Artribune #70

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N. 70 L GENNAIO –FEBBRAIO 2023 L ANNO XIII centro/00826/06.2015 18.06.2015 ISSN 2280-8817 Artisti che fanno anche altro. Pregi e difetti di una doppia vita + I ristoranti dei musei. Storia del sodalizio fra cultura e gastronomia
Al centro di Roma. Storia, arte, architettura e musica al Vittoriano e Palazzo Venezia Sala del Refettorio di Palazzo Venezia inizio alle ore 18, ingresso gratuito Si consiglia la prenotazione tramite la piattaforma Eventbrite VIVE_VittorianoPalazzoVenezia.eventbrite.com di Invenzione Donne di Roma, donne a Roma. Il rione Pigna protagoniste (secc. XVI-XIX) Giovedì 16 febbraio Arti decorative nella Roma neoclassica Alessandra Di Castro e Francesco Leone Giovedì 23 febbraio Una pittura moderna e dolorosa, arsa e splendente Barbara Cinelli Rassegna a cura di Edith Gabrielli vive.cultura.gov.it

Sul vestito lei ha un corpo

Meris Angioletti

Ulla von Brandenburg

Meris Angioletti, Cercle de lecture autour du roman gothique: Perils of the Night. Pour B ., Disegni di Miyuka SchipferCourtesy l’artista, MABA, Nogent-sur-Marne Grafica propp.it Un’iniziativa

XNL
24.11.22 16.04.23
Note su Sonia Delaunay
Piacenza
Mostra a cura di Paola Nicolin
d’arte contemporanea, cinema, teatro e musica via Santa Franca 36, Piacenza
323534, 0523 311111 xnlpiacenza.it
di Centro
0523

Simona Galateo e Claudia Corrent Giro d'Italia: Bolzano 12

Saverio Verini Studio visit: Alessandro Manfrin NEWS 17

IED – Istituto Europeo di Design La copertina “One is not enough” 19

Marta Atzeni Nomos: gli architetti premiati da Dezeen 20

Ferruccio Giromini Le falloforie di Bernharda Xilko 22

Marco Enrico Giacomelli (a cura di) Libri: dall'arte pubblica all'intelligenza non umana 24

Irene Sanesi Welfare culturale versus gaslighting 26

Roberta Vanali Giovanni Gastaldi turista dell'illustrazione 28

Santa Nastro Derry Girls: un teen drama Anni Novanta 29

Livia Montagnoli La Piacenza del presente. Informale e inclusiva 31

Cristina Masturzo Top 10 lots. 2022 Edition

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Giulia Pezzoli Il sole cala ad Acapulco

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Valentina Silvestrini Soggiorno scozzese fra i capolavori dei galleristi di Hauser&Wirth

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Claudia Giraud Urban Groovescapes: la danza urbana di Max Casacci

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Dario Moalli Collettivo Amigdala. Camminare tra i suoni della città

STORIES

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Santa Nastro e Alex Urso QUANDO GLI ARTISTI FANNO ALTRO. STORIE DI MEDICI, AGRONOMI E MAESTRI DI SCI

Le motivazioni sono le più disparate: dall'esigenza di avere una situazione economica più stabile alla complementarietà rispetto alla propria ricerca. Sta di fatto che sono tanti gli artisti, nel passato come nel presente, che hanno una seconda vita professionale, e spesso ha a che vedere con la natura.

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Livia Montagnoli IL PUNTO SUI RISTORANTI NEI MUSEI IN ITALIA.

STORIA, EVOLUZIONE E FUTURO DEL SODALIZIO TRA CULTURA E GASTRONOMIA

Questa storia comincia a Londra nel 1857, quando il Victoria & Albert Museum si dota di spazi dedicati al ristoro. Da allora la sinergia fra gastronomia e musei non si è più interrotta. Vi raccontiamo la situazione italiana, dagli esordi fra Rivoli e Roma alle aperture più recenti, da Milano a Napoli.

GENNAIO L FEBBRAIO 2023 www.artribune.com artribune

ENDING 72

Anna Cercignano Short novel: Nata femmina 76

Massimiliano Tonelli Ci sono mostre e mostre 77

Pegah Moshir Pour Le proteste in Iran raccontate da un'attivista 78

Renato Barilli Lunga vita alla Biennale di Venezia 79

Marcello Faletra Dalla mimesis alla memesis 80

Santa Nastro (a cura di) 2023: sfide e urgenze per il mondo della cultura 82

Fabio Severino Come cambiano, per forza, le fiere 83

Claudio Musso Accademie di Belle Arti. Il gioco dei ruoli 84

Stefano Monti Visita e visori: il turismo al cospetto della tecnologia 85

Christian Caliandro Egemonia e fighettismo di certa arte contemporanea 86

Marco Senaldi Curatore, cura teipsum

GRANDI MOSTRE #32

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Stefano Castelli Riscoprire la pittura di Giacomo Ceruti 62

Angela Madesani Luigi Ghirri e il labirinto 64

Marta Santacatterina Gli artigiani dell’antico Egitto 66

Livia Montagnoli Bob Dylan oltre la musica +

Fabrizio Federici La lunga liaison tra arte e musica 68

Niccolò Lucarelli Giovanni Fattori, pittore umanista 69

Claudia Zanfi

I giardini del Principato di Monaco +

Cristina Masturzo Warhol, Refik Anadol e Paula Rego fra aste e mostre

OPENING
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artribunetv
#70

B O LZAN O

G IRO D'ITALIA:

Bolzano in estate è una delle città più calde d’Italia. Una sorta di strana contraddizione, visto che si trova nel bel mezzo delle montagne. Tuttavia, proprio questa sua strategica posizione, nella congiunzione di tre valli, fa sì che talvolta le sue condizioni atmosferiche, nella stagione calda, siano persino peggiori di una qualsiasi giornata estiva a Palermo. E proprio nel termine “contraddizione” si cela forse l’identità complessa di questa cittadina immersa nel cuore delle Alpi, luogo di transito più che punto di approdo, porta per le vicine Dolomiti, ma anche verso quell’Europa che ha rarefatto il significato del termine “confine”, se pure ancora persistente, in qualche modo, in queste latitudini.

SIMONA GALATEO [testo] & CLAUDIA CORRENT [fotografie] a cura di EMILIA GIORGI

Situata sull’incrocio di due fiumi - il Talvera e l’Isarco - Bolzano non è un vero e proprio “centro”.

Ci convivono più anime, parti di quella storia che ha contraddistinto questo particolare luogo di frontiera, legata a lingue, culture, tradizioni e visioni di mondi tra loro completamente diversi.

Gli strati di questa storia sono ancora tutti perfettamente, o quasi, leggibili nella sua architettura: i passaggi segreti dei portici, sede storica dei commerci mercantili, i ricami mitteleuropei delle facciate del centro storico, le linee ordinate e razionali dei palazzi del Ventennio, il Moderno reinterpretato con le maestranze del luogo, il caleidoscopico paesaggio colorato del postmodernismo riletto in chiave locale, le scintillanti vetrate dei palazzi più recenti, i suoi spazi

aperti, i luoghi della cultura e quelli della rappresentanza politica. A ciascuno la sua architettura. E nonostante questa ricchezza di linguaggi, il “centro”, in realtà, si trova fuori dalla città, nel resto del territorio provinciale, su cui negli ultimi anni sono stati investiti capitali, risorse, ma anche visioni e creatività, molto più che nel suo capoluogo; il tutto per tenere vivo il terzo motore dell’economia altoatesina: il turismo.

Eppure, a partire dalla fine degli Anni Novanta del secolo scorso, Bolzano ha avuto il suo momento florido di brillantezza, in cui la sperimentazione urbana teneva banco nel dibattito pubblico grazie a “visioni pragmatiche” del futuro della città, e alla rivista d’architettura Turris Babel, tuttora

importante punto di riferimento. L’architettura contemporanea iniziava a farsi largo a piene mani a suon di concorsi pubblici prima, e anche privati poi, i centri culturali trovavano nuove sedi di rappresentanza, lo spazio aperto e verde si configurava in grandi aree pubbliche preservate e trasformate in parchi, e la mobilità leggera era già una realtà strutturata prima che da qualsiasi altra parte. E come in un movimento corale di energie sospinte, anche tutto il resto della città sentiva fremere il desiderio di spingersi un po’ oltre, forte delle diverse anime culturali che da sempre l’hanno contraddistinta, ciascuna con le sue tradizioni e visioni, ma pure in una convivenza che nel

reciproco scambio aveva trovato il modo di generare anche nuove sinergie. Grazie a questa capacità dinamica di andare oltre e reinterpretare i canoni e gli stili di quel pittoresco localismo tanto caro ai turisti, nel 2008 è stata scelta come una delle sedi di Manifesta 7, un’edizione che tutti ancora ricordano come la più partecipe con la comunità locale.

Dopo quegli anni di grande fioritura ne sono arrivati altri dai ritmi molto più rallentati, in qualche modo ragionevoli, titubanti al suono di ogni possibile cambiamento che non avesse solide radici

locali. Con un centro storico meno vitale di un tempo ma pur sempre troppo eccentrico, il resto della città è rimasta un po’ sospesa in attesa di una visione urbana forte e chiara, capace di ricostruire legami inediti in una rete esistente e dinamica di iniziative, associazioni culturali, collettivi, incubatori, di personalità curiose e pensatori che, ciascuno nella propria lingua, ha fatto delle contraddizioni di questo luogo un motore che aspetta solo di essere riacceso.

Claudia Corrent, La montagna incantata , 2020. Courtesy l’autrice

STUDIO VISIT ALESSANDRO MANFRIN

Per Alessandro Manfrin le città contemporanee sono corpi esausti, consumati, fragili. Attraversando lo spazio urbano, l’artista ne raccoglie schegge e umori: cartelloni pubblicitari, immagini legate a cantieri, piante che si impossessano di edifici in disuso, suoni della metropolitana. Un’atmosfera fantasmatica pervade le opere di Manfrin. Difficile incontrare figure umane nei suoi lavori; e, quando accade, si tratta di immagini provenienti dalla fine degli Anni Sessanta, quasi degli spettri. A pensarci bene, Manfrin sembra mettere in scena il ricordo sbiadito di una città, in cui temporalità differenti rendono complicato capire a che punto cominci il passato e termini il presente. Lo sguardo dell’artista è rivolto all’asfalto che calpesta così come alle cime dei palazzi che svettano nei luoghi dove vive, costantemente alla ricerca di tracce da cui partire per la realizzazione di interventi che somigliano a monumenti precari e incerti. Manfrin vuole cogliere il potenziale poetico e lo struggimento che possono derivare dall’osservazione del contesto urbano, rinunciando tuttavia a ogni intento consolatorio e sottolineando i limiti dei luoghi che abitiamo.

Nel 1863 Charles Baudelaire individuava in Constantin Guys il pittore della vita moderna, capace di esaltare la velocità e il fermento che attraversavano una città come Parigi in quel periodo. A distanza di 160 anni anche tu ti soffermi sulla realtà urbana contemporanea, offrendone una lettura di segno apparentemente opposto.

Mi piace pensare di condividere con Constantin Guys una certa attitudine da flâneur e un’attrazione nei confronti degli “effetti collaterali” che le città contemporanee producono. Penso che la città e i suoi ritmi siano, nel mio lavoro, un pretesto per parlare di abitare, e quindi per parlare dell’uomo. Il contesto urbano è una piattaforma dove il privato e il pubblico si mescolano e si confondono. Sull’asfalto e sui marciapiedi si trovano costellazioni di oggetti abbandonati, consegnati a tutti e appartenenti a nessuno. La città contemporanea è l’habitat ideale per il proliferare di rumori bianchi e scarti, come fossili senza storia né tempo. Lavorando al progetto Blueback, esposto a Platea Palazzo Galeano, a Lodi, l’idea era quella di partire dall’ultimo anello di questo sistema nevrotico e iperproduttivo, ovvero le pubblicità applicate sui billboard e, con il retro di questi materiali, produrre un’immagine astratta, un “cielo in una stanza” fatto di immondizia destinata al macero.

Nelle tue opere le immagini digitali (per esempio estratti di video trovati online) e alcune tracce del paesaggio

La città contemporanea è l’habitat ideale per il proliferare di rumori bianchi e scarti, come fossili senza storia né tempo.

contemporaneo (penso ai pacchi delle grandi compagnie di spedizioni online) coesistono con elementi che rimandano a un passato più o meno recente (immagini di cortei degli Anni Sessanta e Settanta, architetture nate nella seconda metà del Novecento...). Anche formalmente, trovo che ci sia una relazione con certe pratiche artistiche affermatesi negli scorsi decenni.

Quando penso a un lavoro è difficile prescindere dalla storia dell’arte o, perlomeno, dalla tradizione in cui il lavoro si inserisce. Come spiega George Kubler nel saggio La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, l’arte è prima di tutto materia che si stratifica al tempo geologico della terra, e questo per me vale anche quando lavoro con immagini prelevate online o con immaginari legati alla memoria collettiva come quelli degli Anni Sessanta e Settanta. Se dovessi tracciare una linea di esperienze della storia dell’arte che accompagnano i miei pensieri quando lavoro, sicuramente inserirei tutta la tradizione del Romanticismo, a partire dalle rovine incise da Piranesi, passando per i ruderi e i paesaggi dipinti da Friedrich per arrivare alla scultura-tempo di Robert Smithson e ai paesaggi urbani di Cyprien Gaillard.

Che rapporto hai con la storia, a partire da quella dell’arte? In che modo cerchi di aggiungere qualcosa di tuo o, comunque, legato al tempo che stai vivendo?

Non c’è uno sguardo nostalgico nei confronti del passato, la serie di lavori sulle architetture di Milano (Milano palazzi) mette insieme architetture iconiche della seconda metà del Novecento con il cantiere della nuova sede della palestra Virgin. In questo caso mi interessa lavorare sull’idea di facciata, e la città contemporanea mescola architetture brutaliste con palazzi di vetro fragili e precari o, ancora, superfici ricoperte da piastrelle conquistate da edere e muffe.

bioUtilizzi spesso pacchi postali o contrassegnati dai loghi delle aziende di commercio online: è un semplice riferimento a un oggetto ricorrente della nostra quotidianità o c’è una qualche intenzione critica nei confronti della società contemporanea?

Alessandro Manfrin è nato a Savigliano, in provincia di Cuneo, nel 1997. Vive a Milano. Nel 2021 conclude il percorso di studi in arti visive presso l’università Iuav di Venezia. Tra i progetti più recenti si segnalano le mostre personali Buildingsss, con Gian Marco Casini Gallery, ArtVerona 17 (2022); Blueback, Platea Palazzo Galeano, Lodi (2022); Lookout, Gian Marco Casini Gallery, Livorno (2021); la partecipazione ai programmi di residenza Rereading the Archive, ICA, Milano (2022); Lab for New Imaginations, MACRO, Roma (2021); le mostre collettive UNCOATED-CONTENT, Mucho Mas! Artist-run space, Torino (2021); Degree Show II, Palazzo Monti, Brescia (2021).

I pacchi da spedizione mi interessano perché registrano le tracce dello spostamento. Viaggiano e si muovono, la loro funzione è quella di proteggere oggetti e desideri. Il lavoro untitled (from a to b) è un autoritratto: sono registrazioni del mio respiro che vengono riprodotte da uno speaker che dura per giorni e che viene spedito dal luogo in cui vivo allo spazio in cui viene esposto il lavoro. L’idea è quella di far passare

STUDIO VISIT

Alessandro Manfrin, Blueback , 2022, m anifesti pubblicitari, colla, dimensioni ambientali. Installation view at Platea Palazzo Galeano, Lodi
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Courtesy l’artista & Gian Marco Casini Gallery, Livorno. Photo Alberto Messina

Alessandro Manfrin, La revolution c ’ est quand l ’ extraordinaire devient quotidien ; studenti ed operai uniti nella lotta ; Napoli ha un solo primato: i disoccupati ; casa agli operai, operai studenti uniti nella lotta, fuori il padrone dalla fabbrica dalla scuola ; manganello e moschetto rettore perfetto, Mattalia sì! PianoNo , 2018, cinque fotografie incise stampate su carta fotografica opaca 350 gr, 41 x 200 cm (con cornice). Collezione privata, Livorno

Alessandro Manfrin, Quintetto , 2022, audio a cinque canali, cinque elementi in metallo, legno, impianto Dolby surround 5.1, cavi elettrici, dimensioni ambientali. Installation view at Gian Marco Casini Gallery, ArtVerona 17. Courtesy l’artista & Gian Marco Casini Gallery, Livorno

un oggetto tanto etereo ed effimero come il respiro attraverso mani sconosciute; mi piace pensare che tra i pacchi che vengono smistati ce ne sia uno che custodisce la registrazione del mio respiro. Nel caso della serie untitled (domestic plants as a scultpures) i pacchi assumono la funzione di basamento. Quando ho realizzato quei lavori pensavo alle sculture di Brancusi e ai plinti che diventano scultura. È come se la pelle di questi lavori tenesse conto delle botte dovute agli spostamenti, ma anche che sia testimonianza di tutti quei loghi che regolano le leggi di mercato in cui viviamo e in cui il mio lavoro cerca di inserirsi, producendo piccoli cortocircuiti.

Non hai ancora 26 anni, ti sei appena affacciato al mondo dell’arte. Quali opportunità e, insieme, difficoltà ti sembrano prospettarsi? Hai uno studio? Come riesci a pagare l’affitto? Ho avuto uno studio per circa un anno che ho lasciato da poco, ne sto cercando un altro, sono in quella fase in cui desidero tantissimo uno spazio in cui poter

lavorare ma devo fare i conti con le muffe degli scantinati e i prezzi folli di una città come Milano. A settembre del 2021 ho iniziato a collaborare con la Gian Marco Casini Gallery di Livorno, sono molto contento dello scambio che stiamo avendo. In questi anni ho lavorato anche come assistente per altri artisti, ma sto cercando di dedicarmi esclusivamente al mio lavoro. Mi piacerebbe fare una residenza all’estero, soprattutto per vedere cosa succede al mio lavoro se cambio la città in cui vivo. In Italia sembra difficile pensare a lavori più complessi da sostenere, ho in progetto di realizzare altri ambienti come Blueback, non credo sia impossibile farlo qui, ma sento che potrebbe farmi bene respirare l’aria che sta fuori. Penso che l’arte sia prima di tutto un pretesto per interessarsi a qualsiasi cosa: è un linguaggio che si ridefinisce costantemente e anche il sistema che lo alimenta, con tutte le sue criticità, ha la capacità di autosabotarsi e rigenerarsi

STUDIO VISIT
Alessandro Manfrin, Untitled (from a to b) , 2019, pacco da spedizione, cassa bluetooth, audio mp3, 17 x 10 x 10 cm Courtesy l’artista & Gian Marco Casini Gallery, Livorno. Photo Sofia Tocca
di
Il contesto urbano è una piattaforma dove il privato e il pubblico si mescolano e si confondono. #58 Mattia Pajè #59 Stefania Carlotti #61 Lucia Cantò #62 Giovanni de Cataldo #63 Giulia Poppi #64 Leonardo Pellicanò #65 Ambra Castagnetti #67 Marco Vitale #68 Paolo Bufalini #69 Giuliana Rosso NEI NUMERI PRECEDENTI 70 15
continuo. SAVERIO VERINI
Prato, Museo di Palazzo Pretorio 17 dicembre 2022 10 aprile 2023 PROROGATA FINO AL 30 APRILE 2023

“Il mondo ospita prospettive infinite e racchiude nella diversità la sua ricchezza.

[...] Pensare di limitare il tutto a una singola concezione, funzione, definizione, al contrario, porta a una staticità sterile. Per questo ‘uno non è abbastanza’, in ogni sua accezione”. Questo il concept dichiarato dagli studenti di IED Roma: Chiara Frustaci, Clara Ninno, Elisa Chiera, Federico Orsaria, Luca Giovannetti, Marco Chiarelli, Matteo De Rosa, del corso Triennale di Video Design, e da Gianfilippo Fibraroli, Luca Prestigiacomo e Tommaso Brancato del corso Triennale di Sound Design, che hanno contribuito alla tesi interdisciplinare Intelligenza Collettiva per Contemporary Cluster – Palazzo Brancaccio.

Partendo dal brief di tesi hanno deciso di trasmettere, con lo stile del fashion film, l’universo immaginativo del Contemporary Cluster e i valori principali sui quali esso si basa: una visione dell’arte libera da schemi, che si nutre di continue influenze, rendendo “commistione” la parola chiave.

Hanno così sviluppato il progetto di tesi nella serie di corti One Is Not Enough. La copertina proposta per Artribune è tratta dal primo di questa serie: il manifesto.

“Un’inquadratura a pioggia su una tavola di Scarabeo, un voice over recita il manifesto, nel mentre delle mani, attraverso le tessere del gioco, vanno a comporre alcune parole chiave del concept. Inizialmente verrà seguita la logica del gioco per poi reinventarla attraverso il ribaltamento della prospettiva”.

Secondo la stessa logica, la copertina di Artribune può essere fruita da più prospettive.

IED x ARTRIBUNE

Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare, attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studenti e Alumni dell’Istituto, i temi centrali della contemporaneità. I progetti dei corsi della scuola di Arti Visive di IED danno vita a un percorso in cui il lettore potrà approfondire gli aspetti artistici, tecnici e relazionali alla base di ogni immagine scelta per la copertina. Vi basterà inquadrare il QR code qui a fianco.

La copertina, realizzata in esclusiva per Artribune, sarà quindi il simbolo della soglia da attraversare per immergersi nella profondità e nella poliedricità di ogni progetto. La fragile superficie da rompere per potersi avventurare nell’immaginazione iperconnessa dei designer.

Il Real Albergo dei Poveri a Napoli diventerà un grande polo culturale

DESIRÉE MAIDA L Un grande polo culturale, in cui ospitare sezioni di musei e biblioteche, laboratori, hub, ristoranti e alberghi. È questo il nuovo corso che attende il Real Albergo dei Poveri di Napoli, imponente struttura settecentesca – tra le più grandi costruite in Europa in quel periodo – nata per volontà di Carlo III di Borbone e progettata da Ferdinando Fuga. L’edificio, di oltre 100mila metri quadrati, ospiterà opere di diversi musei napoletani, tra cui una sezione del Museo Archeologico, accogliendo la Collezione Santangelo, e alcune sezioni della Biblioteca Nazionale, con volumi dell’Ottocento e del Novecento, con grandi sale di lettura, oltre a strutture ricettive e ristoranti. Il progetto pare possa trovare concretizzazione anche grazie ai 100 milioni di euro del PNRR destinati alla rinascita del bene architettonico. Il primo step consiste in una serie di lavori – che partiranno entro la fine dell’anno – di consolidamento e restauro dell’edificio, compreso il recupero della corte centrale, per poi pensare alla rimodulazione e alla riformulazione degli spazi in vista dei loro nuovi usi.

Elefsina © Pinelipi Gerasimou

Grecia: ecco com’è Eleusi, Capitale Europea della Cultura 2023

GIULIA GIAUME L Una grande occasione per una piccola città dell’Attica a una manciata di chilometri da Atene, proprio di fronte all’isola di Salamina, per molti secoli centro spirituale dell’Occidente e custode delle sue stesse radici: in mezzo a queste piane nacque il culto del grano, eterna gratitudine alla Madre Terra. Proprio alla Terra vuole tornare, la greca Elefsina, che dopo una lenta rovina si è reinventata nel Novecento come centro industriale – uno dei più grandi e invasivi del Paese –, tra estrazione e raffinazione petrolifera, cantieri navali, produzione di vernici e saponi. Una scommessa che sembrava vinta, prima della crisi iniziata nel 2009, prima del default, prima delle chiusure e della disoccupazione di massa. È dal modello di questo progresso effimero che la città –che oggi conta 30mila abitanti – vuole allontanarsi, recuperando e aprendo i propri tesori storici ai conterranei e al mondo intero con un investimento sulla crescita lenta e sull’ascolto della cittadinanza. Per il grande anno della città – condiviso in Europa con Timișoara, in Romania, e Veszprém, in Ungheria – sono stati realizzati e lo saranno, nel corso del 2023, ben 130 progetti e 436 eventi in oltre 30 location, con il coinvolgimento di più di 20 Paesi in tutto il mondo. La parola chiave è quella del “Mistero”, concetto mutuato dagli antichi riti panellenici che oggi torna in una veste rivelatoria e spirituale. Dagli spettacoli teatrali nel sito archeologico – ispirati all’eredità del nativo Eschilo – alle mostre fotografiche che documentano la chiusura di molte delle mille fabbriche della città e la sua working class, dai concerti alla produzione artigianale, dal recupero delle aree naturali alla danza, l’arte pervade Eleusi e la sua terra per proiettarla nel presente e, si spera, nel futuro.

NEWS
a cura di SANTA
LA COPERTINA
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DIRETTORE

Massimiliano Tonelli

DIREZIONE

Marco Enrico Giacomelli [vice]

Santa Nastro [caporedattrice]

Arianna Testino [Grandi Mostre]

REDAZIONE

Irene Fanizza | Giulia Giaume

Claudia Giraud | Desirée Maida

Livia Montagnoli | Valentina Muzi Roberta Pisa | Valentina Silvestrini Alex Urso | Gloria Vergani | Alberto Villa

PROGETTI SPECIALI

Margherita Cuccia

PROGETTO GRAFICO

Alessandro Naldi

PUBBLICITÀ

Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com

EXTRASETTORE

download Pubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it

COPERTINA ARTRIBUNE

C. Frustaci, C. Ninno, E. Chiera, F. Orsaria, L. Giovannetti, M. Chiarelli, M. De Rosa G. Fibraroli, L. Prestigiacomo e T. Brancato, One is not enough, 2022. Progetto di Tesi in Video Design e Sound Design. Courtesy IED – Istituto Europeo di Design

COPERTINA GRANDI MOSTRE

Giacomo Ceruti, Portarolo, 1730-34 ca. Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

STAMPA

CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)

DIRETTORE RESPONSABILE

Paolo Cuccia

EDITORE & REDAZIONE

Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

NUOVI

SPAZI

EUGENIA DELFINI Roma

Dopo quindici anni nel ruolo di curatrice, Eugenia Delfini ha deciso di aprire un proprio spazio nella Capitale. Ecco quali sono i suoi progetti e i suoi obiettivi.

Come è nata l’idea di aprire questa nuova galleria?

Da una parte, dal mio personale desiderio di fondare un’istituzione per l’arte, di avere l’opportunità di lavorare a un programma annuale e di progettare a lungo termine; dall’altra, dalla volontà di lavorare a stretto contatto con artistə che ho incontrato sul mio percorso sia in Italia che all’estero per condividere il loro lavoro, consolidare i rapporti costituiti e generarne di nuovi. Infine, l’idea di aprire una galleria a Roma nasce dall’ambizione di contribuire alla crescita culturale della città e dunque dall’esigenza di fermarsi per restituire ciò che ho assimilato negli ultimi quindici anni lavorando come curatrice.

retti da me insieme all’assistenza organizzativa di Giulia Centola. Giulia è una giovane collezionista, laureata in marketing e comunicazione nonché appassionata d’arte, design ed enogastronomia. Ogni progetto, inoltre, si avvarrà della consulenza e del supporto di critici, curatori, progettisti e chiunque possa valorizzare con le proprie conoscenze gli artisti, i progetti e la galleria stessa.

Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) punti? E su quale rapporto con il territorio e la città?

Puntiamo a lavorare bene, a stare insieme e a diventare una voce attiva in città. Diciamo che non ci piace molto stare con le mani in mano.

Un cenno agli spazi espositivi. La galleria è in via Giulia 96, dalla parte di Piazza dell’Oro e Largo dei Fiorentini. La via è tra le più iconiche e belle della Capitale ed è stata scelta anche per questo. La galleria ha un ingresso su strada e uno spazio espositivo di 30 mq con soffitto a volta di 5 metri, un vano ufficio, un magazzino e un affaccio sulla corte interna del palazzo che utilizziamo per gli opening.

Ora qualche anticipazione sul programma del 2023.

Descrivi in poche righe il tuo nuovo progetto.

Uno spazio curato. Uno spazio a sostegno dell’arte contemporanea. Uno spazio espositivo e di ricerca dove si alternano mostre, residenze e presentazioni.

Qual è la compagine che affronta questa avventura?

A gennaio-febbraio abbiamo in residenza (e poi in mostra) Erin Johnson, artista americana di base a New York che lavora principalmente con cortometraggi e installazioni che interrogano temi come le questioni di genere e l’identità queer, la collettività e il dissenso in relazione al nazionalismo. Durante la residenza, oltre a lavorare alla produzione della sua prima personale in Italia, organizzeremo un incontro di presentazione pubblica e una piccola festa, un modo per introdurre Erin e la sua ricerca al pubblico.

Acciaioli

Fiume Tevere

Chiuso in redazione il 20 gennaio 2023 PEFC/18-31-992

RiciclatoPEFC

Questoprodottoè realizzatoconmateria primariciclata www.pefc.it

Al momento sto affrontando questa avventura come unica fondatrice e amministratrice. Ho un passato da curatrice, scrittrice ed educatrice in istituzioni italiane e straniere e sono interessata a promuovere artisti viventi che si interrogano sul futuro e quelle pratiche interdisciplinari e contro-narrazioni artistiche che aprono scenari utili alla trasformazione sociale e alla conoscenza di dove stiamo andando.

A livello di staff come sei organizzata? La galleria e il suo programma sono di-

ViaGiulia Lungoteveredei Sangallo

Roma Via Giulia 96 345 8637071

eugenia@galleriaeugeniadelfini.it galleriaeugeniadelfini.it

Via Chiesa di San Giovanni Battista

ARCHUNTER

NOMOS: GLI ARCHITETTI PREMIATI DA DEZEEN

Approfittando delle possibilità offerte dal mondo contemporaneo, un numero crescente di architetti sta ampliando l’orizzonte della professione, sperimentando nuovi modelli organizzativi. Una tendenza confermata da Dezeen, che a dicembre ha assegnato il titolo di emergente 2022 all’associazione di architetti Nomos. A comporla sono gli svizzeri Katrien Vertenten e Lucas Camponovo con gli spagnoli Ophélie Herranz e Paul Galindo. “Siamo due coppie” , spiega ad Artribune il quartetto, “partner nella vita e nel lavoro. L’architettura è ciò che ci piace fare insieme e che ha plasmato le nostre vite: esperienze personali e professionali si sono contaminate a vicenda. Per noi”, sottolinea, “l’architettura non è solo progettare, ma anche capire come le cose possono essere fatte insieme. Per questo, dopo un decennio di esperienze condivise, nel 2019 abbiamo dato vita a Nomos: uno studio con due teste, a Madrid e a Ginevra, che si basa su equilibrio, entusiasmo, ascolto, flessibilità e volontà di co-progettazione” . Nonostante l’impostazione internazionale, Nomos ha un approccio al progetto prettamente contestuale. Ne sono un esempio gli interventi realizzati in Spagna, dove, attraverso sistemi costruttivi e materiali locali, spazi sperimentali per l’abitare raccontano la storia dei siti in cui si inseriscono. Pareti attrezzate in blocchi di cemento bianchi, che esaltano il blu della struttura originaria, trasformano un’autofficina in una casa unifamiliare; mentre scatole di mattoni smaltati ruotate di 45 gradi rispetto alla struttura originaria convertono un open space industriale in una sequenza di stanze, creando un giardino d’inverno che corre lungo la facciata vetrata preesistente. Un desiderio di creare comunità che si riflette anche nei grandi progetti residenziali. Come nella cooperativa Jolimont di Ginevra, le cui unità abitative sono organizzate come celle di un alveare; o nel complesso Pasodoble, dove un volume di residenze per adulti con disabilità mentali si unisce a un blocco di abitazioni sociali attraverso un’enfilade di patii.

Un’alternanza fra piccola e grande scala che è valsa a Nomos il premio della rivista inglese e che continua oggi a distinguere la sua attività: “Siamo al lavoro su cinque edifici residenziali in un eco-quartiere di Ginevra, due case unifamiliari a Siviglia e a León, e la ristrutturazione di un appartamento a Madrid” , racconta Nomos. “Inoltre, stiamo lavorando a distanza su un centro medico in adobe e pietra lateritica in Burkina Faso. Speriamo”, aggiunge lo studio, “di continuare a lavorare su progetti interessanti e a sfidare le aspettative dei clienti, aprendo nuovi campi di indagine sullo spazio, i materiali e il programma, sviluppando le loro idee di partenza. Ci rende felici provare a cambiare la percezione delle persone, migliorando le loro vite attraverso piccoli gesti”.

nomos.archi

Riapre a Pompei la Casa dei Vettii. Di nuovo visibili i celebri affreschi erotici

LIVIA MONTAGNOLI L Tra le ultime riaperture del Parco Archeologico di Pompei, la Casa dei Vettii è stata la prima novità di un 2023 che al sito porterà un significativo ampliamento degli ambienti visitabili, dai 55 attualmente aperti a rotazione ai ben 115 previsti entro la fine dell’anno. Dopo vent’anni, la domus scavata tra il 1894 e il 1896, legata ai nomi dei liberti Aulo Vettio Restituto e Aulo Vettio Conviva, è nuovamente visibile al pubblico in tutta la sua complessità architettonica, grazie all’intervento congiunto di archeologi, architetti, restauratori, ingegneri, strutturisti ed esperti di giardinaggio, al lavoro su uno dei cantieri archeologici più complessi degli ultimi decenni. Il giardino del peristilio è stato restaurato con l’inserimento di copie delle statue originali (tra cui Priapo, dio dell’abbondanza, presente anche in affresco nel Vestibolo) conservate negli spazi espositivi e nei depositi del Parco archeologico. Si passa poi agli ambienti interni, tra cui la stanza più nota per i quadretti erotici che decorano le pareti, spazio adiacente alla cucina, nel quartiere servile: l’ipotesi più accreditata, confermata da un’iscrizione, è che l’ambiente servisse per la prostituzione. Ma il ciclo decorativo della domus annovera anche la preziosa teoria di Amorini del salone, Eracle che seduce Auge nell’ambiente del gineceo, le scene mitologiche della sala di Issione e della sala di Penteo. Di “riapertura epocale” ha parlato il Direttore generale dei musei del MiC Massimo Osanna.

La Grande Onda di Hokusai diventa un set da costruire con i mattoncini Lego

DESIRÉE MAIDA L Una delle opere più note, iconiche e riprodotte della storia dell’arte diventa un elemento d’arredo, un oggetto di design e di diletto da costruire in modalità rigorosamente zen. Si tratta della Grande Onda di Kanagawa, stilografia in stile ukiyo-e realizzata dal pittore e illustratore giapponese Katsushika Hokusai, pubblicata per la prima volta tra il 1830 e il 1831. L’opera raffigura un’onda minacciosa che si solleva con violenza da un mare in tempesta da cui si scorge, sullo sfondo, il Monte Fuji. Di questo capolavoro, facente parte della serie intitolata Trentasei vedute del Monte Fuji e considerata l’opera più influente e celebre dell’arte giapponese, da oggi è disponibile anche la versione realizzata dalla Lego: l’azienda danese, famosa in tutto il mondo per i suoi giocattoli in mattoncini, ha lanciato sul mercato una Grande Onda in versione 3D, da realizzare attraverso la stratificazione di diversi livelli di mattoncini, in tutto 1810 compresa una tessera decorativa con la firma di Hokusai , da appendere poi alla parete proprio come si farebbe con un “usuale” dipinto. Importante quanto il risultato finale è, nell’esperienza della Grande Onda Lego, la fase di realizzazione dell’opera: sulla scatola che contiene i mattoncini è presente un QR code attraverso il quale è possibile ascoltare una colonna sonora “realizzata su misura che renderà il tempo che dedichi alla costruzione ancora più piacevole”, come sottolineato sulla pagina del sito della Lego dedicata al prodotto.

NEWS
MARTA ATZENI
Nomos, Pasodoble, Ginevra Photo © Paola Corsini
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LE FALLOFORIE DI BERNHARDA XILKO

All’assioma freudiano dell’invidia del pene, in sincerità, personalmente non ho mai prestato convinzione. Mi pare un’asserzione assolutamente non assoluta, ma piuttosto controversa e controvertibile. Ad agitare tali acque, per me ma credo anche per altri, si esprime da Belgrado una giovane artista serba, Bernharda Xilko, che affronta il problema addirittura con un bel “hard” intarsiato nel nome. Il suo soggetto preferito sembra essere perlappunto esattamente quella appendice maschile, con cui peraltro anche la controparte femminile dell’umanità deve fare i conti vita natural durante. E, più che invidia, in questo caso si potrebbe parlare di fascinazione, per non dire ossessione.

La nuova colossale scultura di Anish Kapoor a Napoli ricorda i genitali femminili

Valentina Muzi Arrivata e installata. La nuova grande opera commissionata all’artista anglo-indiano Anish Kapoor (Bombay, 1954) collocata all’uscita della stazione metropolitana di Napoli, fermata Monte Sant’Angelo, rimanda all’universo femminile. La gigantesca scultura si accorda con la prima dello stesso artista, già da tempo sistemata all’entrata principale della medesima stazione. Quello che rappresenta è “una discesa agli inferi attraverso un simbolismo che ricorda l’organo genitale femminile” dichiara l’Eav, l’Ente autonomo Volturno – la società di trasporti locale – su l’ANSA che ha organizzato il trasporto e la sua sistemazione. Sebbene ancora non funzionante, la stazione Monte Sant’Angelo è un importante punto nevralgico che svilupperà il trasporto urbano anche nella cittadella universitaria (da Rione Traiano a Parco San Paolo). Dopo anni di ritardi causati da una serie di rimpalli tra le ditte appaltatrici, la metro Linea 7 arriverà per il 2023 e con lei anche l’entrata e l’uscita all’interno delle due grandi sculture metalliche di Anish Kapoor, le uniche capaci di relazionarsi con lo spazio circostante, valorizzandolo senza snaturarlo.

Il membro maschile è il protagonista di numerose immagini di questa tipa audace, figlia d’arte ma molto autodidatta. Lo rappresenta di preferenza esagerandone le dimensioni, ora raggrinzendolo a misura di bimbetto, ora – molto più spesso e volentieri – gonfiandolo fino a turgori smisurati e contorti. Più che a invidia, sospetti di trovarti davanti a derisione. E in effetti l’humus da cui tale visione proviene è quella sorta di underground periferico europeo, in questo caso più o meno balcanico, cui di norma si guarda poco e cui di norma si dà poco peso, ma che in sé lascia sobbollire sentimenti poderosi ed espressioni indipendenti. Di fatto la narrativa figurata di Bernharda Xilko ha trovato ospitalità specialmente su riviste legate in qualche modo alle culture marginali e antagoniste: ad esempio in Slovenia sulle vitali pagine di Stripburger, ma anche in Francia per Le Dernier Cri del “maledetto” Pakito Bolino, che ne ha ospitato esposizioni nell’avventurosa sede marsigliese de La Friche La Belle de Mai. D’altronde è proprio il ribellismo giovanile il più adatto terreno di coltura e bacino d’utenza della provocazione sessuale, in particolare per la rappresentazione più tabù che ci sia, in una società maschilista: il pene. Bernharda lo fa in noncurante lo-fi; e rinnova una sorta di sex brut; e resuscita il gusto liberamente orgiastico delle antiche falloforie bernhardaxilko

Novità dai musei del mondo

CLAUDIA GIRAUD L “Per me l’idea di contribuire alla costruzione di un Misk building è una grande opportunità”. Così la giovane curatrice italiana Cecilia Ruggeri ci ha anticipato, durante la nostra recente trasferta in Arabia Saudita, la nascita nel 2025 del nuovo spazio espositivo del Misk Art Institute, l’organizzazione non profit fondata nel 2017 dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman bin Abdulaziz Al Saud per dare potere ai giovani nell’arte e nella cultura. Sua anche l’ideazione di The Line, una città eco-compatibile in costruzione a Neom, provincia saudita di Tabuk in pieno deserto. Notizie così sono all’ordine del giorno in questo inizio d’anno che si prospetta foriero di debutti nel panorama museale internazionale. Per restare in area Medio Oriente, per esempio, alla fine dell’anno è prevista l’apertura di un parco a tema dedicato al Real Madrid: promosso da Dubai Parks and Resorts, sarà caratterizzato da un museo con mostre audiovisive, esperienze interattive e attrazioni ispirate allo spirito del pluripremiato club spagnolo. Non troppo lontano, il tanto atteso Grand Egyptian Museum debutterà entro l’anno in prossimità delle Piramidi di Giza. Definito il “più grande complesso museale archeologico del mondo”, vanterà una straordinaria collezione di oltre centomila reperti dalla preistoria all’Impero Romano, tra cui spiccano i cinquemila manufatti della tomba di Tuthankhamon, ora al Museo Egizio della capitale. Dovrebbe, invece, debuttare nel corso di quest’anno il nuovo edificio dell’Istanbul Modern Museum progettato da RPBW Architetti (Renzo Piano Building Workshop) in collaborazione con lo studio Arup sulle rive del Bosforo. È, infine, in fase di ultimazione il museo dedicato al celebre soprano greco Maria Callas che aprirà nell’estate del 2023 ad Atene, in occasione del centenario della sua nascita: presenterà documenti audio, registrazioni di esibizioni e una collezione unica di dischi e oggetti personali, provenienti da donazioni di tutto il mondo, tra le quali, quelle del Teatro alla Scala di Milano, La Fenice di Venezia e l’Arena di Verona.

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Misk Art Week Riyadh, rendering del nuovo museo. Photo Claudia Giraud

Opere d’arte pubblica scompaiono dal centro di Bologna. Gli artisti di Kinkaleri chiedono conto

GIULIA GIAUME L “Il collettivo artistico Kinkaleri si chiede a quale titolo l’opera situata all’ingresso del sottopasso di Piazza Re Enzo/Piazza Maggiore sia stata disinstallata senza nessun accordo e senza alcuna ragione plausibile”. Così i Kinkaleri chiedono chiarezza sulla scomparsa di una delle cinque installazioni di arte pubblica W presenti in città. L’opera diffusa, che ribalta le abituali insegne delle metropolitane italiane, è stata realizzata su commissione dell’organizzazione culturale bolognese Xing tra il 2007 e il 2019. Una di queste opere, quella appunto di Piazza Maggiore, è sparita a febbraio 2022 per non tornare più. “A quanto pare oggi a Bologna c’è qualcuno che ha deciso di fare quello che vuole”, si legge ancora nella comunicazione. Il collettivo, infine, ha dichiarato che vorrebbe proseguire con le installazioni delle insegne tra gennaio e aprile 2023, aprendo così una nuova tratta della “Wetropolitana”, la linea immaginaria della creatività underground.

Il nuovo album di Peter Gabriel abbina un’opera d’arte a ogni canzone

CLAUDIA GIRAUD L Non si sa ancora nulla o quasi del nuovo album i/o di Peter Gabriel che arriva a poco più di 20 anni di distanza dall’ultimo Up, ma il primo singolo appena pubblicato è già una dichiarazione d’intenti. Panopticom, una ballad in pieno stile fusion, concepita a partire dall’idea di un’enorme banca dati accessibile in tutto il mondo per diffondere conoscenza: chiunque può effettuare ricerche sulla piattaforma, utilizzando qualsiasi parola chiave. La canzone è uscita il 6 gennaio, in concomitanza con il primo giorno di Luna piena dell’anno, per riconnettere l’uomo con la natura e il Pianeta. E lo stesso succederà con gli altri brani del disco che non ha una vera e propria data di pubblicazione. “Le fasi lunari guideranno il piano di rilascio nel 2023, con una nuova canzone rivelata ogni Luna piena”, afferma Gabriel che ha anche pensato a un’opera d’arte site specific da abbinare come cover ad ogni traccia: “Abbiamo esaminato il lavoro di molte centinaia di artisti”. Il primo è l’artista britannico David Spriggs con l’opera in 3D Red Gravity pensata per il singolo di debutto.

petergabriel.com/live/

ARCHITECTS è l’Architetto italiano 2022

VALENTINA SILVESTRINI L Lo studio multidisciplinare fondato nel 1994 da Carlo Cappai e Maria Alessandra Segantini, di base a Treviso e Londra, si è aggiudicato la X edizione del premio attribuito dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Impegnato dell’operazione di retrofit per la nuova sede della GAMeC, a Bergamo, C+S ARCHITECTS è stato nominato Architetto italiano 2022 per il complesso residenziale R11 Towers, realizzato a Cascina Merlata, Milano (2019-2021). Nella motivazione, la giuria presieduta dall’architetto portoghese Goncalo Byrne ha sottolineato “l’efficienza del progetto che associa l’alta densità richiesta con la qualità del progetto stesso. Si evidenzia che i progettisti hanno una storia consolidata di solidità, nel solco della tradizione italiana. Lavorano all’innovazione passando dalla storia con una varietà di temi affrontati, dallo spazio pubblico al paesaggio”. Il riconoscimento è stato assegnato durante l’annuale Festa dell’Architetto, che si è svolta il 16 dicembre 2022 a Roma ed è stata dedicata alla cura dei territori. In quell’occasione, oltre al titolo di Architetto Onorario di cui è stato insignito il Cardinale Zuppi, Presidente CEI, è stato conferito il premio Giovane Talento dell’Architettura italiana 2022. A vincerlo, per il progetto torinese Brands distribution (2021), è stato lo studio BALANCE Architettura - Alberto Lessan e Jacopo Bracco il cui approccio per i giurati “denota capacità di affrontare tematiche sistemiche e modulari che riescono a creare diversità spaziali con l’uso di tecnologia leggera e la capacità di lavorare con pochi elementi puntuali e di creare interessanti e diversificati spazi”.

Il primo murale sul Corviale di Roma è della street artist olandese JDL

VALENTINA MUZI L Faraonica: così potremmo definire l’opera che la nota street artist JDL – alter ego dell’artista olandese Judith de Leeuw – ha realizzato sul famoso edificio del Corviale di Roma, situato nella periferia sud-ovest della Capitale. L’artista, da sempre impegnata nella diffusione di temi sociali ed ecologici in Italia, ha occupato l’intera parete nord-est dell’immobile con una donna ricoperta di olio, simile agli uccelli intrappolati nelle dense pozze di petrolio che inquinano i nostri mari. Il soggetto trae ispirazione dal leggendario mito di Icaro che si fa metafora di una società intenta a percorrere un cammino poco attento alle precarie sorti del clima e dell’ambiente, conducendola all’autodistruzione (proprio come il protagonista del racconto mitologico). L’opera è stata realizzata all’interno del progetto Street Art for Rights, ideato e diretto da Giuseppe Casa e curato da Oriana Rizzuto per MArtGallery che sul territorio laziale conta oltre 30 murales nei quartieri di Corviale e Settecamini, e di due musei a cielo aperto tra Cassino, Fiumicino e Latina. Tra un paio d’anni l’opera di JDL andrà distrutta poiché l’immobile rientrerà nelle attività di ristrutturazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. A tal proposito, si è deciso di trasformarla in NFT, rendendolo fruibile nella digitale della blockchain.

NEWS C+S
C+S ARCHITECTSCarlo Cappai e Maria Alessandra Segantini Photo © C+S ARCHITECTS Peter Gabriel photo © Nadav Kander JDL a roma
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Photo © Emidio Vallorani

ENIGMA ARTE PUBBLICA

È impressionante l’elenco dei contributor a questo libro già fondamentale. Qui trovate il brano di apertura del saggio di Cecilia Guida

Ci sono concetti che necessitano di essere ripensati e ricostruiti in quanto i loro perimetri porosi e in continua espansione li rendono inadeguati a contenere e a esprimere le possibilità di senso che offrono. L’arte pubblica è uno di questi: termine ombrello che comprende una varietà di forme estetiche e sperimentazioni non convenzionali e interdisciplinari negli spazi pubblici, e, allo stesso tempo, sorgente di messaggi identitari o sociali e di valori culturali rivolti o appartenenti a chi vive o attraversa quei luoghi. Quando parliamo di arte pubblica ci riferiamo a tutti quegli interventi oggettuali, immateriali e performativi che reimmaginano esteticamente uno spazio pubblico specifico, mettono al centro le comunità che lo abitano e sono in grado di innescare relazioni e connessioni tra istituzioni, sia pubbliche sia private, la storia, le memorie individuali e il tessuto sociale del luogo. Le domande più interessanti, poiché riprendono le questioni centrali del quarantennale dibattito critico sull’arte nello spazio pubblico, possono essere poste in diversi modi interconnessi: in primo luogo, quale arte ci aspettiamo nello spazio pubblico? Che cosa si intende per spazio pubblico contemporaneo? Come gli artisti indicano, traducono o rappresentano i bisogni di una comunità e i temi di attualità nella nostra società a un pubblico vasto che non conosce o segue l’arte contemporanea? In secondo luogo, come un’opera di arte pubblica, nelle sue diverse forme espressive, coesiste e partecipa alla vita quotidiana di un luogo? E in che modo l’artista entra in dialogo con le persone che lo abitano? Quando un intervento di arte pubblica è riuscito e invece quando è un fallimento? Come riformula, su scala micro e con pratiche non “usuali”, i processi propri della democrazia? Per evitare generalizzazioni, qualsiasi riflessione su un progetto di arte pubblica e sul suo ruolo sociale richiede un’analisi del contesto e delle circostanze nelle quali l’intervento ha luogo, delle committenze, affiliazioni e coinvolgimenti istituzionali, del lavoro di mediazione compiuto dai curatori, delle relazioni discorsive stabilite con pubblici più ampi e delle loro reazioni, delle pratiche condivise e delle esperienze partecipative spontanee o proposte dall’artista alle comunità locali, considerando comunque le intenzioni e le difficoltà insite nell’operazione artistica e i suoi aspetti antinomici e contraddittori. Parafrasando il sociologo della cultura e militante di sinistra Raymond Williams, il quale sosteneva che quando si usa un dato concetto i suoi significati sono “indissolubilmente legati al problema di cui si sta discutendo”, possiamo affermare che le sfumature dell’espressione arte pubblica non possono che essere “situate” nei flussi delle trasformazioni storiche, sociali, politiche ed economiche di un determinato spazio pubblico e riguardare le modalità di sconfinamento tra l’estetico, l’artistico e il quotidiano.

CECILIA GUIDA

Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica a cura di Cecilia Guida e Roberto Pinto Pagg. 352, € 29 Postmedia Books | postmediabooks.it

IL BIOPIC SU PAUL KLEE

In Proposte per una critica d’arte, nel 1950 Roberto Longhi metteva in guardia dalla retorica del capolavoro assoluto, astratto ed estratto dal mondo, e dalla complementare concezione dell’artista “divinissimo”; al contrario, lo storico albese sottolineava l’apertura e la relazionalità intrinseca dell’opera e del suo produttore, pur senza propendere per un determinismo che farebbe discendere meccanicamente l’espressione artistica dall’“ambiente”. Quanto tuttavia la predetta retorica ancora stenti a sgretolarsi lo dimostra, a livello popolare e divulgativo e talora anche accademico, il persistere del binomio genio-e-sregolatezza che porta ad accostare goffamente artisti, bambini e “pazzi”. Uno dei meriti del libro dedicato a Paul Klee da Gregorio Botta, artista egli stesso, è proprio questo: accostare il pur criticabile concetto di genio a quello di regolatezza, senza la S privativa. Perché, secondo l’autore, la caratteristica precipua dell’artista bernese era esattamente questa: una rigorosità quasi maniacale (lo dimostra il catalogo delle proprie opere che stila sin dagli esordi) unita a una espressività ricchissima in sfumature e declinazioni (all’interno del campo delle arti visive, ma anche della musica e della scrittura).

Gregorio Botta – Paul Klee. Genio e regolatezza Pagg. 200, € 18 Laterza laterza.it

Archeologo di lungo corso e di chiara fama, Ernst Buschor fu anche un acuto filologo classico e traduttore dal greco antico al tedesco. Di traduzioni in italiano dei suoi testi, invece, quasi non ve ne sono. Fa eccezione questa monografia illustrata del 1948 dedicata all’architetto e scultore Fidia, attivo ad Atene nel V secolo a.C. e figura aurorale di quella che chiamiamo “arte”. La versione italiana è merito di Christian Marinotti, che a gennaio ha celebrato i 25 anni della sua casa editrice.

Ernst Buschor Fidia l’uomo Pagg. 172, € 22 Christian Marinotti marinotti.com

“Possiamo dirci ancora viaggiatori?”, si chiede Rodolphe Christin, sociologo che da tempo si occupa di turismo di massa e che oggi ha ampliato le sue ricerche alla critica del lavoro e alla managerialità. In italiano, grazie a Elèuthera, avevamo già letto L’usure du monde (2014), ora Bordeaux propone il Manuale dell’antiturismo, pubblicato originariamente nel 2017. I due volumi sono da leggersi come le prime due tessere di una trilogia che si chiude con La vraie vie est ici. Voyager encore? (2020).

Rodolphe Christin

Manuale dell’antiturismo Pagg. 160, € 18 Bordeaux bordeauxedizioni.it

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PATAFISICHE VISIONI

Se accettiamo l’ipotesi che Dante stia all’Italia come Rabelais alla Francia, possiamo spiegare una nutrita serie di fenomeni. La divina poesia del toscano, applicata a una visione teologale, si confronta infatti con il comico romanzesco che giunge agli abissi o alle vette – dipende dal punto di vista – dello scollacciato. Alla ingegneristica dell’opera dantesca, poi, si potrebbe opporre la patafisica di Rabelais. Di differenza in differenza, si disegnano letterature, e popoli, assai diversi – sempre che, ripetiamo, si accetti l’ipotesi e un inaudito determinismo. Ma veniamo al libro pubblicato dalle edizioni WoM, che abbiamo già avuto modo di elogiare per un’edizione delle Cento vedute del Monte Fuji di Hokusai e la traduzione di Guerra alla guerra! di Ernst Friedrich. Dunque, cosa sono queste “buffe chimere”? È “il libro dei sogni di Pantagruel”, figlio del gigante Gargantua, nonché protagonista di quattro dei cinque celeberrimi romanzi scritti nel Cinquecento da François Rabelais. Ma davvero quest’ultimo avrebbe anche disegnato le “centoventi figure” di quest’appendice illustrata? Della domanda ci si dimentica al secondo, massimo terzo disegno, accompagnato ognuno dalla sua bella citazione tratta dai romanzi suddetti.

Buffe chimere. Il libro dei sogni di Pantagruel Pagg. 257, € 25 WoM womedizioni.it

L'INTELLIGENZA NON È SOLTANTO UMANA

Sono le interrelazioni fra tecnologia e mondo a dare forma a quello scenario che, in Modi di essere. Animali, piante e computer: al di là dell’intelligenza umana, James Bridle definisce “ecologia della tecnologia”. Dall’intreccio dei significati, degli usi e delle materialità prodotte dalla deriva tecnologica si determina una tendenza devastante che ci separa come specie ed esseri dal mondo naturale. Lo studioso inglese disegna un “mondo più che umano” che cerca di superare questa inclinazione antropocentrica e totalitaria così marcata da imperversare anche nel pensiero ecologico. Sempre più spesso nelle idee ambientaliste si tende a circoscrivere con un’attitudine di superiorità una scissione implicita tra noi e la natura. “Etichette convenzionali come ambiente, e persino natura (specialmente se contrapposta a cultura), aggravano l’idea errata secondo cui nel mondo esista un netto divario tra noi e loro, tra umani e non umani, tra la nostra vita e il brulicante e multiforme vivere ed essere del pianeta”, afferma Bridle.

A leggere il titolo, si potrebbe pensare a un table book dedicato alle bellezze della città che fu capitale del Ducato Estense; un libro dove i testi, magari anche rigorosi, cedono il passo al formato e alla prevalenza delle immagini. E invece questo tomo è uno studio approfondito, benché non privo di apparato iconografico, su “architettura e città nella prima età moderna”. L’autore è uno storico dell’architettura che alla Ferrara del Quattrocento ha dedicato vent’anni di studi. E si vede.

Marco Folin

Ferrara estense

Pagg. 440, € 35

Oligo oligoeditore.it

Come ogni ricognizione critica, anche questa di Roberta Vanali, dedicata alla scena contemporanea delle arti visive in Sardegna, è frutto di una selezione ragionata, con l’inevitabile corollario di inclusioni ed esclusioni. Suddivisa in tre parti – rispettivamente dedicate agli Artisti, agli Operatori culturali e spazi espositivi e infine ai Collezionisti –, si tratta di una panoramica ampia e diversificata, arricchita dalle voci dei protagonisti, pazientemente intervistati uno a uno dall’autrice.

Roberta Vanali

XXI Arti visive in Sardegna nel terzo millennio Pagg. 274, € 27

La Zattera lazatteraedizioni.it

Per chiarire la tensione necessaria verso nuovi modi di essere e stare al mondo l’autore riprende le visioni della biologa femminista Lynn Margulis, la quale ha declinato un superamento dell’evoluzionismo darwiniano, dimostrando che la vita sul pianeta è frutto di un’interdipendenza complessa di materia ed energia tra milioni di specie. Collaborazioni simbiotiche consapevoli e inconsapevoli in cui la specie Sapiens è una tra milioni di elementi, specie, batteri, virus, funghi, byte che restituiscono una visione della vita circolare e non piramidale. L’obiettivo dell’autore è “favorire una nuova visione: guardare oltre l’orizzonte del nostro io e delle nostre creazioni per scorgere un altro tipo, o molti tipi diversi, di intelligenza, che sono qui, sotto il nostro naso, fin dall’inizio, e che in molti casi ci hanno preceduti”. Occorre resettare la nostra idea di intelligenza e di conseguenza di mondo provando a costruire intelligenze artificiali più simili a polpi, funghi e foreste, instaurando nuove alleanze con le intelligenze non umane. Alla base di questo patto collaborativo c’è una Umwelt, un ambiente in divenire in cui ogni organismo crea la propria realtà ambientale, rimodellandola senza sosta nel suo incontro con il mondo. “In questo modo, il concetto di Umwelt afferma sia l’individualità di ogni organismo sia l’inseparabilità della sua mente dal mondo. Ogni cosa è unica e coinvolta. Naturalmente, in un mondo più che umano, non sono solo gli organismi ad avere una Umwelt, ma anche tutto il resto. Questo concetto ha ormai dimostrato la sua utilità tanto nella robotica quanto nella biologia”, chiarisce l’autore.

Un esempio di intelligenza ambientale estremamente evoluta e diversa da quella umana viene dai cefalopodi, i quali insegnano che l’intelligenza è attiva, interpersonale e generativa, ma soprattutto relazionale: si fa con tutto il corpo con e tra gli altri. “Pertanto, non è qualcosa da testare, ma qualcosa da riconoscere, in tutte le molteplici forme che assume”. L’invito è ad aprirsi alle differenze per entrare in un’epoca di coesistenza collaborativa tra modi di essere e stare al mondo: macchine, batteri, piante, virus, animali e anche noi, per un mondo più che umano.

MARCO

James Bridle – Modi di essere Rizzoli, Milano 2022 Pagg. 432, € 24 rizzolilibri.it

PETRONI

LIBRI a cura di MARCO ENRICO
GIACOMELLI
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GESTIONALIA

WELFARE CULTURALE VERSUS GASLIGHTING

Chissà se in piena crisi energetica i detentori della lingua nelle sue forme ed espressioni ne saranno stati condizionati, tanto da decretare tra le parole dell’anno (si veda Forbes Health, dicembre 2022) il termine “gaslighting”. Il surrealismo alla Twilight, con le sue saghe costellate di vampiri e lupi, è roba superata, tanto da vedersi mettere in ombra, a quasi settant’anni di distanza, da un classico del teatro divenuto famoso al cinema con una magistrale interpretazione di Ingrid Bergman (le valse l’Oscar ancora giovanissima). Sto parlando di Gaslight (1944, versione italiana: Angoscia). Il protagonista maschile persuade la moglie in merito a fatti che stanno accadendo, convincendola che non sono reali, incluso l’abbassamento delle luci a gas della casa (da cui il titolo Gaslight), con la conseguenza di indurla a credere di stare impazzendo.

porti OMS, il rapporto virtuoso sotteso e questa relazione gestita in chiave strategica diventa lo strumento per rileggere le politiche e le azioni nei territori: “La cultura è strettamente connessa allo sviluppo individuale e collettivo; è in gioco la coesione sociale e la salute biopsicosociale delle comunità”.

I mistificatori di realtà sono una categoria popolata quanto i commentatori sportivi durante i Mondiali di calcio.

Circondati da troll, fake news e realtà “altre” (non solo aumentate), immersi come siamo in dimensioni sovrapposte e intrecciate a tal punto da confondere realtà, immaginazione, verità, essere vittime del gaslighting o quanto meno inclini a subire una distorsione del reale e dal reale, sono condizioni in cui ciascuno si trova o può trovarsi.

E così, a distanza questa volta di secoli, quando il dubbio era considerato salutare (nella tradizione filosofica da Platone, Agostino a Cartesio, attraversando quello amletico e nutrendosi dello scetticismo di numerose discipline, in primis scientifiche), oggi ci troviamo ostaggi della più subdola delle forme di manipolazione.

Le istituzioni e le imprese culturali, nelle loro multiformi vocazioni e con una pluralità di linguaggi espressivi, devono riportare al centro della discussione il ruolo che più nel tempo presente loro appartiene. Essere: vettori di verità (probabilmente non assolute, ma affidabili), protagoniste di un pensiero critico (per l’insita natura di provocazione e dilemma dei linguaggi culturali), agenti per un cambiamento consapevole (mai privo di consenso attivo), influencer (grazie a narrazioni di contenuti e di storia), prosumer abilitanti nuove visioni (il soggetto che si relaziona non è solo consumatore culturale, quanto anche produttore, che interagisce sul contenuto).

Credere convintamente nel soft power del welfare culturale significa assumere l’arte e la cultura, nelle loro multiformi espressioni, quali risorse di salute e risorse per la cura di singoli e comunità, come recita il manifesto di CCW, di cui sono founder (culturalwelfare. center). È dimostrato, come attestano i Rap-

Le istituzioni culturali e creative devono comprendere che alle navigate (a volte anche abusate) istanze di salvaguardia, promozione e valorizzazione, in un mutato e mutante presente, devono essere aggiunte e considerate domande inedite quali quelle di welfare e di sostenibilità. Le organizzazioni culturali possono spendere una stabilità unica in mezzo a fenomeni pericolosi di perdita della capacità di filtro e discernimento (tutto è verità); di confusione, tra tecnicalità e comprensione di concetti astratti (per cui ogni valutazione è spostata sulle prime piuttosto che sulla seconda); di lavoro non più incasellabile (remote/smart/flex/ flow). Nel solco di questa profonda mutazione, i mistificatori di realtà sono una categoria popolata quanto i commentatori sportivi durante i Mondiali, quando si dice tutto e il contrario di tutto. Un augurio da formulare alle imprese culturali è proprio quello di distinguersi dal coro, ma non certo per una forma anacronistica di presa di distanza, quanto come soggetto "capace" di esprimere una nuova leadership. Una leadership che sarà ancora fondata sulle radici e sulla storia senza però che ne siano le esclusive basi, integrandola con pratiche di inclusione e azioni di sostenibilità. Nutrire visioni di futuro che accolgano, non solo negli intenti, ma anche negli strumenti di governance e gestione, questa prospettiva significa dare un’occasione alla cultura per rispondere alle esigenze primarie di tutela, promozione e valorizzazione. Significa anche riuscire a garantirne la dimensione più contemporanea che è data dalla produzione culturale (non mi preoccupo solo di conservare il passato, qualunque sia) e a costruire la dimensione di prospettiva, che è generata da un processo di advocacy per la cultura. Ciascuna organizzazione avrà il suo processo da impostare, mentre tutte potranno beneficiare del processo di advocacy delle altre.

IRENE SANESI

NECROLOGY

GINO LANDI

2 agosto 1933 – 17 gennaio 2023

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GINA LOLLOBRIGIDA

4 luglio 1927 – 16 gennaio 2023 L

GIANFRANCO BARUCHELLO

29 agosto 1924 – 14 gennaio 2023 L

VITTORIO GARATTI

6 aprile 1927 – 12 gennaio 2023 L

GEORGE ZIMBEL

15 luglio 1929 – 9 gennaio 2023 L

JOSEPH RATZINGER

16 aprile 1927 – 31 dicembre 2022

L

VIVIENNE WESTWOOD

8 aprile 1941 – 29 dicembre 2022 L PELÉ

23 ottobre 1940 – 29 dicembre 2022 L

ARATA ISOZAKI 23 luglio 1931 – 28 dicembre 2022 L

DOROTHY IANNONE

9 agosto 1933 – 26 dicembre 2022 L MAXI JAZZ

14 giugno 1957 – 23 dicembre 2022 L

LANDO BUZZANCA 24 agosto 1935 – 18 dicembre 2022 L GOSAKU OTA 16 marzo 1948 – 12 dicembre 2022 L

ANGELO BADALAMENTI 22 marzo 1937 – 11 dicembre 2022 L

LAURA CIONCI 19 maggio 1980 – 1° dicembre 2022 L

ASHLEY BICKERTON 26 maggio 1959 – 30 novembre 2022 L

PIERLUIGI CERRI 22 marzo 1939 – 29 novembre 2022 L ELENA XAUSA

11 luglio 1984 – 27 novembre 2022 L

RENATO BALESTRA 3 maggio 1924 – 26 novembre 2022 L

JEAN-MARIE STRAUB 8 gennaio 1933 – 20 novembre 2022 L

LUCIANO CARAMEL 13 dicembre 1935 – 26 novembre 2022 L

FERNANDO CAMPANA

19 maggio 1961 – 16 novembre 2022 L

PIO MONTI

11 agosto 1941 – 11 novembre 2022 L

BRIAN O’DOHERTY

4 maggio 1928 – 7 novembre 2022 L MIKE DAVIS

10 marzo 1946 – 25 ottobre 2022 L

PIERRE SOULAGES 24 dicembre 1919 – 26 ottobre 2022 L

MARCO VALLORA 1° gennaio 1953 – 26 ottobre 2022

I FESTIVAL CULTURALI DEL 2023 IN ITALIA

FESTIVAL INTERNAZIONALE

DI FOTOGRAFIA TORINO

Un grande evento annuale sul linguaggio fotografico. Organizzato da Fondazione per la cultura di Torino, la prima edizione sarà nel 2024, con una finestra di lancio già nella primavera di quest’anno, in spazi urbani ed extra urbani diffusi, al chiuso e open air. Tra mostre, incontri, attività didattiche e produzioni ad hoc. fondazioneperlaculturatorino.it

ORBE TERRACQUEO FILM FESTIVAL BERGAMO

Un nuovo appuntamento sui problemi climatici. Organizzato da Associazione Climarte, vuole dare un forte segnale sull’ambiente tramite il cinema. In programma dal 18 al 22 aprile, oltre alle proiezioni di film nazionali e internazionali a tematica ambientale, sono previsti incontri, performance, fotografie e ospiti.

ClimArtePerformance

FESTIVAL PIANISTICO INTERNAZIONALE

BRESCIA E BERGAMO

Storica manifestazione che unisce le due città sotto la musica classica, festeggia il suo 60esimo anniversario proprio nel loro anno di Capitale Italiana della Cultura. Tra aprile e giugno, avrà come tema la rinascita, attraverso un repertorio selezionato di oltre 30 compositori che si appresta a esplorare l’anti-avanguardia. festivalpianistico.it

L’ELETTRONICA DI ALGEBRA

DELLE LAMPADE PESARO

Nella Capitale Italiana della Cultura 2024 c’è un nuovo festival di musica elettronica. A cura del compositore e musicista Paolo Tarsi / Anitya Records, promette il 15 e 16 aprile tre concerti dai suoni ricercati: Fernando Abrantes (ex Kraftwerk), la violinista dei Tangerine Dream, Hoshiko Yamane, ed Eugene. Algebradellelampade

COLTIVATO IL FESTIVAL

DELL’AGRICOLTURA TORINO

Raccontare l’agricoltura in un grande evento scientifico-divulgativo a cadenza biennale. Nato da un’idea di Antonio Pascale, scrittore e ispettore presso Ministero Agricoltura, e di Maria Lodovica Gullino, fitopatologo e imprenditore, sarà un festival diffuso per la città dal 31 marzo al 2 aprile: tre giorni di conferenze, visite guidate, spettacoli e concerti.

Il Museo Nazionale Romano e il mega programma di restauro delle sedi. 100 milioni stanziati

LIVIA MONTAGNOLI L Tra i 14 “grandi attrattori culturali” scelti dal MiC per beneficiare di investimenti funzionali al rilancio della cultura e del turismo in Italia, c’è il Museo Nazionale Romano, che ha ottenuto una stanziamento di 71 milioni di euro. Per i prossimi quattro anni, ciascuna delle quattro sedi del polo capitolino (Terme di Diocleziano, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps e Crypta Balbi) sarà dunque oggetto di restauro e riallestimento, con parziali chiusure che saranno compensate da mostre temporanee, sempre volte a esibire reperti della collezione mai visti prima. Operazione ambiziosa resa possibile anche dalla disponibilità di finanziamenti pregressi, che permetteranno al cantiere di usufruire di 100 milioni di euro complessivi. Alla Terme di Diocleziano si procederà innanzitutto con il rifacimento dell’impiantistica, verifiche statiche e controlli antisismici, per poi ampliare la superficie espositiva, che ritroverà anche i piani superiori delle quattro ali del Chiostro di Michelangelo e quelle del chiostro piccolo della Certosa. Nel vicino Palazzo Massimo si provvederà a coprire il cortile interno, per farne un nuovo spazio espositivo permanente, che vedrà la rievocazione di un santuario di età imperiale, mentre Palazzo Altemps beneficerà del recupero della sala del Gioiello e di un percorso espositivo sempre più focalizzato sul collezionismo. L’intervento più ambizioso riguarderà la Crypta Balbi, chiusa al pubblico per tutto il 2023: l’intenzione è quella di ripristinare l’intera area comprendente il convento cinquecentesco voluto da Ignazio di Loyola e gli edifici circostanti.

Portrait Milano: il nuovo hotel della Lungarno Collection riapre l’ex Seminario Arcivescovile

LIVIA MONTAGNOLI L Nell’ambito della programmazione di BergamoBrescia 2023, la cantina Guido Berlucchi propone il format Casa dei Talenti Berlucchi, che nasce nell’alveo dell’esperienza Academia Berlucchi, promossa dalla famiglia Ziliani, con l’obiettivo di riflettere sulla cura del territorio e stimolare l’innovazione. La nuova Casa dei Talenti è affidata alla curatela di Caroline Corbetta, che guiderà il format nella direzione di progetti culturali di rigenerazione del territorio franciacortino, coinvolgendo artisti e personalità vocate alla creatività. La prima produzione chiama in causa Valerio Rocco Orlando, ideatore di Vite Operose, serie inedita di sculture al neon promossa in collaborazione con la GAMeC di Bergamo e la Fondazione Brescia Musei. Il progetto si svilupperà nel corso del 2023 attraverso laboratori organizzati dall’artista, che coinvolgeranno le comunità del territorio: questo processo partecipato produrrà le tre sculture luminose legate dal filo conduttore dell’operosità, che a partire da marzo 2023 saranno esposte in altrettanti luoghi emblematici. Per seguire in tempo reale, l’account Instagram @academia_ berlucchi.

LIVIA MONTAGNOLI L Non sembra destinato ad arrestarsi il fermento urbanistico che sta ripensando l’area di Corso Venezia, a Milano. In direzione Quadrilatero, si scopre il nuovo volto dell’ex Seminario Arcivescovile, monumentale complesso architettonico fondato nel 1565, legato alla figura di Carlo Borromeo. L’articolata operazione di restauro dell’edificio, che ora ospita il boutique hotel Portrait Milano, in forza alla catena Lungarno Collection di Ferragamo, non si limita a ripensare gli ambienti storici del complesso all’insegna dell’ospitalità, ma garantisce a tutti di tornare a fruire di uno spazio urbano interdetto da vent’anni, oltrepassando il maestoso portale barocco con cariatidi e il motto borromaico Humilitas. Il percorso urbano restituito a milanesi e turisti permette di transitare a piedi direttamente da Corso Venezia a Via Sant’Andrea, attraverso la nuova piazza cinquecentesca. L’ex Seminario si caratterizza infatti per un grande cortile a pianta quadrata (il chiostro degli Umiliati), circondato da un doppio loggiato a colonne binate e architravate: 2800 metri quadri ribattezzati piazza del Quadrilatero a seguito del progetto di rinnovamento conservativo affidato a Michele De Lucchi.

NEWS
Terme di Diocleziano, Chiostro di Michelangelo, Roma
Casa dei Talenti è il progetto di Berlucchi per BergamoBrescia 2023
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TURISTA DELL’ILLUSTRAZIONE

continua evoluzione.

Descriviti con tre aggettivi. Spontaneo, semplice, strampalato.

Qual è la tua formazione?

Ho fatto le superiori in un istituto tecnico pensando che il mio futuro fosse nell’elettronica. Per fortuna ho capito presto che ero fatto di altra pasta, per cui ho frequentato il corso di laurea triennale di illustrazione allo IED di Torino, dove mi sono laureato nel 2017. Nel 2021 ho frequentato il corso Mimaster di Milano.

A quali illustratori guardi?

A tantissimi, ultimamente soprattutto fumettisti. Forse quello che ha scatenato il vero amore per questa professione è Christoph Niemann. Un illustratore completo che, seriamente, si prende poco sul serio.

Definisci la tua ricerca.

La mia ricerca stilistica e narrativa nasce dalla mia ironia. A un certo punto della carriera ho capito che il mio punto di forza non erano il disegno, lo stile o le idee. Era la mia maniera di vedere le cose e di trovare una chiave diretta, semplice ed efficace per raccontare ciò che dovevo rappresentare. Lo stile viene di conseguenza, per rispondere al meglio al mio “tono di voce”. Infatti, sto diventando pian piano sempre più fumettistico e caratteriale.

E il processo creativo delle tue illustrazioni?

Lavoro con molta fretta – forse troppa. Quando ricevo un brief, mi siedo al tavolo, mi do tre ore di tempo e cerco di ricavare almeno cinque idee. Cerco di ragionare non sul “cosa devo disegnare” ma più sul “che battuta devo fare, cosa devo dire?”. Ogni tanto mi chiedo se sono un artista o un comico. Questo processo di lavoro forse non lo consiglio a nessuno. Ultimamente mi sta generando un’ansia da “spada di Damocle”, per cui sto cercando di adottare nuove tecniche per disegnare con più lentezza. Purtroppo il mercato ci vuole veloci, efficienti e superproduttivi, per cui è difficile uscire dalle vecchie abitudini.

La richiesta più singolare ricevuta. Non credo di aver ricevuto richieste singolari, non più

NEI NUMERI PRECEDENTI

#46 Filippo Vannoni #47 Andrea Casciu

#48 Monica Alletto #49 Giulia Masia #50 Elisabetta Bianchi #51 Sara Paglia

#52 Kiki Skipi #53 Sabeth

#54 Walter Larteri

#56 Shut Up Claudia #57 Viola Gesmundo #58 Daniela Spoto #59 Federica Emili #61 Maria Francesca Melis

#63 Mariuska

#64 Chiara Zarmati #65 Marjani #67 Vito Ansaldi #68 Matilde Chizzola #69 Susanna Gentili

di tanto. Proposte economiche singolari sì, purtroppo: è il pane quotidiano.

Cosa sogni di illustrare? Prima di andare in pensione, devo fare almeno una copertina del New Yorker. Poi posso appendere la matita al chiodo.

Cosa ti incuriosisce maggiormente della realtà che ti circonda?

Nella realtà lavorativa, la cosa che mi incuriosisce e che da più soddisfazione è conoscere colleghi e clienti. Mi sento perennemente un outsider, uno che fa questo mestiere ma è estraneo a quelli che lo fanno. Un turista dell’illustrazione, quasi. E perciò mi piace tantissimo conoscere le persone di questo campo. Mi sento come un viaggiatore che, chiedendo un’indicazione a un estraneo, viene poi invitato a cena e a restare. Mi rendo conto che questa risposta sia un po’ bislacca, però è come mi sento: sempre in viaggio.

I tuoi gusti in materia di musica e cinema.

Ultimamente sento tantissima musica folk americana, suono l’ukulele e sto un po’ studiando il banjo. Per il cinema, invece, tutte le serie tv animate americane (Simpson, South Park, BoJack Horseman) e tutti i film di Miyazaki.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Non so bene cosa mi aspetta per il futuro, la maggior parte dei miei lavori sono progetti che iniziano e finiscono al massimo in una settimana. Prevedo però che nel 2023 mi dedicherò a progetti un po’ alternativi rispetto a quello che ho fatto finora. Non mi piace vedermi solo come un “illustratore editoriale” ma come un professionista a tutto tondo, capace di lavorare e portare la sua visione sia su un fumetto che in un libro per bambini, sia in una pubblicità che in una animazione. Incrociamo le dita!

giovannigastaldi.it

GIOVANNI GASTALDI
Vive tra le montagne del cuneese, Giovanni Gastaldi. Illustratore e graphic designer nonché collaboratore di importanti brand, nonostante la sua giovane età. Possiede quell’abilità di tradurre argomenti di impegno sociale con leggerezza e grande ironia, attraverso un universo creativo e visionario la cui cifra stilistica è in
VANALI
LABORATORIO ILLUSTRATORI
per
Magazine 70 27
© Giovanni Castaldi
Artribune

SERIAL VIEWER

DERRY GIRLS: UN TEEN DRAMA ANNI NOVANTA

Dopo la sbornia Anni Ottanta che ha caratterizzato progetti come Stranger Things, per fare solo il nome più famoso, tra i primi revival in serie tv degli Anni Novanta c’è Derry Girls. I destinatari della nostalgia sono sempre gli stessi, la generazione dei 40enni, che negli Anni Ottanta erano bambini e che nei Novanta erano adolescenti, come le quattro ragazze di Derry, Erin, Orla, Clare e Michelle, e il cugino inglese di quest’ultima, James.

SCAVI E SCOPERTE ARCHEOLOGICHE IN ITALIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, TURCHIA, PERÙ

IL MOSAICO IN UNA VILLA ROMANA

A fare da sfondo a questo teen drama satirico disponibile su Netflix è la storia della città, Londonderry, e il “cessate il fuoco” che tra il 1991 e il 1994 mise fine, dopo i troubles e il Bloody Sunday negli Anni Settanta, alle ostilità tra IRA e Regno Unito in Irlanda del Nord. L’atmosfera di violenza, che pian piano va ad attenuarsi fino a un cambiamento epocale, insieme ai numerosi clash culturali tra cattolici e protestanti, influisce direttamente sulla vita delle protagoniste, tutte cattoliche e appartenenti alla lower class irlandese. Insieme a loro, partecipano alla quotidianità, tra esercito, posti di blocco e frizioni sociali, anche i genitori e la zia di Erin, i vicini del quartiere, le compagne di classe e l’irresistibile personaggio di Sorella Michael, direttrice dell’istituto scolastico. Con un grande successo di critica, Derry Girls è stata creata da Lisa McGee nel 2018 e ha avuto tre stagioni fino al 2022 con 6-7 episodi ciascuno. Gli ex ragazzi degli Anni Novanta non potranno fare a meno di battere i piedi a ritmo della colonna sonora che ricorda quel decennio in maniera quasi esaustiva. Non mancano ovviamente l’appassionata band irlandese Cranberries né molti altri successi dell’epoca. Spesso la musica entra dritta dentro la trama della sit-com, con un episodio interamente dedicato alla passione delle teenager di allora per i Take That e un altro invece che vede al centro dell’insieme di accadimenti ed equivoci Fatboy Slim, con i suoi più grandi successi dell’epoca, da The Rockafeller Skank a Praise You.

SANTA NASTRO

UK – Irlanda, 2018-2022

GENERE: teen drama

CAST: Saoirse-Monica Jackson, Louisa Harland, Nicola Coughlan, Jamie-Lee O’Donnell, Dylan Llewellyn

STAGIONI: 3

EPISODI: 19 (22’ ognuno)

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DI POSILLIPO A NAPOLI

A Napoli, al Parco Archeologico del Pausilypon, all’interno della villa appartenuta a Publio Vedio Pollione, è stato ritrovato un pavimento a mosaico rimasto nascosto per 2000 anni sotto le terme. Il mosaico faceva parte della villa di Pollione che, dopo la morte del proprietario, venne ritrasformata da Augusto che l’aveva ereditata. Lo scavo è stato condotto dall’Università L’Orientale di Napoli.

LA NECROPOLI ETRUSCA A VETULONIA

A Vetulonia, frazione di Castiglione della Pescaia (GR), è stata scoperta una necropoli di cui si ignorava l’esistenza: non risulta infatti censita nella Carta archeologica di Vetulonia redatta nel 1931 dall’archeologo Dori Levi. La necropoli è emersa nella località di Poggio Valli e rappresenta un esempio di architettura sepolcrale etrusca di età orientalizzante e arcaica (VII-VI sec. a.C.).

IL

SITO GALLO-ROMANO IN FRANCIA

Nel comune di Néris-les-Bains, nell’Alvernia, sono riemersi resti di edifici gallo-romani, tra cui un monumento funerario risalente al I-II secolo d.C. La scoperta è stata fatta dall’Istituto nazionale di ricerca archeologica preventiva (Inrap), che ha trovato edifici costruiti con tegole legate con malta di calce, e una fossa con ventuno blocchi di arenaria scolpiti. E poi un frammento di fregio, che raffigura un tritone con tentacoli che terminano in foglie di palma.

LA SEPOLTURA PALOCRISTIANA NEL REGNO UNITO È stata scoperta a Harpole nel Northamptonshire una sepoltura di donna anglosassone del VII secolo d.C., la “sepoltura femminile altomedievale più significativa mai scoperta in Gran Bretagna”, come ha dichiarato al Guardian Levente Bence Balázs, capo dello scavo. Protagonista della sepoltura è una donna, sicuramente un personaggio influente, come si evince dalla collana di trenta pezzi in oro con granati e pietre semipreziose ritrovata accanto al suo letto.

LA STATUA DI POLITICO ROMANO IN TURCHIA

Ad Aizanoi è riemersa una statua romana di 2000 anni fa dal letto del torrente Penkalas, quasi intatta, se non fosse per la mancanza di “metà piedistallo e di un piede”, come sottolinea il coordinatore dello scavo Gökhan Coşkun dell’Università Kütahya Dumlupınar. La scoperta nella sua tipologia sottolinea l’importanza politica ed economica di Aizanoi durante la dominazione dei Romani, a partire dal 133 a.C.

I

GEOGLIFI IN PERÙ

I ricercatori dalla giapponese Yagamata University hanno scoperto, sull’altopiano desertico della Nazca, 168 geoglifi, disegni effettuati sul terreno attraverso l’apposizione o la rimozione di rocce. I geoglifi – risalenti a un arco temporale che va dal 100 a.C. al 300 d.C. e avvistati attraverso foto aree – rappresentano figure umane e animali.

di proprietà della Fondazione di Piacenza e Vigevano, è nato nel 2020 il centro per la documentazione del contemporaneo XNL, che indaga la creatività in tutte le sue forme. Lo spazio ospita di frequente mostre temporanee e dallo scorso autunno promuove la rassegna annuale diffusa XNL Aperto

via santa franca 36 xnlpiacenza.it

MUSEO DELLA POESIA

Non pecca certo di originalità il piccolo museo avviato nel 2014 negli ambienti della chiesa sconsacrata di San Cristoforo, che rappresenta il primo progetto museale dedicato alla poesia in Europa. La visita permette di ripercorrere la storia e l’evoluzione della poesia, con particolare attenzione alla produzione italiana del Novecento. Spesso si organizzano mostre.

via genocchi 17 museopoesia.it

nell’arte italiana tra il 1830 e il 1930 quello offerto dalla Galleria Ricci Oddi, che ha recentemente visto la nomina a presidente del giovane divulgatore d’arte Jacopo Veneziani. Ospitato nell’edificio inaugurato proprio nel 1930 su progetto di Giulio Ulisse Arata, il museo ha beneficiato nel 2019 del ritrovamento del Ritratto di signora di Klimt, trafugato vent’anni prima.

via san siro 13 riccioddi.it

BITTER

Cucina, bar ed enoteca mixati in uno spazio votato ai prodotti semplici in abbinamento a una competente carta dei vini. L’ambiente è informale, i piatti che arrivano in tavola sono sinceri e valorizzano le materie prime del territorio, dai grandi salumi locali alle ricette popolari come pisarei e fasò. Aperto fino a tardi.

via camicia 19 bitterpiacenza.it

lo Spazio Luzzati na sce dal recupero di una parte dell’ex stabilimento tipografico del quotidiano Libertà, la cui riqualificazione è stata pensata da Teatro Gioco Vita diretto da Diego Maj. Si tratta di un luogo che sa raccontare il mondo del teatro in maniera interattiva, avvalendosi delle creazioni donate dallo scenografo e costumista Lele Luzzati.

via san siro 9 teatrogiocovita.it

VOLUMNIA | IO

Enrica De Micheli ha restituito alla città la chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, oggi galleria raffinata dedicata al design italiano, spazio espositivo, di vendita e ricerca celato dietro alla facciata settecentesca in stile neoclassico. All’inizio dell’estate 2022, nell’ex falegnameria del complesso è arrivato anche lo chef Luigi Taglienti, con il suo ristorante IO.

stradone farnese 33 volumnia.space | ioristorante.it

creatività negli spazi della storica cartoleria Sgorbati, che da meno di un anno è rinata come spazio culturale per iniziativa di cinque ragazze in arrivo da diversi Paesi del mondo. Respiro cosmopolita, tra proiezioni, workshop, festival, brunch letterari, musica, arte. Il 26 gennaio, ad esempio, inizia la rassegna Forbidden Films, che proseguirà fino a maggio.

via giordani 4 rat.haus

CHIERE

È necessario uscire dal centro città (ma siamo a poco più di un chilometro dalle principali attrazioni culturali) per raggiungere il laboratorio di panificazione di Stefano Chieregato, che ha immaginato il suo locale come uno spazio dove stare bene, tra pane, pizze farcite e tonde e sfizi golosi che mettono al centro l’arte bianca.

via g.a. da pordenone 1a chierepiacenza.it

Via IV Novembre ViaS.Siro ViaRoma Stradone Farnese Via Pietro Giordani Strada Farnesiana
Via Dietedi Roncaglia ViaRoma ViaGregorioX
ViaNova ViaVenturini Viale Malta Via Taverna Giuseppe
ViaSanGiovanni CorsoV.EmanueleII ViaXXIVMaggio
CicloviadelTrebbiaViaGiovanniCampesio VialePatrioti Viale Sant’Ambrogio
Via Dante Alighieri Via Manfredi Via Rogerio ViaPietroCella Piazzale Genova
70 29
Piazzale
Torino Piazza dei Cavalli Piazza
Duomo
7 4 5 8 6 3 2 1

Bologna

3—5
AN EVENT BY
Main Section. Percorso. Pittura XXI. Fotografia e Immagini in movimento. Multipli.
Febbraio 2023

Andy Warhol, Shot Sage Blue Marilyn, 1964 $195,040,000*

Christie’s, The Collection of Thomas and Doris Ammann, New York, 9 maggio 2022

Georges Seurat, Les Poseuses, Ensemble (Petite version), 1888 $149,240,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Paul Cézanne, La Montagne Sainte-Victoire, 1888-90 $137,790,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Vincent van Gogh, Verger avec cyprès, 1888 $117,180,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Paul Gauguin, Maternité II, 1899 $105,730,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Gustav Klimt, Birch Forest, 1903 $104,585,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Lucian Freud, Large Interior, W11 (after Watteau), 1981-83 $86,265,000*

Christie’s, Visionary: The Paul G. Allen Collection, New York, 9 novembre 2022

Andy Warhol,

White Disaster [White Car Crash 19 Times], 1963 $85,350,500

Sotheby’s, Contemporary Evening Auction, New York, 16 novembre 2022

Jean-Michel Basquiat, Untitled, 1982 $85,000,000

Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 18 maggio 2022

René Magritte, L’empire des lumières, 1961 $79,243,069*

Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction, Londra, 2 marzo 2022

*Record d’asta per l’artista

AGENZIA

DEL DEMANIO LANCIA BANDI PER RIATTIVARE 16 IMMOBILI STATALI DISMESSI VALENTINA SILVESTRINI

Case cantoniere, strutture militari, ville, un convento, un teatro, un faro: sono sedici i beni immobili dello stato non più in uso scelti per i nuovi bandi di valorizzazione dell’Agenzia del Demanio

ex Panificio militare Casale Monferrato (AL)

ex Casa del Fascio Vinzaglio (NO)

Torre di Calafuria Livorno

Villa Carducci Pandolfini Firenze

ex Poligono di tiro a segno Piazza Brembana (BG)

porzione di un ex deposito militare Pizzighettone (CR)

Caserma De Amicis Sulmona (AQ)

ex Casa cantoniera Irsina (MT)

ex Teatro sociale Amelia (TR)

Faro di Capo Comino Siniscola (NU)

ex Istituto di Geofisica Mineraria Real Casa dei Matti Palermo

ex Convento di San Vito Agrigento

ex case popolari Limbadi (VV)

ex Casa cantoniera ‘Il Colle’ Terracina (LT)

Casello ferroviario Montescaglioso (MT)

14 beni in concessione/locazione di valorizzazione

2 beni in concessione/locazione in Uso Gratuito

NEWS TOP 10 LOTS 2022 EDITION
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 CRISTINA MASTURZO
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LOST IN PROJECTON

IL SOLE CALA AD ACAPULCO

Neil Bennett, la sorella Alice e i figli di lei, Colin e Alexa, sono in vacanza in uno splendido resort di Acapulco. I Bennett sono gli eredi di una potente multinazionale dell’industria alimentare e possono godere di lussi e privilegi riservati a pochi. Nel bel mezzo della spensierata vacanza, un’emergenza li richiama nel Regno Unito, interrompendo la loro oziosa permanenza sulla costa messicana e distruggendo per sempre il delicato equilibrio dei complessi rapporti famigliari.

Dopo New Order, vincitore del Leone d’argento a Venezia nel 2020, Michel Franco continua la sua analisi attenta e spietata delle dinamiche sociali e dell’alienazione individuale nella società contemporanea. Al centro della pellicola troviamo Neil (un magnifico Tim Roth): un uomo di mezz’età in fuga da se stesso e dalle proprie responsabilità, un protagonista evanescente, ambiguo, apatico e indifferente, apparentemente antieroico sotto ogni aspetto. Intorno a Neil si muovono, in una Acapulco chiassosa, violenta e desolata, la sorella Alice (Charlotte Gainsbourg), attiva, responsabile, fin troppo propositiva, e i figli Colin e Alexa, giovani e già eccentrici ereditieri di un immenso patrimonio. Infine c’è Berenice (Iazua Larios), metafora di fuga e futuro, scialuppa di salvataggio diretta verso un orizzonte lontano e differente, che richiede però, come accade in ogni relazione, comunicazione e impegno.

Sundown è un’opera profonda e potente, caratterizzata da un’architettura narrativa che mette in scacco lo spettatore a ogni svolta, impedendogli di raggiungere una reale consapevolezza di ciò che sta osservando e che sta, indirettamente ma immancabilmente, giudicando. Il regista messicano ci mette alla prova, lasciandoci nell’amara incertezza di non comprendere mai fino in fondo le motivazioni altrui e l’apparente irragionevolezza delle loro azioni. Segreti, desideri e sensazioni sono i reali protagonisti di Sundown, quelli di Neil, ma soprattutto i nostri.

GIULIA PEZZOLI

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JR

ALLE GALLERIE D’ITALIA TORINO

Dopo il grande intervento per la facciata di Palazzo Strozzi a Firenze, un altro museo italiano ospita un lavoro dell’artista francese. Dal 9 febbraio al 16 luglio street art, fotografia e video occuperanno circa 4mila mq dello spazio torinese appena riconvertito a struttura museale dall’architetto Michele De Lucchi. https://gallerieditalia.com/it/torino/

MARIO SCHIFANO ALLE GALLERIE D’ITALIA NAPOLI

Sono in programma alcune manifestazioni internazionali dedicate a questo artista ormai considerato un classico nel panorama della pittura europea, e non solo. Così, una selezione di opere dal 1960 al 1990 saranno allestite nella sede di Napoli del museo di Intesa Sanpaolo. In primavera in una mostra antologica. https://gallerieditalia.com/it/napoli/

FELICE CASORATI ALLA FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA PARMA

A 140 anni dalla nascita e a 60 anni dalla morte, un’antologica rende omaggio a Felice Casorati ripercorrendone tutta la storia pittorica. Dagli esordi alla maturità, oltre 60 opere – molti i capolavori assoluti – provenienti da istituzioni pubbliche e collezioni private saranno in mostra dal 18 marzo al 2 luglio. http://www.magnanirocca.it/

LE MOSTRE DEL CENTENARIO TRIENNALE MILANO

Il 2023 è anche l’anno del Centenario della prima edizione della Biennale delle arti decorative che ha dato vita a Triennale Milano. Tre grandi esposizioni segneranno questo anniversario: il Museo del Design Italiano (dal 15 aprile); Triennale. Home Sweet Home (maggio–settembre); la mostra sulla pittura italiana contemporanea (ottobre–gennaio 2024). https://triennale.org/

HOKUSAI A PALAZZO PALLAVICINI BOLOGNA

Le straordinarie xilografie di Hokusai, del quale vengono proposti alcuni dei famosi quaderni manga, spiccano nella mostra Yōkai. Le antiche stampe dei mostri giapponesi che arriva a Bologna, a Palazzo Pallavicini, dal 15 aprile al 23 luglio. https://www.palazzopallavicini.com/

EMILIO PRINI AL MACRO ROMA

La stagione autunnale del museo romano di arte contemporanea si aprirà con un’importante monografica. Il 27 ottobre, infatti, inaugurerà la grande personale di un rappresentante enigmatico e complesso dell’arte povera, il compianto Emilio Prini, nell’anno in cui avrebbe compiuto 80 anni.

https://www.museomacro.it

RUBENS ALLA GALLERIA BORGHESE ROMA

In autunno ci sarà anche la grande mostra Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma che, ripercorrendo i disegni e i dipinti dell’artista fiammingo giunto nella Capitale per vedere e imparare, intende evidenziarne lo straordinario contributo alla città, alle soglie del Barocco.

https://galleriaborghese.beniculturali.it/

DURATA: 82’

Francia – Messico – Svezia, 2021 REGIA e SCENEGGIATURA: Michel Franco GENERE: drammatico CAST: Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios, Henry Goodman, Samuel Bottomley
CLAUDIA GIRAUD
LE GRANDI MOSTRE DEL 2023 IN ITALIA
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100 anni di Roy Lichtenstein a Parma

CLAUDIA GIRAUD L Parma celebra il centenario della nascita di Roy Lichtenstein (New York, 1923-1997) con una mostra incentrata non solo sui suoi famosi “fumetti”, ma sulle Variazioni Pop – questo il titolo della retrospettiva – di una carriera intera, caratterizzata da una certa pluralità e articolazione di generi e materiali. Curata da Gianni Mercurio, l’esposizione in programma a Palazzo Tarasconi dall’11 febbraio al 18 giugno ripercorre, infatti, in oltre 50 opere –provenienti da prestigiose collezioni europee e americane – i temi affrontati dal grande artista americano a partire dagli Anni Sessanta attraverso media diversi: edizioni e serigrafie, sperimentazioni su metallo, tessuti e plastica, oltre a fotografie e video. È proprio in quel periodo che la sua carriera esplode, quando si dà alle sperimentazioni fumettistiche, in linea con il linguaggio della pop art allora in piena espansione, dopo aver esordito nella litografia e nella xilografia nel 1948. A partire dal linguaggio della riproducibilità meccanica dell’arte, affiancato a quello della pittura, la mostra esplora così, da un punto di vista cronologico e insieme tematico, l’evoluzione dell’arte di Lichtenstein.

Bernard Arnault acquista la Casa Atellani e la Vigna di Leonardo a Milano

LIVIA MONTAGNOLI L Bernard Arnault è cofondatore, presidente e amministratore delegato del gruppo LVMH, ora anche nuovo proprietario della Casa degli Atellani di Milano, vigna di Leonardo compresa. Pochi giorni prima di Natale scorso, il magnate del lusso ha acquistato, per una cifra che resta sconosciuta, la dimora quattrocentesca affacciata su Corso Magenta, ristrutturata nel 1919 da Piero Portaluppi per conto di Ettore Conti. Negli ultimi anni Casa Atellani ha sommato una dimensione museale all’attività ricettiva: in occasione di Expo 2015, infatti, si è dato impulso alle ricerche sul vigneto che nel 1498 Lodovico il Moro donò a Leonardo da Vinci, mentre il pittore era all’opera nel refettorio di Santa Maria delle Grazie. Quel che resta del vigneto, nel giardino di Casa Atellani, è oggi fruibile dal pubblico previo acquisto di un biglietto d’ingresso. I piani di Arnault – che a Milano già possiede la storica pasticceria Cova – sul futuro utilizzo del sito non sono ancora noti ma fa ben sperare la sua indole da mecenate.

NUOVI SPAZI

NAMI Napoli

Arte e design fra Napoli e Milano. È l’anima complessa di questa nuova galleria fondata da una coppia di professioniste: Alessia Fiorillo e Sabrina Vitiello. Quest’ultima ha risposto alle nostre domande.

Come è nata l’idea di aprire questa nuova galleria?

NAMI (acronimo di Napoli e Milano) è un nuovo progetto che, attingendo da un percorso fatto di mostre ed eventi artistici e culturali già dal 2012 e dagli studi di management dell’arte e della cultura, vuole dar vita a un project space di arte e design.

esterni, come nel caso della prima mostra a cura di Valentina Rippa, curatrice che opera da decenni nel panorama nazionale.

Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) puntate? E su quale rapporto con il territorio e la città dove aprite?

Il target di NAMI è un pubblico eterogeneo, in quanto crediamo fortemente nell’arte come strumento di unione, empatia e condivisione; puntiamo all’accessibilità in tutte le sue accezioni, organizzando inoltre workshop e incontri che permettano un avvicinamento alla pratica di tecniche artistiche più disparate e all’arte contemporanea, indipendentemente che si tratti di collezionisti, amatori o curiosi.

Un cenno ai vostri spazi espositivi. Come sono, come li avete impostati e cosa c’era prima?

Lo spazio espositivo si trova nel cuore di Napoli, nelle immediate vicinanze di Piazza dei Martiri, punto di incontro tra i palazzi antichi e il lungomare, all’interno di un edificio storico risalente al 1800. La scelta è ricaduta su questo locale estremamente luminoso dai soffitti alti con affaccio su strada, un luogo accogliente in cui poter condividere la passione per l’arte e la cultura, particolarmente in linea con lo spirito della città, aperta ed empatica.

Descrivete in poche righe il vostro nuovo progetto.

NAMI ha come obiettivo la condivisione di momenti culturali e creativi, oltre a una programmazione di eventi espositivi sia a Napoli che nello spazio milanese, dove convergeranno esposizioni di design e pezzi unici d’arte contemporanea.

Chi siete?

La galleria è frutto di una sinergia al femminile tra Alessia Fiorillo e Sabrina Vitiello: una sinergia che combina gli studi nel settore dei beni culturali e dell’arte contemporanea con l’esperienza maturata nell’organizzazione di molteplici eventi e mostre caratterizzati da diverse espressioni artistiche, dalla pittura alla scultura alla fotografia.

A livello di staff come siete organizzati?

Lo staff è composto dalle due galleriste che si occuperanno dello scouting degli artisti, dell’organizzazione degli eventi e delle pubbliche relazioni; un’agenzia di comunicazione digitale gestisce il sito web e i social media e creeremo rapporti di collaborazione con curatori

Ora qualche anticipazione sulla stagione. Cosa proporrete dopo la mostra inaugurale?

Alla mostra antologica di Pietro Finelli, che ha presentato un corpus di dipinti, disegni e video, seguiranno esposizioni di fotografia, scultura, videoarte e, a chiusura della stagione, un’esposizione collettiva di design, poiché il principio cardine di NAMI è l’espressione del concetto di arte attraverso tutte le forme possibili.

NEWS
Riviera di Chiaia Via Calabritto Vico Sartiano Piazza Vittoria Piazza dei Martiri Via Carlo Poerio
Napoli Via Carlo Poerio 9 371 1866842 info@namigallery.com namigallery.com
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SOGGIORNO SCOZZESE FRA I CAPOLAVORI DEI GALLERISTI DI HAUSER&WIRTH

Le Highlands scozzesi sono un luogo dell’anima per i cofondatori di Hauser & Wirth, che nel villaggio di Braemar possiedono un “rifugio di famiglia”. La coppia formata da Iwan e Manuela Wirth, dal 1992 alla guida (con Ursula Hauser) dell’influente colosso d’arte moderna e contemporanea – attivo fra Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera, Hong Kong, Spagna e Monaco con quasi venti gallerie –, opera anche nell’hôtellerie. Ed è in questa veste che ha promosso la rinascita del Fife Arms Hotel, una struttura alberghiera risalente al XIX secolo considerata un landmark di Braemar per l’imponente mole.

Grand Egyptian Museum aprirà finalmente in questo 2023

GIULIA GIAUME L L’Egitto sembra finalmente in procinto di svelare al mondo il tanto atteso Grand Egyptian Museum. “Il GEM sarà inaugurato entro pochi mesi”, ha annunciato il segretario generale del Consiglio supremo delle antichità egizio Mostafa Waziri. Annunciato oltre vent’anni fa, l’enorme complesso posto tra Giza e il Cairo ha dovuto affrontare consistenti battute d’arresto – tra primavera araba, repressioni, crisi e pandemia – che ne hanno progressivamente rimandato l’apertura, data per imminente già un paio di volte nel corso degli ultimi due anni. Ora, però, sembra finalmente giunto il momento dell’apertura del “più grande complesso museale archeologico del mondo”, che vanterà una straordinaria collezione di oltre 100mila reperti dalla preistoria all’Impero Romano, tra cui spicca i cinquemila manufatti della tomba di Tuthankhamon, ora al Museo Egizio della capitale. Anzi, un po’ ha già aperto per accogliere le scolaresche egiziane. Il complesso di 45mila metri quadri, su progetto dello studio irlandese Heneghan Peng Architects, offre una straordinaria finestra sulle piramidi, con frequenti richiami strutturali e decorativi alle gigantesche costruzioni funerarie. Oltre alle gallerie del museo vero e proprio, introdotto da un atrio che ospita una colossale statua di Ramses il Grande di 3.200 anni, ci saranno un museo per bambini, strutture per conferenze e istruzione, un grande centro di conservazione e ampi giardini a mo’ di oasi.

Completamente rinnovata da Moxon Architects, è oggi un lussuoso cinque stelle in cui il ruolo dell’arte è strategico nelle aree comuni, inclusi ristorante, cocktail bar, biblioteca e spa, e nelle 46 sistemazioni, fra stanze e suite. Un team di designer, paesaggisti, artigiani e artisti locali è stato coinvolto per rendere l’esperienza inconfondibilmente scozzese. Immancabili negli interni, firmati da Russell Sage Studio, sono rivestimenti e dettagli in tweed e tartan, disegnati ad hoc, associati a un caleidoscopio di finiture, decori e oggetti bizzarri, d’antan o di sapore vittoriano. A disposizione degli ospiti camere con arredi e ornamenti unici, selezionati con la consulenza di storici universitari in omaggio a luoghi, persone, eventi o tradizioni ritenuti parte integrante dell’identità locale: da R.L. Stevenson, che qui iniziò la stesura de L’isola del tesoro, a Lord Byron. Con oltre 14mila opere scrupolosamente integrate in ogni ambiente, nel Fife Arms Hotel l’arte trionfa ovunque, in un inedito mix fra genius loci e big internazionali del calibro di Pablo Picasso, Man Ray e Louise Bourgeois. Il poderoso patrimonio storico-scozzese riunito – dipinti, stampe, esemplari di arte applicata e mobili d’antiquariato – si somma alle commissioni site-specific affidate agli autori contemporanei Zhang Enli, Guillermo Kuitca, Subodh Gupta e Bharti Kher. Arte, dunque, per appagare lo sguardo e rivelare lo spirito di un territorio.

SILVESTRINI

GIULIA GIAUME L Per decenni i termini “macchina da cucire” e “Necchi” sono stati sinonimi, soprattutto in Lombardia. Una storia industriale iconica, che ora viene celebrata in un museo temporaneo a Pavia, sede dell’azienda: qui, in piazza Vittoria, le storiche macchine da cucire sono esposte al pubblico insieme a manifesti pubblicitari, cimeli e modelli provenienti da un grande archivio che da anni raccoglie la testimonianza di una delle più celebri aziende italiane. Il momento è speciale, e non solo perché la Necchi racchiude una grossa parte di storia contemporanea pavese: la mostra, aperta gratuitamente fino al 30 aprile 2023 negli spazi Discover Pavia di Palazzo Broletto, va infatti a omaggiare la storia industriale della città proprio in corrispondenza dell’inizio del nuovo anno, momento in cui Pavia diventerà la nuova Capitale della cultura d’impresa. Il percorso espositivo di Piazza Vittoria – al cui centro si staglia la figura dell’imprenditore Vittorio Necchi – si articola in cinque aree tematiche, tra macchine da cucire, foto stampate su forex, documenti e oggetti inediti dell’associazione volontaria Necchi, Pavia, Italia, promotrice tra l’altro del progetto di rigenerazione urbana Supernova, che prevede la restituzione alla città dell’Area Necchi. La mostra, inoltre, si inserisce in un più ampio progetto di alternanza scuola-lavoro destinato agli istituti tecnici locali, chiamato Necchi, Pavia e la Cultura nell’impresa responsabile

CONCIERGE
thefifearms.com
VALENTINA The Fife ArmsDrawing Room. Ancient Quartz by Zhang Enli Photo credit Sim Canetty-Clarke Il
A Pavia apre il museo temporaneo della Necchi con le storiche macchine da cucire

ART MUSIC

URBAN GROOVESCAPES:

LA DANZA URBANA DI MAX CASACCI

Cogliere la bellezza di un rumore nella routine cittadina e convertirla in musica da ballare. È in sintesi il nuovo album Urban Groovescapes di Max Casacci che, diversamente dal precedente Earthphonia – realizzato con suoni della natura per sottolinearne la fragilità –, invita a ripensare le nostre città. “Siamo schiacciati da un’immagine della realtà urbana che, anche e soprattutto nelle arti, è rimasta ferma al secolo scorso”, ci spiega il fondatore dei Subsonica qui in veste solista. “Alienazione, degrado, monocromia esistenziale, estetica della desolazione e altre forme figlie di un autocompiacimento che da sempre sfiora le stesse corde, soprattutto presso artisti della mia generazione”. Come uscirne? “Nel mondo si stanno progettando e sperimentando modelli evoluti che rispondono efficacemente a molte questioni, come la crisi climatica, il problema della produzione di energia, il lavoro sostenibile, l’incisività sociale, il coinvolgimento delle nuove generazioni. Tutte pratiche che nascono in contesti stimolanti di immaginazione collettiva. Ecco, immaginare di trasformare la quotidianità dello spazio urbano in un momento di danza, può essere un primo esercizio”.

Un manifesto politico in forma di disco, fatto senza strumenti musicali: 10 tracce dove lo spazio urbano è la tavolozza dalla quale attingere i suoni-colori che vanno a comporre un quadro sonoro in continuo divenire. “Ho intenzione di sperimentare gli effetti collaterali della ‘smaterializzazione’ della musica”, continua Casacci: “‘Urban Groovescapes’ nei suoi iniziali 10 brani è stato stampato in vinile a edizione limitata, ma in tutti i contesti di streaming potrà rimanere ‘aperto’ a continue implementazioni di brani realizzati con suoni e rumori di città. Dopo la pubblicazione di un primo brano ‘Ghost rail’ che ha ampliato la tracklist iniziale, l’idea è di coinvolgere e stimolare anche gli ascoltatori in una propria ricerca sonora”. Il video che lo accompagna, realizzato da Riccardo Akasha Franco-Loiri dello studio multimediale High Files, sfrutta l’Intelligenza Artificiale, come anche l’artwork dell’album, tra i primi in Italia con questo tipo di tecnologia che “replica il processo di campionamento acustico delle tracce del disco”, spiega l’artista Marino Capitanio, autore della copertina, “riarrangiando frammenti e colori del codice urbano per creare un nuovo linguaggio visivo”. Il tutto in perfetta sintonia con il processo creativo del musicista.

42records.it

CLAUDIA GIRAUD

Renzo Piano progetta il futuro campus del Politecnico alla Bovisa di Milano

VALENTINA SILVESTRINI L L’architetto e senatore a vita ha presentato il masterplan elaborato con il suo studio per il futuro campus del Politecnico di Milano: esito di un accordo pubblico-privato, prevede la realizzazione di venti edifici (ciascuno con un’altezza di 16 metri) nell’area Bovisa-Goccia, a ridosso di un bosco di 24 ettari che sarà preservato. “L’essenza di questo progetto era già scritta in quel luogo. L’idea era già lì che non aspettava altro. Intanto il bosco con quegli alberi maestosi. Poi le tracce della fabbrica sul terreno, quegli antichi edifici a testimoniare la memoria dei luoghi e il loro DNA”, ha dichiarato Piano. Indipendente dal punto di vista energetico e Zero carbon, sarà un luogo per lo studio e la ricerca, in cui gli studenti potranno anche alloggiare (due le residenze previste, per circa 500 alloggi). In un’ottica di diretta connessione con il mondo professionale, ci sarà spazio anche per start-up e aziende.

Il Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2023 sarà “Spaziale”

VALENTINA SILVESTRINI L SPAZIALE: Ognuno appartiene a tutti gli altri è il titolo del Padiglione Italia alla 18. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, al via il prossimo 20 maggio. Curato dal collettivo Fosbury Architecture, selezionato fra dieci studi e architetti invitati dal MiC, il progetto si snoda in due fasi. Si comincia con Spaziale presenta (gennaio-aprile 2023), che prevede l’attivazione di 9 interventi site-specific in altrettanti luoghi nel territorio italiano; segue, nel semestre di apertura della kermesse lagunare, la sintesi formale e teorica dei processi intrapresi nelle 9 aree coinvolte. Già attivo l’account Instagram @spaziale.presenta con il racconto del work in progress.

VALENTINA SILVESTRINI L A precedere di circa un mese la 18. Mostra Internazionale di Architettura saranno i nove eventi che si sono aggiudicati, tramite bando, la seconda edizione del programma ministeriale Festival Architettura. Tutte le iniziative selezionate, infatti, avranno luogo contemporaneamente fra il 15 e il 30 aprile 2023, coinvolgendo con distinte modalità i territori di riferimento. Fra le novità, il debutto dei formati itineranti e interregionali, come nel caso di Cara casa. Il Festival itinerante sull’abitare che avrà luogo a Milano, Venezia, Bologna e Genova.

NEWS
Ad aprile 2023 in Italia ci saranno 9 festival di architettura in contemporanea
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Fosbury Architecture © Luca Campri

CAMMINARE TRA I SUONI DELLA CITTÀ

La loro base è Modena. Il loro principale progetto è il festival Periferico, intersezione

Partiamo da quello che sappiamo. Conosciamo le strade che attraversiamo, le persone che le abitano, chi ci circonda. Conosciamo la nostra città e molti dei suoi spazi. Quello che sappiamo lo abbiamo imparato camminando.

Camminare, per Amigdala, è una prassi, uno strumento di conoscenza e di approfondimento che sa farsi pratica artistica quando necessaria. Una prassi che si intreccia a quella dell’ascolto. Ci fermiamo ad ascoltare le voci, quelle che raccontano biografie, memorie, conflitti, aneddoti, trascorsi, storie. Ci ritroviamo nelle orecchie pezzi di libri mai scritti, espressi da una coralità, da gruppi trasversali di donne, uomini, giovani, bambine e bambini che offrono ognuno le proprie parole, il proprio sguardo, la propria narrazione sul territorio che attraversiamo.

bioAmigdala è un collettivo artistico con sede a Modena. Opera nell’ambito delle arti contemporanee e performative, con un forte interesse per la rigenerazione urbana e l’innovazione civica. Il collettivo realizza produzioni artistiche multidisciplinari, con una precisa vocazione per metodologie di creazione site-specific e community-specific. Dal 2008 cura progetti performativi e culturali focalizzati sulle pratiche site-specific e sull’arte pubblica, specialmente in aree urbane periferiche o in forte trasformazione. Il festival Periferico è uno dei principali progetti ed è dedicato alle connessioni tra arti performative, comunità locali e tessuto urbano.

Il territorio e le comunità. I luoghi e le persone. La specificità che ne deriva nelle scelte artistiche e curatoriali è sempre frutto di un lavoro delicato di tessitura dei fili che ricaviamo da questi campi, ampi e profondi, vasti e ricchi, sconfinati nelle unicità che contengono.

collettivoamigdala.com

NEI NUMERI PRECEDENTI

La scommessa, allora, è quella di andare oltre ciò che si conosce e dà pace. Ciò che accade, nel lavoro di Amigdala, nel suo procedere per incontri, ascolti e messe in opera (opere che sono performance, festival, progetti di rigenerazione urbana, incontri di divulgazione e approfondimento, geo-esplorazioni, podcast, scritture, interventi, mentoring, residenze, co-produzioni con artisti, festival e associazioni, produzione di archivi e altro che sfugge agli elenchi tra parentesi), ciò che accade è l’imbattersi nella polifonia del reale, ora in forma di sinfonia urbana ora di coro femminile ora di avventura bambina.

Di tutti i suoni che esistono al mondo, alcuni emergono e spaziano tra le interpretazioni, altri rimangono negli interstizi e si propagano in maniera selvatica, in cerca di una mano che li possa cogliere nella propria diversità, diventando porte di mondi, di altri suoni da mettere in musica.

Amigdala investe allora sul desiderio di farsi infrastruttura, luogo di permeabilità, crocevia multidi-

Vasco Forconi

sciplinare nel quale artiste e artisti possano sperimentare attivismo e trasformazione; Amigdala crede nella fabbricazione di possibilità, in scena e nello spazio urbano, aprendo discorsi nella sfera pubblica dove quei suoni selvatici possano trovare una presenza nuova. Il femminismo, la marginalità, i muri cittadini, gli spazi dismessi, le periferie, gli sguardi infantili, adolescenti, anziani, il conflitto tra privilegi e svantaggi, le lingue straniere e le culture internazionali sono campi di azione, non tematiche da analizzare.

Desideriamo l’intersezionalità, la transdisciplinarietà e tutte quelle parole composte che ci conducono nello stare tra le cose. Desideriamo ancora una volta camminare, cercando le crepe tra le quali un filo d’erba spacca l’asfalto e ci costringe a guardare là dove non avremmo mai guardato.

in alto: Photo credit Davide Piferi De Simoni a destra e nelle pagine seguenti: Artwork by Sara Garagnani

a cura di DARIO MOALLI

COLLETTIVO AMIGDALA
fra arti performative, comunità locali e tessuto urbano. Ecco come si racconta, in parole e immagini, il collettivo Amigdala.
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Greta Scarpa #50 Federico Montagna #52 Pierre Dupont #54 Giovanni Paolin #58 Arianna Desideri #61 Marta Orsola Sironi #63 Caterina Avataneo #65 Giuliana Benassi #68 Erinni
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QUANDO GLI ARTISTI FANNO ALTRO STORIE DI MEDICI, AGRONOMI E MAESTRI DI SCI
Giovanni Castaldi per Artribune Magazine
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STORIES
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ARTISTI

SANTA NASTRO

a storia dell’arte ha tramandato numerose storie di artisti che nella vita sposavano alla pratica un altro mestiere. Dacché il mondo è moderno e la formazione in ambito creativo è passata dalle botteghe alle scuole, questo è sempre avvenuto, vuoi per una questione meramente economica, vuoi per rispettare le tradizioni di famiglia, vuoi ancora per una vocazione sopita o giunta in maniera tardiva a bussare alla porta del maestro di turno.

ARTISTI E CONTEMPORANEAMENTE MEDICI O TAPPEZZIERI

Il medico Alberto Burri, per citarne uno, che mutuò dal dolore delle proprie esperienze sul campo in guerra la lacerazione dei sacchi e delle plastiche che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Medico è anche Ernesto Tatafiore, tra i pittori della storica galleria di Lucio Amelio, con un linguaggio in armonia con quello della Transavanguardia, ma anche dottore in psichiatria, nonché il più giovane Dario Neira, urologo e psicoterapeuta.

Moltissimi sanno che Pino Pascali era, anche grazie agli insegnamenti di Toti Scialoja e l’ingresso in RAI, abile scenografo e pubblicitario. Pubblicitario era pure Andy Warhol, che collaborava con diverse, importanti testate di moda. Lee Krasner è stata decoratrice, modella e anche cameriera in un ristorante, ma questo prima ancora di diventare la star della pittura che tutti conosciamo. E ovviamente c’è poi Kim Gordon, la quale, oltre che artista, molto amata anche da Dan Graham, è pure imprenditrice e star indiscussa dei Sonic Youth.

Più vicino alla pratica e motivato dalla necessità, ma anche dalla voglia di imparare, c’è Robert Mangold, che negli Anni Sessanta si trasferisce a New York lavorando come custode e poi bibliotecario al MoMA di New York: il “secondo lavoro” è qui occasione di apprendimento e di incontro con altri che, negli stessi anni, stavano producendo lavori, discorsi e linguaggi in sintonia con il suo operato.

Per necessità o per passione. In ambiti limitrofi come la moda e la musica oppure apparentemente lontani come lo sport e la viticoltura. Vi raccontiamo le tante storie di artisti-che-fanno-anche-altro. Con un fil rouge che torna con insistenza: la natura.

OLTRE CHE ARTISTA, KIM GORDON È PURE IMPRENDITRICE E STAR INDISCUSSA DEI SONIC YOUTH.

Con l’avvento poi della figura dell’artista “imprenditore di se stesso” è diventato sconveniente mostrarsi con più facce, a meno che queste non siano perfettamente integrate con il discorso principale all’interno della pratica. Stefano Arienti, ad esempio, ha sempre rivendicato la sua laurea in Agraria, Andrea Conte (Andreco), con le proprie ricerche sugli ecosistemi che spesso coinvolgono interi staff di specialisti e scienziati, è orgogliosamente artista e ingegnere, Tomás Saraceno è anche architetto, ma non costruisce case, quanto mondi. E così via.

Tra le storie più singolari ci sono anche quella di Mario Schifano, studente scapestrato che lascia la scuola per fare il commesso e poi il restauratore col padre, prima di diventare chi sappiamo, o Franco Angeli, che passa da magazziniere a carrozziere e a tappezziere, portando poi tali esperienze nella sua opera. E d’altra parte, se nell’arte la “doppia vita” è più nascosta, in letteratura diventa epica, con il Charles Bukowski postino o il Fernando Pessoa corrispondente estero, solo per citarne due.

QUANDO GLI ARTISTI GUARDANO AL MONDO ACCANTO

Ma il mondo delle arti visive, si sa, non ha mai amato troppo l’autofiction, lasciando che fossero le opere a portare avanti il discorso in vece dell’autore, e che il tutto, salvo alcuni casi specifici, viaggiasse su binari completamente paralleli, non sempre destinati a incrociarsi.

Ovviamente sono numerose le liaison con altri universi culturali, come la moda o il cinema o l’editoria, la grafica o la musica. Un esempio, in tal senso, è Marco Raparelli, che è anche dj, spesso in coppia con dj Baro dei Colle der Fomento di Roma, e instancabile nelle produzioni editoriali, con libri, edizioni limitate eccetera, che vanno a inserirsi perfettamente nel percorso che da anni porta avanti come artista, lasciando che i vari campi si arricchiscano l’uno con l’altro. Non mancano le intersezioni con il mondo dell’impresa: Giuseppe Stampone con le Ceramiche Marca Corona, Nico Vascellari – Codalunga con Seletti (e la carriera musicale che interseca e abbraccia quell’artistica), la famosa e lunghissima serie delle vetrine d’artista di Louis Vuitton, la sfilate e i progetti di Maria Grazia Chiuri per Dior che chiamano in causa maestri vecchi e giovani. Mondi che si incontrano e danno vita a nuove produzioni.

IL LEGAME FRA GLI ARTISTI E L’INSEGNAMENTO

Ma ci sono anche i tanti artisti che affiancano alla carriera creativa quella dell’insegnamento, soprattutto nelle Accademie di Belle Arti, oltre che nelle scuole superiori, formando coloro che faranno gli artisti in futuro. E naturalmente, in molti altri casi, non è tutto oro quello che luccica, perché diverse inchieste che hanno trovato ospitalità su queste pagine, e nel rapporto AWI – Art Workers Italia, hanno dimostrato che molti artisti, anche midcareer e con una ottima carriera in corso, per assicurare la propria sostenibilità e quella delle loro famiglie devono affiancare altri mestieri alla strada maestra, poiché la vendita delle opere, la partecipazione a mostre e bandi non riescono da soli a garantire la totale autosufficienza.

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ARTISTI E POTERE

Un altro capitolo è costituito dagli “artisti al potere”, cioè coloro che hanno deciso di intraprendere carriere istituzionali, in parallelo al proprio lavoro creativo.

Le cronache recenti ci raccontano dell’artista politico, Edi Rama, il nome per eccellenza in questo contesto, con il percorso più lungo e coerente, dapprima sindaco di Tirana e poi primo ministro dell’Albania. Ma anche l’Italia non manca di figure impegnate, quali Cesare Pietroiusti, che di recente ha lasciato il suo incarico di Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, succeduto dal fotografo Marco Delogu, o Gian Maria Tosatti, alla direzione della Quadriennale di Roma, o ancora, a Polignano a Mare, Giuseppe Teofilo, prima Presidente e poi direttore della Fondazione Pino Pascali.

LA SCELTA DELLA DOPPIA PROFESSIONE

Poi ci sono coloro che hanno scelto di prenderla in un verso completamente differente e che assomigliano maggiormente ai nomi citati all’inizio di questo nostro ragionamento. Persone che, non necessariamente per sostenersi, o per integrare la pratica artistica, portano avanti con soddisfazione due carriere. È il caso di Angelo Bellobono, artista e maestro di sci. O di Gabriele De Santis, alle redini del negozio di piante Palma. Eppure le due cose, anche se non si compenetrano, nemmeno si ignorano. Molti ricorde-

Hilario Isola (con Enrico Ascoli), Auspicio , 2018, mosto fermentante, gorgogliatori e richiami da caccia. Courtesy Galerie Jocelyn Wolff Photo Hilario Isola

GLI ARTISTI AL POTERE SONO COLORO CHE HANNO DECISO DI INTRAPRENDERE CARRIERE ISTITUZIONALI.

ranno infatti il progetto Linea 1201 di Bellobono, una mappa pittorica degli Appennini, realizzata nel 2020. “La routine giornaliera si adatta alle nuove condizioni, ogni azione occupa un tempo più lento e più lungo”, raccontava allora Bellobono, dimostrando la profonda affezione e conoscenza della montagna (in quel caso le Mainarde, in Molise) “L’assenza di acqua corrente, comunque disponibile nella vicina sorgente, e di elettricità, riporta ai ritmi propri della natura. Svolte le faccende legate alla sussistenza, restano le tante ore dedicate alla pittura, alle escursioni, alle corse in montagna e ai nuovi amici pastori, anche se solo consumare i pasti e bere il caffè appollaiato su una roccia diventano momenti carichi di senso. Nessuna straordinarietà, al contrario, la meraviglia di scoprire la facilità con cui posso adattarmi a un nuovo modello di ‘comfort’”.

Il mondo delle piante è sempre stato una presenza importante nel mondo di Gabriele De Santis. Qualcuno si ricorderà il progetto Ortica, realizzato nel 2018 da Frutta Gallery a Roma, nel quale l’artista – insieme ai colleghi Santo Tolone, Alek O., Ditte Gantriis, Isabell Heimerdinger, Laurek Keeley, Jacopo Miliani, Alessandro Vizzini, Spring, Gundam Air e altri ancora – trasformava gli spazi della galleria in un temporary shop, con piante in vendita e pausa caffè. Il mondo delle piante torna poi nel progetto Palma, che

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prende vita a San Giovanni, nella Capitale, con una selezione realizzata dall’artista. Non si tratta però di un progetto d’arte, ma di una attività commerciale vera e propria. Nel 2022 era lo stesso De Santis a ribadirlo ad Artribune: “Ma queste non sono da considerare mie opere”, dichiarava descrivendo gli allestimenti all’interno del negozio, “solo degli accessori funzionali che ho progettato per Palma. In realtà ne sto facendo parecchi, ad esempio ho già messo a punto alcune ampolle in vetro con mio supporto in plexiglas utili a far riprodurre i polloni di piantine in acqua”. E c’è ancora l’esempio di Hilario Isola, artista e produttore di vini. “Gestisco una piccola azienda agricola in Piemonte”, racconta ad Alex Urso per Artribune, “dove realizzo prevalentemente due tipi di vini naturali autoctoni di montagna. Si tratta di una piccola produzione di poche migliaia di bottiglie, dove faccio tutto o quasi manualmente e personalmente. I miei vini sono distribuiti in Italia e prevalentemente in America, in diversi ristoranti stellati. Seppur non ci traggo vantaggi economici, è una professione, o meglio una passione, che mi dà molte soddisfazioni”. Una passione, quella che fa incontrare arte e vino, che Hilario Isola condivide almeno idealmente con il collega Sandro Chia, artista e viticoltore a Montalcino, in Toscana, dove sorge la cantina Castello Romitorio, di proprietà della famiglia del maestro della Transavanguardia dal 1984. E sulla stessa lunghezza d’onda

Angelo Bellobono, Il Mondo dal buco , 2021, olio su tela, 100x100 cm

abbiamo un altro importante artista: Luca Francesconi che non solo ha lanciato una quotata cantina di vini artigiani ma fa anche il ‘forager’ raccogliendo erbe selvatiche con le quali rifornisce ristoranti. O c’è ancora il caso dell’illustratrice Costanza Coletti, che da anni pratica lo Yoga Kundalini e lo insegna.

LA NATURA COME TRAIT D’UNION

LA NECESSITÀ UN PO’ BULIMICA,

È chiaro che molte di queste esperienze, alle quali si aggiungono quelle di artisti che offrono ospitalità, o degli artisti agricoltori, nascono da fattori differenti: in parte da una esigenza talvolta economica, talvolta semplicemente dalle vicende che ognuno vive nel proprio tracciato personale, coltiva e conserva. Oppure da desideri e passioni, dalla voglia di sfuggire alla pratica, altre volte invece per completarla e arricchirla di ulteriori stimoli e sensazioni.

Non si possono definire queste storie che vi raccontiamo come un fenomeno che rende simili più artisti, quanto di casi singolari e personali. Ciò che forse però mette insieme queste esperienze, accomunando i percorsi di questi artisti a quelli dei colleghi, è la necessità un po’ bulimica, un po’ esistenziale di abbracciare la vita in tutte le sue forme e possibili spazi di creatività. Di andare un po’ alla sorgente delle cose.

Non è un caso, infatti, che sia proprio la natura, forse, la relazione con l’ambiente, le piante, siano esse in vaso, o nei grandi paesaggi delle montagne, o incanalata nei filari delle viti, o nel rapporto con il corpo alla ricerca del sé, il termine medio di questa ricerca alternativa. Qui l’arte si incrocia con il senso delle cose più profondo e diventa pensiero, fuori dai racconti del sistema, in un contatto più epidermico con la vita e con le sfide naturali che ogni giorno essa pone.

UN PO’ ESISTENZIALE DI ABBRACCIARE LA VITA IN TUTTE LE SUE FORME.

DISPACCI DALL’INTERNO

Breve storia raccontata da lui medesimo di un nostro redattore che fa anche l’artista. Alex Urso è infatti membro interno della redazione di Artribune, e al tempo stesso è anche un artista. Pregi e difetti di questa situazione li racconta senza remore.

Which job artists do, when they are (not) artist? È questa la domanda da cui ha preso piede Dipingere le nuvole, uno dei miei ultimi progetti, nato con l’intento di indagare le vite parallele e spesso sottaciute di quel 99% degli artisti che si trova sotto la punta dell’iceberg. Quel progetto, fotografico e performativo, consisteva in una serie di scatti – uno per ogni giorno dell’anno. Nelle 365 immagini che lo compongono sono ritratto di spalle, nell’atto di colorare il cielo con un rullo da imbianchino tra le mani, emulando e traducendo in un contesto poetico un gesto che a lungo ha segnato il mio passato.

Per diverso tempo, prima e dopo l’Accademia, ho infatti pitturato case per mantenermi e portare avanti la mia ricerca. A quel lavoro è seguito l’insegnamento (cinque anni di docenza in una scuola privata e due anni in un liceo di Varsavia), mentre, facendo un salto indietro, la staffetta di professioni nelle quali mi sono imbattuto in giovinezza è lunga e non sempre gloriosa: lavapiatti, promoter per corsi di lingue, traduttore, operaio in una falegnameria.

ARTE, LAVORO E PRECARIETÀ

Al di là dell’idea romantica e deviata che spesso e volentieri condiziona il nostro pensiero sull’artista (come se questo fosse immune dalle richieste e dalle incombenze del mondo fuori dal suo studio), ogni autore – emergente o midcareer – si trova prima o poi costretto a interrogarsi sugli effettivi ritorni (monetari) del proprio lavoro.

Il tema non è certamente nuovo; semmai la novità sarebbe parlarne finalmente senza timore o addirittura vergogna. Sì, perché se da una parte il modello culturale in cui siamo incastrati non aiuta l’artista a definirsi in termini giuridici e sindacali –aspetto primario per legittimarne la professione –, dall’altro è l’artista stesso che cade nella buca, evitando di affrontare con lucidità un argomento che invece è dominante nella propria routine e nella gestione del proprio tempo. È raro, infatti, che un artista parli serenamente delle proprie attività lavorative al di fuori dell’ambito artistico, tanto più se si tratta di attività di sussistenza; come se il rivelarsi operativo anche su altri fronti dequalificasse quello che, invece, si sta cercando di costruire nella sfera creativa.

UN FRAGILE EQUILIBRO

Oggi la mia situazione lavorativa è molto diversa rispetto a quella di qualche anno fa, ma la ricerca di un equilibrio tra le diverse anime professionali resta un impegno dispendioso. Dal 2018 sono parte dello staff di redazione di Artribune e la scrittura – che in passato era accessoria – è diventata prominente. La scrittura ha creduto in me più di quanto non abbia fatto l’arte, in un certo senso, e l’accettare di dedicarmi full time a essa non è stata una sfida, né ha richiesto particolari calcoli o riflessioni da parte mia: semplicemente è stata la naturale conseguenza di un percorso nel quale immagini e parole si sono sempre fronteggiate e completate, scambiandosi di posto, in una danza che ho accettato di ballare senza la paura di rimanere invischiato nell’abbraccio di una o dell’altra.

ESSERE ARTISTI IN MANIERA PLURALE

Sarebbe scontato se ribadissi le difficoltà che ogni giorno provo nel calibrare il tempo che dedico alla mia ricerca di artista con quello che invece destino al giornalismo. Il timore che un giorno qualcuno mi chiederà il conto, spingendomi a scegliere in quale direzione andare, è costante. E so che quel qualcuno potrei essere io. Nel frattempo l’imperativo è che queste due sfere, per quanto interconnesse e distanti, complementari eppure opposte, non si pestino i piedi a vicenda. In altre parole, puoi fare quello che vuoi e puoi essere operativo su più fronti, ma devi farlo bene senza il rischio di deludere chi sta scommettendo su di te. Assodato ciò, si può essere tutto quello che si vuole, finché l’energia – fisica e mentale – consente di essere attivi in maniera plurale. Non esiste un sistema dell’arte al quale adeguarsi, ma infiniti sistemi per ognuno di noi.

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ARTISTI CHE FANNO ALTRO
ALEX URSO
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Alex Urso, Dipingere le nuvole (10 maggio) Courtesy l'artista

LE DOMANDE

QUAL È LA TUA

PROFESSIONE AL DI FUORI DELL’AMBITO

ARTISTICO?

LUDOVICA “CLOROPHILLA” BASSO illustratrice e titolare di un B&B

Da più di dieci anni gestisco Casa A Crêuza, un’antica casa di pietra incastonata all’interno di un borgo saraceno. Un luogo di ospitalità che ha la particolarità di essere una casa d’artista arredata da me, un luogo molto intimo dove creativi e non solo negli anni si sono rifugiati alla ricerca di ispirazioni e pace, e allo stesso tempo un posto di condivisione dove organizzo vari eventi.

Quando ancora frequentavo l’università fuori sede, quando la mia attività artistica era ancora agli albori e non era un vero e proprio lavoro, ho trovato questa casa nel mio paese natale, dove vi era già un’attività di B&B e che all’inizio ho gestito durante le stagioni estive, tra un esame e l’altro.

Casa A Crêuza mi dà l’opportunità di viaggiare stando ferma, infatti ho il piacere spesso di ospitare e conoscere persone speciali. Inoltre ho potuto dedicarmi all’arredamento anche ideando e costruendo pezzi unici che vanno a valorizzare l’abitazione. Svolgendo il lavoro in parallelo di artista e illustratrice a tempo pieno a volte è difficile riuscire a far combaciare i miei impegni con la gestione della casa.

COME CI SEI ARRIVATO/A?

a cura di ALEX URSO

QUALI SONO I LIMITI E LE POSSIBILITÀ DI QUESTA DOPPIA ANIMA LAVORATIVA?

yoga con me e così ho cominciato. Nel 2018 sono tornata a vivere in Italia e ho iniziato a insegnare in modo più regolare a Milano. Poi la pandemia ha aperto le porte alla pratica online, e da allora i gruppi si sono allargati al di là dei limiti geografici. Da due anni conduco cicli di meditazione mattutina su Zoom.

Le immagini che creo sono molto legate alle esperienze meditative, e spesso dico che la meditazione è il mio motore creativo. Nonostante questo, all’inizio mi sembravano due mondi separati e inconciliabili, e mi sono sentita spesso insicura su come presentarmi professionalmente. Con il tempo ho compreso che tra queste due parti di me e del mio lavoro non c’è contraddizione, ma una sinergia profonda.

GABRIELE DE SANTIS artista, farmer e botanista

A febbraio 2022 ho fondato Palma: un negozio di piante (e tutto il resto) contemporaneo che al momento ha tre punti vendita a Roma, Torino e Milano.

zione di poche migliaia di bottiglie, dove faccio tutto o quasi manualmente e personalmente. I miei vini sono distribuiti in Italia e prevalentemente in America, in diversi ristoranti stellati. Seppur non ci traggo vantaggi economici, è una professione, o meglio una passione, che mi dà molte soddisfazioni.

È iniziato intorno al 2003, quando ho prodotto le prime bottiglie contemporaneamente ai miei primi passi da artista. La mia passione per la vita di cantina e di vigna è nata durante il liceo, quando in estate, per tirare su qualche soldo, andavo a vendemmiare nelle Langhe dove stava esplodendo il fenomeno dei grandi vini come il Barolo e il Barbaresco. In campagna dove vivevo, invece, c’erano molte vigne in abbandono o condotte molto male. Prima ho iniziato a gestire pochi filari di una di queste vigne e a scoprire l’incredibile patrimonio di vitigni autoctoni, e da lì pian piano mi sono allargato.

COSTANZA COLETTI illustratrice e insegnante di yoga

Da dodici anni pratico lo Yoga Kundalini e da sette lo inse gno. Questa tradizione fonde il lavoro sul corpo con la meditazione, il respiro e i canti sacri. Lo yoga è una parte fondamentale della mia vita, un rifugio e un supporto per affrontare ogni sfida. Condividere con gli altri le tecniche che ho ap preso è per me un lavoro che ha valenza politica oltre che spirituale.

Praticando tutti i giorni, iniziare a insegnare è stato naturale: gli amici volevano fare

Ho cominciato a collezionare piante nel 2016, da quel momento la mia passione per la botanica è cresciuta sempre di più e così lo scorso anno ho deciso di provare a trasformare questa passione in lavoro.

I limiti sono solo temporali. Le possibilità di interconnessione tra i due mondi invece sono infinite. La direzione artistica di Palma non differisce molto dal mio lavoro in studio o negli spazi espositivi. È solo un modo diverso di essere creativo.

I limiti ci sono, infatti sia la vigna che la cantina richiedono una presenza costante e impegni improrogabili, essendo lavori legati al tempo, ai cambiamenti stagionali e climatici, e ai processi alchemici. Questi fattori inevitabilmente influenzano il mio lavoro come artista, in quanto spesso è difficile conciliare la mia agenda con mostre e attività artistiche. D’altra parte, però, da questa passione e da questo legame ancestrale con i tempi e le esigenze naturali in questi anni ho tratto molte conoscenze, arricchimento e ispirazione sia personalmente sia come artista. In alcuni lavori espressamente legati al vino tento di avvicinare e comprendere meglio questi due mondi di cui mi occupo.

JUAN EUGENIO OCHOA artista e medico chirurgo

HILARIO ISOLA artista e produttore di vini

Gestisco una piccola azienda agricola in Piemonte, dove realizzo prevalentemente due tipi di vini naturali autoctoni di montagna. Si tratta di una piccola produ-

Nel 2007 ho conseguito la Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia presso l’Università Pontificia Bolivariana di Medellín in Colombia; nel 2010 mi sono trasferito in Italia, dove ho frequentato il corso di Dottorato di Ricerca in Prevenzione del Rischio Cardiovascolare presso l’Università di Milano Bicocca. Dal 2015 sono iscritto all’Albo dei Medici Chirurgi di Milano e lavoro come medico-ricercatore presso il Laboratorio Sperimentale di Ricerche Cardiologiche IRCCS dell’Ospedale San

Luca di Milano. I miei interessi scientifici riguardano lo studio della variabilità intraindividuale della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca quali indici di funzionamento del sistema nervoso autonomo. Sono stato autore e coautore di numerose pubblicazioni su libri e riviste scientifiche.

Dopo gli studi in medicina mi sono avvicinato alla pittura spinto da un entusiasmo quasi romantico, senza la consapevolezza che si trattasse di una vocazione che chiedeva di essere realizzata, e senza la pretesa che un giorno potesse diventare una professione. Ho seguito piuttosto un mio bisogno “ludico”, fisiologico, che avevo sin da bambino, di entrare in contatto con la materia del colore e con gli strumenti della pittura.

L’arte ha messo in crisi la mia identità personale e professionale. Il tentativo di mettere insieme in un’immagine coerente i vari pezzi della mia vita rimane ancora fallimentare. La sensazione è spesso quella di aver smarrito il senso della mia vocazione. Il concetto contemporaneo di professione, che ci vuole spesso come “operatori”, contrasta con il senso della pratica artistica, che vede l’artista come un “creatore”. La medicina contemporanea, fondata su una visione positivistica del mondo, tende a oggettivare le persone, per rispondere a domande contingenti. L’arte invece deve promuovere l’individualità e la soggettivazione, e in tal senso è più vicina al concetto di vocazione. Il medico deve rispondere alla chiamata della vocazione al servizio, l’artista è al servizio di una vocazione talvolta egocentrica e autoreferenziale. Alla fine l’anima del professionista e quella dell’artista devono convivere in un territorio ambivalente di tensioni e di contrasti, apparentemente inconciliabili ma necessari a mantenere viva la ricerca di senso.

LUCA CUTRUFELLI

artista e titolare di

solo in estate, il che mi permette di dedicarmi ad altro nei mesi restanti.

Diciamocelo, vivere d’arte, in Italia in particolare, non è sempre sano, né per l’artista né per la sua ricerca. I compromessi sono sempre dietro l’angolo e solo le top gallery sono in grado di supportare a 360 gradi un artista. Crearsi un percorso parallelo credo sia importante per mangiare restando fedeli alla propria ri cerca. Il mio mi ha portato in un’isola, a un giardino abbandonato.

Il limite: lo scetticismo altrui, anche se ti sforzi di spiegare che un’anima non esclude l’altra. Di conseguenza la carriera può subire battute d’arresto. Le possibilità: senza dubbio aver maggiore controllo della propria vita e delle proprie scelte, incrociare mondi che altrimenti avresti ignorato, per poi portare la crescita interiore che ne deriva all’interno della propria ricerca artistica.

Oltre all’attività artistica svolgo quella di maestro/allenatore di sci, preparatore atletico e guida escursionistica. Negli anni è aumentato il tempo dedicato all’arte, ma lo sci e la montagna hanno continuato a rappresentare un elemento importante della mia vita, diventando parte integrante dell’arte stessa. Procedo trasformando l’arte in montagna e la montagna in arte, e usando il corpo come strumento per abitare e costruire le mie opere.

idamente da un contesto all’altro percependo una piacevole sensazione di costante spaesamento. Sentirsi “fuori luogo” non provoca attaccamento, evita confortevole stasi e permette di incontrare luoghi, cose, persone e pensieri senza cercare. Gioco con la gravità, controllandola in discesa e accogliendo la fatica per oppormi a essa in salita.

SABRINA CASADEI artista e atelierista

Sono arrivata a Reggio Children ormai due anni e mezzo fa, e lì ho cominciato questa nuova esperienza come atelierista. Sentendo la parola “atelierista” spesso le persone sgranano gli occhi, la maggior parte pensa sia un lavoro relativo alla moda, quando invece è legato al campo dell’educazione. La figura dell’atelierista nasce alla fine degli Anni Settanta nelle scuole comunali dell’infanzia e nei nidi di Reggio Emilia. L’idea è di integrare nelle scuole una persona con formazione artistica che progetti contesti di apprendimento insieme alle insegnanti.

ARTISTI CHE FANNO ALTRO

cocktail bar

Nel 2015 ho fondato un club nelle Isole Eolie, Il Giardino di Lipari, che nel 2021 è stato inserito tra i migliori 30 cocktail bar d’Italia. Negli anni è diventato un brand a tutti gli effetti con il quale realizzo una grappa (come Cattelan!) aromatizzata con le scorze di mandarino degli alberi del locale. È aperto

Da bambino amavo disegnare e sciare; disegnare era fattibile, lo sci invece, abitando a Nettuno ed essendo di famiglia modesta, non fu facile. Cominciai a praticarlo a 13 anni, in modo rocambolesco e faticoso, lavorando in estate per permettermi un po’ di sci d’inverno. Con passione e impegno cominciai a competere e a 22 anni, mentre studiavo all’ISEF, superai le selezioni di ammissione al corso maestri di sci e nel 1988 divenni maestro, dopo allenatore e quindi guida escursionistica.

Nessun limite, ma solo possibilità, grande libertà e indipendenza. Trovo questa condizione ideale alla mia natura, mi muovo flu -

A Roma conducevo alcuni laboratori nelle scuole, in collaborazione anche con la Fondazione smART. Eppure ero in cerca di altro, che non fosse determinato dal tempo del laboratorio stesso. Immaginavo di poter far parte di un processo più lungo di conoscenza, così ho iniziato a cercare informazioni sugli approcci educativi esistenti, finché non sono approdata al Reggio Emilia Approach; mesi dopo, sul loro sito è apparso un avviso pubblico per l’assunzione di due atelieristi.

Più che una doppia anima lo vedo come un intreccio tra la ricerca fatta in studio in solitaria e quella condivisa con il mio gruppo di lavoro a Reggio. Un gruppo riccamente eterogeneo con cui coltivo la relazione tra saperi ed esperienze, all’interno del Centro Internazionale Loris Malaguzzi, sede di RCH. In questo centro di ricerca progettiamo e accogliamo negli atelier bambini, ragazzi e adulti in formazione. Questa filosofia educativa sicuramente ha portato nel mio campo di indagine studi e interessi a cui non sarei altrimenti arrivata. Per certo è un lavoro immersivo: non è sempre facile emergere senza rischio di apnea.

STORIES
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Il servizio delle uova da Luminist, Gallerie d'Italia Napoli. Photo Alberto Blasetti

IL PUNTO SUI RISTORANTI NEI MUSEI IN ITALIA

STORIA, EVOLUZIONE E FUTURO DEL SODALIZIO TRA CULTURA E GASTRONOMIA

Il primato spetta al Victoria & Albert Museum di Londra, che già nel 1857 disponeva di spazi adibiti al ristoro. Ma l’Italia non è da meno: è infatti nei pressi di Torino, al Castello di Rivoli, che è nato il matrimonio fra arte contemporanea e alta gastronomia, incarnata dallo chef Davide Scabin e dal suo Combal.Zero. Com’è evoluto nel tempo questo rapporto?

Ve lo raccontiamo in queste pagine degne di lapis e taccuino per gli appunti.

LIVIA MONTAGNOLI

Un viaggiatore degli Anni Cinquanta sarebbe certamente rimasto stupito nell’apprendere che oggi, nei nostri musei, è possibile mangiare (e mangiare bene), fare acquisti, ascoltare un concerto o partecipare a un ricevimento”. Lo scrive lo storico dell’arte statunitense Andrew McClellan nel 2008, in un testo che indaga l’evoluzione del museo, mentre i servizi aggiuntivi conquistano uno spazio sempre più articolato e autonomo nell’ambito dell’esperienza museale. Uno spunto critico registrato quindici anni or sono, non privo di una malcelata preoccupazione per il destino dei musei e della loro identità, e pronto a ribadire la necessità di mantenere separati i ruoli (su una linea di pensiero che ancora incontra diversi illustri fautori, preoccupati dalla “commercializzazione” della cultura).

Eppure, proprio in America, già nel 1954 il Metropolitan Museum of Art di New York si dotò di una caffetteria che avrebbe precorso i tempi. Per non parlare dell’esperienza inglese al Victoria & Albert Museum, vero pioniere della ristorazione museale, avviata già nella seconda metà dell’Ottocento.

IL MUSEO COME SPAZIO DA VIVERE

Oggi il quadro è molto cambiato, in funzione di un’identificazione del museo come luogo di aggregazione essenziale nella costruzione di un senso e di una memoria di comunità. Del resto, quando nel delineare una definizione di museo aggiornata sulle esigenze correnti, l’ICOM – che auspica un’istituzione accessibile e inclusiva – si dilunga nella descrizione di luoghi in grado di offrire “esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”, non fa che confermarne la pluralità di intenti e opportunità da mettere al servizio della collettività.

Uno spazio piacevole da vivere, non solo per la sua missione culturale e divulgativa, ma anche per la bellezza dei luoghi e per la qualità dei servizi proposti, fa bene a tutti: alla città e a chi la abita, al sistema turistico e imprenditoriale. E se all’estero la sinergia con la ristorazione già da tempo produce ottimi risultati, anche l’Italia, nell’ultimo decennio, ha iniziato a muoversi con una consapevolezza crescente. Che si tratti di istituzioni pubbliche o private, la compagine di realtà culturali inclini a scommettere su progetti gastronomici che non releghino l’offerta ristorativa del

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LA SITUAZIONE ALL’ESTERO: I MODELLI DA SEGUIRE E LE ULTIME NOVITÀ

Nel cercare il primo esempio di ristorazione museale nella storia, la macchina del tempo ci conduce al XIX secolo. Al Victoria & Albert Museum di South Kensington, Londra, già nel 1857 i visitatori che giungono con le loro carrozze all’ingresso affacciato sul giardino sono accolti da una serie di ambienti adibiti a ristoro. Un allestimento provvisorio, voluto dal direttore dell’epoca, Henry Cole, per incoraggiare la cittadinanza a visitare un luogo di cultura. L’intuizione si rivelerà fondata, e già un decennio più tardi, nel 1868, saranno inaugurati tre saloni riccamente decorati secondo l’eclettismo dell’era Vittoriana – Gamble, Poynter e Morris Room – che daranno al più celebre museo di arti applicate d’Europa il primato per lo sviluppo di un servizio di accoglienza e ristorazione all’altezza della sua missione culturale e coerente con la promozione del design e dell’artigianato di qualità. Tra maioliche dipinte, sfarzosi lampadari, tappezzerie d’autore (al progetto lavora, tra gli altri, William Morris), specchi e suppellettili raffinate, bistrot e ristorante del V&A non hanno nulla da invidiare ai caffè parigini dell’epoca. E una delle sale dispone persino di una griglia a vista per cucinare davanti agli ospiti le pietanze calde. Secondo i dettami del tempo, inoltre, l’offerta gastronomica è articolata in più menu, tra piatti ideati per accontentare i clienti più illustri e formule riservate al personale del museo. La lungimiranza dell’operazione è confermata dalla sua longevità: oggi, chi visita il V&A può ancora godere di questi spazi, rinnovati nel 2006, per sorbire un tè, consumare un sandwich o un pasto caldo.

Ma proprio Londra ha fatto registrare negli ultimi mesi la defezione di un altro ristorante museale di lungo corso, il Rex Whistler della Tate Britain. La decisione è stata sancita senza possibilità di appello nei primi mesi del 2022, in risposta alle polemiche suscitate dalla grande pittura murale realizzata nel 1926 da Rex Whistler (da cui il nome dell’insegna), tacciata di razzismo. Lo spazio riaprirà nel 2023, con una nuova opera commissionata a Keith Piper per spiegare il contesto in cui è maturato il murale degli Anni Venti. Ma il ristorante non sarà ripristinato e il museo provvederà con “soluzioni alternative”.

Eppure, nel mondo, la ristorazione museale può contare su un buon numero di modelli da imitare, peraltro molto diversi tra loro. Si distinguono in tal senso due esperienze di lungo corso: The Modern al MoMA di New York, affidato nel 2005 all’iniziativa dell’Union Square Hospitality Group di Danny Meyer, che qualche anno più tardi provò a replicare al Whitney Museum con Untitled, oggi chiuso; il Nerua del Guggenheim di Bilbao, ristorante aggiunto al bistrot del museo, e con ingresso indipendente, aperto nel 2011 da chef Josean Alija, e presto insignito con la stella Michelin. Il secondo caso dimostra come sempre più spesso, oggi anche in Italia, si cerchi di concretizzare una sinergia tra istituzione museale e alta ristorazione, che, “ospite” di uno spazio culturale, trova terreno fertile per esprimersi. Succede anche ad Amsterdam, al Rijks, inaugurato nel 2014 nell’ala Philips del Rijksmuseum, che con altri ristoranti museali del Nord Europa condivide l’intenzione di farsi appendice culturale del museo, per educare a conoscere le tradizioni e le radici gastronomiche nazionali (si veda il ristorante Lysverket, presso l’omonimo museo nel polo Kode, a Bergen). Sempre in Olanda, anche l’innovativo Depot Boijmans di Rotterdam ha voluto dotarsi di un ristorante ambizioso, Renilde, sul tetto della struttura specchiata progettata dallo studio MVRDV. Mentre è necessario tornare oltreoceano per registrare la fortunata parentesi del progetto In Situ, concepito come costola gastronomica del San Francisco Museum of Modern Art nel 2016 e sviluppato dallo chef Corey Lee come fosse una galleria d’arte, però dedicata alle creazioni più celebri di noti cuochi internazionali. Ottenuta la stella nel 2019, due anni più tardi il ristorante ha chiuso i battenti, anche per gli effetti della pandemia. E se in tutto il mondo si rintracciano casi eccellenti di convivenza tra cultura e gastronomia – a Singapore l’Odette della National Gallery è una delle migliori tavole della città –, è la Francia a esprimere nel modo più efficace e compiuto questa tangenza. Seminale l’esperienza del MAC/VAL di Vitry-sur-Seine, dove nel 2005 il ristorante Transversal era guidato da Inaki Aizpitarte. Mentre Parigi, sulla scia di esperienze consolidate come Georges, sul tetto del Centre Pompidou, o il bistrot del Musée d’Orsay, ha visto moltiplicarsi insegne degne di nota all’interno dei musei cittadini, come Le Frank (omaggio a Frank Gehry) alla Fondation Louis Vuitton, Ore di Alain Ducasse a Versailles, Halle aux Grains alla Bourse de Commerce (dall’incontro tra François Pinault e la famiglia Bras, iconica realtà della ristorazione francese). Del resto, la visione francese si esprime anche in trasferta, coinvolgendo sempre personalità di primo piano. Così si spiegano la riproposizione della storica brasserie Fouquet’s (dal 1899 sugli Champs- Élysées) al Louvre Abu Dhabi, in collaborazione con Pierre Gagnaire, e l’arrivo di Ducasse a Doha, per curare il ristorante del National Museum of Qatar, progettato dallo studio Koichi Takada all’interno del progetto sfarzoso di Jean Nouvel.

Caffè Doria, Galleria Doria Phampili, Roma Photo Andrea Di Lorenzo

museo a semplice necessità, cresce di anno in anno. E per chi ha l’ambizione di investire nel settore con cognizione di causa arrivano anche importanti riconoscimenti.

I TRAGUARDI DELLA RISTORAZIONE

MUSEALE

A Milano – unica città italiana a vantare un ristorante museale tristellato, con Enrico Bartolini all’ultimo piano del MUDEC, che è anche l'unica insegna nell'Olimpo Michelin in città – la Fondazione Luigi Rovati non ha mai nascosto l’aspirazione del suo progetto. Alla fine dell’estate scorsa, il palazzo di corso Venezia 52, restaurato e riqualificato dallo studio MCA – Mario Cucinella Architects, ha aperto le porte al pubblico, con l’ipogeo dedicato alla civiltà etrusca, gli spazi espositivi del piano nobile dedicati all’arte contemporanea, i suoi molteplici servizi, dalla sala studio al punto vendita della casa editrice Johan & Levi, al caffè-bistrot con affaccio sul giardino interno. E il ristorante all’ultimo piano dell’edificio, con la cucina firmata da Andrea Aprea, negli ambienti progettati da

IL CONTROVERSO

Flaviano Capriotti (che ha disegnato anche il bar). Non un volto nuovo per la città, quello del cuoco campano, che subito ha riconfermato il proprio valore, portando una nuova stella Michelin a Milano.

COMBAL.ZERO DI DAVIDE SCABIN, PER ANNI TEMPIO DELL’AVANGUARDIA GASTRONOMICA AL CASTELLO DI RIVOLI.

Certo non sono solo, o necessariamente, i riconoscimenti di una guida a decretare se è stata intrapresa la strada giusta: citiamo l’esempio controverso del Combal.Zero di Davide Scabin, per anni tempio dell’avanguardia gastronomica al Castello di Rivoli, esperienza naufragata nel 2020 per questioni di mala gestione, che nulla tolgono alla genialità del cuoco, ma fanno riflettere sulla sostenibilità economica dell’alta ristorazione, e su quanto sia rischioso investirvi. Ma permettere a chef di alto profilo di esprimersi nell’alveo di un luogo dove si fa cultura, oltre che ontologicamente sensato (perché il cibo è cultura, al di là degli sterili slogan che hanno banalizzato questa verità), si rivela spesso un buon affare. Seminale, in tal senso, è

STORIES MUSEI E RISTORANTI
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Flaviano Capriotti

Architetti, Andrea Aprea

Ristorante, Fondazione

Luigi Rovati, Milano

Photo Giovanni De Sandre

PROGETTARE UN RISTORANTE AL MUSEO #1 FLAVIANO CAPRIOTTI PER ANDREA APREA ALLA FONDAZIONE LUIGI ROVATI

Non è nuovo ai progetti dedicati alla ristorazione lo studio di Flaviano Capriotti. Per citare alcuni progetti recenti, andiamo da Mio Lab e Vun, rispettivamente bar e ristorante (quest’ultimo in capo proprio ad Andrea Aprea) del Park Hyatt di Milano disegnati nel 2015, al nuovo ristorante dello stesso hotel, Pellico 3, riprogettato nel 2022. Nello stesso anno, Flaviano Capriotti si è occupato del caffè bistrot (in giardino) e del ristorante (panoramico all’ultimo piano) della Fondazione Luigi Rovati nel capoluogo lombardo.

Com’è stato confrontarsi con un edificio storico per progettare uno spazio che fosse funzionale alla destinazione d’uso di un ristorante, però coerente con l’identità culturale e museale della Fondazione Luigi Rovati?

Ci siamo trovati a progettare due punti di ristorazione su livelli diversi: il ristorante gastronomico è all’ultimo piano, nell’ex sottotetto, uno spazio non nobile del palazzo; il caffè bistrot è al piano terra, spazio nobile di un palazzo storico dalla seconda metà dell’Ottocento, ricco di boiserie e bronzi. Nel sottotetto non potevamo utilizzare materiali sfarzosi, abbiamo concentrato l’attenzione su legno e terracotta, però in connessione con l’identità del museo e con la collezione etrusca, lavorando sul bucchero. Gli etruschi utilizzavano questa cottura in assenza di ossigeno per i loro vasi, al ristorante abbiamo deciso di rivestire le pareti con semicilindri di bucchero, una forma che richiama la tecnica della colombina, usata all’epoca per modellare i grandi orci in assenza di tornio. La stessa forma l’abbiamo replicata per il bancone del bar, però utilizzando il bronzo. Per l’area del bistrot, del resto, abbiamo optato per materiali della tradizione alto-borghese milanese, dal pavimento in seminato alla veneziana al legno di noce, che è il materiale tradizionale della storia della falegnameria italiana, per le pareti.

La progettazione architettonica, in questo contesto, può aiutare a rafforzare la sinergia tra dimensione museale e spazi destinati alla ristorazione? A quale obiettivo deve tendere uno spazio di accoglienza e ospitalità all’interno di un museo?

Il bar-bistrot è un servizio che si offre al visitatore, uno spazio accogliente che riflette lo spirito del palazzo, mentre il ristorante è una destinazione a sé, autonoma. Avere un ristorante all’ultimo piano vuol dire che il cliente, quando arriva, ha già fatto un percorso: entra nell’androne del palazzo, poi accede al corridoio e lì inizia a sperimentare il contesto. Abbiamo utilizzato questo passaggio per far capire a chiunque che si trova in uno spazio di cultura: chi arriva la sera, quando il museo è chiuso, potrebbe non sapere, e allora il corridoio è stato concepito come una galleria d’arte, lavorando in sinergia con la famiglia Rovati. Volutamente lo spazio è neutro, con luce tecnica di qualità museale per dare priorità alle opere d’arte, selezionate dalla collezione Rovati. D’altro canto, era necessario vestire il ristorante sulle esigenze di Andrea Aprea: in sala l’attenzione si concentra sulla cucina, che diventa il palcoscenico di un teatro. E poi c’è il discorso sulla funzionalità: un bar e un ristorante sono spazi di lavoro e di fruizione intensiva, fondamentale pensare al comfort del cliente. Penso alle sedie imbottite realizzate custom sulla necessità di stare seduti tre ore senza stancarsi.

Che ruolo ha giocato il coinvolgimento di maestranze artigianali?

Disporre di maestranze di qualità è sempre importante, la visione particolarmente ispirata della famiglia Rovati ci ha permesso di condurre una ricerca accurata, come nel caso dell’artigiano della Tuscia che ho interpellato per il lavoro sul bucchero.

Il progetto ha beneficiato della collaborazione con gli artisti della Fondazione. In che direzione? Oltre alle opere del corridoio, il rapporto con la famiglia ci ha permesso di commissionarne altre site specific: per il retro del timpano, al ristorante, la famiglia ha proposto Andrea Sala, che ha realizzato un’opera pensata per resistere alle intemperie e al sole. Al bistrot, invece, abbiamo un acquerello di Mauro Ceulin, che ha lavorato su un foglio di carta prodotto su misura a Fabriano. Senza la collaborazione di una famiglia mecenate, queste connessioni non sarebbero state possibili.

flavianocapriotti.it

stata proprio l’esperienza di Scabin al Castello di Rivoli. Nel 2002, lo chef piemontese trasferisce il suo Al Combal dalla bassa Val di Susa di Almese alle porte di Torino: l’avanguardia che aveva iniziato ad agitarsi sotterranea, e quasi clandestina, nella sua cucina di provincia, trova nel Castello di Rivoli un palcoscenico di prim’ordine. Museo e ristorante si potenziano vicendevolmente, e il Combal.Zero esprime un’idea di ristorazione mai vista prima in Italia; ma l’idillio si spezzerà progressivamente, incapace di resistere alla tempesta di una gestione genio e sregolatezza. Più o meno in concomitanza, si conclude nel 2019 anche un altro sodalizio lungimirante e longevo, quello tra Antonello Colonna e il Palazzo delle Esposizioni di Roma: già nel 2007, il cuoco di Labico porta, con Open Colonna, la sua idea di ristorazione museale nell’attico-serra progettato da Paolo Portoghesi. Bisognerà aspettare qualche anno prima che un altro chef votato alla creatività trovi lo spazio di manovra ideale all’interno di un museo: è il 2012 quando Cristiano Tomei trasferisce L’Imbuto negli spazi del LU.C.C.A. In tempi più recenti, hanno raccolto il testimone numerosi rappresentanti di spicco del panorama gastronomico italiano, sostenuti dall’iniziativa di istituzioni museali di vario profilo. Alfio Ghezzi, cuoco trentino con trascorsi illustri, ha incrociato la strada del MART di Rovereto nel 2019, modulando una duplice offerta, tra alta cucina (Senso, pure lui stellato) e bistrot: “Aprire un ristorante dentro a un museo fino a pochi anni fa sembrava poco logico, e invece si è rivelato un’opportunità. Il museo è un luogo di aggregazione, dove le persone si recano per stare bene: quando ho scelto il MART ho valutato l’opzione di precludermi un certo tipo di clientela, ma le persone che amano l’arte possono avere uno spiccato interesse per il lavoro che facciamo al ristorante. Sono modi di vedere sostenuti da una sensibilità comune, a patto di lavorare in coerenza con il luogo che ci ospita e comprendere le esigenze dei visitatori. Per questo trovo che il museo sia il mio luogo ideale”. Senza contare le ricadute pratiche del sodalizio: “Siamo in provincia, i flussi non sono mai costanti come avviene nelle grandi città, ma qui il museo diventa volano, centro di attrazione: una mostra che funziona giova a noi e a tutta la vallata. Per contro ci sono gourmet che scelgono di fermarsi qui per il ristorante, e con l’occasione decidono di visitare il museo. Diventa un’attività sinergica. Siamo più spesso noi a beneficiarne, soprattutto nella parte del bistrot: essere collocati in un contesto che attira un certo tipo di clientela è molto positivo per la sostenibilità dell’impresa”.

UN SODALIZIO LUNGIMIRANTE E LONGEVO, QUELLO TRA ANTONELLO COLONNA E IL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI DI ROMA.

STORIA DELLA RISTORAZIONE MUSEALE IN ITALIA

2002

Davide Scabin porta il suo Combal.Zero (chiuso definitivamente nel 2020) al Castello di Rivoli

2007

All’attico-serra del Palazzo delle Esposizioni di Roma Antonello Colonna apre Open Colonna (cambio sede nel 2019)

2010

Giacomo Arengario debutta all’ultimo piano della Torre che accoglie il nuovo Museo del Novecento di Milano

2012

Cristiano Tomei trasferisce L’Imbuto all’interno del LU.C.C.A., il Lucca Center of Contemporary Art (dove resterà fino al 2019, prima di un nuovo trasloco, alla volta di Palazzo Pfanner)

2015

La Leggenda dei Frati di Filippo Saporito trasloca dal Chianti al Museo di Villa Bardini a Firenze

2016

Enrico Bartolini arriva a Milano e apre il suo ristorante al Mudec

Angiolo Barni apre il ristorante Myo al Centro Pecci di Prato

2018

La Fondazione Prada di Milano apre il ristorante Torre (dopo il Bar Luce di Wes Anderson inaugurato nel 2015)

Vòce Aimo e Nadia apre nella sede milanese di Gallerie d’Italia, in piazza della Scala

2019

Alfio Ghezzi apre ristorante fine dining e bistrot al MART di Rovereto

RISTORANTI AL MUSEO TRA SUCCESSI E DIFFICOLTÀ

Hanno precocemente investito su servizi di ristorazione degni di nota anche il Centro Pecci di Prato, dov’è storia di lungo corso il sodalizio con chef Angiolo Barni, patron di Myo; Villa Bardini a Firenze, con Filippo Saporito e La Leggenda dei Frati, che in sala dà spazio a una collaborazione ultradecennale con la Galleria Continua di San Gimignano; la Fondazione

2022

Andrea Aprea apre il suo ristorante alla Fondazione Luigi Rovati di Milano

Gallerie d’Italia coinvolge i fratelli Costardi e Giuseppe Iannotti per coordinare l’offerta gastronomica delle nuove sedi di Torino e Milano

STORIES MUSEI E RISTORANTI
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Sandretto Re Rebaudengo di Torino, con il ristorante Spazio7, che ha mantenuto la stella nonostante il recente cambio chef, con l’arrivo di Antonio Romano. Sempre nel capoluogo piemontese citiamo la Reggia di Venaria Reale, dove si mangia alla tavola del Dolce Stil Novo, e il progetto La Pista 500 della Pinacoteca Agnelli, che sul tetto del Lingotto ha voluto anche un ristorante d’ambizione, La Pista. Diverso, ma comunque calato nell’universo culturale e della committenza artistica, è il caso del progetto che nel 2022 ha portato Luigi Taglienti a Piacenza, negli spazi adiacenti alla galleria Volumnia, per volontà di Enrica De Micheli. Una scommessa che, a meno di un anno dall’esordio, sta rivelando la sua solidità. Mentre a proposito di riconoscimenti recenti arriviamo a Palermo per segnalare un’altra nuova stella, che premia il lavoro di Carmelo Trentacosti al MEC, peculiare ibridazione tra museo (sulla storia dei computer) e ristorante ideata da Giuseppe Forello, negli ambienti storici di Palazzo Ca-

IL MAXXI DI ROMA NON HA ANCORA TROVATO UNA SOLUZIONE COERENTE CON IL PROPRIO PROFILO.

strone. Già diventata un classico della moderna cucina d’autore è invece la Gucci Osteria, che ci riporta a Firenze per scoprire il ristorante affidato alla supervisione di Massimo Bottura (ma sotto la guida sicura di Karime Lopez e Takahiko Kondo), nato in continuità con il Museo Gucci di piazza della Signoria.

MANGIARE AL MUSEO

TRA ROMA E MILANO

Roma si conferma una piazza difficile (o non abbastanza ambiziosa?) per la ristorazione museale, nonostante l’esperienza precoce del fu Open Colonna. Nella Capitale, dove neanche un polo importante come il MAXXI ha ancora trovato una soluzione coerente con il proprio profilo (mentre il bar del museo gira decisamente bene e risponde alle esigenze di chi lo frequenta), hanno aperto negli ultimi mesi progetti, un po’ sottotono, come Molto alla Galleria Borghese e Livia a Palazzo Massimo; mentre più soddisfacente è il Caffè Doria, che completa il percorso di Palazzo Doria Pamphilj negli ambienti che furono le scuderie della dimora signorile, e peculiare l’esperimento di Spazio Field a Palazzo Brancaccio, con il ristorante Roland.

Ricollegandoci alle battute iniziali, proprio Milano sembra aver capitalizzato al meglio le opportunità del sodalizio tra cultura e gastronomia. Oltre ai già citati Mudec e Fondazione Luigi Rovati, la storia della ristorazione museale in città prende le mosse dal Museo del Novecento, con Giacomo Arengario negli spazi progettati da Laura Sartori Rimini e Roberto Peregalli, e si declina in direzioni molteplici, dal panoramico ristorante La Torre in Fondazione Prada, con la cucina brillante di Lorenzo Lunghi (per Artribune è il miglior ristorante museale del 2022), al salotto di Vòce per Gallerie d’Italia, alla Terrazza Triennale, alla moltitudine di caffetterie – spesso con piccola cucina – nate a corredare l’offerta di musei vecchi e nuovi. Format strategico nell’accompagnare le attività museali, il bar – a patto di non limitarsi a qualche panino stantio e caffè imbevibili – può rivelarsi un’ottima vetrina per il museo. A Milano convincono Fernanda alla Pinacoteca di Brera, il Lùbar della Galleria d’Arte Moderna, l’Officina Design Cafè dell’ADI Design Museum (questi tre sono dei bar abbastanza ordinari quanto a contenuti, ma davvero curati in termini estetici e architettonici), l’immaginifico Bar Luce ideato da Wes Anderson in Fondazione Prada. E poi il ristoro e gastronomia Degustazione, alla Casa degli Artisti, che settimanalmente organizza anche un mercatino di frutta e verdura invitando produttori lombardi. Si distingue, nel genere, anche la pasticceria raw – vegan e crudista – di Vito Cortese (Cafè 900), elegante appendice del Museo Novecento di Firenze, con dehors nel loggiato affacciato su piazza di Santa Maria Novella. Mentre debutterà nel 2023 la prima caffetteria del MArTa di Taranto.

IL MODELLO GALLERIE D’ITALIA

Nel panorama nazionale, è Intesa Sanpaolo a consolidare una strategia esemplare sul tema: dopo il salotto milanese di Vòce, in Piazza della Scala, il gruppo fautore delle Gallerie d’Italia conferma la capacità di selezionare personalità gastronomiche che sappiano portare un valore aggiunto all’esperienza museale, con buona dose di sperimentazione e volontà di esplorare nuovi linguaggi, lavorando peraltro sulla qualità in tutte le tipologie d’offerta.

È un tema su cui abbiamo molto ragionato”, spiega il direttore di Gallerie d’Italia Michele Coppola, “tanto da produrre una sorta di documento programmatico che contiene le riflessioni sulla materia: Gallerie d’Italia Kitchen. Se il museo è il luogo che valorizza e pro-

GALLERIE D’ITALIA SELEZIONA PERSONALITÀ GASTRONOMICHE CHE SANNO PORTARE UN VALORE AGGIUNTO ALL’ESPERIENZA

MUSEALE.

muove la cultura, in Italia non può non tener conto di quanto la gastronomia esalti le identità territoriali: il connubio ci è sembrato naturale. Finora questo impegno ci ha premiato, sin dal primo progetto in piazza della Scala, a Milano, dove con Vòce abbiamo scelto di amplificare la funzione del contesto, ideando una piazza gastronomica, così che il museo potesse affacciarsi sulla città”. Anche per la qualità della proposta concertata dal team di Aimo e Nadia – con Alessandro Negrini e Fabio Pisani a guidare le operazioni in cucina – Vòce ha fatto scuola, e il gruppo ha scelto di replicare l’approccio in piazza San Carlo, a Torino, e in via Toledo, a Napoli: “Alla base c’è il principio della rigenerazione urbana. Quando con Michele De Lucchi [che con AMDL Circle segue la progettazione architettonica di Gallerie d’Italia, N.d.R.] abbiamo ragionato sulle trasformazioni di Torino e Napoli, ci siamo detti che i musei del presente, pur partendo dalle collezioni, devono aprirsi alla città. Sono luoghi di esperienza, che nascono all’interno di palazzi storici e di pregio trasformati per essere centro di cultura, ma anche motore di business, per sostenere la piccola e media impresa, com’è nella filosofia di Intesa Sanpaolo. E così Kitchen diventa completamento della trasformazione”. A Torino la scelta è caduta sui Fratelli Costardi, già volto della ristorazione d’autore piemontese a Vercelli. Negli ultimi giorni del 2022, sotto la loro guida, è rinato il Caffè San Carlo (chiuso dal 2020), rinnovato nel rispetto degli spazi ottocenteschi dallo studio Lamatilde: caffetteria e bistrot, il locale segue la giornata del museo, restituendo al contempo alla città un luogo che ne ha fatto la storia. Diversa l’atmosfera di Scatto, il ristorante fine dining pronto a inaugurare negli spazi adiacenti al Caffè. A Napoli, invece, è arrivato Giuseppe Iannotti, chef patron del Krèsios di Telese Terme, all’esordio nel capoluogo campano. Al piano terra di Palazzo Piacentini – ex Banco di Napoli, progettato da Marcello Piacentini, oggi sede delle Gallerie d’Italia in centro città – Luminist è la caffetteria con bistrot del museo, con una cucina che omaggia la tradizione partenopea (il resident chef designato è Antonio Grazioli), in vista del debutto di Toledo 177, ristorante fine dining e cocktail bar (AntHill, il nome) con terrazza panoramica. “La selezione degli chef è frutto di un processo condiviso all’interno della Banca”, sottolinea Coppola, “tra la direzione arte e cultura che rappresento e il settore marketing e immagine, guidato da Fabrizio Paschina. L’obiettivo non è mai quello di affittare uno spazio: vogliamo individuare interlocutori che sposano la nostra filosofia e ci affiancano in una attività votata alla valorizzazione della creatività e della cultura. E proprio con Alessandro Negrini stiamo ragionando sulla possibilità di far incontrare intorno a un tavolo i principali attori museali d’Italia, insieme a chef e ristoratori interessati a tracciare le linee guida per un sodalizio proficuo tra luoghi di cultura e ristorazione, teso a promuovere il talento italiano”. Il 2023 della ristorazione museale italiana si preannuncia avvincente.

STORIES MUSEI E RISTORANTI
Bistrot Alfio Ghezzi, MART, Rovereto
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I MIGLIORI RISTORANTI TRA MUSEI, FONDAZIONI E GALLERIE

MILANO

FONDAZIONE PRADA Bar Luce | La Torre fondazioneprada.org

MUSEO DEL NOVECENTO Arengario giacomomilano.com

GALLERIE D’ITALIA Vòce gallerieditalia.com

MUDEC Enrico Bartolini enricobartolini.net

FONDAZIONE LUIGI ROVATI Andrea Aprea andreaaprea.com

TRIENNALE DI MILANO Terrazza Triennale osteriaconvista.it

GAM – GALLERIA D’ARTE MODERNA LuBar lubar.it

ADI DESIGN MUSEUM Officina Design Cafè officinadesigncafe.com

VARESE

VILLA E COLLEZIONE PANZA Luce ristoranteluce.it

PINACOTECA DI BRERA Caffè Fernanda caffefernanda.com

VENARIA REALE

REGGIA DI VENARIA Dolce Stil Novo dolcestilnovo.com

TORINO NUVOLA LAVAZZA Condividere condividere.com

FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO Spazio 7 ristorantespazio7.it

PISTA 500 La Pista ristorantelapista.com

GALLERIE D’ITALIA Caffè San Carlo | Scatto gallerieditalia.com

PRATO CENTRO PECCI Myo ristorantemyo.it

ROMA GALLERIA DORIA PAMPHILI Caffè Doria caffedoria.it

MUSEO DI ROMA – PALAZZO BRASCHI Vivi Bistrot vivi.it

GALLERIA BORGHESE Molto moltoristorante.it

MUSEO NAZIONALE ROMANO – PALAZZO MASSIMO Livia museonazionaleromano.beniculturali.it/palazzo-massimo

SPAZIO FIELD Roland spaziofield.com

CASA DEGLI ARTISTI Degustazione degustazione.org

PLAN DE CORONES

MUSEO DELLA MONTAGNA AlpiNN alpinn.it

ROVERETO MART Alfio Ghezzi Bistrot | Senso alfioghezzi.com

PIACENZA

GALLERIA VOLUMNIA Io Luigi Taglienti ioristorante.it

FIRENZE GUCCI Gucci Osteria gucciosteria.com

MUSEO NOVECENTO Cortese Café 900 cortesecafe900.com

VILLA BARDINI La Leggenda dei Frati laleggendadeifrati.it

NAPOLI GALLERIE D’ITALIA Luminist | Toledo 177 | AntHill gallerieditalia.com

PALERMO MEC MUSEUM MEC mecrestaurant.it

PROGETTARE UN RISTORANTE AL MUSEO #2 LAURA SARTORI RIMINI E ROBERTO PEREGALLI PER GIACOMO ARENGARIO AL MUSEO DEL NOVECENTO

Lo Studio Peregalli, composto da Laura Sartori Rimini e Roberto Peregalli, è noto per la sua “invenzione del passato”, come titolava il libro a esso dedicato nel 2011. Nulla di più sfidante, dunque, che lavorare all’interno di un edificio museale.

Com’è stato confrontarsi con un edificio storico per progettare uno spazio che fosse funzionale alla destinazione d’uso di un ristorante, però coerente con l’identità culturale e museale dell’Arengario?

In ogni progetto che facciamo, in uno spazio pubblico o privato, il nostro punto di partenza è sempre il confronto con la storia dell’edificio. In questo caso specifico, in cui il luogo ha un’identità museale forte e il dialogo si rende ancora più necessario, la difficoltà maggiore è stata la trasformazione degli spazi concessi dal Comune, spazi di risulta rispetto al museo, con una forma complessa e una loggia aperta, in un luogo che potesse accogliere un ristorante che, oltre a essere funzionale, aggiungesse fascino al museo, dando la possibilità al visitatore di godere della vista del Duomo e della sua piazza da un punto di vista speciale.

La progettazione architettonica, in questo contesto, può aiutare a rafforzare la sinergia tra dimensione museale e spazi destinati alla ristorazione? A quale obiettivo deve tendere uno spazio di accoglienza e ospitalità all’interno di un museo? Nel resto del mondo la tendenza a creare spazi di accoglienza e di piacere all’interno dei musei è una consuetudine già in uso da diversi anni, basti pensare al MoMA di New York o al Centre Pompidou di Parigi. In questo caso vedevamo una potenzialità nel fatto che il ristorante fosse al servizio del museo, ma, vista la sua collocazione molto peculiare rispetto alla città, volevamo che fosse un luogo attrattivo per i visitatori anche quando il museo è chiuso, con il piano superiore dedicato a Lucio Fontana comunque sempre acceso e visibile dalla piazza, la possibilità di visite serali per piccoli gruppi, eventi speciali, oppure semplicemente respirare l’aura del museo anche durante una cena apparentemente normale. Quali sono gli elementi caratterizzanti e salienti del progetto sviluppato per il ristorante Giacomo Arengario al Museo del Novecento?

Principalmente è stato un approccio architettonico con la creazione di spazi caratterizzati da lesene in legno ebanizzato e in metallo, soffitti a cassettoni, lacche, pannelli in foglia oro… Ogni angolo racconta una storia che scandisce lo stile di quegli anni. I dettagli preziosi, tra cui le tende di rame pensate come una rivisitazione dei sudaré giapponesi, gli specchi curvi, il brillio dei metalli si integrano in un disegno d’insieme ispirato a un’atmosfera Déco sia milanese che internazionale. Abbiamo immaginato uno spazio che dialogasse con il museo, avendo però una sua vita propria e reinterpretando il periodo storico artistico coevo all’edificio. Ogni ambiente ha una sua personalità. La pittura italiana presente nel museo ritorna qui sotto forma di architettura e decorazione. Così è nata l’idea di creare delle stanze che scandiscono anche le diverse zone del ristorante. Una hall, a tavoli bassi, poltroncine e divani con una decorazione alle pareti a fondo nero con le geometrie care a Jean Dunand. Un bar che, data la grande altezza, abbiamo immaginato costituito da elementi alti, in legno laccato di nero o rivestiti di specchio, che si slanciano verso il soffitto e ricordano le architetture metafisiche di de Chirico e Carrà (servendo a ospitare gli oggetti utili per il servizio) oltre agli archi che omaggiano Portaluppi. Una sala ristorante, omaggio a Loos, rivestita con pannellature di legno dorato e specchi invecchiati e un soffitto a cassettoni che danno un’illusione di uno sfondamento dello spazio. Poi, una galleria aperta sulla cucina con pannellature in lacca rossa degli Anni Trenta e un bancone dove si può mangiare. Infine il dehors, che si trova oltre il bar all’interno della grande loggia affacciata su piazza del Duomo, studiato come una struttura in ferro e vetro, essenziale, una sorta di gabbia nascosta tra gli archi, in equilibrio con l’architettura di Portaluppi.

Oltre alla storia dell’edificio, anche l’identità della collezione del museo ha influenzato la progettazione? Certamente l’ispirazione è venuta anche dalle opere esposte: de Chirico, Carrà, Sironi, Rosai, tra gli altri. Il lampadario a forma di astrolabio, per esempio, che illumina la zona bar e si vede anche dalla piazza, dialoga con l’installazione al neon di Fontana che si trova al piano superiore. C’è come una vibrazione metafisica, disegnata con un tratto definito e fermo, che percorre tutti gli spazi del ristorante. Volevamo creare una sorta di scrigno, una sorpresa incastonata all’interno del museo e un omaggio a un’epoca che con le sue contraddizioni ha lasciato un forte segno nel nostro tempo.

STORIES MUSEI
E RISTORANTI
Da Giacomo all'Arengario, Museo del Novecento, Milano Photo Massimo Listri
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sparti.it/premio-sparti/

AREE ESPOSITIVE Variazioni pop www.palazzotarasconi.it/mostra/roy-lichtenstein INGRESSO RIDOTTO A 10 € PER CHI PRESENTA ALLA BIGLIETTERIA QUESTO COUPON Palazzo Tarasconi Parma Strada Luigi Carlo Farini 37 © Estate of Roy Lichtenstein by SIAE 2023
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GIACOMO CERUTI/BRESCIA • GIOVANNI FATTORI/BOLOGNA ANTICO EGITTO/VICENZA
LUIGI GHIRRI/PARMA
BOB DYLAN/ROMA

Riscoprire la pittura di Giacomo Ceruti

La montagna negli scatti di Sella, Adams, Chambi e Hütte, la fotografia contemporanea di David LaChapelle, due ricognizioni storico-artistiche sul passato della città: il programma della Fondazione Brescia Musei per il 2023, che vede la Leonessa capitale della cultura insieme a Bergamo, è diversificato. Tra tutte spicca l’esposizione su Giacomo Ceruti (Milano, 1698-1767), curata al Museo di Santa Giulia da Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti. Ecco ragioni, caratteristiche e propositi della mostra nelle parole dei curatori.

Come è cambiata la percezione dell’opera di Ceruti nei secoli? In che modo la mostra affronta questo tema?

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Stefano Castelli dal 14 febbraio al 28 maggio 2023 MISERIA & NOBILTÀ. GIACOMO CERUTI NELL’EUROPA DEL SETTECENTO a cura di Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti Catalogo Skira MUSEO DI SANTA GIULIA Via Musei 81/b – Brescia bresciamusei.com
Giacomo Ceruti, Ragazzo con cesto di verdure, © National Museums NI, Ulster Museum Collection CERUTI / BRESCIA
GIACOMO alessandro morandotti: Giacomo Ceruti è oggi riconosciuto come uno dei protagonisti della storia dell’arte del Settecento europeo in virtù della sua produzione di ritratti, nature morte e soprattutto di scene di vita popolare. Queste specializzazioni, a causa della gerarchia dei generi artistici di eredità umanistica, non gli hanno permesso di entrare nel canone dei pittori più noti della sua epoca. Nonostante il suo grande successo in vita, Ceruti venne per questo dimenticato a lungo dopo la sua morte fino alla riscoperta nel corso del Novecento. Ad avvio della mostra, abbiamo seguito questa rinascita, restituendo il ruolo di Roberto Longhi; il grande studioso ha legato al nome di Ceruti opere finite nel catalogo di altri artisti, radicandone le scelte entro la tradizione della pittura lombarda della realtà.

alessandro morandotti: La tradizione degli studi su Ceruti è ormai ben consolidata, a partire dalla monografia in gran parte ancora attuale di Mina Gregori (1982). Abbiamo quindi innanzitutto radicato le scene di vita popolare di Ceruti in una rete di fatti precedenti e coevi molto serrata e credo molto nuova per il pubblico oltre che per gli studi; al contempo ampio spazio è destinato alla produzione del Ceruti più internazionale della piena maturità, anni in cui il pittore si confronta con la pittura veneta e francese a lui coeva restituendo nel suo caratteristico “dialetto” lombardo questi incontri. Non è un tradimento della realtà, ma solo un’apertura di orizzonti di uno dei più grandi sperimentatori del Settecento italiano.

L’intreccio di biografia e opera è particolarmente fitto nel caso di un autore quale Ceruti. Come si dipana questo filo lungo la mostra? francesco frangi: Nella vita di Ceruti ci sono due passaggi cruciali. Il primo è il precoce trasferimento da Milano a Brescia, all’inizio degli Anni Venti del Settecento. Quando giunge a Brescia il pittore si specializza subito nel ritratto e nelle scene pauperistiche, mettendo a punto un linguaggio fortemente orientato in senso naturalistico che ottiene il gradimento della committenza locale. Tutta la prima parte della mostra ripercorre questa stagione, alla quale fa seguito quella che si apre con il secondo episodio decisivo della biografia di Ceruti: il soggiorno in Veneto tra il 1736 e il 1739. A partire da quell’esperienza la pittura cerutiana si apre verso nuovi orizzonti. Le scene di genere diventano più rasserenate, a volte ironiche, i ritratti più scenografici, la tavolozza si schiarisce. E all’interno della mostra, di conseguenza, il clima muta vistosamente.

Come si inserisce l’opera di Ceruti nel lungo e rivoluzionario processo che porta dall’arte antica agli stravolgimenti dell’Ottocento, fino al cambio di paradigma che avverrà a fine Ottocento/inizio Novecento? Il suo pauperismo è anticipatore di mutamenti a venire?

francesco frangi: Ceruti rimane un uomo del suo tempo. Non bisogna guardarlo come un realista ottocentesco o moderno. Le sue tele non sono fotogrammi della realtà: i soggetti che mette in scena rispecchiano una tradizione ben consolidata, nata più di un secolo prima di lui. Le ragioni della grandezza dell’artista sono altre e risiedono nella capacità di rinnovare per così dire “dall’interno” quel repertorio, infondendo nelle opere una verità e un sentimento di empatia nei confronti dei ceti umili che non hanno precedenti. È per questo che chi osserva oggi i suoi dipinti giovanili ha la sensazione che essi restituiscano, come delle maestose istantanee, le concrete situazioni di vita degli emarginati. Non è così, ma in fondo la magia di Ceruti sta anche nella capacità di creare costantemente questa illusione.

GIACOMO CERUTI / BRESCIA

Il Ciclo di Padernello è annunciato come il clou dell’esposizione. Quali caratteristiche gli valgono questa posizione di importanza?

roberta d’adda: Sotto questo nome convenzionale si raccolgono sedici grandi tele con figure di poveri intenti in semplici attività quotidiane: furono scoperte nel 1931 in un castello della Bassa bresciana, a Padernello, e da allora hanno riscosso costante attenzione. Riunite in mostra a Brescia nel 1935 e poi, quasi tutte, a Milano nel 1953 per la rassegna longhiana dei Pittori della Realtà, non si vedevano insieme da allora. A Brescia ne avremo quattordici: un’occasione unica per godere di una visione d’insieme su questo nucleo, frutto forse di un’unica e ancora sconosciuta commissione e che si presenta come una delle imprese più significative del Settecento europeo. Ritroviamo nelle tele di Ceruti non solo la sostanza pittorica della polvere e degli stracci ma, soprattutto, la dignità degli umili.

Quali sono le altre opere da non perdere in mostra?

roberta d’adda: Se la Pinacoteca Tosio Martinengo è, per numero di opere, il museo di Giacomo Ceruti, i dipinti di questo artista sono per lo più conservati tutt’oggi in collezioni private: la mostra offrirà l’occasione quindi di vedere – a fianco di prestiti provenienti dall’Italia ma anche, per esempio, da Vienna e Göteborg – capolavori nella maggior parte dei casi inaccessibili al pubblico, posti in dialogo con Ribera, Fra Galgario, Rigaud e Piazzetta. Saranno presentati alcuni inediti sia di Ceruti sia di artisti che ebbero un approccio simile al suo nell’illustrare le scene di vita popolare. Tra questi ultimi, desterà grande curiosità il misterioso pittore noto come Maestro della tela jeans: un artista forse di origine nordica che sul finire del Seicento, in Lombardia, aggiorna la tradizione del naturalismo caravaggesco in modo affatto poetico e personale.

INTERVISTA ALLA PRESIDENTE E AL DIRETTORE DELLA FONDAZIONE BRESCIA MUSEI

Quale ricaduta positiva si aspetta dopo l’anno di Brescia/ Bergamo Capitali della Cultura? Non tanto sul piano degli introiti o del turismo, ma in particolare nell’ambito dei fondi e delle possibilità per la cultura e i musei di Brescia.

francesca bazoli: Sono certa che la grande attenzione mediatica e la frequentazione dei pubblici, incentivata dal grande evento, porterà i musei bresciani a essere riconosciuti come luoghi di grande qualità per la conservazione e la valorizzazione e, al contempo, veri e propri cantieri culturali di progettazione e produzione artistica. Da un lato i grandi raggiungimenti museali dell’ultimo triennio, dall’altro una modalità di approccio alla cultura che ibrida costantemente linguaggi antichi e archeologici con il contemporaneo.

Qual è l’aspetto meno conosciuto della cultura e del patrimonio museale di Brescia che verrà messo in luce durante il 2023? stefano karadjov: Certamente la straordinaria vastità del nostro patrimonio museale: dalla grande archeologia romana e longobarda riconosciuta sito Unesco alla straordinaria stagione della cultura lombarda, che trova nella Pinacoteca Tosio Martinengo la sua culla ideale. Infine i due straordinari musei del Castello dedicati uno alla memoria del Risorgimento, l’altro alla produzione bresciana di armi e armature dal 1400 al 1800.

Qual è la mostra o iniziativa che le è più cara e che è impaziente di vedere realizzata? Possiamo rispondere all’unisono. Il grande palinsesto dedicato a Giacomo Ceruti, con la contaminazione contemporanea di David LaChapelle, corona la strategia di valorizzazione della Pinacoteca quale casa museale più importante per questo grandioso pittore del Settecento.

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Quali aspetti meno conosciuti del Ceruti emergono dal percorso espositivo?

Luigi Ghirri e il labirinto

Sono oltre 150 gli scatti di Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) esposti per la prima volta nell’ambito della mostra al Palazzo del Governatore di Parma. La rassegna chiude l’anno delle celebrazioni dedicate al fotografo a trent’anni dalla scomparsa, proponendo i materiali del mockup del raro volume Viaggio dentro un antico labirinto, realizzato, insieme a Carlo Arturo Quintavalle, nel 1991.

A spiegare il senso del labirinto nella concezione di Ghirri e Quintavalle è il curatore Paolo Barbaro: “Quella del labirinto è una forma suggestiva, forse con qualche differente sfumatura tra il pensiero dell’artista e dell’intellettuale, come è spesso avvenuto nella loro lunghissima collaborazione e amicizia. Per Ghirri sicuramente c’è l’eco di suggestioni provenienti da Borges, scrittore amato e spesso citato, e l’idea delle immagini come enigma da sciogliere, in cui trovare una strada perduta. Per Quintavalle il labirinto è il percorso avvincente e complicato tra le forme dell’immagine, della comunicazione, del territorio dei beni culturali. Per entrambi si trattava e si tratta di indicare orientamenti per uscire dai luoghi comuni, dal consumo inconsapevole se non incosciente del nostro paesaggio fatto di cultura”. Ci troviamo dunque di fronte a un tema particolarmente attuale, che la mostra parmense propone in maniera avvincente.

LE RAGIONI DELLA MOSTRA

L’iniziativa, organizzata dal Comune di Parma in collaborazione con CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma), al quale Ghirri ha lasciato i materiali utilizzati per il libro, e con l’Archivio Eredi Luigi Ghirri, fa parte dell’ampio progetto Vedere oltre, promosso da tre città alle quali, da un punto di vista esistenziale ed espositivo, il fotografo era particolarmente legato: Reggio Emilia, Modena e appunto Parma.

Si è deciso, tuttavia, di non utilizzare lo stesso titolo del volume di trentuno anni fa, poiché nel frattempo gli studi su Ghirri si sono arricchiti. Oggi il suo lavoro è conosciuto in Europa, negli Stati Uniti, è oggetto di pubblicazioni e di mostre. Barbaro chiarisce: “Volevamo rendere esplicito il legame tra questa scelta e la sequenza di immagini che Ghirri aveva disposto per quel libro, fotografie che ne costituiscono il menabò, che per l’autore era spesso concepito come un’opera. Nel titolo che abbiamo scelto indichiamo una sorta di rovesciamento: ogni immagine, quelle di Ghirri ma anche le altre esposte, da quelle storiche degli

Alinari a quelle di Walker Evans, apre percorsi di relazione, indica scelte dell’autore magari solo intraviste, suggerisce a chi la guarda possibilità di altre strade, altre visioni”. Lo spettatore è portato a offrire una sua interpretazione di quanto vede, è emancipato da un’unica lettura possibile.

26 febbraio

GHIRRI E PARMA

Oltre alle immagini del mockup del libro, in mostra sono presenti altri lavori tratti da Colazione sull’erba, Paesaggi di cartone, Kodachrome. Ci sono, inoltre, documenti che testimoniano la relazione di arte e fotografia che unisce Ghirri a Franco Guerzoni: “Mi piace sottolineare che sono tutte opere provenienti dalle raccolte del CSAC, dell’Università, un bene pubblico. Una scelta dichiaratamente a-collezionistica e non commerciale, sottolineata anche dalla scelta di fare una mostra a ingresso libero. Le fotografie messe a confronto hanno tutte un legame motivato con l’opera del fotografo. Quelle dell’Ottocento, di Alinari e di Naya, oltre a riguardare temi e spazi che ricorrono nelle foto di Ghirri, erano state da lui reperite negli Anni Settanta e donate al CSAC. Le foto della FSA, in particolare quelle di Evans, erano state esposte nel 1975 in una mostra itinerante, sempre organizzata dal CSAC, che Ghirri e altri della sua generazione (Chiaramonte, Basilico, Cresci, Guidi) avevano visitato trovandovi la conferma di una direzione che la loro fotografia stava prendendo. Ghirri eseguiva il lavoro fotografico per Guerzoni e per altri artisti concettuali e da quello partivano spesso indicazioni che orientavano l’opera specificamente fotografica di Luigi”, spiega Barbaro.

In mostra ci sono anche opere di Bruno Stefani, dagli Anni Trenta uno dei maggiori nar-

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Angela Madesani fino al 2023 LABIRINTI DELLA VISIONE. LUIGI GHIRRI 1991 a cura di Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta PALAZZO DEL GOVERNATORE Piazza Giuseppe Garibaldi 19L – Parma comune.parma.it in alto: Luigi Ghirri, Il Museo Glauco Lombardi, Parma, 1985 (stampa 1990-91), stampa cibachrome, 199x247 mm. CSAC – Fondo Ghirri cat. C110041S. Photo courtesy Eredi Luigi Ghirri a destra: Luigi Ghirri, Il Teatro Farnese, Parma, 1985 (stampa 1990-91), stampa cibachrome, 171x216 mm. CSAC – Fondo Ghirri cat. C124384S. Photo courtesy Eredi Luigi Ghirri

LA MOSTRA A REGGIO EMILIA

In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive è il titolo della mostra ospitata a Reggio Emilia presso il Palazzo dei Musei, a cura di Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta, Matteo Guidi, in collaborazione con Fototeca Biblioteca Panizzi, Archivio Eredi Luigi Ghirri, ISIA Urbino.

Viene presentato uno dei lavori più geniali del fotografo emiliano sul tema del paesaggio. Si tratta di foto stranianti in cui sono ritratti edifici italiani straordinari, dalla fiorentina cupola del Brunelleschi al milanese grattacielo Pirelli. Tutto è a portata di mano, con un’occhiata si guarda il Paese intero, ma nulla è reale: si tratta piuttosto dei paesaggi artificiali di “Italia in miniatura”, il celebre parco tematico di divertimento, ideato e progettato da Ivo Rambaldi nel 1970, nelle vicinanze di Rimini.

Ghirri era profondamente attratto da quel luogo, in cui si reca in più occasioni fra la fine degli Anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Le foto in mostra, molte delle quali inedite, appartenenti al lavoro In scala, sono poste in dialogo con i materiali documentari del parco, realizzati dallo stesso Rambaldi – due modalità di approccio alla stessa realtà.

Quelle di Ghirri sono foto in cui il paesaggio è oggetto di una specie di riassunto, nel quale l’artista pare anticipare i tempi della virtualità con i quali mai sarebbe entrato in contatto. Le atmosfere sono surreali, spiazzanti e ci inducono a pensare al lavoro editoriale Viaggio in Italia, a cui si sarebbe dedicato pochissimo tempo dopo.

Non mancano in mostra i lavori creati da giovani artisti che hanno lavorato con Joan Fontcuberta e Matteo Guidi.

ratori in fotografia del paesaggio italiano per il Touring Club. “Questi lavori erano oggetto di valutazioni ambivalenti da parte di Ghirri: avversati per il loro riferirsi ai luoghi comuni turistici e per il segno fortemente autoriale – faceva l’editing del reale, avrebbe scritto poi –, ma anche ammirati per quell’immenso lavoro fatto in prima persona, girando per tutto il Paese con l’idea di rifondare l’immagine del paesaggio italiano. Anche queste immagini, come quelle di Ghirri degli Anni Settanta esposte a confronto, mostrano riverberi e relazioni”.

La mostra è un omaggio al rapporto ricco e articolato con Parma, una città dove la conoscenza e lo studio della fotografia ha avuto, a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta, uno sviluppo che potremmo definire unico nel nostro Paese.

GHIRRI E QUINTAVALLE

Nel 1979 il CSAC organizza la prima mostra antologica di Ghirri, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini, che raccoglie tutti i progetti realizzati sino a quella data. La rassegna presenta 700 fotografie organizzate in 14 sequenze narrative. Per l’occasione viene pubblicato un prezioso catalogo, in cui ogni sezione è introdotta da uno scritto dell’artista, un momento di importante riflessione teorica, di chiarimento della propria ricerca. Fondamentali per la comprensione di Ghirri e della sua ricerca sono stati gli scritti di Quintavalle, fondatore del CSAC nel 1968. “I due uomini”, spiega Barbaro, “si sono incontrati a Parma nel 1972, alla mostra ‘New Photography USA’, fatta dall’Università assieme a John Szarkowski del MoMA di New York. Il rapporto continua fino alla scomparsa del fotografo. Credo sia la persona che ha scritto di più, e più assiduamente, sull’opera di Ghirri. La mostra è stata un punto di svolta, e non solo per Ghirri. Da lì sono partite le collaborazioni con gli altri fotografi per ‘Viaggio in Italia, Esplorazioni sulla Via Emilia’ con Giulio Bizzarri, i progetti con Gianni Celati. Quella mostra aveva posto all’attenzione, anche dello stesso Ghirri, un decennio di lavoro straordinario, di originalissima ricerca anche linguistica, che apriva a una nuova stagione e a un nuovo modo di raccontare e vivere il paesaggio, il territorio”.

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ANTICO EGITTO / VICENZA

Gli artigiani dell’antico Egitto

Sarà per l’imponenza delle piramidi, sarà per il mistero delle mummie, sarà per le divinità zoomorfe o ancora per i tratti della scrittura geroglifica: di certo quella dell’antico Egitto è una delle civiltà che più affascinano, da sempre, grandi e piccini, studiosi e popolo (chi appartiene alla Generazione X ricorderà il tormentone delle Bangles Walk Like an Egyptian del 1986). Se si pensa ai protagonisti di quel mondo remoto, vengono subito in mente i faraoni e gli schiavi: una semplificazione, ovviamente, e a restituire uno scenario più realistico interviene ora la mostra ospitata sotto la grande volta lignea della Basilica Palladiana di Vicenza e organizzata dalle maggiori istituzioni locali insieme al Museo Egizio di Torino.

Il papiro con annotazioni ed esercizi di disegno No, non sono le istruzioni dell’Ikea: quello esposto in mostra è un papiro datato al Regno di Ramesse XI (11061077 a.C.) e in cui gli schizzi sul verso spiegano come costruire un mobile.

I protagonisti di questo viaggio tra grandi statue, manufatti di uso quotidiano, ricostruzioni di enormi tombe e preziosi sarcofagi sono i “creatori” evocati nel titolo: coloro che, al servizio dei faraoni, contribuivano con il proprio lavoro a realizzare le monumentali sepolture dell’Egitto antico. La vasta schiera di maestranze, più o meno qualificate, comprendeva operai, scribi, scalpellini, pittori e vari altri artigiani Tutto cominciò nel 1905 con una clamorosa scoperta avvenuta grazie agli scavi condotti dalla Missione Archeologica Italiana di Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino. Non lontano dalla Valle delle Regine, sulla sponda orientale del Nilo e di fronte a Tebe (oggi Luxor), venne alla luce un insediamento che presto si scoprì essere stato abitato proprio da chi era impiegato nella costruzione delle tombe reali. Oltre a numerose altre sepolture, a Deir el-Medina furono trovati due grossi vasi pieni di papiri in perfetto stato di conservazione, e poi statue, frammenti di iscrizioni e un’infinità di altri oggetti che permisero di ricostruire uno spaccato di vita quotidiana dell’antico Egitto.

LA MOSTRA A VICENZA

L’esposizione curata da Christian Greco, “erede” di Schiaparelli nella direzione del museo piemontese, mette quindi a fuoco l’esistenza e

Modellino della tomba di Nefertari

Negli Anni Trenta del Novecento il direttore del Museo Egizio, Ernesto Schiaparelli, fece costruire un modellino in scala 1:10 che riproduceva fedelmente la tomba della regina Nefertari. Le pedane sono dedicate ai bimbi, che così possono osservare gli interni sontuosamente decorati e la distribuzione degli spazi.

le attività degli abitanti di Deir el-Medina attraverso il prestito di reperti conservati a Torino e al Museo del Louvre. Innanzitutto viene restituito il contesto del villaggio, e a tal proposito la prima sezione è dedicata a Tebe, la grande città che durante la XVIII dinastia divenne la capitale dell’antico Egitto, definita da Omero come la “città dalle 100 porte” e nella quale sorgeva il grandioso tempio di Karnak dove si celebravano le maggiori divinità. Attraversato il Nilo, nella Valle dei Re e in quella delle Regine riposavano invece le spoglie dei faraoni che, come dimostra la monumentale scultura con la triade formata da Ramesse II seduto tra il dio Amon e la dea Mut, legittimavano il loro potere mediante il rapporto con il divino e, grazie al ruolo di

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ANTICO EGITTO / VICENZA

intermediazione tra uomini e dei, venivano considerati i custodi dell’ordine cosmico. Già queste poche parole bastano a far comprendere come per i faraoni fossero indispensabili tombe sontuose, tanto più se si considera che nell'antico Egitto la morte rappresentava un momento di passaggio verso una vita eterna.

Manufatti blu

Gli Egizi inventarono un pigmento dalla brillantezza simile al preziosissimo blu di lapislazzulo facendo cuocere a più di 900° C la malachite con un alcali naturale. Il blu egizio fu usato per tutta l’epoca romana e venne riscoperto da Raffaello.

Ecco allora la necessità di disporre di schiere di manovali e artigiani da impiegare nelle imprese architettoniche e, come nei villaggi operai sorti in Italia tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, si ritenne che fosse più pratico farle risiedere vicino al “luogo di lavoro”. Fu con il faraone Amenhotep I e soprattutto con il figlio Thutmosi I (1493-1483 a.C.) che si cominciò a costruire l’insediamento di Deir el-Medina – lo testimoniano dei mattoni con cartiglio – e ben presto vi si trovarono a vivere circa 120 famiglie. Quelle persone ad esempio costruirono e decorarono la tomba della regina Nefertari (morta nel 1255 a.C.), una delle sepolture più belle ritrovate da Schiaparelli: gli oggetti esposti accanto al modellino, tra cui scalpelli, mazzuoli, asce, bastoncini per tracciare i segni, fili a piombo, ceselli, pennelli, persino una lampada e un accendino, ci proiettano all’interno di quegli incredibili cantieri. E non si pensi che le tombe su tre livelli fossero prerogativa solo dei faraoni: anche gli abitanti di Deir el-Medina venivano tumulati in strutture simili, come documenta la pietra sommitale della piramide dello scriba reale Ramose su cui sono incisi dei brani del Libro dei morti riferiti al viaggio del dio Sole attraverso la notte e il suo risorgere.

NEL CUORE DI DEIR EL-MEDINA

Eccezionale è l’abbondanza delle fonti scritte: a Deir el-Medina si sono recuperati papiri con “giornali della necropoli” su cui venivano riportate le attività amministrative e l’organizzazione del lavoro, mentre altri recano schizzi di figure proprio come se fossero degli sketchbook. Analoga funzione avevano gli ostrakon, frammenti di calcare su cui si esercitavano gli artisti: in mostra ne vediamo con figure femminili, con un sarcofago, con un uomo seduto che tiene un fiore di loto. Altri invece aprono degli squarci sulla vita quotidiana: un personaggio che ha acquistato delle finestre, un uomo che conduce le mucche al pascolo, una donna che allatta un bambino.

I reperti ci accompagnano poi all’interno delle case, dove sono stati ritrovati vasi e bottiglie, preziosi frammenti di mobili, una scopetta

fino al 7 maggio 2023

I CREATORI DELL’EGITTO ETERNO. SCRIBI, ARTIGIANI E OPERAI AL SERVIZIO DEL FARAONE a cura di Christian Greco, Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini Catalogo Marsilio Arte BASILICA PALLADIANA Piazza dei Signori – Vicenza mostreinbasilica.it

a sinistra: Stele con orecchie dedicata da Usersatet alla dea Nebethetep, Nuovo Regno, XIX-XX dinastia (1292-1076 a.C.), Deir el-Medina. Calcare. Cat. 1546, Museo Egizio, Torino. Credito fotografico: Museo Egizio, Torino

in alto: Ushabti della Signora della Casa Taysen, Nuovo Regno, XIX dinastia (1292-1190 a.C.), Deir elMedina. Terracotta. Cat. 2770, Museo Egizio, Torino. Credito fotografico: Museo Egizio, Torino

Un esercito in miniatura Sembrano bamboline a forma di mummie, in realtà erano degli “avatar” che dovevano aiutare il defunto a svolgere gli incarichi faticosi affidatigli da Osiride, come il lavoro nei campi. Nella tomba del faraone Seti I furono trovati centinaia di ushabti: un vero e proprio esercito di manovali!

Una religione inclusiva

In Egitto il politeismo era “accogliente”. In alcune stele compaiono la dea Astarte, armata e a cavallo, o la dea Qadesh, su dorso di leone con fiore di loto e serpente, o il dio Reshep: le divinità orientali convivevano con le autoctone, come il dio Min, simbolo di fertilità e protettore dell’agricoltura.

e addirittura degli strumenti musicali come un flauto o una lira a bracci asimmetrici. Non si può immaginare quale fosse la musica ascoltata dagli Egizi, ma di certo era una componente significativa nelle feste religiose. Nelle dimore non mancavano le raffigurazioni sacre a protezione degli abitanti i quali, grazie alle piccole stele illustrate, instauravano un rapporto quotidiano con il divino e con gli antenati. Eccezionale quella con incise tante orecchie: un’invocazione affinché il Dio prestasse ascolto alle richieste del dedicante. E altrettanto affascinante è la scultura in legno della dea Tauret che, con fattezze di ippopotamo, coda di coccodrillo, zampe leonine e una tipica parrucca “all’egizia”, vegliava su partorienti e nascituri.

DALLA VITA ALLA MORTE

Infine l’attenzione si sposta sull’attraversamento della soglia tra la vita e la morte: un passaggio che consentiva al defunto di intraprendere il suo viaggio verso la rinascita. Si incontra uno splendido sarcofago, il sacro involucro su cui una defunta è raffigurata con il collare e la parrucca decorata con perline, ghirlande e fermagli. Sul petto si dispiegano le ali della dea Nut, in segno di protezione, e il resto è ricoperto da scene funerarie e iscrizioni. Ma essenziale era soprattutto conservare il corpo: quello della Signora della Casa Tariri, ad esempio, è giunto fino a noi – e possiamo intuirne la sua presenza al di sotto delle bende – grazie alle tecniche messe in atto dalla florida industria funeraria che, con grande cura, si occupava del cadavere purificandolo e rendendolo incorruttibile.

Per affrontare la vita dopo la morte, nella sua “dimora eterna” il defunto veniva circondato da un preciso “equipaggiamento” che comprendeva oggetti personali, cibo, strumenti, vasellame e statuine: nelle vetrine di Vicenza spiccano i corredi funerari provenienti dalle tombe della regina Nefertari e del faraone Seti I.

“L’intimo desiderio di ogni antico Egizio era che il proprio nome non venisse dimenticato, ma continuasse per sempre a risuonare nelle bocche dei viventi”, si racconta nel catalogo. E se in questo nostro XXI secolo l’eternità è ormai un’illusione, senza dubbio la lontana civiltà degli Egizi, con la sua cultura raffinata, la sua religiosità complessa e la sua perizia tecnica, continuerà a lungo a suggestionarci e, forse, a svelarci i suoi misteri.

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Bob Dylan oltre la musica

Anche quando impugna la matita per fermare su carta un frammento di realtà che incrocia il suo sguardo, o quando si confronta con un grande quadro che cerca la bellezza nei luoghi dimenticati d’America, Bob Dylan (Duluth, 1941) sa rappresentare la condizione umana. Arriva a Roma, dopo l’esordio a Shanghai nel 2019 e la tappa a Miami nel 2021, la mostra che invita a scoprire un aspetto inedito del cantautore americano, qui nel ruolo – assunto con il mix di lucidità e lirismo che gli è proprio – di disegnatore, pittore e scultore. Icona trasversale della cultura contemporanea, Dylan è un narratore dei nostri tempi, capace di comunicare in modo comprensibile a tutti, con quel linguaggio transgenerazionale che gli è valso il Nobel per la letteratura nel 2016, e prima ancora l’aura di artista leggendario. Retrospectrum, il progetto espositivo curato da Shai Batel che si visita al MAXXI

fino al 30 aprile, non fa che confermarlo, svelando però il Bob Dylan affascinato dalle arti visive, in quanto prolifico strumento di creatività per rielaborare osservazioni, spunti, riflessioni appuntati con costanza durante i suoi viaggi.

L’AMERICA DI BOB DYLAN

Nel campo visivo – dell’artista che osserva per cogliere la verità del quotidiano, e dello spettatore che sta davanti alle sue opere – c’è innanzitutto l’America, che cattura l’attenzione del musicista sin dalle prime trasferte, cominciando dal tragitto che dal Minnesota conduce a New York, quando negli Anni Sessanta, agli albori della sua carriera, Dylan si allontana dalla cittadina di Duluth per approdare al Cafe Wha?, nel Greenwich Village. Il ricordo di motel e tavole calde incontrati nel bel mezzo del nulla, luna park abbandonati, strade che tagliano deserti e skyline maestosi, che immortalano invece l’energia respirata nella grande città, restituisce un ritratto complesso del paesaggio

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fino al 30 aprile 2023 BOB DYLAN. RETROSPECTRUM a cura di Shai Baitel Catalogo Skira MAXXI via Guido Reni 4 A – Roma maxxi.art Bob Dylan, Marlboro Man, 2021, acrilico su tela

5 COPERTINE A REGOLA D’ARTE

1971

LA

LUNGA LIAISON TRA MUSICA E ARTE

La storia del rapporto che lega la musica alle arti figurative – tra effigi di Santa Cecilia, simulacri della musa Euterpe, strumenti musicali che sono vere opere d’arte, melodrammi che hanno per protagonisti pittori e scultori e ritratti che ci restituiscono le fattezze di musici e compositori – è una storia sterminata. In questo breve spazio non è possibile isolarne che un paio di momenti, che vorrebbero essere rappresentativi di quanto tale rapporto sia multiforme.

A Firenze, nel portico della chiesa di Santa Felicita, quella famosa per l’inarrivabile Deposizione di Pontormo, proprio al di sotto della porzione di Corridoio Vasariano che intercetta il tempio, si eleva il monumento funebre di Arcangela Paladini, che morì a 26 anni nel 1622. Nella sua breve vita la donna fu artista poliedrica: divenne nota soprattutto come cantante, ma fu abile anche come ricamatrice e pittrice. E in effetti doveva trattarsi di un’artista di valore, come attesta l’unica sua opera pervenutaci, un autoritratto agli Uffizi che colpisce per la grande forza, per la consapevolezza di sé che emana dallo sguardo penetrante della ragazza. Con enfasi barocca l’epitaffio ci dice quanto fu valente, e si chiude con l’invito a cospargere di rose il suo sepolcro (“SPARGE ROSIS LAPIDEM, COELESTI INNOXIA CANTU / TUSCA IACET SIREN, ITALA MUSA IACET”: “spargi di rose la lapide, innocente con il suo canto celeste giace la sirena toscana, giace la musa italica”). Ai lati del sarcofago, su cui si eleva il bel busto della defunta, siedono le raffigurazioni della Pittura e della Musica, entrambe sconsolate per la perdita precoce di una artefice che prometteva molto in entrambi i campi. Commovente è il fatto che capita spesso di trovare

sulla tomba un mazzo di rose rosse, lasciato da qualcuno che raccoglie pietosamente l’esortazione lanciata nell’epigrafe sepolcrale.

Lasciamo la Firenze d’inizio Seicento per venire a tempi a noi assai più vicini, anche se quello di cui si sta per parlare ha già un sapore di antico, vista la rapidissima evoluzione del modo in cui ci si “ciba” di musica, in direzione di una fruizione sempre più slegata da supporti materiali. L’incontro di grandi opere d’arte e grafici di prim’ordine ha dato vita a bellissime copertine di vinili e cd. Pensiamo ad esempio ad alcune mitiche collane di musica antica e barocca, come Galleria della Archiv Produktion, Das Alte Werk della Teldec, Florilegium de L’Oiseau-Lire. Ma anche la musica cosiddetta leggera ha attinto a piene mani dalle arti per le copertine dei propri supporti: arte contemporanea, talvolta nata con questa destinazione (l’esempio più celebre è naturalmente la banana di Andy Warhol per i Velvet Underground), ma anche arte del passato. Sulla copertina di uno degli album che hanno fatto la storia del rock, Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins (1995), spunta fuori da una stella la Santa Caterina di Raffaello (Londra, National Gallery), riveduta e corretta. O meglio, sul corpo della santa raffaellesca è innestato il volto della fanciulla protagonista di un altro dipinto londinese, di quasi tre secoli successivo, “Il ricordo” di Jean-Baptiste Greuze. Un incrocio che a leggerlo così potrebbe sembrare avventato, e che invece funziona, a dare un’espressione indimenticabile alla “tristezza infinita” celebrata nell’album.

americano, ma anche dei gesti e delle abitudini di chi lo abita. E c’è spazio per la Route 61, la Blues Highway che dal Minnesota, scendendo verso sud, porta a New Orleans, città natale del jazz, che per Dylan sarà profonda fonte di ispirazione. Alla città della Louisiana, non a caso, è dedicata una delle otto sezioni tematiche che scandiscono la visita tra le sale della Galleria 5 del museo romano.

BOB DYLAN E LE ARTI VISIVE

Sono oltre cento le opere esposte, tra dipinti, acquerelli, disegni a inchiostro e grafite, sculture in metallo, video. Gran parte della produzione è riconducibile a un arco temporale che dall’inizio degli Anni Duemila conduce a oggi: a 81 anni, Bob Dylan non ha smesso di esercitare la propria creatività con l’obiettivo di continuare a lavorare sulla lettura della realtà, e con l’approccio di un “uomo del Rinascimento” – prendendo in prestito le parole del curatore Batel – per la capacità di esprimersi in modo versatile, sempre chiaro e comprensibile, come le opere in mostra certificano. E meticoloso è

l’esercizio, inteso come costante predisposizione all’osservazione e all’ascolto, con cui Dylan si confronta con la pratica artistica, dettata dall’urgenza di mettere l’accento su ciò che merita di essere raccontato, e può trovarsi ovunque. L’ispirazione, oltre che da fonti letterarie e artistiche piuttosto manifeste quali Hemingway e Hopper, arriva dal contesto familiare – come per le sculture in ferro raccolte nella sezione Ironworks, legate al ricordo dell’infanzia vissuta nella zona mineraria del Nord del Minnesota, da luoghi e incontri – come per la serie di schizzi realizzati durante le tournée in America, Europa e Asia tra ’89 e ’92, poi tradotti in dipinti ed esposti nella sezione The Drawn Blank, da copertine iconiche di celebri riviste (con il progetto Revisionist), da film cult che ispirano il lavoro condotto durante la pandemia (la sezione si intitola Deep Focus, dall’omonima tecnica cinematografica).

BOB DYLAN TRA PAROLE E IMMAGINI

Il linguaggio elaborato è efficace specialmente quando Dylan lavora sulla connessione tra parole e immagini, come illustra il “capitolo” Mondo Scripto, che raccoglie alcuni testi di celebri canzoni dell’autore, da lui personalmente trascritti e associati a disegni a grafite, che riassumono visivamente il messaggio. Del resto, già nel ’65, Bob Dylan presentava al mondo il primo video musicale della storia –Subterranean Homesick Blues –, mostrandosi intento a far cadere una serie di fogli – sfogliati uno dopo l’altro assecondando l’andamento della musica – su cui la sera precedente un gruppo di amici aveva trascritto il testo della canzone. Nel 2018, Dylan ha riscritto il testo su 64 cartelli, che insieme al video sono presenti in mostra, ed entreranno a far parte della collezione permanente del MAXXI, per concessione dell’artista.

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Andy Warhol per Sticky Fingers (The Rolling Stones) 1980 Raymond Pettibon  per Jealous Again (Black Flag) 1983 Keith Haring per Without you (David Bowie) 2007 Shepard Fairey per Zeitgeist (Smashing Pumpkins) 2011 Damien Hirst per I’m With You (Red Hot Chili Peppers)

Giovanni Fattori, pittore umanista

Niccolò Lucarelli

il bolognese Palazzo Fava a ospitare Fattori. L’umanità tradotta in pittura, mostra non soltanto celebrativa ma soprattutto di ricerca sulla figura del capostipite del movimento della macchia, attraverso settanta opere custodite perlopiù in collezioni private e l’eccezionale prestito de L’appello dopo la campagna del 1866. L’accampamento, proveniente dal Palazzo della Consulta di Roma, qui esposto per la prima volta al pubblico.

Attraverso sette sezioni tematiche, la mostra documenta l’evoluzione di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) come artista e come uomo, con il suo talento e la sua sensibilità. Da ogni opera traspaiono il grande rispetto e l’umiltà di Fattori davanti a tutto quello che la realtà offriva al suo sguardo, dagli animali al paesaggio e alla figura umana, dai borghesi ai contadini: nel ritrarre l’individuo lasciava sempre emergere una profonda analisi psicologica, evidente nella complessità degli sguardi e delle espressioni facciali.

FATTORI E IL PAESAGGIO

“Credo che l’artista bisogna lasciarlo libero nelle sue manifestazioni di produrre le bellezze della natura come le sente e come le vede”. Un’affermazione coerentemente trasposta sulla tela, attraverso la struggente resa dei paesaggi maremmani e della costa livornese, scorci di una Toscana eterna e sempre

nuova, intima e sconosciuta insieme. Paesaggi nei quali ci si può perdere con la mente, ma che riescono a entrare nel cuore dell’osservatore attraverso i loro silenzi, i cieli tersi, il mare sullo sfondo oppure intuito nelle vicinanze; situazioni psicologiche prima ancora che visive, magistralmente rese percettibili da Fattori grazie a colori vivi ma delicati. Mondi agresti che

fino al 1° maggio 2023 FATTORI. L’UMANITÀ TRADOTTA IN PITTURA

a cura di Claudia Fulgheri, Elisabetta Matteucci e Francesca Panconi Catalogo Skira

PALAZZO FAVA

Via Manzoni 2 – Bologna genusbononiae.it

vedono le quotidiane fatiche di butteri, pescatori, contadini, sferzati dal vento e dalla pioggia o arsi dal sole, eppure vicini a quella terra, a quel mare, a quelle piante, a quegli animali di cui sembrano conoscere ogni storia e con cui vivono in poetica simbiosi. Al punto che, osservando i buoi di Fattori, salgono alla mente i versi di Giosuè Carducci dedicati all’umile quadrupede compagno di tante fatiche di quelle persone umili forse nell’aspetto, ma profonde per la sapienza antica che le contraddistingue.

IL MONDO MILITARE

Lo sguardo di Fattori sui campi di battaglia, le divise, i cannoni, le bandiere non è mosso da nazionalismo o bellicismo, non ritrae ideali o retorici concetti: nel fragore delle armi si battono gli uomini, e questi soldati sono prima di tutto giovani italiani (o francesi o austriaci), mandati a morire. Della guerra Fattori traspone sulla tela il lato più tragico, prova pietà per i caduti, siano essi soldati o cavalli; la precarietà degli esseri viventi al fronte la si respira sempre, anche nei momenti di riposo. Ma Fattori va oltre il rispetto per la vita, umana o animale che sia: come è vicino a butteri, pescatori e contadini, Fattori è adesso vicino agli ultimi nel mondo della guerra, ovvero ai caduti e agli sconfitti. I soldati, insieme ai pescatori, ai contadini, sono parte integrante di un’Italia che si sta formando; e Fattori è l’artista che racconta quell’Italia del dopo Unità, senza retorica ma concentrandosi sui suoi abitanti e sul suo paesaggio.

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GIOVANNI FATTORI/BOLOGNA
Giovanni Fattori, Soldati francesi del ‘59, 1859, Milano, collezione privata
È

ARTE E PAESAGGIO

ASTE E MERCATO

Seguire la linea che collega gli orti botanici in Europa è un curioso intrecciarsi di viaggi, spedizioni, scoperte di nuove terre, scambi di semi e di colture. Gli orti botanici risalgono in prevalenza alla scoperta delle Americhe, che sancì l’introduzione di specie vegetali sconosciute e stimolò la ricerca e la coltivazione. Negli anni la parte scientifica di questi luoghi lascia il posto ad aspetti collegati al commercio delle piante e al piacere estetico legato alla bellezza dei giardini.

IL JARDIN EXOTIQUE

Ne è un esempio l’orto botanico del Principato di Monaco, chiamato Jardin Exotique e collocato su un’altura da cui si gode un panorama mozzafiato con una veduta sull’intera baia.

Incluso tra i 100 giardini più belli del mondo, si presenta come un’oasi insolita ed esuberante, con migliaia di specie botaniche differenti. Negli oltre quindicimila metri quadrati del Jardin Exotique di Monaco sono ospitati cactus e succulente dalle forme più svariate, con foglie e fusti ipertrofici. Queste specie giganti offrono fioriture spettacolari: nei mesi invernali (gennaio/marzo) fioriscono le piante di origine sudafricana tipo le varietà di Aloe e di Crassula; nei mesi estivi (da maggio a settembre) i cactus provenienti dalle Americhe. Visitare quest’oasi verde significa non solo conoscere piante esotiche, minuziosamente documentate con cartellini esplicativi, ma anche potere passeggiare tra fiori, laghetti e opere d’arte distribuite lungo i vari percorsi. Particolarità del luogo è la suggestiva Grotta dell’osservatorio, un’antica via preistorica che dall’alto della scogliera scende fino al mare, disseminata di caverne con stalattiti, stalagmiti e colonne di roccia calcarea.

I GIARDINI DA VEDERE A MONACO

Circondato da palazzi e ville, il Principato ha una vera e propria politica di sviluppo delle aree verdi urbane. Di fatto si colloca al secondo posto in Europa dopo Vienna, coi suoi 250mila metri quadrati di sviluppo paesaggistico. Tra gli altri giardini da visitare c’è il Giardino giapponese: creato dall’architetto Yasuo Beppu (premio all’esposizione floreale di Osaka del 1990), è progettato nel rispetto dei canoni della filosofia zen, con piante topiate, piccoli corsi d’acqua, pietre, ponti, lanterne e laghetti. Il roseto della Principessa Grace raccoglie invece oltre 300 varietà di rose, ed è collocato all’interno del più ampio Parco di Fontvieille.

I Giardini Saint Martin, primo giardino pubblico aperto agli inizi dell’Ottocento, sono molto frequentati dai cittadini e dalle famiglie della città. Anche la maggiore parte dei musei del Principato sono attorniati da ampi e curati giardini, come Villa Sauber e Villa Paloma, sedi del Nuovo Museo Nazionale di Monaco, i cui giardini accolgono opere di artisti come Jeppe Hein, Christodoulos Panayiotou, Claire Fontaine.

PRINCIPATO DI MONACO I GIARDINI BOTANICI

È il lotto più costoso aggiudicato in asta in tutto il 2022. Allo stesso tempo è il ritratto più iconico della più iconica delle stelle dell’età moderna, Marilyn Monroe. La Shot Sage Blue Marilyn di Andy Warhol del 1964 è stata acquisita a maggio nella sessione dedicata da Christie’s alla collezione di Thomas e Doris Ammann a New York per oltre 195 milioni di dollari. A conquistarla il mega-dealer Larry Gagosian. Sfuggita al colpo di pistola sparato dalla performer Dorothy Podber, l’opera è diventata la più costosa del XX secolo mai aggiudicata in asta (superando Les Femmes d’Alger Versione “O” di Picasso). Mentre al MA*GA di Gallarate la retrospettiva Andy Warhol. Serial Identity (fino al 18 giugno) offre la possibilità di riscoprire più di 200 opere del papà della Pop Art, che ha cambiato il nostro rapporto con le immagini.

REFIK ANADOL AL MOMA

Jardin Exotique, Principato di Monaco. Photo Claudia Zanfi

Una relazione centrale, quella con le immagini, anche nel lavoro del più giovane Refik Anadol (1985), aggiornata alla luce delle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. In occasione della mostra Refik Anadol. Unsupervised, al MoMA di New York fino al 5 marzo, l’artista di origini turche – miglior artista internazionale 2022 secondo la redazione di Artribune – reinterpreta la collezione del museo attraverso la nuova estetica generata dalle macchine, in grado di trasformare dati aggregati in lavori immersivi e affascinanti. Nella Grande Mela lo scorso maggio, alla 21st Century Evening Sale di Christie’s, la sua opera Living Architecture: Casa Batlló, omaggio all’eredità del celebre architetto in forma di NFT, è stata aggiudicata per quasi 1,4 milioni di dollari. Riconoscendo la capacità dell’artista di riposizionare l’ente macchina e l’AI in un universo di fantasia e visionarietà e di illuminare aspetti inediti del processo stesso di creazione artistica, “per connettere ricordi e futuro e rendere visibile l’invisibile”, come lui stesso afferma.

GLI OMAGGI A PAULA REGO

Il mercato dell’arte sancisce dunque le icone dell’arte, così come l’immaginario che da quelle è alimentato. Immagini in grado di attraversare indenni il passaggio del tempo e di diventare eredità condivisa. Di inchiodare anche lo sguardo dello spettatore. Come ha fatto con le sue opere Paula Rego, l’artista portoghese scomparsa nel 2022, che per decenni ci ha messi di fronte a un’ostica rappresentazione dello spettro del potere e dei suoi condizionamenti nella sfera sociale, sessuale, emotiva. Raccontando l’oppressione dell’umano e del femminile in particolare e trovando, finalmente, la giusta celebrazione all’ultima Biennale di Venezia e in numerose altre sedi istituzionali tra 2022 e 2023 (Tate Britain, Kunstmuseum Den Haag, Pera Museum di Istanbul). In attesa che, dopo il record d’asta del 2015 di 1,8 milioni di dollari, anche il mercato si faccia sedurre dalla fascinosa teatralità con cui le sue opere hanno messo in scena il reale e le sue deformazioni.

CHRISTIE’S REFIK ANADOL

Refik Anadol, Living Architecture: Casa Batlló, 2022. Courtesy Christie's Images Ltd. (dettaglio)

69 #32 RUBRICHE
Claudia Zanfi
PER ABBONARTI IN UN ATTIMO FOTOGRAFA E CLICCA QUI > > Provincia di Catania NICOLÒ MONTALTO Città Metropolitana di Catania GALLERIA D'ARTE MODERNA LE CIMINIERE Viale Africa - Catania 21 GENNAIO 5 FEBBRAIO vernissage 21 gennaio ore 17.30 Strada Famiglia, olio su tela 60x80cm (quotazione € 3.000)
www.nicolomontalto.it ig @artemontalto nicolomontaltopittore@gmail.com +39 340.4138517

a cura di ALEX URSO

SHORT NOVEL
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Inquadra il QR per leggere l'intervista con l'artista

Vi sembrerà una questione di nicchia, o di poco conto. O magari eccessivamente tecnicistica. Proverò a spiegare che invece la faccenda riguarda tantissime persone – beh, non certo la maggioranza della popolazione, ma probabilmente la maggioranza della popolazione che frequenta mostre d’arte e musei. E scusate se è poco.

Ma bando ai preamboli. Parlo di mostre, di spazi espositivi, e di spazi espositivi che, invece di produrre, pensare, concepire, ideare, inventare delle mostre, si limitano a far da location, si accontentano di mettere in affitto le sale

Alle volte è una scelta di disimpegno (meno impazzimento, più guadagno), alle volte invece è una scelta di necessità, perché le risorse sono poche e il prestigio dello spazio espositivo storico è l’unico valore monetizzabile: e allora concediamolo ai migliori offerenti. Non di rado capita al visitatore di frequentare una mostra in un contenitore altisonante, famoso, storico e prestigioso. Capace da solo di assegnare valore e autorevolezza a quel che ci sta dentro. Ma quella mostra non ha alcuna relazione con quel contenitore: è stata immaginata e messa assieme altrove ed è stata portata lì come un film in una sala cinematografica, come un libro in una libreria. Il museo funge, insomma, solo da punto di distribuzione, da punto vendita. È una dinamica – molto in crescita e ormai strutturata negli ultimi decenni – che non ha nulla di male. Non la voglio giudicare e, anche se lo facessi, non ne avrei un giudizio necessariamente negativo. Sia perché molte volte questa filiera è l’unica possibile per rendere sostenibili alcuni spazi espositivi che non avrebbero mai forza produttiva propria; sia perché assai spesso queste mostre-pacchetto hanno una qualità che nulla ha da invidiare a quelle faticosamente prodotte nei musei, anzi.

Allora quale è il problema? Il problema è la trasparenza. Per il visitatore tutto questo è piuttosto invisibile, non percepisce in alcun modo la differenza. Mi piacerebbe che le mostre proposte al pubblico avessero una segnaletica chiara, capace di distinguere quelle organiche, native, pensate dal museo per i suoi spazi, frutto di un percorso curatoriale, di direzione, di comitato scienti-

fico, di linea culturale, da quelle che invece arrivano da fuori, pensate altrove da figure esterne allo spazio e ospitate lì in cambio di un affitto.

Intendo dire che, se entro al Palazzo Ducale di Genova o al Palazzo Reale di Milano o alla Villa di Monza, avrei piacere di comprendere se le rassegne in cartellone sono state pensate in loco, sono frutto della responsabilità di un direttore artistico “locale”, sono state concepite per l’edificio o sono lì in affitto, di passaggio. Se entro al MAXXI di Roma, vorrei poter discernere con maggiore chiarezza le mostre prodotte dal MAXXI e le mostre ospitate dal MAXXI.

Il rischio è che il blasone, l’autorevolezza, il prestigio che alcuni edifici si sono guadagnati nei secoli finisca a certificare con un marchio di qualità chi non lo merita.

Ho fatto dei nomi, ma sono esempi riguardanti spazi che comunque ospitano contenuti certificati, di qualità indubitabile. In provincia non è sempre così: piccole o medie comunità locali hanno enorme difficoltà a gestire palazzi storici, ville meravigliose, castelli e rocche. E allora le trasformano giocoforza in location in affitto dove non sempre gli affittuari sono all’altezza Può succedere, sta nelle cose, ma va detto con maggiore chiarezza e trasparenza. Altrimenti il rischio è che il blasone, l’autorevolezza, il prestigio che alcuni edifici si sono guadagnati nei secoli finisca a certificare con un marchio di qualità chi non lo merita. Continuiamo pure a ospitare la compagnia di giro delle mostre, se è necessario, insistiamo a tenere spazi importanti e storici privi di un direttore artistico, di un comitato scientifico e di una linea culturale definita. Ma se proprio dobbiamo farlo, almeno troviamo il modo condiviso di renderlo più evidente e più onesto ai visitatori, che viceversa finiscono per associare ingannevolmente e superficialmente contenuto a contenitore quando questa associazione non ha spessore e profondità.

CI SONO MOSTRE E MOSTRE
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LE PROTESTE IN IRAN RACCONTATE DA UN'ATTIVISTA

DDove non ci sono diritti per le donne e per le minoranze non è possibile avere o pensare di avere un futuro. Lo dimostrano le proteste in Iran. Ma perché? Le proteste sono contro il regime, ma prima di spiegare che cosa sta succedendo oggi è necessario spiegare cosa è successo 44 anni fa. Nel 1979 gli iraniani decidono di non volere più la monarchia sotto la famiglia Pahlavi e introducono in Iran la figura dell’Ayatollah per dar vita alla repubblica guidata da Khomeini, che in seguito diviene islamica. Iniziano le repressioni da parte del governo: i diritti civili vengono sempre meno, il popolo prova a ribellarsi ma le proteste vengono soppresse in breve tempo, cresce la paura nel Paese. Non è la prima volta che assistiamo a delle rivolte. Ricordiamo il 2009 con il movimento verde, mentre nel 2019 1.500 persone sono uccise per strada in soli tre giorni. Immaginate che in Iran ci siano tre generazioni: quella che ha fatto la rivoluzione nel 1979, quella che ha fatto la guerra Iran-Iraq e la nuova generazione, che costituisce il 70% della popolazione e ha meno di 35 anni. La chiave di queste rivolte è quest’ultima generazione, che non si ritrova nelle scelte effettuate dalle precedenti, ha un’identità a sé e diversi riferimenti culturali, che tendono all’Occidente. Ma soprattutto questa generazione non ha paura, perché in Iran non vede più futuro. Le rivolte sono scoppiate in seguito all’uccisione di Mahsa Jina Amini, una ragazza di 22 anni fermata dalla polizia morale poiché non portava correttamente il velo, uscita morta dalla sessione di rieducazione. Inoltre era curda, quindi si aggiunge la discriminazione razziale. Le donne e la GenZ scendono per strada e chiedono libertà. Le manifestazioni evolvono e includono sempre più generazioni, non riguardano solo il velo ma tutta la condizione sociale. Questa nuova generazione ha quel coraggio che quelle di prima non avevano e soprattutto è perseverante e insiste in ogni città, dal Kurdistan alle principali città Sante: Mashhad e Qom. È un segnale importante per il clero sciita, che sta decidendo chi debba essere il successore dell’Ayatollah Khamenei. Il regime bombarda e uccide i civili nelle regioni del Kurdistan, del Sistan e del Baluchistan e Khuzestan. Sappiamo che è discriminatorio verso le minoranze, e la brutalità verso curdi, balouchi, bahai e bakhtiyari lo dimostra. Di questi morti non fanno parola i giornali.

Perché il regime iraniano sta attaccando sempre di più le donne ma soprattutto la nuova generazione? Alcuni dati: il tasso di alfabetizzazione delle donne in Iran è oltre il 97%, costituiscono il 65% dei laureati e il 70% di queste laureate lo sono in materie STEM –scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. La prassi del regime è sempre la stessa: arresta giornalisti e studenti, chiude internet, l’informazione uffi-

ciale racconta del nemico statunitense, non viene reso ufficiale il numero degli arresti e poi inizia il massacro. Le proteste non sono per l’Hijab: anche prima dell’insediamento della repubblica islamica il velo si portava in Iran, ma era una scelta, così come è scritto nel Sacro Corano. Le immagini in cui vengono bruciati i veli può sembrare una mancanza di rispetto verso i credenti, ma è solo un simbolo. Perciò non autorizza gli islamofobi o i razzisti in Occidente a giudicare chi invece porta il velo. Perché il vero velo della repubblica islamica è un’imposizione di potere che si poggia sulla testa, la testa dove si racchiude il sapere, quella testa presa a manganellate perché si è scoperta. Il taglio dei capelli elimina la possibilità di essere afferrate per i capelli. La popolazione giovane chiede più libertà e il regime la opprime – soprattutto le donne – per mantenere un certo controllo: se dovesse cedere sulla libertà di non portare il velo, potrebbe crollare come un castello di sabbia. Dire che in Iran si protesta contro il velo è una narrazione giornalistica errata. Ecco due chiavi di lettura per capire le proteste. La prima è economica: l’inflazione è al 52,2% e secondo il World Economic Forum il tasso di disoccupazione avrebbe toccato il 10,2% entro la fine del 2022. La seconda chiave di lettura è politica: il Presidente Raisi è un ultraconservatore (eletto con un tasso di partecipazione bassissimo), che ha rafforzato tutte le leggi repressive, compresa quella sul velo.

#DonnaVitaLibertà è un hashtag diventato trend sui social perché racchiude i diritti di tutte le donne nel mondo: parità salariale, libertà di decidere del proprio corpo, accesso al lavoro e alla politica. Uno slogan curdo che nasce da una resistenza delle donne alla fine del XX secolo e continua a riecheggiare oggi in tutte le lingue del mondo. Anche le sorelle afgane protestano per la loro condizione sociale, che peggiora di giorno in giorno. Questo è l'anno delle donne: ai movimenti #metoo e #nonunadimeno si unisce #donnavitalibertà, Pantone descrive il colore dell'anno Viva Magenta con il volto di una donna... Insomma, oggi più di ieri, unite per la libertà.

EDITORIALI
Dire che in Iran stanno protestando contro il velo è una narrazione giornalistica sbagliata.
PEGAH MOSHIR POUR
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Photo Albert Stoynov via Unsplash

partecipazioni nazionali sparse in città e nelle isole

partecipazioni nazionali all’Arsenale

Isola della Certosa

partecipazioni nazionali ai Giardini

In pochi anni Vincenzo Trione si è conquistato un posto di assoluto primato nel campo della critica d’arte, sia per le sue comparse domenicali sulla Lettura del Corriere della Sera, sia per la pubblicazione di tomi massicci in storia dell’arte, sia infine per la curatela delle voci dedicate proprio all’arte di oggi sull’Enciclopedia Treccani. Confesso di essere alquanto invidioso e geloso di tanta fortuna, dato che qualche decennio fa mi trovavo in una posizione simile alla sua, mentre ora sono un decaduto e pressoché dimenticato. Tra le tante opportunità di cui Trione gode attualmente c’è pure quella di pubblicare dei fondi nel giornale milanese, uno dei quali ha sostenuto una tesi che però non mi convince, secondo cui la Biennale di Venezia fa male a mantenere le articolazioni tradizionali tra arte, cinema, musica, teatro, architettura, visto che al giorno d’oggi queste varie manifestazioni entrano in una stretta sinergia. Credo al contrario che la forza della Biennale veneziana stia proprio nel rispetto di certe tradizioni, a cominciare dal ritmo biennale che si è imposto nel mondo intero, mentre la rivale documenta soffre del suo ritmo più allungato, e proprio quest’anno è risultata poco interessante avendo promosso una fusione fra le varie arti. Si dirà che in effetti in epoca digitale non c’è più molta differenza, poniamo, tra il cinema e la videoarte, invece non è così. Rimando alla mia Mappa delle arti nell’epoca digitale (Marietti) dove ho sostenuto che, pur nel ricorso a un unico strumento, il digitale appunto, tra le due forme d’arte, rimane una differenza sostanziale: la videoarte non ha trama, valorizza i dati sensoriali allo stato puro, mentre il cinema è l’erede della narrativa, da cui ha ricavato la trama, o qualcosa di simile. Credo che il pubblico che accorre al Lido fischierebbe solennemente se, invece di fargli vedere dei film, gli venissero presentate delle

Credo che il pubblico che accorre al Lido fischierebbe solennemente se, invece di fargli vedere dei film, gli venissero presentate delle pur ottime performance.

pur ottime performance, quelle che si vedono nelle stanze oscure di tutte le manifestazioni del mondo. E certo queste produzioni in digitale hanno pure, in genere, la colonna sonora, ma nei video del circuito artistico questa si confonde con altri valori, mentre nell’esercizio della musica le viene concessa una presenza quasi solitaria. E certo il visivo di oggi è ambientale, ma c’è pure qualche differenza tra una installazione, poniamo, di Kapoor o di Kiefer e un edificio progettato da una archistar, al modo di Frank Gehry. E dunque, mantenga la Biennale le sue ripartizioni tradizionali. Piuttosto, i problemi che urgono sono di un altro tipo. Intanto, come vengo predicando da tempo anche in questa sede, tratti meglio la partecipazione italiana, non la ponga nel luogo più remoto e scomodo da raggiungere, nel percorso dell’Arsenale. Inoltre, si guardi dal diventare una specie di ONU del visivo, con decine di Paesi partecipanti. Ovviamente non si può vietare che ogni nazione senta l’ambizione di partecipare a quel grande raduno mondiale, tanto più che lo fa a proprie spese. Ma magari lo stesso comitato che assegna i riconoscimenti, e il direttore della sezione arte, stabiliscano quali siano i Paesi meritevoli di entrare in una selezione ufficiale, collocata negli spazi canonici, tra Giardini di Sant’Elena e Arsenale, lasciando agli altri, come peraltro già oggi avviene in molti casi, di darsi una diversa collocazione. Con questi pochi accorgimenti, credo che la Biennale veneziana abbia ancora davanti a sé una lunga e sicura esistenza.

LUNGA VITA ALLA BIENNALE DI VENEZIA
Santa San Polo Giudecca San Marco Castello ARSENALE GIARDINI Isola di San Servolo
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Qual è la differenza tra un selfie e un autoritratto?”, si chiedeva nel 2015 Annalise Stephan. Esperti di storia dell’arte, sociologi, studiosi di varie discipline convengono nel separare le due pratiche (hanno un pubblico e un ruolo sociale diverso), anche se in comune a volte potrebbero avere ciò che i linguisti chiamano deittico: eccomi qui! Cioè un atto dimostrativo, o una prova d’esistenza (sono io!). In questa prospettiva, che vede interfacciare il particolare e il globale, si fa strada una specie di arte popolare attraverso una carta d’identità digitale. In tal senso il selfie è “una nuova forma di conversazione” (Mirzoeff) o una forma contemporanea di comunicazione di massa; una comunicazione muta però, che assorbe tutta l’energia del sociale, senza più rifrangerla. Questo aspetto pone il selfie alla stregua di una pratica compulsiva del consumo di immagini, come accade con i meme, cioè con la convergenza del mentale e del mediale.

Là dove tutti i visi si uniformano nell’algoritmo che li traduce – la forma del contenuto – affiora una specie ancora indefinita d’immagine romanzesca: un racconto dell’io, fittizio o meno che sia. Questo fatto, decisivo, incide sull’impresa della propria apparenza. Il selfie è in tal senso una specie di promozione sociale del sé che succede ai ben noti 15 minuti di celebrità di Warhol.

Negli ultimi anni si è scritto molto su questo “fatto sociale totale”. È in questa prospettiva che il selfie ha tutte le caratteristiche di un fenomeno cultuale, ma disincantato, senza aura – non è più l’apparizione irripetibile di una lontananza, ma l’ossessiva ripetizione di un gesto. Mutuando un’espressione di Benjamin, è una nevrosi che produce l’articolo di massa dell’economia politica digitale. In altre parole, una rappresentazione coatta – o una coazione a ripetere. E se ieri il ritratto rappresentava l’energia calda della soggettività con le sue prerogative psichiche – emanava un chiaroscuro psicologico –, oggi la sua trasformazione in selfie riflette tutta l’energia fredda del sociale. Vale a dire liquida l’indefinito (o infinito) dello sguardo che ossessionò per un’intera vita artisti come Rembrandt e Giacometti. Condizione che è ben espressa da queste parole di Lévinas: “Il volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto”. Cioè, si rifiuta di essere identificato, messo in divisa, e per ciò è contestazione. D’altra parte, il sorriso congelato nel selfie non nasconde più i tratti enigmatici che al tempo di Leonardo facevano la differenza ma, per riprendere un’espressione di Benjamin, “è quello corrente nel keep smiling e funge, per così dire, da paraurti mimico”. Alcuni hanno voluto vedere nel selfie una forma di narcisismo, tuttavia occorre sottolineare che, se fosse così, si tratterebbe allora di capire la

natura di questo narcisismo ben integrato. Certo, non ha nulla a che vedere con l’eresia dell’amore di sé, per usare le parole di Paul Zweig, cioè nulla a che vedere con l’individualismo sovversivo che ha segnato la cultura occidentale, dove narciso è una specie di avvocato del diavolo che si sottrae a ogni formattazione sociale. Un eretico insomma, la cui natura irriducibile alle convenzioni sociali ne fa una specie di genio del male. D’altra parte, questo narcisismo del selfie si esprime spesso non in un sorriso, ma in una smorfia, che è un’oltranza dell’espressione, un al di là del segno familiare. Agisce come una maschera ludica, ma senza gli attributi della ribellione che nel passato si dava a essa. Alcuni autori hanno visto nel selfie “la prova visiva di un cataclisma del sé” (Geert Lovink), che ratifica la percezione sociale di ciò che Christopher Lasch ha chiamato l’“io minimo”. Ovvero apparizioni non necessarie che fluttuano nel cosmo digitale in attesa di essere intercettate, e dove la referenza iconica del ritratto è dissolta. Se ci fosse un Merleau-Ponty o un Lacan, direbbero che il selfie, pur avendo le caratteristiche di uno speculum mundi, tuttavia fallirebbe in questa funzione nella misura in cui non istituisce il soggetto come coscienza. Sulle tracce di questo fallimento, per certi aspetti i selfie attualizzano l’intuizione di Beckett che dà a vedere la nudità disperata dell’umanità: “tutto quello che sono è qui”. Non c’è altra realtà oltre a ciò che vedi. O, come disse Burroughs, “non è il caso di aggiungere nulla”. Oppure, seguendo le orme di Donald. H. Winnicott, vedere nei selfie delle immagini “transizionali” che, coniugando arte e gioco, favoriscono la separazione tra individuo e società; è il trionfo della solitudine sotto le false apparenze di un keep smiling. Forse ha ragione Baudrillard. La realtà con le sue referenze individuali – l’io, il soggetto ecc. – non è altro che un resto, una funzione inutile, un residuo dell’accanimento tecnologico che sta segnando la contemporaneità. E la pretesa del mondo digitale di liquidare tecnicamente la realtà ha qualcosa del negazionismo. Il volto concreto, inteso come frequenza psichica, luogo di un campo di forze, o come mappa del soggetto diveniente, cioè come un differenziale, è negato dalla perfezione tecnologica. La mimesis è adesso memesis

EDITORIALI
DALLA MIMESIS ALLA MEMESIS
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Il selfie è una specie di promozione sociale del sé che succede ai ben noti 15 minuti di celebrità di Warhol.

SFIDE E URGENZE PER IL MONDO DELLA CULTURA

Un nuovo anno si apre: quali le sfide e le urgenze per le politiche culturali del 2023? Lo abbiamo chiesto a dieci protagonisti.

La sfida più urgente mi sembra quella di smascherare e sfuggire al condizionamento imposto dalle due facce del moralismo: quella integralista, che pretende di tutelare le identità e le tradizioni, e quella ipocrita, che, con la scorciatoia delle giuste cause, taglia via la complessità della ricerca e della sperimentazione artistica. Non c’è ricerca senza la passione critica, senza il riconoscimento, nel campo in cui si opera, della parte-del-torto. Non c’è sperimentazione senza disponibilità a elaborare le contraddizioni, in primis le proprie. Su un piano più pratico, è urgente che nei processi formativi in ambito artistico si attui, grazie al superamento delle barriere disciplinari e all’integrazione continuativa tra formazione, produzione e presentazione al pubblico, un radicale rivolgimento dei modi, dei ruoli, delle strutture accademiche e delle istituzioni museali. In tal senso, alcuni modelli sono apparsi e cresciuti, negli ultimi anni: bisogna dar loro respiro, farli conoscere, moltiplicarli.

La sfida credo sia quella di misurarsi con un approccio dialogico alla cultura dando forma e tempo a politiche definite da “istituzioni discorsive” e inclusive. Dare cioè spazio a una cooperazione dialettica capace di attivarsi in cornici differenti, talvolta anche conflittuali, ma in grado comunque di muovere relazioni, posizioni, competenze e consapevolezze. Credo che un’istituzione dialettica, dentro e fuori dal museo, possa ricoprire nei prossimi anni un ruolo strategico per operare, quali lavoratori culturali, in chiave critica rispetto alla crescente spettacolarizzazione della cultura e della nozione di entertainment che influenza ormai la programmazione di molti musei e luoghi d’arte. Ideare invece progetti e programmi orientati alla coproduzione e all’autoapprendimento. Si tratta insomma di lavorare con forme discorsive e indipendenti per ridefinire la “reconfiguration de l’expérience commune du sensible” ricordata da Jacques Rancière. Nuove idee d’istituzione che, attraverso la temporalità e la dialettica, dilatano i territori culturali costituiti per una ridefinizione radicale della funzione dell’arte, e che in questi anni si riconoscono attraverso processi nomadi e instabili più che all’interno di cornici rigide.

La prima sfida da affrontare riguarda l’equilibrio tra tutela e conservazione del patrimonio con i necessari cambiamenti che presente e futuro ci richiedono. Un equilibrio non sempre facile da gestire nel nostro Paese, devastato da politiche speculative che hanno intaccato paesaggio e beni storico-artistici. Ponderazione e moderazione non possono, pur essendo necessarie, ostacolare visioni e coraggio, base necessaria dell’innovazione. Un altro punto di equilibrio riguarda l’investimento relativo all’espansione del turismo, la cui diffusione capillare sul territorio nazionale, da attuarsi attraverso i processi di valorizzazione del patrimonio, deve avvenire senza però cadere in processi retroattivi legati alla rendita di posizione. Incentivare attraverso scelte legislative opportune contribuiti privati nella produzione di opere e progetti espositivi validi; incrementare il collezionismo e le conseguenti donazioni alle raccolte pubbliche per contribuire ad aggiornare le collezioni; dotare i musei di risorse atte a sostenere la formazione delle nuove generazioni di professionisti nel settore cultura.

LUCA BEATRICE CRITICO E GIORNALISTA

Le politiche culturali, non solo quelle artistiche, a mio avviso dovrebbero essere strettamente connesse alla formazione, ovvero alla scuola Sono ambiti che si parlano troppo poco e non va bene, i più giovani dovrebbero sapere (penso a università e accademie) che esistono molti nuovi mestieri culturali e su quali investire le loro aspettative ai fini professionali. Dopo anni di confuso internazionalismo non vedrei male, inoltre, una miglior organizzazione strategica per diffondere la cultura italiana, troppo sacrificata da un provinciale globalismo. I musei, le fondazioni, le mostre, i curatori dovrebbero tenere in maggior conto la ricerca nel nostro Paese e non limitarsi a quella di cinquant’anni fa. Altra urgenza, su cui è chiamato il governo, riguarda la questione delle nuove nomine. Mi pare che, rispetto al passato, questo esecutivo di centrodestra non voglia dimostrarsi pigro e indifferente, come altri predecessori, non intenda mantenere lo status quo per non affrontare il problema. Le premesse sembrano indicare questo, nei prossimi mesi scopriremo se esiste davvero un nuovo indirizzo nella cultura italiana.

2023:
LISA PAROLA STORICA DELL’ARTE SERGIO RISALITI DIRETTORE MUSEO NOVECENTO FIRENZE

Mi sembra che l’urgenza sia quella di definire finalmente un insieme di politiche che affrontino il tema delle diseguaglianze sociali e territoriali, che incentivino la decentralizzazione dell’offerta culturale in un Paese, l’Italia, composto di paesi e non di grandi centri. Molte realtà interessanti in questi anni sono emerse dal basso (residenze, circoli e nuovi centri culturali) in territori periferici proprio per colmare l’assenza delle istituzioni culturali pubbliche. Per farlo però si dovrebbe riuscire a sottrarre la cultura dall’inganno della competitività e dello sviluppo territoriale a base turistica, servono investimenti per radicare processi di cittadinanza, di coesione territoriale, per superare divari e formare nuovi pubblici, invece di confezionare nuovi pacchetti per vendere i nostri paesi come luoghi ideali del consumo mordi e fuggi. Infine, speriamo sia l’anno giusto per mettere alla prova gli strumenti della co-progettazione e della co-programmazione anche in ambito culturale, per provare ad aprire nuove modalità di disegno delle politiche culturali territoriali.

La crisi pandemica ha portato a operare su tempi brevi, interrotti, sospesi. Il senso di emergenza ha distratto dalla visione di lungo corso e dall’interpretazione più profonda di fenomeni da cogliere in una prospettiva storica e non solo nella necessità di immediata risoluzione. Ciò ha riguardato la vita degli individui al pari delle istituzioni. Nello specifico delle politiche culturali credo che, al di là dello scenario drammatico del ritorno a economie reali e non differite dall’indebitamento correlato all’adozione di misure finanziarie straordinarie, occorra uscire dai limiti della contingenza e ciascuno per la propria missione dichiarare chiarezza di progetti e sostenibilità di questi. Bisogna eccedere il presente, rinegoziare valori e obiettivi dando continuità ad azioni coerenti. In sostanza, si deve pianificare e divenire riferimenti per idee condivisibili, non facendo da soli, ma creando strutture che consentano di essere partecipate da energie finora represse da paura e incertezza sull’avvenire.

Sfide e urgenze coincidono. Bisogna onorare il nostro più alto punto di riferimento, l’articolo 9 della Costituzione, oggi arricchito di ulteriore senso eppure mai attuato completamente: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Banalmente: finanziamenti in linea con quelli degli Stati più avanzati; stabilizzazioni per gli operatori del settore; rafforzamento della cooperazione internazionale, anzitutto in Europa e nel Mediterraneo; valorizzazione della funzione sociale e dello spirito di concordia civica impliciti in ogni forma di cultura. Non da ultimo, si dovrebbe rifuggire ogni tentazione isolazionista e rammentare che cultura è civiltà: universale, inclusiva e pacificatrice.

PATRIZIA ASPRONI PRESIDENTE FONDAZIONE INDUSTRIA E CULTURA TORINO

Cambiamento climatico, equità di genere, creazioni digitali sempre più indistinguibili dagli “originali”, aumento del turismo di massa, mercato in grande crescita ma con costante paura di crisi, una sorta di “presentificazione di futuro” in cui le sfide e le “urgenze” sono la norma. I grandi problemi globali e i social media spingono tutto a nuovi livelli di amplificazione e quindi i musei devono diventare sempre più comunità, oasi del reale mentre il digitale, ormai pervasivo, deve portare all’ibridazione fra il fisico e il virtuale, fra il dentro internet e il fuori internet. Le politiche sulla cultura dovrebbero quindi dotarsi di modelli predittivi per prepararsi ai mutamenti in corso. Il nostro patrimonio culturale sempre più deve essere utilizzato come banca dati da mettere a disposizione dei nuovi “content providers”, offrendo nuove possibilità di interazione con l’arte, eliminando le pastoie burocratiche che ne impediscono uno sviluppo.

PATRIZIA SANDRETTO

PRESIDENTE

Partecipazione culturale, valorizzazione della cultura contemporanea, maggiore collaborazione pubblico-privato: sono questi i temi di riflessione che a mio parere dovrebbero orientare le politiche culturali del 2023. Che ruolo ha la cultura nella vita delle persone? I dati recenti sui consumi culturali vedono l’Italia in una posizione critica rispetto alla media europea. Occorre a mio parere investire di più sui progetti, le pratiche e le professioni che negli ultimi decenni, nei musei, nelle mostre, a scuola o nello spazio pubblico, hanno trasformato l’offerta culturale in un’esperienza educativa viva, occasione di conoscenza e socialità. Occorre valorizzare il presente, sostenendo le giovani generazioni artistiche italiane e consegnando in particolare all’arte contemporanea il compito di ispirarci e di proiettare la nostra storia e identità nel futuro. Occorre infine estendere l’Art Bonus anche alle istituzioni private per aprire una nuova stagione del mecenatismo, fondato sull’importante alleanza pubblico-privato.

ANGELA TECCE

Sostegno alle istituzioni e alle relazioni tra di esse; valorizzazione del patrimonio – artistico e umano – dei territori; maggiore integrazione e scambio tra il comparto turistico e quello culturale, per la creazione di una rete di accoglienza per i flussi internazionali, il cui incremento si è ormai consolidato nelle ultime stagioni. Questi sono alcuni dei punti che ritengo andrebbero inseriti nelle agende per le politiche culturali del nuovo anno. Penso che uno dei principali strumenti in possesso degli istituti di cultura sia la possibilità di costruire reti di scambio, quanto più estese e solide, per poter integrare offerte, contenuti e competenze differenti. Questo sistema va sicuramente favorito, rendendo più agili le procedure e ponendo in dialogo attori provenienti da contesti differenti. Con il cambio di statuto recentemente approvato e il prossimo arrivo del nuovo direttore, intendiamo consolidare, di concerto con la Regione Campania, il ruolo del Museo Madre e della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee come riferimento per il sistema dell’arte.

TALK
SHOW a cura di SANTA NASTRO GIANFRANCO MARANIELLO DIRETTORE DEL POLO MUSEALE MODERNO E CONTEMPORANEO – MILANO
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è un gran movimento tra le fiere. E i movimenti sono sempre un gran bene. Le fiere, non solo quelle d’arte ma tutte, di ogni categoria merceologica, già soffrivano parecchio. Il distanziamento anti-Covid, i lockdown e le altre misure governative che hanno chiuso gli eventi con assembramento sono stati la mannaia finale. Ma dalle ceneri nascono le idee, ci si ripensa, si trovano nuove forme. Semplicemente perché vale la regola aurea che, nel problema e nel dolore, si ritrova la via. Esporre in carrellata beni e servizi, fisiologicamente omogeneizzandoli. Centinaia di produttori che in pochi giorni e con sforzi immani (sia economici che fisici) cercano di captare clienti, posizionarsi sui curiosi, vendere qualcosa: era tutto oltremodo obsoleto. Il digitale ha cambiato le regole della comunicazione e del commercio, in maniera irreversibile. Sebbene il contatto umano sia indispensabile, ancor più in qualsiasi pratica commerciale, quanto meno nel procacciamento è velleitario. La capacità di fuoco dei canali digitali di selezionare e intercettare è ineguagliabile. Se associata al costo per contatto, è spaventosa. Forse inimmaginabile venti o trent’anni fa. Mentre le fiere sono nate nella notte dei tempi. Appartengono all’era pre-cristiana addirittura, ma molte sono rimaste lì come format. Sono un grande momento mercantile che oggigiorno, nella loro essenza, spesso hanno perso efficacia. Tante infatti sono state chiuse, anche brand importanti e in location prestigiose, non per motivi endogeni bensì esogeni. Non c’è più domanda per quel tipo di fiere, per il loro modello classico espositivo, diciamo. L’arte ha le sue peculiarità, naturalmente. Alle fiere si vende infatti ancora molto bene, per i galleristi sono il momento clou per incontrare i clienti.

La capacità di fuoco dei canali digitali di selezionare e intercettare è ineguagliabile. Se associata al costo per contatto, è spaventosa.

Sono tappe di percorsi “consulenziali” tra collezionista e gallerista indispensabili e non sostituibili. Ma per l’economia della fiera non basta. Le fiere d’arte comunque sono tante. I costi logistici per un espositore esponenzialmente elevati, i ricavi ottenibili, seppur come detto significativi, magari non sufficienti (o vanificati dai costi della fiera) e quindi si mette in discussione la partecipazione (“magari vendo ugualmente altrove”). Allora le fiere, per essere appetibili, distintive rispetto ad altre e per giustificare i prezzi per esporre, offrono nuovi servizi. La produzione è quella sempre più in voga e interessante. La si sta seguendo in tre modalità: avere degli sponsor per dei premi, da dare alle gallerie o agli artisti, invitandoli quindi a fare di quella fiera un momento unico e distintivo; creare delle sezioni sperimentali, tematiche, dove si invitano i mercanti a selezionare i propri artisti o comunque a creare una narrazione specifica per l’evento; oppure offrire delle residenze per far produrre artisti e portarli in fiera. L’aspetto peculiare è quindi che, sempre di più, la fiera diventa centro culturale. Il tratto mercantile diventa il punto di arrivo di un processo e non più un presupposto. La fiera in quanto contenitore è verticale (dall’ideazione alla produzione e al consumo) e non più orizzontale (mercato di incontro tra offerta e domanda).

Arte Fiera / Bologna / artefiera.it

MIA / Milano /miafair.it miart / Milano / miart.it

LE PRINCIPALI FIERE D’ARTE IN ITALIA

ArtVerona / Verona / artverona.it

Artissima / Torino / artissima.art

Arte in Nuvola / Roma / romaarteinnuvola.eu

COME CAMBIANO, PER FORZA, LE FIERE
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ACCADEMIE DI BELLE ARTI. IL GIOCO DEI RUOLI

n questi ultimi tempi (settimane? mesi?) ho assistito soprattutto sui canali social alla stabilizzazione nelle Accademie italiane di molte colleghe e di molti colleghi (operatrici e operatori culturali a vario titolo). Man mano che passava il tempo, osservando i numerosi scatti che li ritraevano nell’atto di siglare il tanto anelato “pezzo di carta”, oltre a provare una sincera felicità per l’emancipazione da una condizione di assurda incertezza che li aveva oppressi fino a quel momento, un pensiero mi appariva sempre più chiaro: questa è un’occasione da non perdere Credo fermamente, infatti, che questo nuovo status da un lato possa in qualche modo ripagare i neo docenti a tempo indeterminato, coscritti o anagraficamente vicini al sottoscritto, degli sforzi e dell’impegno profuso in periodi medio-lunghi di precariato reale in cui i contratti per una professione, prossima a una vera passione nella maggior parte dei casi, includevano lunghe liste di doveri scritti o effettivi, mentre erano quasi totalmente privi di diritti fondamentali (malattia, ferie, maternità/paternità ecc., e mi scuserete la semplificazione).

Dall’altro, però, l’arrivo dell’anelata conferma, della stipula pubblica e spesso pubblicizzata della firma, dovrebbe portare con sé anche un senso di responsabilità prima di tutto sul presente e in secondo luogo su ciò che verrà.

La sfida allora per le ultime generazioni di incardinati potrebbe essere quella di scrollarsi di dosso l’atteggiamento della lamentela, del compiangere la propria condizione o della stigmatizzazione dell’esistente, puntando invece, forti anche del ruolo ottenuto e della conseguente possibilità di presenziare in organi decisionali (collegi, consigli, comitati), all’obiettivo di modificare il sistema laddove quest’ultimo non risponda alle esigenze didattiche e della ricerca. Ciò però è possibile solo se alla presa di coscienza segue un immediato scatto operativo atto all’ottenimento di uno spazio d’azione reale all’interno delle istituzioni.

In ballo non c’è solo la parificazione con il modello universitario, che allo

stato attuale è ancora di là da raggiungersi a pieno nella pratica (e non parliamo solo dell’insensata differenza degli stipendi), ma il fatto di impostare la traiettoria per un modello tanto innovativo quanto specifico al comparto in oggetto, che non solo riconosca l’importanza di una tradizione da aggiornare, ma che possa offrire l’opportunità di incontrare un autentico pensiero critico e che sia in grado di portare le sfide del presente dentro l’insegnamento e dentro le mura delle scuole. Insomma, prendete pure queste righe come un appello, un auspicio, un desiderata (o come un’ingenua speranza) ma cerchiamo, nessuno escluso e tantomeno il sottoscritto, di non procrastinare ancora una volta l’intervento diretto, facciamo in modo di non perdere un’opportunità che si presenta ora e non sappiamo quando accadrà nuovamente. Le ragioni? Se non bastano quelle fino a qui elencate, facciamo come diceva quel tale: “Per questo, questo e quest’altro motivo…”.

EDITORIALI
I
Facciamo in modo di non perdere un’opportunità che si presenta ora e non sappiamo quando accadrà nuovamente.
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Photo Romain Dancre via Unsplash

VISITA E VISORI: IL TURISMO AL COSPETTO DELLA TECNOLOGIA

Qualche anno fa, emerse l’interesse da parte delle istituzioni museali di misurare il tempo di fruizione medio delle opere esposte. Emersero dati molto bassi di permanenza, una manciata di secondi, notevolmente inferiori rispetto a quelli registrati da servizi come Google Arts and Culture. Le interpretazioni che ne seguirono furono il riflesso di un’epoca in cui il mondo “reale” e quello “digitale” non erano ancora così interdipendenti. È chiaro che in un museo, che contiene centinaia di opere, le persone tendono a permanere molto meno di quanto possano fare di fronte a una singola opera disponibile sul proprio schermo, magari in alta risoluzione, e che si può fruire con una ricchezza di dettagli superiore a quella percepibile in condizioni reali. Quei dati, oggi, possono essere reinterpretati secondo un’altra predisposizione: non quella dell’antitesi, piuttosto della complementarietà Pur derivando da ricerche condotte pochi anni fa, la progressiva integrazione tra mondo reale e virtuale fornisce una chiave di lettura completamente differente: oggi sappiamo che l’esperienza in un museo non sarà mai paragonabile a quella in realtà virtuale e che, per quanto evoluti, gli strumenti digitali propongono esperienze che hanno caratteristiche differenti da quelle in presenza. Né migliori, né peggiori: differenti.

Queste riflessioni dovrebbero interessare chi si occupa di progettare e definire i perimetri delle esperienze culturali e, forse in misura ancor maggiore, le esperienze turistiche. I dati riportavano un’evidenza: nel complesso dell’esperienza turistica, esistono molti stimoli del territorio cui si presta poca o nulla attenzione, e che potrebbero invece essere di estremo interesse in altre circostanze.

Nell’incontro Integra: la realtà virtuale ad integrazione dell’esperienza turistica, tenutosi al Buy Tourism Online, durante una conversazione con Digital Mosaik, questi elementi sono emersi in modo evidente. Soprattutto, è emerso come, nella pianificazione dei servizi virtuali per il turismo, l’offerta si concentri su categorie di servizi tendenzialmente sostitutivi dell’esperienza turistica. A fronte delle riflessioni sollevate dai dati sulla frui-

zione museale, tuttavia, la progettazione di servizi del mondo dei visori dovrebbe essere pensata in modo differente, in primo luogo dai territori e dalle istituzioni della cultura, riflettendo su quali possano essere i reali target di quel prodotto e quali categorie di bisogni i prodotti virtuali potrebbero soddisfare.

Da un lato, infatti, c’è il bisogno dell’istituzione di mostrarsi “al passo con i tempi”, e questo è forse il bisogno meno interessante, perché produce costi di realizzazione che generano benefici trascurabili.

Queste riflessioni dovrebbero quindi interessare molto chi si occupa di progettare e definire i perimetri delle esperienze culturali e, forse in misura ancor maggiore, le esperienze turistiche.

Dall’altro, ci sono i bisogni delle persone che non faranno mai esperienza diretta di una determinata località, i bisogni di coloro che stanno pianificando l’esperienza e i bisogni di chi in quella località c’è già stato.

La realtà virtuale potrebbe creare benefici proprio per quest’ultima categoria: rientrati dal viaggio, potrebbe voler conoscere dettagli su “cose viste di

sfuggita”, o su opere di musei che non ha potuto fruire nelle migliori condizioni, o su elementi vissuti in modo pieno e che vorrebbe rivedere per fissare meglio contenuti ed emozioni. Realizzare prodotti audiovisivi per visori, in questo senso, potrebbe essere interessante per questa categoria di persone. Tali prodotti, tuttavia, dovrebbero differire, ad esempio, da quelli ideati per esigenze diverse: dalla scelta del dettaglio dei contenuti ai canali di distribuzione e vendita. Soprattutto, i servizi integrativi-virtuali devono trovare i propri canali di vendita: nel caso del museo, dev’essere il bookshop a fornire la possibilità di acquistare un servizio di questo tipo; nel caso delle città d’arte, dovrebbero essere le stesse istituzioni a sviluppare una strategia di vendita post-visita.

Si tratta di un’opportunità importante per i territori e le istituzioni culturali, ma è anche a tempo limitato: con l’incedere così rapido delle innovazioni tecniche, sarà presto possibile registrare l’esperienza attraverso i propri device e, quando questo accadrà, magari le persone si accontenteranno di quanto salvato dai propri glass piuttosto che di un prodotto culturale e turistico evoluto.

Photo © You are Leo

EGEMONIA E

DI CERTA ARTE CONTEMPORANEA

IIl linguaggio egemone, dominante nell’arte contemporanea italiana dei tardi Anni Sessanta e dai primi Settanta in poi (con una breve interruzione negli Anni Ottanta), è stato ovviamente quello dell’Arte Povera. Egemonia vuol dire, principalmente, controllo esercitato sulle generazioni successive. Possiamo addirittura tracciare un’intera storia dell’arte degli ultimi trent’anni attraverso la genealogia delle opere e degli autori che hanno derivato direttamente le loro forme fondamentali, l’aspetto generale per così dire, dai “gusci” elaborati dai trentenni di allora. Fino praticamente a oggi: il che, se ci pensiamo bene, è a dir poco strano, persino inquietante. Molto probabilmente, questa sudditanza/dipendenza linguistica, stilistica, formale si è riflessa nel tempo anche nell’attitudine esistenziale? E come avrebbe potuto essere altrimenti? È inevitabile. Un linguaggio conservatore non può discendere da – o a sua volta generare – una visione progressista. Di qui, anche, l’individualismo e il conformismo tipici degli ultimi decenni. (L’impermanenza non vissuta, non cercata né sperimentata, quanto piuttosto subita. Una certa passività un po’ pusillanime, inoltre.) Il debito, l’essere e il concepirsi, e il sentirsi epigoni va evidentemente molto al di là dell’aspetto esteriore del lavoro – e investe pesantemente, prepotentemente tutte le dimensioni della vita quotidiana. Le scelte politiche, quelle impolitiche. L’attitudine menefreghista. (Ancora una volta: gli artisti dell’Arte Povera non sono affatto “padri” rispetto a noi quarantenni, semmai “nonni”; sono i padri invece rispetto alla generazione emersa tra fine Anni Ottanta e inizio Anni Novanta. Altrimenti, non si capisce niente.) LLL

Il punto non è che lo spettatore, abiurando dal suo ruolo o quantomeno mettendolo seriamente in discussione, abdicando dalla sua condizione, abroga l’autore in quanto tale. Non funziona così. Lo spettatore autonomo, indipendente, non esclude l’autore (la “firma senza nome” di cui parlava Giulio Paolini, “latore – o l’attore, se preferite – dell’opera, il caso della cosa”).

Semplicemente, la contestazione delle forme e delle funzioni tradizionali, ereditate (non a caso, da quella generazione, la quale si è ben guardata dal portare in fondo e alle estreme conseguenze la propria, di contestazione…) è la precondizione dell’evoluzione: la trasformazione in senso evolutivo di entrambi i ruoli, infatti, permetterebbe una ridefinizione radicale della loro relazione, della loro reciprocità, e spalancherebbe all’opera possibilità infinite.

LLL

Gli unici (eco)sistemi in cui è nata e cresciuta l’innovazione radicale sono quelli ipercritici.

Identità / memoria / intersoggettività relazionale / contesto / ambiente / rapporto / situazione / opera-processo-fare / sapere / struttura / errore-imprevisto-CODICE / deviazione-digressione / flusso / scrittura / emotività-affetto / AMORE / empatia / disposizione-attitudine-cazzimma VS. controllo-ordine-accettazione.

LLL

L’artista fighetto vive nella distanza Che cos’è questa distanza? La finzione, l’inautenticità.

La distanza è quella tra verità e menzogna, tra realtà e rappresentazione. L’arte fighetta (soprav)vive nelle sovrastrutture, vive del farti sentire escluso e stupido. E povero.

(Infatti, poi la gente che non si occupa di arte tutti i giorni si mette a disquisire per settimane e mesi di idiozie come l’arte fatta dall’AI, dall’intelligenza artificiale.)

Il punto non è che lo spettatore, abiurando dal suo ruolo o quantomeno mettendolo seriamente in discussione, abdicando dalla sua condizione, abroga l’autore in quanto tale. Non funziona così.

La finzione ultima, definitiva dell’arte fighetta consiste dunque nel senso di esclusività, fatto di “io posso, tu no”, “io ho i mezzi (tu no)”, “io appartengo al bottone”, “io ce l’ho fatta”, “io so cose che tu non sai e non saprai mai (povero sfigato)”, “io sono dentro – e tu sei fuori” ecc. Abbastanza disgustoso. Soprattutto, poi, quando vedi e senti farlo da autori – e curatori – che si sbracciano e si sgolano e si stracciano le vesti (costosissime, ma finto-povere: tipo una specie di parkaannisettantaperòdilusso, una divisa da artista-operaio-e-tanto-impegnato, però griffato…) per l’apertura, la democraticità, l’inclusione, l’esperienza, la partecipazione, il coinvolgimento – giurando e spergiurando che ci tengono moltissimo, che è al centro della loro ricerca.

Insopportabile, veramente. Anche imbarazzante, direi, no? Ma no, oggi non si imbarazza più nessuno.

EDITORIALI
FIGHETTISMO
LLL
CHRISTIAN CALIANDRO
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IN FONDO IN FONDO

Medice, cura teipsum”, dice Gesù, per ricordare che chi crede di poter guarire i mali altrui prima deve aver risolto i propri. Dato che il termine “curatore” deriva proprio da cura, le parole evangeliche tornano alla mente in occasione della giornata di studi dedicata a Pier Luigi Tazzi (1941-2021), Dal grado zero della critica alla crisi della curatela, tenutasi a Palazzo Strozzi a Firenze il 17 dicembre scorso (a cura di Lorenzo Bruni), con un comitato organizzatore di tutto rispetto, da Fabio Cavallucci a Hou Hanru, e un parterre altrettanto autorevole, che svariava da H.U. Obrist ad Angela Vettese, da Elio Grazioli a Giorgio Verzotti, a Viktor Misiano a Rirkrit Tiravanija e via dicendo (l’intero godibilissimo incontro è visibile su YouTube).

Infatti, a sentire tutti questi esperti, pare che la figura del curatore, benché molto richiesta, stia attraversando una crisi di identità o, perlomeno, sia in una fase di profonda ridefinizione. Del resto, lo stesso Tazzi è stato un curatore e un critico del tutto sui generis, capace, come è stato osservato, di passare dalla curatela di kermesse internazionali, come la Biennale di Venezia o documenta IX (1992, con Denys Zacharopoulos e Bart de Baere, entrambi presenti per ricordarlo), all’organizzazione di convegni (Critica 0, 1978), e di mostre “in miniatura”, ma di raffinata confezione (come quelle alla Fondazione Lanfranco Baldi di Pelago). Questo suo profilo “inclassificabile” testimonia la vitalità di un ruolo insostituibile quale quello del curatore, ma, oggi più che mai, ne rende assai problematica la collocazione, il significato e in definitiva anche la funzione. Tuttavia, questa crisi non è certo casuale. In effetti, negli Anni Settanta, in cui un personaggio come Tazzi organizzava i suoi primi convegni e le sue prime mostre, il concetto stesso di “curatela” era praticamente ignoto e tutto ciò a cui si poteva aspirare era la direzione di uno spazio museale o l’assai incerta carriera di critico d’arte. Mezzo secolo dopo, si potrebbe dire, al contrario, che non c’è evento culturale, pur (in)degno di questo nome, che non abbia il suo bravo “curatore”, il quale talvolta assume questa funzione senza avere la minima idea di che cosa significhi. Insomma, si è passati da un regime di generale indigenza, con pochi spazi espositivi, poche mostre e ancor meno curatori, a un regime di insostenibile sovrabbondanza, con talmente tante proposte che è semplicemente impossibile seguirle tutte.

Ma questo repentino mutamento non deve offuscare il punto della questione: ieri come oggi, la curatela, intesa rettamente, come atto ermeneutico, ideologico e critico, lungi dall’essere un elemento ininfluente o accessorio, è un atto cruciale. Curare, costruire, gestire od organizzare in qualunque modo un progetto

artistico o culturale ha una rilevanza strategica, perché significa definire – o ridefinire – un intero scenario, con i suoi attori, le sue gerarchie, il suo significato.

Negli Anni Settanta, in cui un personaggio come Pier Luigi Tazzi organizzava i suoi primi convegni e le sue prime mostre, il concetto stesso di “curatela” era praticamente ignoto.

“Curare” vuol dire plasmare un intero immaginario, significa decidere a chi e a cosa dare spazio, o non darlo – e implica in ultima analisi prendersi delle enormi responsabilità: significa reinterpretare la realtà del fare arte (come fece Harald Szeemann con When attitudes become form, 1969), combinare il contemporaneo con l’antico (come fece lo stesso Tazzi con Happiness. A Survival Guide for Art and Life, 2003), ricreare una mostra mai realizzata, quella del ventennio del fascismo (come fece Germano Celant con Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, 2018), o addirittura costringerci a rivedere completamente il nostro concetto di “classico” (come fece Salvatore Settis con Portable Classics, 2015).

Esattamente per questo, è cruciale, qui, non disgiungere ma porre in relazione reciproca esiguità e sovrabbondanza: a dispetto della soverchiante profusione di mostre, biennali, collettive, personali e via dicendo, infatti, il numero di quelle davvero memorabili è estremamente ristretto.

Perché una mostra, di qualunque genere si tratti, non si esaurisce nell’arredo di spazi più o meno blasonati, né nell’esposizione di opere più o meno rare, affascinanti o dirompenti, ma nella produzione della risorsa in assoluto più scarsa – il senso

SENALDI CURATORE, CURA TEIPSUM
MARCO
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a cura di / curated by Lorenzo Balbi 2.2 - 7.5 2023 Via Don Minzoni 14 | Bologna info www.mambo-bologna.org MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna Yuri Ancarani Atlantide 2017-2023 DUGONG FILMS PARTNERSHIP TRUST PER L’ARTE CONTEMPORANEA CON IL SOSTEGNO DI / WITH THE SUPPORT OF MAIN SPONSOR IN COLLABORAZIONE CON / IN COLLABORATION WITH
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