tecnica e concettuale, per comprendere come “forzare i limiti del linguaggio fotografico, stravolgere le regole convenzionali e arrivare a una dimensione autonoma”. Fra contrasti portati all’estremo per far sparire le mezze tonalità e acidi aggressivi usati sulla pellicola per far esplodere la grana.

LE CITTÀ SOSPESE E IL MARE

Vuoto, assenza, silenzio sono le parole chiave della poetica visiva del fotografo, tradotta in atmosfere metafisiche e rarefatte (il debito verso de Chirico e Savinio è dichiarato), anche quando intorno brulica la vita quotidiana, come nelle Vedute di Napoli (1980), di certo stranianti, ma capaci di arrivare al cuore del

problema, quel sentimento di disagio verso una realtà enigmatica assorbita dalla sensibilità dell’artista. Uno sguardo applicato anche ai “ritratti” di altre città (La città invisibile, 1990), caratterizzati da paesaggi urbani spesso presentati in modo minuzioso, ma congelati e astratti dalla quotidianità, come reazione all’incapacità di accettare il caos: immagini del mondo – da Boston a Parigi, da Tokyo a Mosca, Roma, San Paolo – che hanno fatto il giro del mondo.

Il mare (si veda Mediterraneo, 1995) è invece l’elemento pacificante, “il luogo privilegiato dove si incontrano realtà e sogno”, immanente nella sua capacità di riproporsi agli uomini del passato, presente e futuro, dunque “origine ancestrale del mito e della civiltà”, desume Jodice. “Prediligo il mattino presto o il crepuscolo, e soprattutto l’inverno. Il mare ha luci straordinarie da contemplare e da amare”, spiega introducendo il nutrito corpus di lavori dedicati all’elemento acquatico, ben rappresentato pure nel catalogo della mostra. L’esposizione prevede anche il coinvolgimento del regista Mario Martone, che ha diretto e realizzato un filmato documentario sulla vita di Mimmo Jodice – suo amico e concittadino –, mostrato nelle sale espositive per la prima volta.

79 #35 MIMMO JODICE/TORINO

Luca Signorelli, faro del Rinascimento

Ai centenari non si scappa! Stavolta i secoli passati sono cinque e allora le celebrazioni diventano inevitabili. E per fortuna, visto che Luca Signorelli, scomparso il 16 ottobre 1523, non è un pittore conosciuto quanto altri grandi artisti della sua epoca e dei decenni successivi. Le sue opere si possono ammirare spesso nelle mostre collettive, dove spiccano per la loro raffinatezza, come è stato per la Maria Maddalena ospitata ai Musei San Domenico di Forlì in occasione dell’indagine sull’affascinante protagonista del Cristianesimo. Quella tavola lascia di nuovo il suo “domicilio” nel Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto per soggiornare, fino all’8 ottobre 2023, a Cortona, la città natale di Signorelli, che oggi raccoglie in una monografica circa trenta opere, alcune delle quali si “ricongiungono” dopo antiche dispersioni.

L’obiettivo della mostra è riportare finalmente l’attenzione su un pittore che in vita ebbe grande fama, tanto da essere coinvolto nella decorazione della Cappella Sistina, e di cui è innegabile sia la qualità del suo lavoro sia l’importanza che rivestì per artisti quali Michelangelo e Raffaello. Ma Signorelli rimase “vittima” proprio di questo confronto con i giganti che vennero poco dopo di lui e che ne pregiudicarono la fortuna critica. Un po’ come accadde per Perugino, spesso qualificato solo come “maestro di Raffaello”, sottovalutando le innovazioni, la grazia e l’equilibrio che introdusse nell’arte italiana.

Il progetto, allestito al MAEC di Cortona e capitanato da Tom Henry, ripercorre ora tutte le fasi della carriera di Luca Signorelli e le ricerche condotte dal curatore e dall’équipe di studiosi coinvolti nella redazione del catalogo hanno potuto confermare la rilevanza di Signorelli nello scenario artistico degli inizi del XVI secolo. “Fu il cardine tra Piero della Francesca e Raffaello e Michelangelo”, ci spiega Henry. “Può quindi essere definito come il primo artista del Cinquecento e non l’ultimo del Quattrocento, come pensa certa storiografia. In mostra si possono verificare di persona le sue grandi qualità di colorista, di pittore ‘scultoreo’ e di iconografo assai originale”.

IL MISTERO DEGLI ESORDI DI SIGNORELLI

Di solito gli esordi di un pittore del Rinascimento sono conosciuti attraverso due tipologie di fonti: le prime opere, magari acerbe e debitrici dei rispettivi maestri, e i documenti che ne testimoniano le relazioni e gli spostamenti.

Nel caso di Luca Signorelli mancano del tutto le fonti materiali, vale a dire i dipinti, e la ricostruzione del suo periodo giovanile è affidata sostanzialmente alla vita che ne scrisse Giorgio Vasari. Il letterato e pittore fiorentino narra che Signorelli fu allievo di Piero della Francesca e che nelle sue prime opere imitò così bene lo stile del maestro da rendere difficile distinguere le mani. Nonostante le ricerche più recenti, non si è ancora riusciti a confermare

o a respingere quanto scritto da Vasari e non sono note opere assegnate con sicurezza al cortonese prima della sua impresa nella Cappella Sistina. Lì dipinse la scena con il Testamento di Mosè, ma questa non poteva essere la sua prima prova: “Un numero significativo di opere precedenti doveva presumibilmente aver spianato la strada alla sicurezza del suo disegno e della sua esecuzione”, afferma Laurence Kanter nel suo saggio in catalogo.

#35 80 LUCA SIGNORELLI / CORTONA

SIGNORELLI E LA CAPPELLA SISTINA

L’autentica svolta per la carriera di Luca Signorelli avvenne nel momento in cui Sisto IV lo convocò a Roma per completare la decorazione parietale della Sistina. È ancora Giorgio Vasari a testimoniare che il pittore cortonese dipinse la già citata scena con il testamento e la morte di Mosè; gli studi successivi hanno però consentito di riconoscere la mano di Signorelli in altri brani pittorici. Ancora Kanter propende per attribuire a Signorelli il ruolo di assistente di Perugino, di cui accolse la grazia e l’eleganza, identificando la sua mano anche nel riquadro con la Consegna delle chiavi Nell’Urbe – dove arrivò presumibilmente nella primavera-estate del 1482 – il cortonese ebbe modo di scoprire la classicità: la conoscenza delle sculture romane ebbe un ruolo cruciale nel raggiungimento di quella sua capacità di rendere le figure nude e il movimento nello spazio. Il suo disegno si fece così più plastico,

SULLE TRACCE DI SIGNORELLI

dinamico e naturalistico, culminando nei portentosi nudi realizzati nella cappella di San Brizio a Orvieto, a tutti gli effetti il lavoro più celebre di Signorelli, riprodotto in ogni manuale di storia dell’arte. “Quello di Orvieto, ultimato nel 1504, può essere descritto come il primo ciclo di affreschi del Rinascimento, o meglio del secondo Rinascimento. Ma, al contrario, i dipinti vengono in generale interpretati unicamente come precursori della Stanza della Segnatura di Raffaello o del soffitto della Cappella Sistina di Michelangelo, completati rispettivamente nel 1511 e nel 1512. In altre parole, Signorelli fu ‘oscurato’ durante la sua stessa esistenza, e l’ombra di Raffaello e Michelangelo si proietta tuttora sulla sua reputazione moderna”. Raffaello e Michelangelo hanno invece guardato, eccome, all’arte di Signorelli: “Si può dire” – aggiunge Henry – “che senza il suo stimolo la loro strada sarebbe stata diversa, in particolare per l’approccio al nudo maschile”.

GRANDI RITORNI

La reputazione ottenuta nella Cappella Sistina spalancò al pittore le porte verso una brillante carriera testimoniata in mostra da lavori quali l’Annunciazione di Volterra del 1491, i numerosi tondi con le Madonne con bambino, come quello proveniente da Parigi, la Flagellazione da Venezia e la Crocefissione con santi proveniente da Sansepolcro. Peraltro a Cortona le opere di Signorelli conservate stabilmente nelle chiese e nel Museo Diocesano sono tutte successive all’inizio del Cinquecento, e la presenza in mostra di tavole databili al decennio precedente rappresenta un punto chiave per comprendere quello stile che tanto fu apprezzato dai contemporanei.

VALDICHIANA ARETINA E AREZZO

Castiglion Fiorentino Collegiata di San Giuliano

Foiano della Chiana Collegiata dei Santi Martino e Lorenzo

Lucignano Museo Comunale

Arezzo Museo Statale d’arte medievale e moderna; Museo Diocesano

VIA LAURETANA TOSCANA

Montepulciano Chiesa di Santa Lucia

Pienza Chiesa di San Francesco

Chiusure Abbazia di Monte Oliveto Maggiore

Siena Chiesa di Sant’Agostino, Cappella Bichi

VALTIBERINA

Città di Castello Pinacoteca comunale

Morra Oratorio di San Crescentino

Citerna Chiesa di San Francesco

Umbertide Chiesa-museo di Santa Croce

Sansepolcro Chiesa di Sant’Antonio

Il curatore è particolarmente orgoglioso di essere riuscito a ricomporre alcune parti disperse di un capolavoro: “Esponiamo tutti i frammenti della Pala di Matelica per la prima volta”, spiega Henry. “Uno di questi proviene da una collezione privata inglese, non è mai stato mostrato in Italia prima di oggi ed è un’opera di altissima qualità. Si tratta delle ‘Quattro figure in piedi’ che fu acquistata dal cardinale Joseph Fesch nel 1844 dalla famiglia degli attuali proprietari. La tavola, restaurata nel 2023, è in ottime condizioni, con dorature veramente splendide”.

A questo frammento si affiancano il brano con il Calvario proveniente da Washington, quello con un Uomo su una scala (da Londra), una Pia donna in pianto, la Testa di Cristo (da Bologna) e la Testa della Madonna da una collezione privata. La grande pala venne eseguita da Signorelli tra il 1504 e il 1505 e rimase in situ nella chiesa di Sant’Agostino a Matelica fino al 1736, per poi essere smembrata e dispersa. Ma eccezionali sono anche i prestiti dei pannelli con la Nascita e Il miracolo di San Nicola, che per la prima volta ritornano in Italia dagli Stati Uniti; e ancora il ricongiungimento, mai riuscito in epoca moderna, della tavola centrale del Polittico di Santa Lucia a Montepulciano con la relativa predella, in cui Signorelli esprime tutta la sua vena narrativa.

fino all’8 ottobre 2023

SIGNORELLI 500.

MAESTRO LUCA DA CORTONA

PITTORE DI LUCE E POESIA

a cura di Tom Henry

Catalogo Skira

MAEC

Piazza Luca Signorelli 9 – Cortona

CORTONA

Museo Diocesano

PERUGIA E ORVIETO

Perugia Galleria Nazionale dell’Umbria; Museo Diocesano

Orvieto Duomo, Cappella di San Brizio; Museo dell’Opera del Duomo

MAEC ‒ Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona

Chiesa di San Niccolò

Chiesa di San Domenico

Il Palazzone

Santa Maria delle Grazie al Calcinaio

cortonamaec.org

81 #35 LUCA SIGNORELLI / CORTONA
Luca Signorelli, Annunciazione, 1491. Olio su tavola, 258 x 190 cm. Volterra, Parrocchia Basilica Cattedrale presso Pinacoteca Civica di Volterra

Essere Yayoi Kusama

Federica Lonati

La più famosa artista giapponese vivente. L’artista donna più quotata dell’attualità. La Lady Gaga dell’arte, che alle sue mostre attira folle di visitatori, in tutto il mondo. Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929) è molto di più dell’anziana signora di origini asiatiche, dal look eccentrico e multicolore, che di recente ha ceduto la propria immagine e i suoi inconfondibili pois per promuovere un marchio del lusso francese. Malgrado i novantaquattro anni compiuti, e la volontaria reclusione in un ospedale psichiatrico, Kusama oggi più che mai gode di grande successo e non teme la mercificazione della sua immagine in una pressante campagna mediatica nel mondo della moda.

Del resto, nel clima effervescente della New York degli Anni Sessanta, l’artista giapponese aveva già intuito alcuni segni di rinnovamento. Kusama sperimenta, in anticipo sui tempi, nuove forme di creatività, come la riproduzione in serie e la performance, l’installazione e l’arte immersiva, persino una collezione di moda artistica; e, soprattutto, sfrutta il potere dei media per amplificare i suoi messaggi, espressi con il corpo, la propria immagine e gli happening in pubblico.

KUSAMA DAL SURREALISMO AL POP

“Kusama è forse l’artista che oggi più che mai rappresenta un referente nella storia dell’arte contemporanea”, spiega Lucía Aguirre, curatrice del Museo Guggenheim di Bilbao e, insieme a Doryun Chong e Mika Yoshitake, della mostra antologica allestita nella capitale basca. “La sua modernità consiste nel porre sempre la persona al centro del proprio universo artistico, come elemento di connessione con la natura e l’ambiente circostante, come punto di incontro fra sé e gli altri”.

Kusama non è soltanto una maestra, una pioniera, una antesignana per aver creato un linguaggio artistico multidisciplinare, che spazia dal Surrealismo al Minimalismo fino agli albori della Pop Art. Il suo messaggio naturalista e animista, pacifista e biocosmico è oggi più che mai di attualità, così come la sua sensibilità verso una forma d’arte terapeutica, in grado di migliorare le persone, di salvare dalla malattia e dall’annichilimento.

L’ARTE DI KUSAMA DAL 1945 A OGGI

A poco più di dieci anni dalla prima retrospettiva in Spagna – allestita nel 2011 al Museo Reina Sofía di Madrid, in collaborazione con la Tate Modern di Londra –, giunge a Bilbao una nuova antologica proveniente dal museo M+ di Hong Kong. Attraverso duecento opere di diverso genere e formato – prestiti da collezioni pubbliche e private, soprattutto di provenienza

fino all’8 ottobre 2023

YAYOI KUSAMA: DAL 1945 A OGGI a cura di Doryun Chong e Mika Yoshitake in collaborazione con Lucía Aguirre Catalogo, edizione spagnola a cura del Guggenheim Museum, su autorizzazione di Thames & Hudson, M+ e studio dell'artista

GUGGENHEIM MUSEUM

Avenida Abandoibarra 2 – Bilbao guggenheim-bilbao.eus

asiatica –, la mostra racconta la vicenda artistica di Yayoi Kusama dal 1945 a oggi. Il percorso biografico spazia, infatti, dai timidi esordi in forma calligrafica di una fanciulla giapponese sconvolta dall’orrore della guerra agli ultimi straordinari lavori senili, come la serie intitolata My Eternal Soul (2009-21), un’esplosione di colori su tele dall’identico formato quadrato, che esaltano la vita e celebrano l’amore.

“La mostra di Bilbao è molto completa e offre una lettura corale, d’insieme, del percorso artistico di Kusama” – precisa Aguirre – “permettendo di coglierne la complessità Pur evolvendosi, impiegando materiali e linguaggi espressivi diversi, l’artista mantiene negli anni una coerenza estetica assoluta: dai primi

#35 82 YAYOI KUSAMA / BILBAO

‘Infinity Net’, attraverso le ‘Accumulation’, i collage, le ‘Infinity Room’ fino alle opere più recenti, l’essenza dell’arte di Kusama resta immutata”.

I CORSI E RICORSI DI UN’OSSESSIONE INFINITA

La mostra di Bilbao è costruita intorno a grandi temi ricorrenti. L’introduzione è affidata agli autoritratti, espressione di autoreferenzialità e di autoaffermazione presente fin dal primo oscuro Self-Portrait del 1950. Il concetto di infinito, sviluppato nelle prime gigantesche tele dipinte con reti, The Infinity Net della fine degli Anni Cinquanta, persiste immutato nelle opere più recenti, passando attraverso le diverse varianti di Infinity Room e intrecciandosi con l’accumulazione ossessiva di segni grafici sulla tela, o di appendici blande, perlopiù falliche, che ricoprono oggetti comuni come sedie, poltrone o barche, fino a farli scomparire. La tendenza alla ripetizione seriale è una costante anche nelle opere biocosmiche degli Anni Ottanta e Novanta: le gigantesche zucche, talora riflettenti, e le sculture biomorfe sono anch’esse ricoperte dagli onnipresenti pois colorati, che sono come esseri viventi e che “convertono l’energia della vita nei punti dell’universo”.

LA STORIA DI YAYOI KUSAMA

La biografia di Yayoi Kusama dovrebbe essere letta cronologicamente al contrario. Si capirebbero, forse, le ragioni intime ed estreme che inducono l’artista, alla fine degli Anni Settanta del secolo scorso, ad abbandonare la vita pubblica e scegliere di rinchiudersi, in maniera volontaria e irrevocabile, in un ospedale psichiatrico. Affetta fin da giovane da allucinazioni e gravi forme di instabilità psichica, che più volte l’hanno indotta a tentare il suicido, Kusama ha trovato in tarda età la stabilità emotiva per avviare una nuova, appassionante stagione creativa. Dallo Seiwa Hospital di Tokyo, dove tuttora vive, si reca infatti ogni giorno nel vicino studio per lavorare senza sosta agli ultimi progetti e per sovrintendere, con il suo staff, alle richieste di mostre da tutto il mondo.

Cresciuta in un ambiente familiare conservatore e oppressivo, nel 1957 Kusama lascia il Giappone e approda a New York per sentirsi libera di esprimere al meglio le sue innate doti artistiche, ispirata dalla figura di Georgia O’Keeffe. Negli Anni Sessata e Sessanta tuttavia – in quanto donna e di origini asiatiche – lotta per emergere nell’ambiente artistico della Grande Mela, instaurando relazioni con figure come Andy Warhol e Donald Judd, Joseph Cornell e Claes Oldenburg, che spesso traggono spunto dalle sue stesse sperimentazioni per ideare nuovi linguaggi estetici. Il suo impegno politico, espresso anche a corpo nudo durante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, per la libertà sessuale e contro la discriminazione di genere, non è sufficiente per fare emergere la sua personalità e imporre le sue opere sul mercato contemporaneo. Delusa nelle aspettative e oppressa dalle frequenti crisi nervose, nel 1973 Kusama rientra in Giappone, dove tuttavia la società non è pronta per capire i suoi lavori e considera scandalosi i suoi comportamenti, aumentando la sua depressione.

Isolatasi volontariamente in una struttura psichiatrica, Kusama scompare fino agli ultimi Anni Ottanta, quando Alexandra Munroe le dedica la prima personale al CICA (Center for International Contemporary Arts) di New York, nel 1989. Da allora inizia un percorso di ascesa verso la popolarità che l’ha portata, negli ultimi trent’anni, a trasformarsi in una delle icone dell’arte internazionale, contesa fra i più potenti galleristi del mondo. Nel 1993 è la prima donna a occupare con un solo show il padiglione del Giappone alla Biennale di Venezia (dove aveva debuttato, in maniera del tutto spontanea e senza autorizzazione, nel 1966 con il suo Narcissus Garden, vendendo palloni argentati per 1200 lire). Nel 2004 giunge l’atteso trionfo in Giappone, con la prima mostra al Mori Art Museum di Tokyo. Oggi il museo della sua città, Matsumoto, ospita un’ampia raccolta di opere di Kusama e la tranquillità della routine quotidiana permette all’artista ultranovantenne di esprimersi con una nuova esplosiva creatività.

LE STANZE SPECCHIANTI DI KUSAMA

A Bilbao, la mostra giunge sull’onda del successo riscosso dalla recente esposizione di Infinity Mirrored Room, A Wish for Human Happiness Calling from Beyond the Universe, opera del 2020 ceduta dallo studio dell’artista a Tokyo per un lungo prestito al Guggenheim, in occasione del 25esimo anniversario del museo.

“Il fatto che i giovani si ritrovino immersi nel gioco infinito di specchi creato dalle stanze dell’artista, e che con i loro smartphone amplifichino ulteriormente l’effetto di moltiplicazione dell’immagine, sicuramente è in sintonia con l’estetica di Kusama, da sempre ossessionata dalla ripetizione infinita dei segni e degli oggetti”, commenta Aguirre, spiegando che l’Infinity Room chiude il percorso di visita della mostra.

“In questi mesi estivi Kusama sarà presente un po’ ovunque all’interno dell’edificio di Frank Gehry”, conclude la curatrice. “Oltre all’esposizione nelle sale al secondo piano e all’‘Infinity Room’, nell’atrio al piano terreno, vicino a un’opera di Lucio Fontana, abbiamo voluto collocare una serie di 'Nubi' in metallo riflettente, che richiamano le sfere del celebre ‘Narcissus Garden’, allestito in maniera non autorizzata alla Biennale di Venezia del 1966”.

a sinistra: Yayoi Kusama, Portrait, 2015. Acrilico su tela, 145,5 × 112 cm. Collezione di Amoli Foundation Ltd.

© YAYOI KUSAMA

in alto: Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – A Wish for Human Happiness Calling from Beyond the Universe, 2020. Specchi, legno, sistema di illuminazione a LED, metallo, pannello acrilico, 293,7 × 417 × 417 cm

© YAYOI KUSAMA. Courtesy Ota Fine Arts

83 #35 YAYOI KUSAMA / BILBAO

Le installazioni di Fabrizio Plessi a Brescia

Una creatività analogica, ma con strumenti digitali”. Questo il cuore delle cinque video-installazioni del pioniere della videoarte Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940) pensate per il terzo appuntamento dei Palcoscenici Archeologici bresciani. Snodandosi tra Capitolium, Basilica di San Salvatore e Museo di Santa Giulia – anche grazie al “chilometro accessibile” del nuovo Corridoio UNESCO –, il percorso immersivo Plessi sposa Brixia offre un viaggio nel colossale patrimonio della co-Capitale italiana della Cultura reinterpretato con l’aiuto di colate dorate, che sciolgono i monumenti, e un anello, simbolo del matrimonio tra Plessi e Brixia: “Come il doge si sposava con il mare, io ora sposo la città”, dice l’artista. Ne abbiamo parlato con lo stesso Plessi, con la curatrice Ilaria Bignotti e con la presidente della Fondazione Brescia Musei, Francesca Bazoli

fino al 7 gennaio 2024

PLESSI SPOSA BRIXIA

a cura di Ilaria Bignotti

Catalogo Skira

PARCO ARCHEOLOGICO DI BRESCIA

ROMANA E MUSEO DI SANTA GIULIA

Via Musei 55 e 81/b – Brescia bresciamusei.com

Nel percorso emergono sia il tema della confutazione dell’egocentrismo contemporaneo sia il rispetto e l’amore per l’antico: come dialogano queste due tematiche? E come si collocano nella sua storia artistica?

Fabrizio Plessi: Cammino da sempre con un piede calcato nel futuro e l’altro piede è, naturalmente, nel solco della coscienza storica del passato. Non è tanto una critica all’egocentrismo contemporaneo, o meglio, all’autoreferenzialità dei nostri tempi, ma un tentativo di far convivere situazioni apparentemente impossibili, opposte biologicamente. Il progetto bresciano mi ha permesso di esprimere perfettamente questa mia poetica.

Il progetto punta a trasmettere un messaggio di responsabilità e consapevolezza del patrimonio di Brescia alla sua cittadinanza e non solo: quanto la sua opera vuole coinvolgere il pubblico in un dialogo che fa della tecnologia un agente di comunicazione di valori?

#35 84 FABRIZIO PLESSI / BRESCIA
Intervista a cura di Giulia Giaume in alto: Fabrizio Plessi, Plessi sposa Brixia. Basilica di San Salvatore, Museo di Santa Giulia © Fondazione Brescia Musei. Photo Petrò Gilberti a destra: Brixia. Parco Archeologico di Brescia Romana, il Capitolium ©Archivio Fotografico Civici Musei di Brescia. Photo Tomás Quiroga

Fabrizio Plessi : Mi sembrava importante, nell’anno in cui Brescia con Bergamo è Capitale italiana della Cultura 2023, lasciare un segno forte e anche in un certo senso inedito di questo strano e precario equilibrio tra il tempo presente e il nostro enorme passato. Un segno di amore e passione. Un nuovo codice visivo, nuove forme che codificano il mio messaggio, cioè quello di essere, da sempre, un archetipo di tutte le desinenze che derivano dal futuro.

Come possono la videoarte e le videoinstallazioni coinvolgere il pubblico in una riscoperta del patrimonio bresciano e in una sua cura? In che modo Fabrizio Plessi è l’autore perfetto per rappresentare questo incontro?

Ilaria Bignotti: Fabrizio Plessi ha fondato un codice unico nel suo genere, che non è solo videoarte, né unicamente digitale tecnologico. Come mi ha detto in questi mesi: “Il mio linguaggio è barocco e minimalista, è una contraddizione armoniosa”. Un modo di umanizzare ciò che appare straniero e distante, e di rendere nuovo e diverso ciò che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi. Ecco, credo sia questo un modo magistrale di insegnare al pubblico di prendersi di cura del proprio patrimonio.

Come è stato integrato il bacino di iconografie, anche musive, di Brixia all’interno delle opere e del percorso?

Ilaria Bignotti: Credo che questa mostra sia un archetipo, un modello di interazione e di interdipendenza tra forme antiche e contemporaneità. Cinque installazioni che hanno scelto sculture, mosaici, architettura per tradurli quali concetti di un fiume che scorre, dorato e quieto, senza fine, tra il dolore della perdita e la meraviglia della rigenerazione. L’anello, che si sposa un monumento, è una visione folle e appassionata di un amore vero tra le fondamenta del tempo e le derive del presente.

Prosegue la contaminazione tra arte contemporanea e archeologia. L’esperienza con gli altri progetti cosa ha dimostrato?

Francesca Bazoli: Tutte le esperienze degli ultimi anni, dall’installazione di sei artisti contemporanei all’interno della basilica longobarda di San Salvatore, e poi Juan Navarro Baldeweg, Francesco Vezzoli, Emilio Isgrò, Davide Rivalta, hanno dimostrato il grandissimo interesse di pubblici nuovi o anche già appassionati rispettivamente a scoprire ovvero a rileggere il patrimonio antico e archeologico grazie alla leva generata dall’installazione contemporanea. Il lavoro con artisti contemporanei produce energia creativa che invade anche i dipartimenti di conservazione e ricerca dei musei tradizionali come il nostro, generando talvolta dei clash culturali, altre volte – e più spesso – idee e spunti creativi anche per la valorizzazione del patrimonio antico. In questa contaminazione,

PALCOSCENICI ARCHEOLOGICI E IL CORRIDOIO UNESCO

Plessi sposa Brixia è il nuovo capitolo del format Palcoscenici archeologici di Fondazione Brescia Musei, ambizioso progetto inaugurato nel 2021 con la monografica site specific di Francesco Vezzoli e proseguito nel 2022 con Emilio Isgrò, e che coniuga il grande patrimonio storico e archeologico bresciano con le più interessanti voci dell’arte contemporanea. Palcoscenici archeologici evidenzia il grandissimo potenziale di reciproco arricchimento interpretativo insito in un dialogo diretto ed esplicito tra arte antica e contemporanea; inoltre, getta luce da un lato sulla perdurante capacità del classico di permeare la contemporaneità e dall’altro sulle ineludibili fonti d’ispirazione e confronto dell’arte dei nostri giorni. Fondazione Brescia Musei, ente di governo dei cinque musei civici bresciani diretto da Stefano Karadjov, con le monumentali installazioni multimediali di Fabrizio Plessi compie un ulteriore passo in avanti nella direzione della reinterpretazione e valorizzazione del patrimonio cittadino: un progetto espositivo completato dal nuovo spazio museale del Corridoio UNESCO, grazie al quale l’area monumentale della Brescia antica può essere fruita in forma integrata e fisicamente unificata da un chilometro di passeggiata nella bellezza. Uno spazio museale che diventa un tutt’uno con lo spazio civico dell’abitare quotidiano e che rende la nostra archeologia elemento vivo e creativo per il contemporaneo.

che diventa semina continua per la ricerca museale, sta la natura vera del nostro progetto di ricerca culturale attraverso il contemporaneo nell’archeologia.

L’iniziativa inaugura il Corridoio UNESCO: sarà un’opportunità per collocare Brescia in una posizione di sempre maggiore rilievo nell’ambito degli itinerari artistici d’Italia?

Francesca Bazoli: Tutto quanto stiamo facendo tende a riqualificare e a promuovere su pubblici nazionali e internazionali l’identità culturale e patrimoniale di Brescia antica. Lo facciamo attraverso gli eventi temporanei, ma

anche migliorando costantemente il sistema dell’offerta museale – la nuova sezione dell’età romana – La città del Museo di Santa Giulia, il raddoppio delle sale dell’arthouse cittadina Nuovo Eden, il restauro percettivo illuminotecnico dell’Oratorio di Santa Maria in Solario, il riallestimento del tempio Capitolino con la Vittoria Alata e ora questo chilometro di bellezza liberamente fruibile nel più vasto parco archeologico a nord di Roma – per valorizzare la grande potenzialità di Brescia, con il suo straordinario ed enciclopedico patrimonio, come uno dei grandi destinatari dell’interesse, dell’attenzione e della fruizione turistico culturale europea.

85 #35 FABRIZIO PLESSI / BRESCIA

La fotografia senza fine di Letizia Battaglia

Si intitola Senza Fine la mostra dedicata a Letizia Battaglia (Palermo, 1938-2022) dalle Terme di Caracalla. Si tratta di un ulteriore omaggio a una particolare figura di fotoreporter, che attraverso il suo linguaggio ha documentato e indagato alcune fra le pagine più drammatiche della storia d’Italia.

Una delle chiavi di lettura del percorso fotografico di Battaglia, durato oltre cinquant’anni, è stata proprio la rottura degli schemi, non tanto da un punto di vista tecnico, quanto da un punto di vista linguistico. Il suo è stato fotogiornalismo allo stato puro Attraverso le immagini si raccontano delle storie, senza alcuna censura.

I materiali sono distribuiti in più spazi, quattro per l’esattezza. Non ci troviamo di fronte a una mostra costruita in chiave cronologica o tematica. Vi è, piuttosto, una libertà di schemi che imita quella operativa di Battaglia.

fino al 5 novembre 2023

LETIZIA BATTAGLIA SENZA FINE a cura di Paolo Falcone

Catalogo Electa

TERME DI CARACALLA

Viale delle Terme di Caracalla 52 – Roma soprintendenzaspecialeroma.it

Assai particolare è l’allestimento della mostra, con le immagini bifacciali poste fra cristalli appoggiati al suolo. Non sono presenti infrastrutture invasive e sono stati costruiti labirinti di immagini ri tmati da cavalletti di cristallo, un elemento poco usato che non altera la percezione formale.

Le immagini sono di diverse misure, anche molto grandi. Lo spettatore si trova immerso in una fitta boscaglia iconografica in cui le fotografie sono poste tra cristalli. È un richiamo

all’allestimento di Lina Bo Bardi realizzato nel 1968 per la collezione del MASP-Museu de Arte de São Paulo in Brasile.

Tra gli scatti esposti, oltre a quelli di mafia, assai noti al pubblico, e a quelli dedicati ai diversi mondi palermitani, dalle classi più povere all’alta borghesia all’ex nobiltà, vi sono anche numerose fotografie che Battaglia ha realizzato nell’ospedale psichiatrico della sua città, cercando di instaurare con i pazienti un rapporto attivo, di partecipazione.

Naturalmente non mancano i i suoi scatti più famosi, tra i quali Lunedì di Pasquetta a Piano Battaglia del 1974, Il giudice Giovanni Falcone ai funerali del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa del 1982, la vedova Rosaria Schifani del 1992, ma anche il nudo sulla neve realizzato nello Utah nel 2019. Paolo Falcone, curatore della mostra, promossa dalla Soprintendenza Speciale di Roma, organizzata da Electa in collaborazione con l’Archivio Letizia Battaglia e la Fondazione Falcone per le Arti, ci ha raccontato i dettagli.

#35 86
Angela Madesani
LETIZIA BATTAGLIA / ROMA
Letizia Battaglia, Arkhangelsk. URSS, 1989

INTERVISTA AL CURATORE PAOLO FALCONE

Perché il titolo Senza fine?

Il titolo nasce da una serie di suggestioni con Rosanna Cappelli, amministratrice delegata di Electa. Il titolo proposto ci è sembrato avere la cifra dell’omaggio che volevamo dedicare a Letizia Battaglia alle Terme di Caracalla. Un progetto attraverso cui narrare i tantissimi aspetti della sua fotografia in maniera inedita. Una narrazione originale dove immagini iconiche e fotografie meno note costruiscono un percorso atematico e atemporale che racconta cinquant’anni di fotografia. Una costruzione

CHI ERA LETIZIA BATTAGLIA

Letizia Battaglia ha vissuto una lunga vita, 87 anni. Il suo è stato un intenso percorso esistenziale. Sposa ad appena 16 anni, dal matrimonio sono nate tre figlie. Nel 1969 si dedica in un primo tempo al giornalismo e quindi alla fotografia per L’Ora, un giornale palermitano dichiaratamente antimafia. La fotografia è per lei uno strumento di emancipazione in una società in cui stavano iniziando a cambiare le regole per le donne. Palermo è durissima, così per qualche tempo si trasferisce a Milano, ma nel 1974 vi torna, insieme al nuovo compagno, Franco Zecchin, con il quale fonda l’agenzia Informazione Fotografica. I suoi fotoreportage sono molto forti, riesce sempre a essere prima degli altri sui luoghi dove la mafia ha compiuto i suoi misfatti e offre una documentazione precisa di quei terribili momenti. Nel 1979 è cofondatrice del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”.

Tra gli Anni Ottanta e Novanta entra in politica, ma capisce che quello non è il suo mondo e ne esce a testa alta. Nel 2017 inaugura a Palermo, all’interno dei Cantieri Culturali alla Zisa, il Centro Internazionale di Fotografia.

Nel corso del tempo ha conquistato numerosi premi, tra i quali a San Francisco The Mother Jones Photography Lifetime Achievement Award nel 1999 e il Cornell Capa Infinity Award a New York nel 2009.

È stata protagonista di numerosi documentari e il suo lavoro è stato esposto in alcune istituzioni di grande prestigio italiane ed estere, tra le quali il Centre Georges Pompidou e il Palais de Tokyo di Parigi, la Tate Modern di Londra, Palazzo Grassi, Fondazione Pinault di Venezia, il MAXXI di Roma, l’Istituto Moreira Salles di Rio de Janeiro e São Paulo.

polifonica, dove ogni immagine rappresenta uno strumento che compone un’orchestra visiva e dove emozioni contrastanti rendono più diretto, empatico e differentemente mediato il rapporto con lo spettatore. Una costellazione caotica e ordinata dove le sequenze non dettano linee narrative secondo temi o cronologie. Era troppo riduttivo, e come sempre fuorviante nel lavoro di Letizia Battaglia, raggruppare fotografie per temi, spesso riconosciute attraverso degli stereotipi.

Da alcuni anni parecchie sono le mostre dedicate a Letizia Battaglia. Quali le particolarità di quest’ultima, ospitata in una fra le cornici più affascinanti di Roma?

L’opportunità delle Terme di Caracalla è sembrata immediatamente una sfida molto interessante. Dialogare con lo spazio, crearne una relazione, coglierne lo spirito per un ritorno originale a Roma, dopo la grande mostra al MAXXI. Una sfida perché siamo in uno spazio esterno e con poche coperture, sottoposti al vento, al sole, alle intemperie.

Poi era importante costruire un organismo espositivo che non entrasse in contrasto o in competizione sia con la maestosità e l’imponenza del luogo, sia con le esigenze del visitatore del sito archeologico. Il sistema di allestimento della mostra evita sprechi. La sostenibilità delle mostre è un tema oggi fondamentale. Non bisogna solo parlarne, ma anche provare a trovare nuove soluzioni. Una volta smontata, la mostra, senza avere toccato nulla dello spazio originale, è pronta per una sede diversa, e, come per Caracalla, non richiede l’ausilio di infrastrutture, la costruzione di muri, la loro successiva messa in discarica. Della mostra di Caracalla tutto viene riusato.

1974-1991

Dirige il team fotografico del quotidiano del pomeriggio L’Ora di Palermo

1974

Qual è il criterio che vi ha guidato nella costruzione della mostra?

La selezione delle fotografie innanzitutto. Parto sempre da due principi cardine: opere e spazio. In questa mostra si è inteso costruire un dispositivo espositivo aperto, dove lo spettatore può seguire la narrazione disegnata dal curatore oppure scrivere visivamente la propria sequenza. Non lavoro molto sui muri, solo quando serve. Le mostre realizzate negli anni con Letizia prevedevano sempre installazioni con immagini bifacciali sospese, attraverso un percorso che ha come fulcro il centro dello spazio con la costruzione di un rettangolo, che poi esplode in alcuni elementi, dando loro dinamicità, tagli e prospettive inedite.

Olimpia a Mondello (2020), una mamma incinta stesa sulla sabbia e accarezzata dalle onde del mare, mentre abbraccia la figlia primogenita sul proprio grembo, chiude il percorso di mostra. Un inno alla vita. Al futuro. Dopo tanto dolore e sofferenza. Ma anche tanta dignità e amore.

Per creare il particolare allestimento avete rinunciato a utilizzare materiali vintage della fotografa?

Certo. Non è il luogo adatto. In molte mostre usiamo copie da esposizione. Immagini già lavorate negli anni con Letizia e pronte per la stampa, che seguono un preciso protocollo. In Italia solo tre stampatori sono autorizzati a toccare i materiali originali. Il discorso poi cambia da mostra a mostra: dall’istituzione che invita, in questo caso la Soprintendenza Speciale di Roma, dal taglio scientifico e curatoriale che si vuole tracciare, dalle caratteristiche intrinseche dello spazio dove esporre, dal budget, dalla sicurezza.

1985

Fonda con il suo compagno Franco Zecchin l’agenzia Informazione Fotografica

È la prima donna, ex aequo con Donna Ferrato, a ricevere a New York il W. Eugene Smith Grant per la fotografia sociale

1991 2017

1935 2022

È inserita dal New York Times tra le undici donne del pianeta piu rappresentative dell’anno

87 #35
LETIZIA BATTAGLIA / ROMA
Nasce
il 5 marzo Muore
il 13 aprile
a Palermo
a Palermo

I dipinti italiani di Jean-Michel Basquiat in mostra a Basilea

La lunga storia dei rapporti tra street art/ graffiti e “arte ufficiale” si è sviluppata come un appassionante percorso sospeso tra movimenti contrari: attrazione e repulsione, purezza e compromessi, autarchia e ibridazioni. Per un periodo la questione è stata quella relativa alla musealizzazione, mentre oggi la definitiva mescolanza tra ambiti in partenza diversi è un dato di fatto, in linea con il più generale processo di ibridazione tra cultura alta e bassa intrapreso già negli Anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso.

Il caso di Jean-Michel Basquiat (New York, 1960-88) è esemplare e anticipatore in questo senso, perché la sua opera è oggi considerata a pieno titolo un classico della pittura novecentesca, persino un luogo comune nell’immaginario del grande pubblico, ma non subisce una normalizzazione – anzi continua a esercitare la sua funzione libertaria e di contestazione. Il suo graffitismo si è inoltre quasi subito ibridato con il linguaggio pittorico “da galleria”, trovando nella tela un corrispettivo non sminuente delle superfici dello spazio pubblico.

BASQUIAT ALLA FONDATION BEYELER

Ricollegare l’opera di Basquiat al suo contesto underground oppure raccontare il suo percorso nel mondo dell’arte “ufficiale” sono dunque direzioni non contraddittorie. Mentre la Philharmonie de Paris analizza i suoi rapporti con la musica nella mostra Basquiat soundtrack (fino al 30 luglio 2023), la Fondation Beyeler ricostruisce un passaggio decisivo del suo dirompente ingresso sulla scena di gallerie e musei. L’esposizione-focus The Modena paintings riunisce infatti otto monumentali quadri realizzati nel 1982 per una mostra che avrebbe dovuto svolgersi alla galleria Mazzoli di Modena, ma che non si tenne mai.

Oggi dispersi in varie collezioni private, i dipinti riuniti a Basilea compongono la fotografia di un momento, danno vita all’affascinante remake di una “mostra fantasma”, raccontano infine una storia che coinvolse alcuni dei principali attori del mondo dell’arte di quell’epoca. Nel 1981 Emilio Mazzoli gli aveva dedicato la sua primissima personale. Nel 1982, il gallerista italiano lo invitò a Modena per dipingere sul posto i lavori della successiva personale, in un capannone adibito a quelle che oggi si chiamerebbero residenze. Ma i rapporti tra la galleria italiana e quella newyorkese, Annina Nosei, virarono al disaccordo e la mostra venne cancellata.

LE OPERE MODENESI DI BASQUIAT

Rimangono per fortuna i dipinti, e l’occasione di vederli insieme va molto oltre la curiosità di rievocare un episodio storico ricco di retroscena. Dotate allo stesso tempo di rabbia underground e di maestosità “classicheggiante”, sospese tra velocità dell’istinto e incredibile controllo a livello compositivo, le tele coniugano agevolmente ambiti svariati: affresco, allegoria, danza macabra, murales, manifesto, pittura rupestre, disegno infantile/irregolare, cromatismi degni di un maestro della pittura di inizio Novecento.

Il tutto trasfigurato in una pittura che viene dalla strada ma è decisamente colta, tanto da

potersi permettere di parificare spunti alti e bassi senza scadere nel qualunquismo estetico. Quelli di Basquiat non sono pastiche postmoderni (per quanto artisti come Basquiat, Haring, l’ultimo Warhol furono decisivi per la definizione dell’estetica postmodernista). Piuttosto, ogni suo quadro – e in particolare gli otto “modenesi” – rappresenta un gesto improvviso e rivoluzionario, che straccia la mappa di riferimenti esistente per stabilire nuove coordinate, libertarie e liberatorie.

fino al 27 agosto 2023

BASQUIAT.

THE MODENA PAINTINGS

a cura di Sam Keller e a Iris Hasler

Catalogo Hatje Cantz Verlag

FONDATION BEYELER

Baselstrasse 77 – Riehen

fondationbeyeler.ch

#35 88
JEAN-MICHEL BASQUIAT / BASILEA
Jean-Michel Basquiat, Untitled (woman with Roman Torso [Venus]), 1982. Acrilico e pastello a olio su tela, 241 x 419,7 cm. Collezione privata © Estate of JeanMichel Basquiat. Licensed by Artestar, New York. Photo Robert Bayer

ARTE E PAESAGGIO

Il paesaggista olandese Piet Oudolf (Haarlem, 1944)

è tra i maggiori garden designer contemporanei. Chiamato a realizzare giardini pubblici e privati in tutto il mondo, conteso dai più noti studi di architettura, è balzato sulle pagine della stampa mondiale per la realizzazione della High Line a New York, uno straordinario parco lineare sui resti di una vecchia ferrovia nel cuore di Manhattan: oggi è uno dei parchi urbani più visitati al mondo.

Oudolf inizia a interessarsi alle piante da giovane. Non segue speciali corsi o master in botanica, ma lavora sul campo, collezionando semi e studiando direttamente la vegetazione. Nel 1982 acquista un terreno dove mette a punto le proprie ricerche e approfondisce la passione per le piante resistenti e a bassa manutenzione. Le ispirazioni di Piet Oudolf si collegano al movimento inglese The New Perennial, gruppo pioniere del “giardino spontaneo e pittorico”, che opera creando un dialogo tra piante perenni e piante autoctone, con intense sfumature e palette di colori dette appunto “pittoriche’”

IL GIARDINO PER HAUSER & WIRTH

Tra i progetti più recenti di Piet Oudolf c’è il giardino per la sede sull’isola di Minorca di Hauser & Wirth, una delle più importanti gallerie d’arte contemporanea. La galleria è collocata in un ex ospedale navale settecentesco dell’Illa del Rei. La ristrutturazione è a cura dell’architetto di origini argentine Luis Laplace, nell’ottica di ricavare otto ambienti dedicati alle mostre, uno spazio per la didattica, un bookshop e un ristorante. Ad affiancare gli edifici storici sono i Giardini mediterranei di Piet Oudolf. Per la creazione di questo paesaggio Oudolf ha voluto dare alla vegetazione un aspetto il più possibile naturale, quasi selvaggio. Il risultato ben si adatta al luogo e al clima locale, nel rispetto delle specie autoctone e resistenti al calore, come ulivi, timi, cardi, agapanthus, e una varietà di succulente. Il giardino ospita gli interventi di Louise Bourgeois, Franz West, Joan Miró, Eduardo Chillida

IL PARCO PER IL VITRA CAMPUS

Un’altra recente opera di Piet Oudolf è il giardino del Vitra Campus a Weil am Rhein, in Germania. Qui sono stati creati una serie di percorsi, con sentieri, cespugli, graminacee ed erbe perenni, per realizzare un vero e proprio parco. Persicaria, Cimicifuga, Lobelia, Echinacea, Molina sono alcuni dei suggestivi nomi delle specie vegetali utilizzate. Un sapiente dialogo tra architettura e natura, tra spazi interni e spazio esterno, in modo da godere ogni fioritura, in ogni stagione. Oudolf da sempre progetta i propri giardini partendo dalle forme e dalla personalità delle piante, espressione che si rivela in tutte le quattro stagioni, in autunno specialmente. “Vorrei che le persone si perdessero nel giardino, invece di attraversalo” è l’affermazione chiave del paesaggista olandese. Lui stesso conferma che la creazione di un giardino è un’esperienza sia estetica che emozionale.

ASTE E MERCATO

L’intervento di Piet Oudolf per Hauser & Wirth a Minorca.

Courtesy Hauser & Wirth

All’asta di Modern Art di Dorotheum a Vienna, lo scorso 23 maggio, il miglior prezzo di aggiudicazione è stato quello realizzato da una natura morta di inizio Novecento del pittore russo Alexej von Jawlensky (Toržok, 1864 – Wiesbaden, 1941), uno dei padri dell’Espressionismo.

L’OPERA DI ALEXEJ VON JAWLENSKY

Una tavola imbandita, per la precisione, che dalle stime pre-asta di 400-600mila euro è passata da una collezione privata di Belgrado a un nuovo proprietario per oltre 700mila euro. Per quanto il prezzo resti lontano dai grandi record multimilionari dei ritratti – ossessione ripetuta – degli Anni Dieci, l’opera Gedeckter Tisch ha riscosso successo presso un pubblico che ne ha riconosciuto il valore di soglia sulla strada dell’Espressionismo, oltre che la qualità e l’intensità del trattamento della materia pittorica. A essere ritratti a tinte accese sono una tavola e gli oggetti che la abitano, nel solco del tema della natura morta, avvio, insieme ai paesaggi, della pratica di von Jawlensky.

“Al tempo dipingevo per lo più nature morte perché in quelle trovavo più facilmente me stesso. Ho provato in quei dipinti ad andare oltre gli oggetti materiali e a esprimere in colore e forma ciò che sentivo vibrare dentro di me, e credo di aver raggiunto alcuni buoni risultati”. Una strada maestra, secondo le parole dell’artista, dunque, per lo scandaglio dell’umano, oltre che per la ricerca artistica che da lì sarebbe partita fino ad approdare ai traguardi pienamente espressionisti.

ALEXEJ VON JAWLENSKY A LUGANO

Dieci anni dopo la datazione di questo dipinto, nel 1914, con il precipitare della Prima Guerra Mondiale, von Jawlensky, che dalla Russia era intanto andato in Germania, dove fu tra i fondatori della Neue Künstlervereinigung München e membro del Blaue Reiter, si muove ancora e arriva in Svizzera, prima a SaintPrex, poi a Zurigo e infine, tra 1918 e 1921, ad Ascona, in Ticino. A ripercorrere questo momento è la mostra in corso al MASI Lugano, Alexej von Jawlensky ad Ascona “… I tre anni più interessanti della mia vita…” Curata da Cristina Sonderegger e allestita fino al 1° agosto 2023 nella sede del LAC, riunisce oltre venti dipinti provenienti da collezioni pubbliche e private. A testimonianza di un periodo particolarmente importante sia per l’artista che per il Cantone. È proprio nella luce del Ticino e del Verbano che Alexej von Jawlensky realizza gli ultimi paesaggi della sua produzione e poi volge la sua attenzione ossessiva ai ritratti e alla raffigurazione del volto umano e di Cristo. Luoghi dove il suo linguaggio pittorico si consolida, coniugando cromie e linee espressioniste e sintesi astrattista.

Alexej von Jawlensky, Gedeckter Tisch (part.), 1904-05. Courtesy Dorotheum, Vienna

89 #35 RUBRICHE
I GIARDINI DI PIET OUDOLF ALEXEJ VON JAWLENSKY DOROTHEUM
SHORT NOVEL a cura di ALEX URSO
73 92
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L'ITALIA DOVREBBE ACCOGLIERE SOLO TURISMO CULTURALE. MA SI VA IN DIREZIONE OPPOSTA

68 milioni di arrivi (+3,7 % rispetto al 2019) di cui il 52% stranieri

266 milioni di presenze (+2,6 % rispetto al 2019)

46 miliardi di euro in spesa turistica (+5,4 % rispetto al 2022)

umero estivo di Artribune Magazine? Bene, allora approfittiamone per parlare un po’ di turismo. Abbiamo cento questioni in sospeso in Italia circa il turismo. Ma in primo luogo dobbiamo guardare in faccia alla realtà: siamo in pieno boom. Gli arrivi, dopo gli anni difficili del ‘20 e del ‘21, sono stati arrembanti già nel 2022, contribuendo anche alla crescita del PIL nazionale. Il ‘23 non sembra essere da meno, anzi c’è il ritorno di tante comunità di viaggiatori (dalla Cina, ad esempio) che fino a qualche mese fa erano impossibilitate a muoversi. Spinta inflattiva e guerre nel cuore dell’Europa non sembrano fermare la voglia di spostarsi e di venire a scoprire arte, territorio, gastronomia, bellezze e storia.

L’Italia non è l’unico Paese sottoposto a questa pressione, ma è probabilmente quello che sta dimostrando meno lucidità e più disorganizzazione nel fronteggiare uno scenario che rischia di essere ingestibile.

Incurante delle mille distorsioni, la politica esulta ad ogni record di arrivi turistici mentre l’obiettivo dovrebbe essere, piuttosto, quello di ridurre la quantità di ospiti aumentandone

Il nostro Ministro del Turismo è figura controversa: mentre scrivo questo testo si trova peraltro nel bel mezzo di un piccolo scandalo, perfettamente collocato all’inizio della stagione, così, giusto per migliorare l’immagine della Nazione… Anche dovesse arrivare un ministro diverso, si troverebbe comunque di fronte ad una competenza su questi temi che è spezzettata a livello regionale, con ogni Regione che conta più del Ministero. Intanto le campagne promozionali si trasformano in macchiette, mentre salari inadeguati e burocrazie sconsiderate impediscono agli operatori da una parte di investire per migliorare le strutture, dall’altra di trovare personale disposto a lavorare per la stagione (come faremo fronte

ESTATE 2023. PREVISIONI SUI NUMERI DEL TURISMO ITALIANO

+2,6% rispetto al 2019 di presenze

+3,7% rispetto al 2019 di arrivi 52% stranieri

+5,4% rispetto al 2022

all’ondata di visitatori d’agosto? Che servizio daremo loro? Che ricordo lasceremo?). I prezzi schizzati all’inverosimile, poi, precludono ad una fascia crescente di popolazione di potersi permettere un viaggio, mentre nessun serio incentivo alla destagionalizzazione è immaginato o ipotizzato. E pensare che basterebbe cambiare la logica dell’anno scolastico, riformando la pazzia solo italiana delle 14 settimane continuative di vacanze estive… Incurante delle mille distorsioni, la politica esulta ad ogni record di arrivi mentre l’obiettivo dovrebbe essere, piuttosto, quello di ridurre la quantità di ospiti aumentandone la qualità. E su questo l’arte e l’architettura, la cultura, la storia, il paesaggio agricolo ed enogastronomico dovrebbero giocare un ruolo cruciale. Bisognerebbe centrare il risultato di un classismo sano e costruttivo e a fin di bene, non necessariamente basato sul censo ma sul reale quoziente di interesse di chi decide di venire in un territorio così fragile e delicato: accogliere solo le persone realmente interessate e rispettose. Ovviamente ottenere un dato del 100% di turismo culturale è una pia illusione, tuttavia ci si può avvicinare, si può andare in quella direzione, si può quanto meno evitare di andare nella direzione opposta.

E invece... E invece il Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha dimostrato di non avere contezza dell’impatto delle sue politiche sul comparto turistico. Ad esempio quando cerca - come sta facendo - di riformare il Codice della Strada per imporre caschi, frecce o assicurazione alle biciclette. Misure surreali che non solo (ed è ciò a cui Salvini punta) rendono la vita difficile a chi si sposta in bici per andare a scuola o a lavoro favorendo chi insiste a muoversi in auto, ma tarpano le ali ad uno dei turismi su cui un Paese come l’Italia dovrebbe puntare con decisione e investimenti: il cicloturismo. Un turismo naturalmente destagionalizzato, che attira ospiti di livello culturale e reddito elevato, interessati, rispettosi. Un turismo sostenibile. Che rischia di trovare da noi norme e burocrazie folli in aggiunta ad una storica carenza di infrastrutture.

Si respingono così forme di turismo di qualità accompagnandole verso altri Paesi pur di assestare qualche incomprensibile dispetto a chi si sposta in bicicletta per favorire chi usa l’auto. Una mentalità superata da decenni; uno scenario distopico e un indizio chiaro di quale sia la visione dell’industria del turismo da parte di chi dovrebbe amministrare l’Italia. Open to meraviglia.

MASSIMILIANO TONELLI

EDITORIALI
la qualità
N
Fonte: elaborazione Demoskopika su dati ISTAT, Banca d’Italia e osservatori turistici regionali
266mln 68mln
46miliardi €
in
spesa turistica
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GENERAZIONE (AL) BANDO

Uno dei crucci che mi porto dietro fin dalle prime lezioni di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna è la possibilità di intercettare i criteri assoluti per definire la mia generazione. Ci ho già provato in diverse occasioni prendendo in considerazione i mezzi tecnologici, le piattaforme culturali e l’immaginario visivo nel quale siamo cresciuti, ma un risultato soddisfacente è ancora di là da venire.

Al di là del nome che la definisce Boomers, Millennials, o della lettera dell’alfabeto che dovrebbe caratterizzarla X, Y, Z (ormai le abbiamo finite?)

ciò che conta per identificare una generazione è sottolinearne i tratti salienti, scovare il denominatore comune

LA POPOLAZIONE ITALIANA SUDDIVISA SU BASE GENERAZIONALE*

GENERAZIONE ALPHA (nati dal 2013 in poi)

5.078.970 (8,63%)

GENERAZIONE Z (nati fra il 1997 e il 2012)

9.263.310 (15,74%)

GENERAZIONE Y / MILLENNIALS (nati fra il 1981 e il 1996)

10.549.666 (17,93%)

GENERAZIONE X (nati fra il 1965 e il 1980)

14.717.048 (25,01%)

BABY BOOMERS (nati fra il 1946 e il 1964)

13.741.090 (23,35%)

SILENT GENERATION (nati fra il 1928 e il 1945)

5.370.255 (9,13%)

che da una parte all’altra del globo terraqueo (mi si perdoni la citazione) riunisce gli appartenenti alla medesima finestra anagrafica. Forse è ancora troppo presto per avere un quadro d’insieme, forse le generazioni così come le abbiamo conosciute (rapporto genitori/figli, dinamiche di sopravvivenza o di recupero trans-storico) sono forme desuete, forse c’è dell’altro. All’improvviso però mi è balenata un’idea, ovvero che la nostra generazione possa essere contraddistinta dalla formula del bando. Sì il bando, il bando di concorso, l’annuncio di interesse pubblico rivolto a una specifica categoria a scopo di selezione. In questa prospettiva, i bandi più diffusi sono quelli pubblici, che nel settore culturale poi hanno visto negli ultimi decenni una crescita esponenziale, una larghissima diffusione, una vera e propria fortuna dovuta a ragioni diverse: i bandi per giovani artisti e curatori, quelli per l’attribuzione di spazi espositivi, quelli per il conferimento di borse di studio o premi (onorifici o, raramente, in denaro), quelli per la direzione di musei e fondazioni, quelli europei ambitissimi per l'ammontare delle somme e il posizionamento internazionale e, non da ultimo nel campo delle arti visive, l’Ita-

GREATEST GENERATION (nati prima del 1927)

130.378 (0,22%)

lian Council. Dopo essersi imposta come principale forma di reclutamento nel settore delle arti, la notizia che ha fatto il giro del web è che anche chi curerà il prossimo Padiglione Italia della Biennale di Venezia verrà individuato seguendo la “regola” del bando. Il criterio è stato almeno apparentemente valutato in maniera positiva da diversi profili, sia privati che

Persistono invariate perplessità riguardo alle garanzie di accesso e di valutazione oggettiva delle domande al di sopra di qualsiasi conflitto d’interesse

pubblici. Tra le altre, mi ha colpito la posizione di Art Workers Italia, che ha rilanciato la proposta del Ministero come una conquista, da un lato per le battaglie portate avanti dall’associazione per i diritti del lavoro culturale e dall’altro per una dose di trasparenza

della suddetta modalità. Ora, in linea teorica non si può che essere d’accordo su entrambi i versanti, del resto chi potrebbe dire di non desiderare un riconoscimento (e non solo economico) delle professioni artistiche o una struttura di valutazione chiara e cristallina. Persistono però invariate perplessità riguardo alle garanzie di accesso e di valutazione oggettiva delle domande al di sopra di qualsiasi conflitto d’interesse. E allora perché non rispondere con una proposta realmente collettiva e anticonvenzionale: un progetto firmato da tutti gli operatori di settore, insieme, che trascenda le logiche della competizione e del “vinca il migliore” che non fanno altro che spostare il punto della questione?

CLAUDIO MUSSO

Forse le generazioni così come le abbiamo conosciute sono forme desuete
* Dati stimati sulla popolazione residente in Italia al 1° gennaio 2023 (fonte: ISTAT)

Non ho idea se gli operatori culturali si siano mai posti la questione del moral hazard. Di quel comportamento rischioso che una delle parti, dopo la stipulazione di un accordo, può decidere di tenere, anche se lede gli interessi della controparte, confidando nel fatto che quest’ultima non sia in grado di verificare il comportamento altrui.

In molti obietteranno che questa fattispecie non afferisce la cultura perché tipica, come species, del mondo dell’economia e della finanza. Qualcuno pure si scandalizzerà di un simile accostamento sicuro che non vi è ambito e disciplina immacolata come la cultura sotto questo profilo. Ed in effetti ancora serbo qualche dubbio in proposito. “Specchio, servo delle mie brame”, interrogava la regina, certa che la risposta non l’avrebbe delusa in merito all’unicità della sua bellezza.

la cultura tolga il velo e

ponga, pure Lei, l’interrogativo morale. Si ponga cioè, sotto il profilo etico, alcune cruciali domande

stituire la formula con “le attività” e si veda che esito produce.

Quanta e quale trasparenza nelle azioni intraprese (in primis nella comunicazione), nei contratti stipulati (dai fornitori al personale, dai committenti agli sponsor), nelle relazioni (in termini rapporti di legacy e fiducia con gli stakeholder)?

L’azzardo non è un rischio qualsiasi. Vi sono rischi “buoni” come quelli tipici di ogni impresa, inclusa quella culturale, che spingono verso investimenti e sviluppo. L’azzardo può essere un comportamento sano se guidato dalla prudenza e dal controllo. È l’intraprendenza che muove il mondo in maniera sensata e sostenibile. È cosa ben diversa dall’intraprendenza ciò che può danneggiare una parte rispetto all’altra, consapevolmente.

In fondo, affidarsi agli altri – alle persone così come alle istituzioni – e fidarsi (anche se è proverbiale “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”) rappresenta il fondamento di un collante civico e sociale che ha effetti economici, finanziari e patrimoniali.

Il desiderio di guardarsi allo specchio per quello che si è veramente, come in quelle che oggi sono le superfici specchianti di Pistoletto (con donne e uomini veri) è d’altronde sempre un anelito costruttivo. E allora è bene che la cultura tolga il velo e si ponga, pure Lei, l’interrogativo morale. Si ponga cioè, sotto il profilo etico, alcune cruciali domande. Difficile pensarle tutte, eccone alcune per cominciare.

Quanta e quale corrispondenza vi è tra la missione e l’oggetto contemplato nello statuto dell’istituzione culturale e il piano strategico? Qualcuno dirà che non ha il piano strategico (sic), allora si provi a so-

I costi ombra dell’azzardo morale sono rilevanti tout court e alla cultura oggi, alle sue organizzazioni e istituzioni, è richiesto un ruolo di testimonianza (essendo probabilmente tra i settori rimasti più indenni finora) e di leadership (anche in tal senso).

Bisogna cominciare a parlarne, è necessario spostare in alto la discussione, avendo il coraggio di affrontare le questioni etiche, non solo strategiche e operative.

All’inizio e apparentemente potrà sembrare eccessivo, ma non potrebbe essere data (e fatta) discussione più esemplare.

EDITORIALI
UNA QUESTIONE MORALE
CULTURAL HAZARD.
IRENE SANESI
È bene che
si
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Grimilde, la strega del celebre film Disney Biancaneve e i sette nani , di fronte allo specchio magico

DIRETTORI E CURATORI... OSATE!

Siamo in un’era di cortocircuiti mentre l’esperienza, ovvero la storia, ci insegna che emerge solo la sintesi. La comunicazione via social è dappertutto e nessuno sembra più poterne fare a meno. Ma c’è di più. Il mondo è sempre meno reale. Relazioni, conoscenza, ricerca, “approfondimento” avvengono sempre più sui social. È ormai un ambiente parallelo, con una esponenzialità crescente al decrescere dell’età. I ragazzi non escono insieme, si videochiamano; non leggono, si fanno raccontare online da qualcuno di “autorevole” qualsiasi cosa, qualsiasi argomento, eccetera. Anche l’offerta culturale, ormai da tempo, è approdata sui social. Ogni istituzione ha il suo profilo, su tutte le principali piattaforme del momento, con la buona solerzia di aggiornarlo, di renderlo attivo e di rispondere quando interpellati.

MUSEI E INNOVAZIONE DIGITALE

95% ha un sito web

83% ha un account ufficiale sui social

69% ha pubblicato la collezione digitalizzata sul proprio sito web

48% ha proposto laboratori e attività didattiche online

Ma è un uso verticale delle tecnologie per la comunicazione.

Il mondo – soprattutto quello giovanile, ma si sta diffondendo verso qualsiasi segmento anagrafico (verticalmente) e sociale (orizzontalmente) – è digitale e virtuale. Il nuovo avamposto è l’AI: cosa può fare, cosa può dare, a chi può levare. L’offerta culturale ragiona invece sempre a pettine, per linee verticali, ascendenti o discendenti che siano.

È approdata da anni ormai sui social, per promuoversi e farsi conoscere. Inizia a utilizzare le chatbot (AI) per audioguide o CRM, nel migliore dei casi. C’è sintesi tra uso dei social per promuovere e dell’AI per gestire/informare? Non mi sembra. Ancora più scollamento trovo su un altro fronte: quello allestitivo, ovvero la narrazione. Quanto stanno evolvendo (e a seguire vengono usati) i linguaggi narrativi di un museo, una mostra, uno spettacolo, un percorso turistico archeologico o non so cos’altro?

39% offre la possibilità di acquistare il biglietto online

25% mette a disposizione dei visitatori una app

Le persone – i giovani ne sono una punta ma veramente potremmo fare riferimento a tutti coloro che hanno una vita sociale e quindi sono in apparente connessione col mondo esterno – vivono di digitale. In che modo la narrazione di un “oggetto” culturale (all’interno di un museo, una mostra, eccetera) sta sperimentando linguaggi per essere più comprensibile, più efficace, più “vicina”?

Chi crea, gli artisti, stanno provando con curiosità l’AI, il rapporto uomo-macchina, piuttosto che i risultati che ne possano emergere. Ma le organizzazioni, pubbliche o private che siano, che producono e offrono cultura, fanno sforzo di sintesi tra la promozione, che esplicitamente ormai non viaggia se non nel virtuale, e la narrazione? Quello che in inglese si chiama storytelling

Vedo timidi esperimenti con mostre esperienziali virtuali, il più delle volte molto molto deboli nei contenuti, che spettacolarizzando il classico e, usan-

24% si basa su un piano strategico che comprende l’innovazione digitale

13% si è cimentato nella produzione di podcast

done però la notorietà come capacità attrattiva, hanno il loro successo (commerciale). Happenings di varia origine, per lo più inaugurazioni, schiacciano maggiormente l’acceleratore, azzardano diciamo. Mentre, per quanto riguarda l’offerta permanente, lo storytelling non mi pare proprio “wow”. È pigrizia? Pavidità? Ipocrita mancanza di risorse economiche? Grettezza gestionale? Non lo so, ma non ne vedo in giro (parlo di worldwide) eppure ce ne sarebbe tanto tanto bisogno. Per favore, direttori e curatori… osate!

FABIO SEVERINO

In che modo la narrazione di un “oggetto” culturale sta sperimentando linguaggi per essere più comprensibile, più efficace, più “vicina”?
Fonte: Adnkronos / Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali della School of Management del Politecnico di Milano, 2021

LA NATURA IN RIVOLTA

Tsunami, terremoti, alluvioni di proporzioni bibliche, riscaldamento globale, non sono più scenografie di film catastrofici, ma la rivolta in atto della natura. Il fragile equilibrio della Terra impatta contro la superbia irredimibile del devastante mito dello sviluppo.

Nella cultura occidentale, ogni riflessione sulla natura e sul paesaggio non può prescindere dalle suggestive descrizioni di Omero. La sua sensibilità paesaggistica riesce a trasmetterci qualcosa del brivido inumano che provò Ulisse durante i suoi interminabili viaggi. In altri luoghi dell’Odissea il paesaggio prende corpo in metafore come “L’Aurora dalle dita rosate” (inizio XII canto). Un cliché al tempo di Omero. Eppure, estremamente significativo se, come afferma Platone, Omero è “l’educatore della Grecia”. C’è in Omero tutta una trasmutazione della natura in giardino. Un lavoro di trasformazione del caos in forma Da dove viene Artemide (Diana ne è la variante romana)? Se ne discute molto.

La sua iconografia in epoca arcaica ricorda per molti aspetti la figura della grande Dea asiatica o cretese detta “Signora degli animali”. Il suo ambiente?

Le montagne, le colline, i boschi, la vegetazione fitta, le terre incolte (agros) che si trovano al di là dei campi vicini alle città, oltre i confini del territorio conosciuto.

suo strumento di seduzione e di cattura. Il Dioniso di Nietzsche è interamente ispirato da questa figura. Per cogliere Pan – la natura selvaggia – dobbiamo prima perderci in essa. Farci prendere dalla natura che è dentro di noi, risvegliarla dal sonno colpevolizzante che la destina agli Inferi.

La selvaticità è il suo attributo principale, che si apre ad un’alterità radicale fino alla morte, perché dove l’uomo tenta di possederne il corpo, come è successo al cacciatore Atteone, che la sorprese nuda mentre faceva il bagno, paga con la morte. “La natura ama nascondersi”, dice un epigramma di Eraclito. Scoprirne il segreto può essere fatale. Così Atteone viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Da predatore a preda. Ma tra queste figure mitologiche non va dimenticato Pan. Metà caprone, metà uomo. Il flauto è il

Plutarco nel suo scritto L’oracolo al tramonto dice: “Pan, il grande, è morto”. Eusebio – allievo di Origene – nel III secolo d.C. riprenderà questo detto famoso di Plutarco facendone il simbolo del paganesimo e del Male. La “cultura” si moralizza e reprime la natura. Nasce la vergogna di essere pezzi di natura. Che cos’è la vergogna? È un atto riflessivo, una relazione con se stessi. Ma una relazione che fallisce per principio. Perché colui che si vergogna della propria natura si trova al tempo stesso identico e non identico. Sono io, tuttavia non mi riconosco. Dopo Eusebio, tutto ciò che è natura è associato al pericolo, al male, al demonio. Ma, morto Pan, anche la ninfa Eco muore. Eco è il riflesso evanescente di Pan. Quando Narciso la rifiuta preferendo l’immagine riflessa in uno specchio d’acqua, rifiuta la forma per l’illusione.

Oggi non abbiamo più una Eco che possa incantarci con le sonorità seducenti del flauto di Pan. L’astuto Ulisse che con la furbizia inganna le potenze della natura è il più recente mito di Robinson, che crea una natura tutta per sé; sono i poli estremi del nostro immaginario che violenta la natura.

Uno se l’annette attraversandola, l’altro separandola (l’isola lontana e irraggiungibile). Ulisse la perimetra e la domina con l’astuzia, come ieri facevano i colonialisti travestiti da gentlemen e oggi i fautori del libero mercato. Robinson, invece, se la tiene tutta per sé, come in una bolla di vetro, separata da tutto e da tutti. Il suo pronipote è Bill Gates, il quale alcuni anni fa ha dichiarato che gli piacerebbe essere il proprietario del mondo per poterci giocare come un bambino fa con un pallone! Robinson è il primo mito moderno della natura sotto vetro, espurgata dei suoi elementi irriducibili al dominio e al possesso. Il dominio sulla natura non ricorre più a figure numinose, le fabbrica direttamente, come il cemento, tra le altre cose, che deforma e devasta tutto ciò su cui è messo. Oggi si potrebbe vedere nell’uso senza limiti di questo materiale – il più utilizzato dopo il petrolio – una variante contemporanea del mitico cacciatore che violentava la natura. E nel criptofascista Le Corbusier (collaborava con i movimenti fascisti francesi Fasceau e Redressement National) uno dei suoi cantori più illustri.

Il culto della “bellezza della natura” somiglia sempre più a una ferita che si apre come le fauci mostruose di un leviatano, che si vendica ingoiando ferocemente tutta l’indifferenza mostrata nei suoi confronti, come in Emilia-Romagna.

EDITORIALI
Il dominio sulla natura non ricorre più a figure numinose, le fabbrica direttamente, come il cemento
MARCELLO FALETRA
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Silvia Camporesi, Forlì, parco urbano, maggio 2023

he faccio signò, lascio?” chiede il salumaio con la consueta faccia tosta. E io, amici che debbo fare, lascio anche io? No che non lascio. Lo so, sparate pure a zero, invocate fin che vi pare il reato di apologia del fascismo, ma io – lo stesso –non lascio. Cioè. Non me la sento di lasciare che nel 2023 passi nel silenzio più assoluto il centenario della Riforma della scuola voluta da uno dei nostri più grandi filosofi, Giovanni Gentile, perché, dopo aver insegnato per trent’anni filosofia, mi parrebbe un tradimento. Lo so, la Riforma gentiliana stilla una concezione aristocratica fin nel midollo, classista per definizione, pacchianamente antifemminista, per non parlare dello sfacciato sessismo e, ovviamente, della sua natura strutturale all’ideologia fascista. Ma con tutto questo, Gentile è riuscito nell’impresa di far studiare ai nostri ragazzi adolescenti un po’ di storia della filosofia e, per chi ha visto come vanno le cose nel resto dei licei europei – anche in quelli di Paesi, come la Francia, che presumono di possedere la classe intellettuale più miracolosa del mondo (che è tutto da dimostrare, vedi il caso Simondo) –, la Riforma Gentile resta un motivo di vanto culturale che solo un Paese afflitto da un perenne complesso di inferiorità può sottovalutare così platealmente.

Lasciate che gli altri siano rivoluzionari, romantici o empiristi, noi siamo la Terra dello Spirito e la nostra vocazione dialettica è la nostra segreta identità

Slavoj Žižek ha dato una simpatica valutazione dei caratteri di Francia, Germania e Regno Unito – i tre principali Paesi europei – in base alla forma delle loro toilettes. “In un bagno tedesco, il buco nel quale sparisce la merda dopo che scarichiamo, è posto davanti. Nel tipico bagno francese, invece, il buco è dietro. Perciò la merda dovrebbe scomparire il prima possibile. Infine, il bagno anglosassone rappresenta una sintesi. La tazza si riempie di acqua così che la merda

ci galleggia sopra […]. È chiaro che ognuna di queste versioni comprende una certa percezione ideologica di come il soggetto si relaziona all’escremento. Hegel fu tra i primi a vedere la triade di Germania, Francia e Inghilterra come una espressione di tre diverse mentalità esistenziali: accuratezza riflessiva (tedeschi), impetuosità rivoluzionaria (francesi), pragmatismo utilitario (inglesi). In termini politici, questa triade può essere letta come conservatorismo tedesco, radicalismo rivoluzionario francese e liberalismo inglese” (L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, 2004).

Ora, nel joke di Žižek c’è però un enorme assente: l’Italia. Ma noi siamo esattamente il Paese che grazie al genio del più filosofo dei suoi artisti, Piero Manzoni, ha trasformato l’escremento in opera d’arte: Merda d’artista è un’affermazione di sublime coincidentia oppositorum tra pulizia formale (la scatoletta) e (potenziale) disgustoso contenuto.

La nostra originalità, dunque, non sta tanto nel disporre –stando a certe statistiche – di oltre il 70% di tutti i beni culturali mondiali: quelli non sono che il morto guscio di conchiglia generato da una instancabile attività produttiva del germe che abita quel guscio. E questo germe si chiama nientemeno che Spirito, come sapeva proprio Manzoni, ammiratore di Croce e studente di filosofi idealisti come Ugo Spirito e Pietro Prini.

Sì. Lasciate che gli altri siano rivoluzionari, romantici o empiristi (se poi lo sono ancora, e ho i miei dubbi), ma noi, noi siamo la Terra dello Spirito, la patria della metafisica, l’unico paese europeo dove i ragazzi studiano a scuola Filosofia, e la nostra vocazione dialettica – che a volte prende toni drammatici, a volte ironici, a volte ci fa discutere per decenni apparentemente sul niente – è la nostra segreta identità, di cui dovremmo invece andare fieri.

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