Artribune #65

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#ARTRIBUNECARTABIANCA

N. 65/66 L MARZO – MAGGIO 2022 L ANNO XII

centro/00826/06.2015 18.06.2015

ISSN 2280-8817

Depositi e restituzioni: le due questioni al cuore dei musei + Intervista a Cecilia Alemani + Artisti post Covid in forma di infografica



Indiana Yawanawá. Stato di Acre, Brasile, 2016 © Sebastião Salgado/Contrasto

Sebastião Salgado

amazônia

fino al 28 agosto 2022

a cura di Lélia Wanick Salgado

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MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo | via Guido Reni, 4A - Roma | www.maxxi.art soci fondatori


#65 #66 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Giorgia Basili | Irene Fanizza Giulia Giaume | Claudia Giraud Desirée Maida | Livia Montagnoli Roberta Pisa | Giulia Ronchi Valentina Silvestrini | Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA GRANDI MOSTRE Donatello, Madonna col Bambino STAMPA CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 24 marzo 2022

MARZO L MAGGIO 2022 www.artribune.com

artribune

COLUMNS

6 L GIRO D’ITALIA Christian Caliandro Antonio Ottomanelli || 14 L Massimiliano Tonelli Questa copertina disegnatela voi || 15 L Peppino Ortoleva La guerra moderna: il racconto impossibile || 16 L Renato Barilli Accademie al passo coi tempi || 17 L Claudio Musso Ancora natura, natura àncora || 18 L Christian Caliandro L'arte sfrangiata || 19 L Marcello Faletra Uomini e topi || 20 L Aldo Premoli Il fungo è la nuova superstar

NEWS

28 L STUDIO VISIT Saverio Verini Ambra Castagnetti || 36 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo Londra (e Shanghai) || 37 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini I silenzi di Prudence Flint || 40 L TALK SHOW Santa Nastro La cultura e le guerre || 44 L APP. ROPOSITO Simona Caraceni Fare esperienza di tre maestri || 45 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Marjani, la volpe sarda || 46 L ARCHUNTER Marta Atzeni BDR Bureau || 50 L Arianna Testino Parola d'ordine: introspezione. Intervista a Cecilia Alemani sulla sua Biennale || 54 L CONCIERGE Valentina Silvestrini Il primo hotel di Patricia Urquiola a Venezia | NECROLOGY || 58 L LIBRI Marco Petroni & Marco Enrico Giacomelli Malvestio, Caliandro, Minini et. al. || 63 L Giulia Giaume Le iniziative dal mondo italiano dell'arte e della cultura in supporto dell'Ucraina || 63 L GESTIONALIA Irene Sanesi Essere culturemaker || 64 L DURALEX Raffaella Pellegrino Opere dell'ingegno: limiti e condizioni per citarle || 68 L Arianna Gandolfi Viaggio nell'archeologia industriale di Venezia || 72 L ART MUSIC Claudia Giraud Bound: il concept album visivo degli Earthset || 73 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Scandalo in redazione | L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Viale del tramonto in salsa argentina || 75 L DISTRETTI Livia Montagnoli Ascoli Piceno. La città del travertino parlante || 78 L OSSERVATORIO CURATORI Dario Moalli Il visual essay di Giuliana Benassi

STORIES

84 L Livia Montagnoli Il futuro dei musei è nei depositi 94 L Alessandro Leone Fare i conti con il passato 106 L Santa Nastro Arte, artisti e pandemia

GRANDI MOSTRE

116 L IN APERTURA Giulia Giaume Donatello, Firenze e il Rinascimento || 118 L OPINIONI Antonio Natali La guerra e il peso della cultura | Fabrizio Federici La censura da Michelangelo ai social network || 119 L Stefano Monti A quando una mostra sulle serie tv? | Elisabetta Barisoni Musei e cultura nell’era transpandemica || 120 L FOTOGRAFIA Angela Madesani La memoria di Pompei negli scatti di Luigi Spina || 122 L GRANDI CLASSICI Neve Mazzoleni Tiziano e le donne nella Venezia del ‘500 || 124 L DIETRO LE QUINTE Marta Santacatterina L’arte e le parole di Lucio Fontana || 126 L OLTRECONFINE Dario Bragaglia | Aldo Premoli A Parigi la mostra su Yves Saint Laurent || 128 L ARTE E PAESAGGIO Claudia Zanfi Venezia. Il Lazzaretto Nuovo | IL MUSEO NASCOSTO Lorenzo Madaro Galatina. Museo Civico Pietro Cavoti || 129 L IL LIBRO Marco Enrico Giacomelli Il saggio definitivo sul Divisionismo | ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Sotheby's. René Magritte

ENDING

132 L SHORT NOVEL Alex Urso Sio 134 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi La guerra mediale

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QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Simone Albrigi aka Sio | Cecilia Alemani | Marta Atzeni | Renato Barilli | Elisabetta Barisoni | BDR Bureau | Giuliana Benassi | Elide Blind | Stefano Boeri | Dario Bragaglia | Silvia Burini | Christian Caliandro | Francesca Cappelletti | Simona Caraceni | Ambra Castagnetti | Nicola Coropulis | Saskia Cousin | Mwazulu Diyabanza | Earthset | Marcello Faletra | Luigi Fassi | Fabrizio Federici | Mariacristina Ferraioli | Manlio Frigo | Arturo Galansino | Arianna Gandolfi | Marco Enrico Giacomelli | Giulia Giaume | Emilia Giorgi | Massimo Gioscia | Claudia Giraud | Ferruccio Giromini | Paolo Giulierini | Giulia Grechi | Guido Gryseels | Salvatore Iaconesi | Susan Legêne | Alessandro Leone | Luigi M. Macioce | Lorenzo Madaro | Angela Madesani | Desidée Maida | Gianluca Marras aka Marjani | Cristina Masturzo | Neve Mazzoleni | Christophe Mercier | Dario Moalli | Livia Montagnoli | Stefano Monti | Claudio Musso | Santa Nastro | Antonio Natali | Beatrice Nicolini | Carolina Orsini | Peppino Ortoleva | Antonio Ottomanelli | Felipe Pantone | Raffaella Pellegrino | Oriana Persico | Marco Petroni | Giulia Pezzoli | Aldo Premoli | Marina Pugliese | Reverie | Gianluigi Ricuperati | Sergio Risaliti | Stefano Roffi | Giulia Ronchi | Irene Sanesi | Marta Santacatterina | Eike Schmidt | Marco Senaldi | Fabio Severino | Maria Celeste Sgrò | Valentina Silvestrini | Luigi Spina | Giuseppe Stampone | Simone Tacconelli | Arianna Testino | Grazia Toderi | Massimiliano Tonelli | Gian Maria Tosatti | Patricia Urquiola | Alex Urso | Maria Chiara Valacchi | Roberta Vanali | Elvira Vannini | Saverio Verini | Claudia Zanfi

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Toti Scialoja Catalogo generale dei dipinti e delle sculture 1940-1998

Per informazioni, certificazioni di autenticità, archiviazione e consegna dei materiali rivolgersi a:

a cura di Giuseppe Appella

Fondazione Toti Scialoja via Santa Maria in Monticelli, 67 00186 Roma www.totiscialoja.it tel. +39 06.68809900 email: info@totiscialoja.it


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16.12.2021 08.05.2022 a cura di Hou Hanru, Monia Trombetta

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Venezia Artribune #58

Portofino Artribune #63

CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ] ANTONIO OTTOMANELLI [ fotografo ] Cabras (Oristano) Artribune #61 Palermo Artribune #59-60

facile immaginare qui un Sud Italia Anni Cinquanta e Sessanta, il boom economico. T’nim u’ mar, felicità arcaica, preindustriale (ancora per poco). Per Pasolini, che visitò la città nel luglio 1959, nell’ambito della sua estate on the road lungo le coste dell’Italia da Ventimiglia a Trieste, Taranto era “un gigantesco diamante in frantumi”: “Una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari” (Pier Paolo Pasolini, La lunga strada di sabbia, Guanda 2017). Nella cattedrale di San Cataldo, sul pavimento i frammenti del mosaico centrale (1160) realizzato da Petroius rappresentano la leggenda del volo di Alessandro Magno. Un viaggio immaginario, in cui Alessandro ascende al cielo su un velivolo (un trono, un cesto o un paniere nella tradizione occidentale; un cocchio o una biga in quella alessandrina) trainato da due grifoni. Secondo alcuni, questa narrazione visiva è un’allegoria della superbia, un’ammonizione; secondo altri – come lo studioso Victor Schmidt – rappresenta invece la salvezza dell’anima e l’aspirazione dell’uomo al Paradiso: sarebbe dunque un’allegoria della forza. Il mare di Taranto di fronte al cavalcavia, all’ingresso della città, dove c’è la chiesetta di Santa Maria di Costantinopoli, “quella spiaggia una volta silente e melanconica campagna infestata di pirati” (Mons. Giuseppe Blandamura, 1866-1957). Via Duomo: Antonio Mariano, maggio 2017. Il suo “negozio”; musica a palla di Little Tony e di Elvis Presley; racconto di Antonio su Malpensa 1964: incontro magico con Elvis. Con Alessandro Bulgini – che in questi anni mi ha fatto (ri)scoprire la città nei suoi angoli più insospettati – e con sua moglie Ginevra Pucci entriamo nel negozio (o laboratorio, o bottega, o antro: o installazione) di Antonio Mariano – un incredibile spazio, con dietro un altro spazio e un altro ancora, pieno di quadri con marine e di modelli meravigliosi di navi militari seicentesche e moderne – a volume altissimo una canzone di Little Tony (Quando vedrai la mia ragazza) ci avvolge e satura in modo piacevole l’ambiente – i CD accanto allo stereo sono tutti di Little Tony e di Elvis Presley e dei Platters. Mentre siamo nella seconda sala, da soli, Antonio mi racconta un aneddoto, un frammento prezioso e del tutto inaspettato della sua vita – Aeroporto di Malpensa, 1964. Antonio a diciassette anni è scappato di casa e ha raggiunto in treno Milano da Taranto – si trova all’aeroporto non si sa come, non si sa perché, intravvede una

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Milano Artribune #62

piccola folla – al centro c’è lui, il Re, Elvis – il piccolo Antonio si intrufola fino a raggiungere il cantante, circonfuso di bellezza sovrannaturale (effetto fluo) – in questo incontro magico i due hanno qualche difficoltà a intendersi, proprio a livello linguistico, ma con l’aiuto dell’interprete in qualche modo ce la fanno e il succo del breve scambio è questo qui: – Elvis, sono il tuo più grande fan! – Eh, come vedi ne ho parecchi… sono milioni. – Ma io ti sarò fedele per sempre. – Beh, allora forse tu sei il più grande di tutti. E poi, non si sa se con le parole o piuttosto con il solo sguardo (gli occhi del Re del Rock’n’Roll, allora 28enne: Elvis the Pelvis, il Nemico Pubblico, l’Inno di Guerra, il Fulmine di Memphis): – In effetti, mi ricordi me stesso quando ero ragazzo… Taranto è la macchia indecifrabile, indefinibile sulla cravatta azzurra di Antonio, vestito a festa per San Cataldo, patrono della città. Taranto è l’amico di Antonio, che se ne esce con la battuta dell’anno: “Ma questa è… la macchia mediterranea!”. Taranto è il modo in cui i palazzi dell’Isola si scrostano, si erodono e permangono – il loro essere al tempo stesso abbandonati e abitatissimi, reali e impossibili, confine e centro di ogni presente – un’erosione che è il risultato di una stratificazione storica e culturale quasi inconcepibile, prolungata e ipercompressa, in cui memoria oblio cura incuria si accavallano e si sovrappongono.

Reggio Calabria Artribune #64

GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

BIO Antonio Ottomanelli è nato a Bari. Architetto di formazione, indaga attraverso gli strumenti dell’arte visiva le relazioni che intercorrono fra l’evoluzione tecnologica, l’autorità, le trasformazioni del paesaggio e la vita quotidiana. Lavori come Mapping Identity e Big Eye Kabul sono realizzati in Iraq e Afghanistan tra il 2011 e il 2014, fanno parte della collezione del FOAM Fotografiemuseum in Amsterdam e della collezione del Columbia Global Centers, Amman (Giordania) – Columbia University Graduate School of Architecture, Planning and Preservation. Ha partecipato alla 14. e alla 17. Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale di Venezia. Nel febbraio 2022 ha inaugurato la mostra personale Simple Future presso lo Spazio Murat a Bari.


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in alto e nelle pagine seguenti: Antonio Ottomanelli, Untitled Panorama, Taranto, 2020–in progress. Courtesy l’autore

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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

QUESTA COPERTINA DISEGNATELA VOI

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L’idea è un’altra: coinvolgere la nostra community. Innescare una piccola occasione d’interazione e scambio. Entrare in connessione in un momento particolare, durante il quale il susseguirsi di allarmi globali fa riflettere sull’impossibiltà oggettiva di sintetizzare gli accadimenti in una cover capace davvero di raccontare le circostanze. E allora proviamoci assieme. Proviamo, invece di imporre la nostra visione, a vedere quali sono le chiavi di lettura dei lettori, di coloro che trovano per caso in giro questo giornale, dei vostri figli. Abbiamo in parallelo a questo una sfida, che a livello editoriale è una delle sfide irrinunciabili degli Anni Venti, ovvero far dialogare le dinamiche cartacee con quelle digitali. Innescare un discorso tra carta e social e viceversa. Dunque come funziona? Semplicissimo: se vi va, senza forzature, provate a farla voi la copertina di questo Artribune Magazine della primavera del 2022, il numero più importante da anni, corposo e pieno zeppo di contenuti e pubblicità, perché coincide con una Biennale di Venezia che mancava dal 2019. Scarabocchi, disegni, scritte, messaggi, collage, colori. Fatela voi e condividetela sui vostri profili social con l’hashtag #ArtribuneCartaBianca, la rilanceremo per far circolare il più possibile idee, spunti, trovate e prospettive. Se volete dunque, avete carta bianca. Poi, conservatela.

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Proviamo, invece di imporre la nostra visione, a vedere quali sono le chiavi di lettura dei lettori.

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er la prima volta in undici anni di esistenza non abbiamo preparato alcuna cover per il nostro magazine. A lungo abbiamo affidato la copertina a giovani artisti, poi a giovani grafici. A tutti abbiamo chiesto dei progetti inediti, pensati appositamente per il giornale, capaci di trasformarlo in un multiplo d’arte tirato in alcune decine di migliaia di copie. Questa volta nulla. No, non abbiamo messo in prima una copertina bianca. No. Proprio non c’è la copertina. Non l’abbiamo approntata. L’abbiamo lasciata neutra, aperta, ancora da fare. Neppure incompleta: proprio manco abbozzata. Nulla di nuovo, beninteso. Esperimenti che si son fatti sovente. In particolar modo in questi strani anni ne abbiamo visti di tutti i colori con riviste che ne hanno provate di ogni pur di fotografare attraverso una copertina insolita l’anomalia dei tempi. Un’operazione simile due anni fa venne proposta da Vogue Italia all’epoca ancora diretta da Emanuele Farneti: una cover tutta bianca patinata. Sulla quale poi la curatrice Valentina Ciarallo fece intervenire alcuni artisti. Ecco, pur essendo stata quell’iniziativa di ispirazione, questo tentativo si discosta un po’. Non punta sul “bianco” come colore simbolo di rispetto e di silenzio. E non vuole neppure coinvolgere gli artisti (lo abbiamo fatto da sempre).

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PEPPINO ORTOLEVA [ storico e teorico dei media ]

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cercano di convergere e dimostrano di non riuscirci, dall’altro con la Gerusalemme liberata, dove l’amore fa letteralmente irruzione nella guerra, e il combattimento fra Tancredi e Clorinda dà luogo prima a un’evocazione ritmica del cozzare dei metalli poi al più umano dei sentimenti, che lega chi uccide e chi viene ucciso. Ma sono solo segnali, in una letteratura dove le battaglie restano improntate agli stessi antichi modelli. Nel passo che si è letto all’inizio, Stendhal, raccontando tutto dal punto di vista soggettivo e insieme sottolineando l’inenarrabilità del conflitto, ci ricorda la decisiva differenza tra l’epos e il romanzo, e ci “fa vedere” la guerra, quella vissuta da noi moderni, con altri occhi. Più realistici e insieme più smarriti. È un modello che sarebbe diventato straordinariamente attuale nella seconda metà del Novecento. Nella guerra del Vietnam i media (prima di tutto la televisione) sono sempre presenti, creano un’immagine insieme plausibile e insopportabile del conflitto, che probabilmente ha contribuito al crescere dell’opposizione pacifista; ma si tratta di un racconto del tutto diverso da quello che ne fanno coloro che nella giungla ci sono stati, e che narrano settimane e mesi passati in un ambiente disorientante, a combattere un nemico che molti non hanno proprio mai visto. Nei conflitti successivi si sono stratificate guerre differenti, quelle combattute dagli aerei o dagli elicotteri e quelle sul terreno, e negli ultimi anni quelle dei droni teleguidati da un’altra parte del pianeta: ciascuna di queste guerre ha una sua storia, o una sua serie di narrazioni, tutte incomplete e parziali. I conflitti militari sono diventati puzzle di cui nessuno ha tutte le tessere. È il cinema, più dei testi letterari, a farci capire non tanto le battaglie in sé quanto l’incompiutezza della nostra visione. Black Hawk Down di Ridley Scott (2001) ci racconta la presenza americana in Somalia, feroce e inconcludente, nello “scandalo” della guerra aerea che cade a terra. Redacted di Brian De Palma (2007) ricostruisce la disumanità e la confusione della guerra in Iraq attraverso l’accostamento di una serie di messaggi scambiati sui cellulari e altro. Ci mostra che anche la guerra dei media è esplosa, nella contraddittorietà delle guerre americane in un mondo che è del tutto sconosciuto alla quasi totalità dei combattenti. In un mondo dove i combattenti, che già a Waterloo e fino alla Seconda Guerra Mondiale erano chiaramente

riconoscibili dalle divise, sono diventati tutti uguali, “camuffati” dalle tute mimetiche (camouflage): come avviene nel conflitto attuale in Ucraina. Si possono raccontare le battaglie che si svolgono in queste settimane? Si citano nomi di città, villaggi, centrali nucleari, si vede una pluralità di immagini riprese da una crescente varietà di fonti, dai cellulari alle telecamere, ma non si vedono scontri diretti fra truppe, indistinguibili del resto, vestite tutte allo stesso modo. E si è inserito un nuovo protagonista, i mercenari, americani (Blackwater) o russi (Wagner), per i quali la guerra non è fatta di battaglie ma di “missioni” in tutto simili al terrorismo. Ma allora nella guerra le strategie narrative sono tutte, e inevitabilmente, appiattite e vanificate? Per ragionare meglio conviene fare un passo indietro, alla Prima Guerra Mondiale: un conflitto dove (dopo un Ottocento di guerra “limitata” in Europa, industrializzata negli USA, selvaggia nelle colonie) l’esperienza di Fabrizio del Dongo sembra allargarsi a dismisura: nella durata (quasi cinque anni), nello spazio (larga parte d’Europa), nel numero delle persone coinvolte. Una guerra lenta e micidiale, resa atroce dal tedio oltre che dalle granate. Se ripercorriamo le narrazioni di quel conflitto ci rendiamo conto che il punto di vista soggettivo è diventato assolutamente cruciale: che sia, in prosa, quello pacifista di Erich Maria Remarque e di Henri Barbusse o quello di Ernst Jünger, il quale descrive esattamente gli stessi orrori dei pacifisti ma li rovescia in un piacere quasi erotico. Un punto di vista soggettivo che trova anche sbocco, come non è accaduto in altri conflitti, nella poesia lirica, quella italiana di Giuseppe Ungaretti o di Clemente Rebora, quella inglese di Wilfred Owen. Di nuovo la guerra in versi, ma il rovesciamento per molti aspetti di quella dell’Iliade. Gli esiti narrativi più sorprendenti di quel conflitto però sono forse ancora altri: capolavori dell’umorismo come in letteratura Il buon soldato Sc’vèick di Jaroslav Hašek (1921-23) e al cinema Charlot soldato (1918) di Charlie Chaplin. Non solo e non tanto perché svuotano la retorica patriottica e monumentale che particolarmente in quegli anni e in quelli successivi cercò di dare senso a milioni di morti atroci. Soprattutto perché accentuano gli aspetti paradossali della guerra moderna. Che sono, se ci riflettiamo, gli stessi che la rendono così difficile da raccontare “sul serio”.

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a quella che aveva visto, era veramente una battaglia? In secondo luogo, era proprio la battaglia di Waterloo? Per la prima volta nella sua vita [Fabrizio] si accorse di amare la lettura: sperava di trovare nei giornali o nei racconti qualche descrizione che gli permettesse di riconoscere i luoghi che aveva percorso seguendo l’esercito”. Nella Certosa di Parma (1839) Stendhal racconta in terza persona, ma dall’interno della mente del suo protagonista Fabrizio del Dongo, qualcosa che avrebbe segnato poi tutta la moderna esperienza della guerra. La battaglia, l’evento per eccellenza, si presenta al tempo stesso come impossibile da comprendere, perfino da vedere dall’interno. I mezzi di comunicazione nel narrarla la costruiscono, almeno in parte sono costretti a inventarla, e le danno così una sorta di verità superiore a quella che deriva dalla conoscenza diretta. Il passo di Stendhal è un punto di passaggio della storia della narrazione, e insieme della storia della guerra. Della storia della guerra, perché è nell’età napoleonica, con gli eserciti di massa nati dalla coscrizione obbligatoria e dagli Stati moderni, e con la presenza decisiva delle artiglierie, che stare dentro la battaglia non offre una visione se non infinitesima del fronte: sono alcuni ufficiali dotati di binocoli e collocati su speciali “punti d’osservazione” ad averne una visione d’insieme, ma spesso ingannevole essa stessa. Ma siamo anche davanti a un punto di passaggio della storia della narrazione. A partire dal primo testo della letteratura occidentale, l’Iliade, centrato appunto sulla descrizione dei combattimenti, la battaglia si presenta come l’evento per definizione. Non è una narrazione “senza psicologia”, come troppo spesso e stancamente si ripete. È un testo dove la narrazione oggettiva del conflitto e quella delle sofferenze dei combattenti (come Ettore nel dire addio ad Andromaca, o Achille nel suo colloquio con Priamo venuto a chiedere il cadavere del figlio) sono nettamente separate: al centro la battaglia, come scontro di scudi, lance e spade, mentre l’esperienza personale, il lutto che la morte porta comunque con sé, viene prima o dopo. Per secoli, a partire da quel poema, la letteratura occidentale avrebbe seguito nell’insieme un modello simile, che sarebbe stato esaltato al massimo dai poemi cavallereschi. Primi segni di frattura si hanno tra Cinquecento e Seicento: da un lato con le battaglie immaginarie del Don Chisciotte, dove la poesia e la vita

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LA GUERRA MODERNA: IL RACCONTO IMPOSSIBILE

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RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]

ACCADEMIE AL PASSO COI TEMPI

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eggo che qui a Bologna, dove vivo, il Liceo artistico, ora intitolato a Francesco Arcangeli, ha un boom di iscrizioni, cosa che mi pare molto positiva, anche perché penso che i maturati in quell’ordine di studi dovrebbero confluire nelle Accademie. A questo modo siamo indotti a riflettere su una possibile attualità di un tale ordine di insegnamenti e di una sua equiparazione sempre più stretta con le Università. A questo scopo, come già dicevo circa tre decenni fa quando avevo cominciato a occuparmi di questi problemi, insegnamenti pur ritenuti fondamentali come pittura e scultura dovrebbero essere riportati a una condizione di corsi liberi.

DIPARTIMENTI E CORSI NELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI ITALIANE ARTI VISIVE

Pittura Scultura Decorazione Grafica

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PROGETTAZIONE E ARTI APPLICATE

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I dipartimenti di letteratura italiana e simili si guardano bene dall’avere corsi dedicati alla creazione poetica o narrativa

Se diamo un’occhiata alle università, e in particolare ai dipartimenti di letteratura italiana e simili, questi si guardano bene dall’avere corsi dedicati alla creazione poetica o narrativa, ben sapendo che per queste attività superiori non c’è didattica che funzioni, ognuno si deve scavare il cammino per conto proprio. Allo stesso modo le Accademie, messe da parte pittura e scultura, dovrebbero insistere su tante altre attività decisamente professionalizzanti e di cui si sente un grande bisogno, come fotografia e tutti i derivati, comprese le applicazioni video. E poi c’è il ramo della grafica, che oggi si può rivolgere a tutte le attività pubblicitarie, in accordo con gli studi promozionali o con le reti televisive. Si pensi quale infinita prateria si spalanca per i cartoni animati e per cose similari. La già esistente, classica, ma alquanto polverosa decorazione può dar luogo alla progettazione di carte da parati, di imballi, di coperture di pareti, in stretta sinergia con i dipartimenti di architettura, il ramo che già negli Anni Venti ha abbandonato le Accademie per accedere agli Atenei, ma che potrebbe ritrovare tutta la contiguità con l’ambito della decorazione, se solo la burocrazia ministeriale volesse fare l’ultimo passo per consentire la totale fusione

Scenografia Progettazione artistica per l’impresa (Graphic design, Fashion design) Nuove tecnologie dell’arte Fotografia Restauro COMUNICAZIONE E DIDATTICA DELL’ARTE

Comunicazione e valorizzazione del patrimonio artistico contemporaneo Didattica dell’arte delle due istituzioni superiori, Accademie e Atenei. Su questa strada si può intravedere un avvenire roseo, di grandi possibilità proprio per le Accademie, non più destinate a essere i parenti poveri nell’ambito della docenza superiore ma mostrandosi in grado di entrare nel vivo delle attuali esigenze sociali e produttive. Si presenta insomma un lungo e felice cammino, se solo si avrà l’accortezza di annullare certi residui ostacoli soltanto dannosi. Dopodiché un diploma di Accademia sarà di pieno uso sociale come qualsiasi laurea, che del resto ha già provveduto per conto proprio a rinnovarsi. Non si contano le

denominazioni oggi assunte dai diplomi di laurea in lettere, con una fantasia perfino troppo sfrenata, che però in buona misura corrisponde alle richieste via via emerse dalle esigenze professionali poste dal nostro attuale stato di progresso tecnologico. Anche qui, le vecchie lettere e simili sono accantonate, il corso DAMS in cui ho avuto l’onore di insegnare a lungo e fin dai primi momenti, è un valido esempio in questo senso, e del resto già a quei tempi si parlava di “nuove lettere”, a confronto delle “vecchie”, rimaste indietro, scavalcate dai tempi.


CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]

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ANCORA NATURA, NATURA ÀNCORA

roken Nature, Il Giardino Planetario, Rethinking Nature: sono solo alcuni dei titoli di mostre, biennali e altre manifestazioni internazionali che hanno inequivocabilmente riportato il tema dell’ecologia al centro del dibattito. Il termine che più di tutti caratterizza l’approccio contemporaneo però è l’ennesimo lemma a subire la fortuna del prefisso “post”. “Non significa che non c’è più natura, piuttosto che la nostra comprensione della natura dovrebbe cambiare. Non c’è divisione tra essere umano e natura”, spiega così Mali Wu, artista e attivista che ha co-curato con Francesco Manacorda l’11esima Taipei Biennial, la decisione di scegliere Post-nature come titolo della manifestazione (nel quale si sentono gli echi di Timothy Morton). Che viviamo in un tempo “dopo qualcosa” l’avevamo capito, ma cosa può fare l’arte in questa condizione after nature? Secondo il critico americano T. J. Demos, firma di Artforum, “può svelare alcuni dei miti utopici e critici su cui si basa ‘il naturale’”. E di certo non stiamo parlando solo dei gattini o di tutti gli altri animali onnipresenti su Internet e soggetto prediletto di meme, reel e stories. Anche se, dal 2006 con il macro progetto contemporaryNaturalism, Mauro Ceolin sta conducendo una ricerca per

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La scelta, ancora una volta, viene lasciata all’osservatore/ interlocutore: quale sentiero intraprendere? Tra i suggerimenti, c’è ovviamente quello di combattere l’indifferenza con l’azione, anche quella più piccola. delineare una inedita tassonomia delle forme di vita a base di silicio, ovvero la formulazione di un catalogo degli esseri creati dalla fantasia umana che popolano oggi ogni campo dell’immaginario visivo. Lunghi studi, esperienze sul campo, campagne fotografiche e indagini d’archivio come quelle che hanno portato Armin Linke, con Renato Rinaldi e Piero Zanini, a comporre quel viaggio apparentemente distopico e incredibilmente reale che è Alpi (2011). “Questo è il film più acritico mai realizzato sulla totale artificiosità del mondo moderno. Ma qui ‘acritico’ deve essere inteso in senso positivo, così come ‘artificiale’”, commentava Bruno Latour. Dieci anni dopo Laura Pugno torna sul luogo del delitto, in particolare sul Monte Rosa, location di uno dei video che

compongono Over Time. L’installazione multicanale, che ha come soggetto la neve, presenta tre possibili approcci che vanno dal laboratorio in cui si sintetizzano i fiocchi all’atteggiamento del nivologo Michele Freppaz fino all’immersione nel paesaggio innevato di una figura che sembra perdersi nell’atmosfera sospesa. La scelta, ancora una volta, viene lasciata all’osservatore/ interlocutore: quale sentiero intraprendere? Tra i suggerimenti, c’è ovviamente quello di combattere l’indifferenza con l’azione, anche quella più piccola come nelle intenzioni di Verdecuratoda di Ettore Favini. Dall’idea di creare un campo di frutti antichi in alcuni spazi pubblici dell’area Falchera di Torino si è diffuso attecchendo anche in altri terreni. Naturale e artificiale, biologico e sintetico, confini che si dilatano e si assottigliano nella recente installazione Labirinto di Francesca Pasquali, in cui piante e materiali plastici convivono e si influenzano. Nuove relazioni e icone potenti quelle che campeggiano nelle bandiere di Andreco, utilizzate spesso per marce e parate in “Difesa della Natura”, avrebbe detto Joseph Beuys, alle quali si deve sempre accompagnare un passo concreto come l’Aula Verde, spazio aperto di divulgazione parte del Climate Art Project. Verde, sì, verde speranza.

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Laura Pugno, Over Time, 2021, still da video

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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

L’ARTE SFRANGIATA

arte sfrangiata non regola, non norma, non ordina. L’arte sfrangiata è sotterranea. L’arte sfrangiata è instabile e reversibile. L’arte sfrangiata è una zona di disagio. L’arte sfrangiata è lo spazio della contraddizione, della complessità come contraddizione e come ambiguità. L’arte sfrangiata è contro la nostalgia. Che vuol dire? Contro la disposizione attuale a considerare come “contemporanee” le forme artistiche degli Anni Sessanta e Settanta (cioè: di cinquant’anni fa); anzi, ancora meglio, l’immagine che di quelle forme è stata tramandata – e tradotta – dai decenni successivi, e di cui disponiamo oggi. Questo fa sì che vengano privilegiate le riproposizioni di vecchie formule, trite e ritrite. Come risultato principale, il nuovo – cioè quello che sarebbe davvero contemporaneo – scompare alla vista. Ciò d’altra parte illumina almeno in parte una questione parecchio più ampia: la natura profondamente regressiva e conservatrice di questo periodo, che privilegia inevitabilmente – e trova addirittura seducenti – forme regressive e conservatrici. Si riconosce e si rispecchia in esse. La nostalgia ci permette dunque di rifugiarci in quello che consideriamo sicuro, una forma idealizzata del passato, depurata degli elementi scomodi e incompatibili con l’oggi, una forma quindi apparentemente comoda. Un inganno. (Quali sono invece le caratteristiche che rendono scomodo il presente?)

L'

La nostalgia ci permette di rifugiarci in quello che consideriamo sicuro, una forma idealizzata del passato. L’arte sfrangiata è tale perché sceglie di perdere i suoi margini, e di fondersi con i margini scomodi, e tristi, e problematici, del presente. Rifiutando quindi un approccio che consiste nell’entrare in comunicazione con il presente attraverso il passato, servendosi dell’immagine nostalgica del passato, dei suoi codici e delle sue convenzioni. Compito della critica è dunque distinguere ciò che è nuovo – da ciò che non lo è (ma appare soltanto come tale). L’arte sfrangiata non è lineare – è frammentaria. Proprio la linearità “narrativa” è uno dei mali principali della nostra epoca.

18

Il fatto che non solo ogni storia (proposta e fruita) debba avere inizio svolgimento e necessariamente fine (un lieto fine), ma che questa struttura sia imposta alle vite e alle opere. Non sembra più concepibile un’opera che sfugga a questa dinamica, che sia pensata e fatta altrimenti. LLL L’arte sfrangiata è un modo possibile di cercare di uscire dalla gabbia e dalle gabbie, dagli schemi e dagli obblighi, dai programmi e dagli ordini. Dall’ordine. L’arte sfrangiata è costantemente contraddetta e fraintesa. L’arte sfrangiata non include semplicemente l’altro – ma è la fusione tra io e altro. L’arte sfrangiata è la zona dell’alterità e dell’alienazione. L’arte sfrangiata è uno spazio alieno. (In che senso? Chi/cosa è l’Altro/l’Alieno, oggi?)

12 AGGETTIVI PER QUALIFICARE L'ARTE SFRANGIATA

L’arte sfrangiata non si accontenta – ed è proprio contro la pratica esistenziale dell’accontentarsi. L’arte sfrangiata interrompe finalmente il giochino a cui siamo abituati, assuefatti ormai, la strizzatina d’occhio tra gli “appartenenti” al “mondo” dell’arte, il non-volerdire-niente stupidamente compiaciuto dell’opera, e il far finta di capire altrettanto stupido e altrettanto compiaciuto dello spettatore fintamente intelligente – e passa dall’altra parte, con un atto di volontà. Abbatte finalmente il muro – o meglio, lo attraversa, come scriveva van Gogh: “Che cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’azione di aprirsi un varco attraverso un invisibile muro di ferro, che sembra trovarsi fra ciò che si sente, e ciò che si può. In che modo bisogna attraversare questo muro, dato che non serve a niente colpire con forza, bisogna minare questo muro e attraversarlo con la lima, lentamente e con pazienza secondo me” (lettera citata in Antonin Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, Adelphi, Milano 2000, p. 40). LLL

1

SOTTERRANEA

2

INSTABILE

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REVERSIBILE

4

DISAGIATA

5

CONTRADDITTORIA

6

COMPLESSA

7

AMBIGUA

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MARGINALE

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FRAMMENTARIA

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DISORDINATA

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ALIENATA

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PERSONALE

È come se l’arte ufficiale, istituzionale, avesse sempre bisogno di salire in cattedra per esistere e affermarsi, di recitare per così dire la parte dell’arte. Di non essere mai se stessa, in qualche modo, ma soltanto una versione di sé da esibire. E invece, occorre fare sì che l’arte sia se stessa. (Quale è l’opposto della retorica?) “Attraversare il muro”, come scriveva van Gogh, “attraversarlo con la lima, lentamente e con pazienza”, vuol dire perciò anche uscire a ogni costo dal solipsismo. Significa uscire dalla rappresentazione, dalla recita, quindi dalla menzogna. E sbucare dall’altra parte. Essere se stessa, per l’arte sfrangiata, non vuol dire assolutamente annullare se stessa in quanto arte – troppo facile così –, ma vuol dire per esempio non accontentarsi della dimensione dell’opera da “esporre” all’ammirazione incondizionata di un “pubblico”, e mettere in discussione un intero modello di sviluppo e di coesistenza. Mettere in discussione la distinzione tra successo e fallimento, il criterio dell’utilità e soprattutto quello del profitto. L’arte sfrangiata è un’arte personale, fatta letteralmente di nulla – ha una storia (necessariamente) sotterranea e a lungo misconosciuta – e, come sosteneva Jonas Mekas, è quell’arte “che si fa l’uno per l’altro, tra amici”.


MARCELLO FALETRA [ saggista ]

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UOMINI E TOPI

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Banksy, Welcome to Hell, 2002

Schiavi, sfruttati e topi hanno questo in comune: sono prede. E ogni preda è sostituibile con qualsiasi altra. Il loro valore è zero.

delle chiese gotiche, dove l’ibridismo uomo-animale è oggetto di terrore e di fascinazione; lì le immagini del bestiale alimentavano un metabolismo tra il reale e l’immaginario, erano immagini dello scambio metaforico. I topi, con altri animali, sono stati la soglia iconica di questo scambio simbolico. Per molti secoli il Male è stato visto nel serpente e in tutte le sue metamorfosi sataniche, ossessione dei cristiani. Poi le cose con la modernità sono cambiate. La nascita delle metropoli ha comportato la convivenza con i topi. La Londra della prima metà del XIX secolo, nei racconti dei suoi contemporanei, tratta dei poveri alla stregua di topi, che

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elcome to Hell” recitava un topolino di Banksy risalente all’inizio del terzo millennio. Presagio di tutti i disastri a venire. La ripugnanza nei confronti del topo rinvia ai limiti della nostra umanità. Ieri topi e ratti rappresentavano bene le marginalità, convivevano con i dannati come quelli dipinti da Goya nell’ospedale degli appestati. Personificavano il lato oscuro delle città: il Male. Oggi sono ben visti, accolti e arredano lussuosi salotti. Nei primi Anni Ottanta del secolo scorso (1982) in Italia fecero breccia i grandi ratti informi e drammatici della pittrice napoletana Rosa Persico. Il critico d’arte Achille Bonito Oliva li intercettò e li incluse in una serie di mostre, di cui una dal titolo apocalittico: Evacuare Napoli del 1985. Da allora i topi hanno conosciuto una lunga storia fino a diventare un gadget estetico. Guardiani delle fogne, seminatori di peste come nel film Nosferatu, oggi sono sentinelle di un’estetica forzatamente edonista. I topi d’oggi hanno lo smoking e, come il bonario e innocente Topolino di Walt Disney, sono diventati un divertissement. Niente a che vedere con il teatro della crudeltà che la loro visione generava, come è accaduto nel film Joker di Todd Phillips, dove, sotto le spoglie di un clown a volte vestito da Topolino, un uomo escluso da ogni forma di relazione sociale per le violenze subite fa strage degli umani divenuti nel frattempo più feroci e bestiali delle bestie. Neutralizzati della potenza infestante e dissacratoria che era loro attribuita, oggi le immagini di topi nell’arte sopravvivono come tenere creature di un mondo divenuto più vampiresco del vampiro. La bestialità incontrollata che si attribuiva ai topi, il loro essere rappresentati nell’immaginario collettivo come l’ultimo gradino tra le specie animali, legittimava la loro uccisione. La loro animalità era lo specchio anamorfotico della nostra umanità. Ucciderli deliberatamente ricorda arcaiche sopravvivenze, come quelle dell’uccisione rituale del capro espiatorio, tributo alla collettività per l’espulsione del male. È come se la rappresentazione malefica dei topi ci avesse preceduto nello sterminio reale dell’uomo sull’uomo. E come osservava Jacques Derrida dopo Adorno, “animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare”. Bisogna riconoscere che l’animalità è sempre stata una fissazione degli uomini. Come quella rappresentata nei capitelli

convivono con essi. Da allora l’immagine dei topi ha sempre fatto parte della miseria urbana, e anche delle contraddizioni della società capitalista. D’altra parte, schiavi, sfruttati e topi hanno questo in comune: sono prede. E ogni preda è sostituibile con qualsiasi altra. Il loro valore è zero. Non sono alani, tigri o leoni o altre razze coltivate come segno di potenza da imperatori, dittatori e neo-oligarchi, che però non hanno mai superato l’immaginazione surreale di Caligola che nomina senatore a vita il suo cavallo e poi si autoproclama Dio. Oggi la potenza iconicamente sovversiva dei topi è tramontata, superata da un sistema che si vuole democratico, integrato e globale. Nel 1937 John Steinbeck pubblica Uomini e topi. Un gigante di nome Lennie è consapevole della sua mole, ma mentalmente è un bambino. I suoi movimenti grossolani a volte uccidono piccole creature. George, invece, è piccolo di statura ma di grande acume, capace di sopravvivere a tutte le difficoltà della vita, come i topi. Tuttavia, non saprebbe vivere senza il gigante. Ecco l’intelligenza dei topi: non sarebbe tale senza l’idiozia dei giganti.

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ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]

IL FUNGO È LA NUOVA SUPERSTAR

on atteggiamento che qualcuno avrebbe potuto definire sciamanico – in realtà approfittando della benevolenza di chi su questo cartaceo mi permette scorribande (apparentemente) insensate – sul numero dello scorso agosto di Artribune Magazine ho raccontato de L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi, il volume pubblicato nel 2020 dal biologo inglese Merlin Sheldrake (lui sì, a questo proposito, davvero sciamanico). Già in precedenza (2015, in edizione italiana solo nel 2021) era stato dato alle stampe lo straordinario Il fungo alla fine del mondo della superlativa (non sono enfatico: è proprio così) Anna Tsing. Al secondo posto nella classifica stilata da ArtReview per indicare i personaggi più influenti nel mondo dell’arte nel 2021, questa antropologa americana di origini asiatiche, nel suo tomo di oltre 400 pagine, non fa un solo riferimento all’arte. Ma il suo racconto-metafora riguardante la raccolta dei matsutake è così ricco di implicazioni (La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo è il sottotitolo) da essere divenuto un cahier de travail per chiunque – si tratti di bioartisti o meno – per fare arte utilizzando il cervello.

C

Per la moda, con i suoi giganteschi problemi legati alla sostenibilità delle sue produzioni, la strada sembra segnata.

A febbraio di quest’anno è arrivata poi la mostra al Pirelli HangarBicocca della coreano-americana Anicka Yi, che a Tsing e ai suoi funghi fa da tempo esplicito riferimento. Ancora: lo scorso 16 marzo, a conclusione del ciclo di sfilate dedicate alle collezioni donna autunno-inverno 2022-23, in un magazzino di Brooklyn Sarah Barton (per il brand Alexander McQueen) ha ammucchiato tonnellate di pacciame ricavato da alberi caduti ai bordi di una passerella-percorso in questo modo inondata dall’odore di torba, mentre dagli altoparlanti venivano diffusi cinguettii di uccelli e il ronzare degli insetti, prima che la colonna sonora si stabilisse nel ritmo di A Forest di The Cure. Le cronache raccontano che, nel backstage, la designer abbia

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ANNA TSING (1952)

insegna Antropologia all’Università della California a Santa Cruz. Il libro Il fungo alla fine del mondo (2015) l’ha fatta balzare agli onori della cronaca culturale.

ANICKA YI (1971)

è una bio-artista. Presente alla Biennale Arte di Venezia nel 2019, fino al 24 luglio ha una mostra personale allestita al Pirelli HangarBicocca di Milano.

SARAH BARTON (1974)

è una fashion designer ed è la direttrice creativa del brand Alexander McQueen.

DONNA HARAWAY (1944)

è una filosofa e biologa. Ha dato vita a una influente riflessione che connette femminismo, tecnologia e zoologia.

STELLA MCCARTNEY (1971)

è una fashion designer e fondatrice del brand omonimo, che dal 2020 fa parte della galassia del lusso LVMH.

fatto insistenti riferimenti al micelio, la rete fungina sotterranea soprannominata il “wood web wide” della natura: quella che collega gli alberi tra loro, crea lo strato utile alla crescita delle piante e trasferisce nutrienti e altri minerali di albero in albero. Il riferimento ai funghi di Tsing e al “compost” di Donna Haraway (Chthulucene, 2016, trad. it. 2019) è evidente. Sarah Burton ha inoltre mandato in passerella abiti con funghi dai colori vividi, rappresentando il loro micelio con lunghe matasse di frange di seta. Sebbene nella collezione non sia stata utilizzata la “pelle vegetale” che ora è possibile ricavare proprio dai funghi, la designer ha affermato che con il suo team si sta muovendo in questa

direzione: per sostituire la pelle bovina o altri materiali esotici (serpenti o pesci d’allevamento), mentre già da questa collezione l’85% dei materiali proveniva da riciclo. Per la moda, con i suoi giganteschi problemi legati alla sostenibilità delle sue produzioni, la strada sembra segnata. Stella McCartney già nel marzo 2021 ha presentato la borsa Mylo realizzata in micelio. Persino Hermès ha prodotto una borsa in “pelle vegetale” derivata dai funghi: Hermès! Il brand superlusso che solo l’anno prima aveva investito grosse cifre nell’allevamento di coccodrilli in Australia… Il fungo ormai inarrestabile si sta impossessando del nostro immaginario.


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La mostra è organizzata da The Museum of Modern Art, New York

Max Burchartz, Lotte (Eye), 1928 Gelatin silver print, 30.2 × 40 cm The Museum of Modern Art, New York Thomas Walther Collection. Acquired through the generosity of Peter Norton © Max Burchartz, by SIAE 2022 © 2021 Max Burchartz / Artists Rights Society (ARS), New York / VG BildKunst, Germany Digital Image © 2021 The Museum of Modern Art, New York


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SAVERIO VERINI [ curatore ]

Ambra Castagnetti una natura compromessa quella che Ambra Castagnetti (Genova, 1993) mette in scena con le sue opere. Un ecosistema che incorpora elementi naturali e artificiali, quasi sempre uniti in un groviglio di forme: un abbraccio costretto, che appare tuttavia sul punto di sprigionare energia da un momento all’altro. Castagnetti ipotizza un microcosmo in cui organico e sintetico riescono a fondersi, dove non c’è gerarchia tra gli esseri che fanno parte del regno animale, e in cui l’uomo sembra essere una creatura tra le altre. Nelle opere dell’artista ligure non pare esserci però alcuna retorica legata alla coesistenza tra specie diverse; la fluidità che scorre nel lavoro di Castagnetti è presentata come un dato di fatto, dal quale scaturiscono incroci che lo sguardo dell’osservatore potrebbe considerare spiacevoli, incompatibili. Nuove aggregazioni che, forse, non riusciamo ancora a concepire. Nessun immaginario incontaminato da Laguna blu, dunque; l’artista sembra prefigurare un mondo paludoso, fatto di presenze tutt’altro che rassicuranti, eppure capace di attrarre, di rivelare un potenziale erotico.

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é

Ho osservato più volte il tuo lavoro e ancora non riesco a capire se ci sia, alla base, una presa di posizione specifica: critica alla società contemporanea e alle sue possibili derive? Elogio dell’ibridazione, della contaminazione? Forse è proprio questa ambiguità che mi attrae. Diciamo che, più che una critica alla società contemporanea, il mio lavoro ha come punto di partenza l’indagine sul corpo e sui diversi ambienti o mondi che quest’ultimo può abitare. Poi, che io concepisca il corpo come un insieme ibrido, anarchico e contraddittorio chiaramente va a plasmare la posizione che occupo nei confronti dei temi della contemporaneità, come possono essere la normalizzazione, la violenza sistemica e la medicalizzazione. Parli di questioni piuttosto specifiche. Ti rifai a qualche teoria in particolare? E in che modo riesci a tenere insieme gli

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aspetti teorici e quelli più formali della tua ricerca? Sì, mi rifaccio in gran parte alle teorie dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, in particolare a The Mindful Body, articolo che si occupa di decostruire la nozione che abbiamo di corpo e di malattia, e di ripensare il modo in cui l’individuo incorpora spontaneamente situazioni di violenza o di disuguaglianza sociale, restituendole sotto forma di malattie o depressione. Di fatto, queste categorie mi danno modo di analizzare i miei lavori a posteriori, avendo loro stessi come origine il corpo, molto spesso il mio, che, come tutti i corpi, ha subito violenze di vario genere. Le teorie antropologiche mi danno la possibilità di capire cosa è accaduto, e di fare un discorso scultoreo, materiale, fondato sull’esperienza diretta, ma anche più teorico e legato alla ricerca e alle scienze sociali o umane.

Le teorie antropologiche mi danno la possibilità di capire cosa è accaduto, e, di fatto, di fare un discorso scultoreo, materiale, fondato sull’esperienza diretta.

Nella tua pratica utilizzi diversi supporti (ceramica, bronzo, tessuti e materiali tecnici…) così come media (scultura, installazione, video, performance…). Pensi che questa disinvoltura nel passare da uno all’altro possa essere un’ulteriore manifestazione di fluidità? Diciamo che il mio modo di lavorare si muove su più piani contemporaneamente. Ci sono una serie di processi che porto avanti in parallelo, in qualche modo legati alla mia vita quotidiana e, in generale, all’attitudine nei confronti delle cose che vivo. Questo per dire che la mia vita è permeabile ai miei lavori e viceversa. Ogni lavoro ha bisogno del suo medium specifico per esprimersi e svilupparsi. E cos’è che ti fa optare per un mezzo espressivo piuttosto che un altro? Faccio alcuni esempi partendo dai miei lavori. In Desert Dogs, il mezzo audiovisivo era il migliore per raccontare la vita nel deserto, essendo una narrazione per immagini e suoni. In quel caso lo spettatore può vedere l’esperienza quasi diretta di quei luoghi, quei volti e, attraverso la storia dei due amanti, ricostruire il gap tra narrazione storica (presente nel ricordo della rivoluzione egiziana) e atemporale, quasi mitologica (rappresentata dalle immagini della vita nomade). Altre opere, come Black Milk o Dependency, sono installazioni che rompono i confini tra scultura e atto performativo, sottolineando come gli oggetti esposti non siano altro che estensioni del corpo, o anche oggetti trasformativi utilizzati per modificare la propria identità partendo dal corpo.

BIO Ambra Castagnetti è nata a Genova nel 1993. Vive a Milano. La sua pratica si sviluppa attraverso la scultura, il video, l’installazione e la performance. Dopo la triennale in Antropologia all’Università di Bologna, si è laureata in Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, con un video curato da Adrian Paci. Tra i progetti più recenti si segnalano la partecipazione alla 59. Biennale di Venezia (2022), la residenza all’Atelier Modigliani di Parigi organizzata da L’Air Arts (2021), la mostra personale alla Galleria Rolando Anselmi di Roma (2021), la residenza alla Manifattura Tabacchi di Firenze a cura di Sergio Risaliti (2021) e la residenza a Palazzo Monti a Brescia (2020).


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Ambra Castagnetti, Balalajka, 2020, ceramica, smalto metallico, 20x20x100 cm. Courtesy l’artista

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Ambra Castagnetti, Prolegomenon for a future performance, 2021, performance. Courtesy l’artista Ambra Castagnetti, Black Milk, 2021, ceramica, legno, tessuti, lacci, dimensioni variabili. Courtesy l’artista


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Mi chiedo anche se questo eclettismo abbia a che fare con la tua formazione. Un mio mentore mi dice sempre che il vero lavoro di un artista non sono le opere in sé, ma tutto ciò che è attorno a esse. Vivo con naturalezza questo utilizzare mezzi diversi, perché è ciò che ho sempre fatto. Ho sempre disegnato, organizzato spettacoli di “teatro” fin da quando ero piccolissima, disegnando tutti i costumi e costruendo le scenografie, obbligando cugini e sorelle a far parte del gioco. Dopo la laurea in antropologia ho lavorato come performer per molti artisti e frequentato un po’ di compagnie teatrali tra Bologna e Firenze, quindi ho avuto modo di vedere professionisti dello spettacolo lavorare e creare progetti. Penso che questo mi abbia insegnato tanto. Non so a che anni tu faccia riferimento, ma non credo sia trascorso molto tempo da allora. Ti saresti aspettata in così poco tempo di arrivare alla Biennale di Venezia? In generale no, non me lo sarei aspettato, ma quando ho letto l’open call per la Biennale College e il tema di questa Biennale, incentrata su trasformazione, metamorfosi e sul rapporto uomo-natura-tecnologia, automaticamente ho iniziato a dare corpo a un progetto che avevo in mente da un po’. L’idea era molto semplice: un’orda di persone, o crea-

L’ispirazione mi era venuta nell’agosto del 2020, quando ho visto un video BDSM di Erika Lust. Quello che mi aveva colpito era l’amore e il rispetto che gli attori avevano tra loro nel compiere atti di sottomissione o dominazione. ture, legate tra di loro con elementi scultorei indossabili. L’ispirazione mi era venuta nell’agosto del 2020, quando ho visto un video BDSM di Erika Lust. Quello che mi aveva colpito era l’amore e il rispetto che gli attori avevano tra loro nel compiere atti di sottomissione o dominazione, quasi esistesse un tacito patto di fiducia e dipendenza recipro-

che. Ho cercato di trasmettere questi sentimenti in scultura, insistendo su questa necessaria dipendenza degli esseri gli uni dagli altri, esseri umani, animali, vegetali, artificiali.

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Ambra Castagnetti, Desert Dogs, 2020, video, 12’. Courtesy l’artista

A proposito di ceramica: in genere è considerato un mezzo “caldo” e con una lunga tradizione alle spalle, eppure tu ne fai un uso meno convenzionale, con sculture indossabili e dalle forme instabili, mescolate ad altri materiali sintetici. Sculture che spesso diventano oggetti da utilizzare in performance che intendono disegnare immaginari nuovi. La terra è uno dei primi mezzi utilizzati dall’uomo per dar forma alle cose. Un po’ come il disegno: intuitivo, immediato. Non mi importa della tradizione, e non sono una ceramista, infatti i miei pezzi non sono realizzati nella maniera “giusta”. La mia principale fonte di ispirazione sono i negozi cinesi o i mercatini delle pulci. La ceramica è una materia fluida con cui posso creare tutte le forme che voglio, che poi vengono “completate” con supporti di poco valore o altri più pregiati come il bronzo. Inoltre, la sostanziale delicatezza della ceramica fa sì che i lavori contengano una precarietà interna – un’instabilità – che per me rappresenta un valore.

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San Polo 2033, Venezia gio–lun / Thu–Mon, 10.00–18.00 Visite guidate dal venerdì alla domenica/ Guided tours from Friday to Sunday +39 041.87.27.750 www.fondazionealberodoro.org


palazzograssi.it

Marlene Dumas, Time and Chimera, 2020. Oil on canvas, 300 x 100 cm. Courtesy the artist and Zeno X Gallery, Antwerp

Marlene Dumas open-end Palazzo Grassi Venezia 27.03.22

– 08.01.23



In collaborazione con Museum Barberini, Potsdam

Dorsoduro 701, Venezia guggenheim-venice.it

A Venezia, la mostra è resa possibile dal generoso contributo di Manitou Fund, con un ringraziamento speciale a Kevin e Rosemary McNeely

I programmi collaterali sono resi possibli da

Radio ufficiale

Con il sostegno di INSTITUTIONAL PATRONS Allegrini + Apice + Arper +Eurofood + Florim + HDG + IED + Itago + Mapei + René Caovilla + Rubelli + Swatch

Leonora Carrington, Ritratto di Max Ernst, 1939 c. National Galleries of Scotland, Edinburgh, acquistato con il supporto di Henry and Sula Walton Fund e Art Fund, 2018. © Leonora Carrington, by SIAE 2022


TOP 10 LOTS – LONDRA (E SHANGHAI)

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CRISTINA MASTURZO [ docente di economia e mercato dell'arte ]

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René Magritte, L’empire des lumières, 1961. Courtesy of Sotheby’s

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René Magritte, L’empire des lumières, 1961 £ 59,422,000 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

2

Franz Marc, Die Füchse, 1913 £ 42,654,500 Christie’s, 20th/21st Century, Evening Sale

3

Francis Bacon, Triptych, 1986-87 £ 38,459,200 Christie’s, 20th/21st Century, Evening Sale

4

Claude Monet, Nymphéas, 1914-17 £ 23,228,500 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

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Pablo Picasso, La fenêtre ouverte, 1929 £ 16,319,500 Christie’s, The Art of the Surreal Evening Sale

6

Lucian Freud, Girl with Closed Eyes, 1986-87 £ 15,174,500 Christie’s, 20th/21st Century, Evening Sale

7

David Hockney, Garrowby Hill, 2017 £ 14,093,950 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

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Pablo Picasso, Buste de femme accoudée, gris et blanc, 1938 £ 11,968,300 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

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Jean-Michel Basquiat, Il Duce, 1982 £ 11,200,000 Christie’s, 20th/21st Century, Shanghai Evening Sale

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Vincent van Gogh, Un couple d’amoureux (Eglogue en Provence), 1888 £ 10,015,000 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

I prezzi indicati includono il buyer’s premium. CAMPIONE DI ANALISI Christie’s, 20th/21st Century: Shanghai to London, Shangai, 1° marzo 2022 Christie’s, The Art of the Surreal Evening Sale, Londra, 1° marzo 2022 Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction, Londra, 2 marzo 2022 Sotheby’s, The Now Evening Auction, Londra, 2 marzo 2022

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La città illuminata: il programma di BergamoBrescia Capitale italiana della cultura 2023 GIULIA GIAUME L Due città che si scoprono gemelle, che vogliono crescere e superare le ore più buie ripartendo dalla cittadinanza, dalla natura e dalla cultura. La vittoria di Bergamo–Brescia del titolo di Capitale Italiana della cultura 2023 si presenta come la conclusione della migliore commedia: dopo molte peripezie e dolore, una scintilla – è proprio la luce il tema del programma – guida le due città verso il futuro. Il tema è quello della “città illuminata”, intesa come di ampie vedute e vivo punto di riferimento. “Brescia e Bergamo non hanno quasi mai lavorato insieme, ma è una bellissima occasione: siamo simili a livello demografico, sociologico, produttivo”, racconta il sindaco di Brescia Emilio Del Bono. Le città sono entrambe terre di lavoro – l’area manifatturiera che compongono è la prima d’Europa – di solidarietà di matrice cattolica e laica, di memoria storico-artistica e di libertà (come città Benemerite del Risorgimento). L’idea è quella di “una sola grande città metropolitana con solida base manifatturiera, affiancata dalla cultura, improntata a un’ottica di innovazione e caratterizzata dalla densità delle relazioni”, spiega il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Sono quattro le macro-aree

d’azione del dossier: la città c ome cura; la città natura; la città dei tesori nascosti; la città che inventa. Tra le iniziative spicca la collaborazione tra PwC Italia e la Fondazione Accademia Carrara di Bergamo, che porterà al recupero di 3mila metri quadrati di patrimonio verde e l’apertura di nuovi servizi. “Abbiamo imparato dal territorio, incontrando oltre trecento associazioni culturali e creando dei tavoli di lavoro con le amministrazioni. Abbiamo immaginato una città sola, due poli di un’area metropolitana che si affianchi a Milano. Le due città cresceranno insieme, a più livelli: centro e periferia, città e campagna, scienza e arte”, precisa il professor Stefano Baia Curioni, curatore del progetto. Ora non resta che aspettare l’inaugurazione nel giorno di Santa Lucia, un giorno di festa per Bergamo e Brescia, e un simbolo di luce, speranza e di una strada aperta.


OPERA SEXY

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I SILENZI DI PRUDENCE FLINT prudenceflint.com

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Con un curriculum impressionante per quantità e qualità di esposizioni, dal 1989 a oggi, e per riconoscimenti, di qua e di là dell’Atlantico, l’australiana Prudence Flint (Melbourne, 1962) si è conquistata una fama ormai intercontinentale di fine rappresentatrice del mondo femminile. Infatti solo donne – ultimamente con appena qualche inattesa apparizione di un uomo nudo quale timidissimo comprimario – abitano i suoi grandi oli e ci regalano lunghi sguardi su uno speciale universo in sospensione. Chi meglio di una donna può rappresentare le donne? Lo sappiamo bene tutti. E ancor meglio nell’interiorità femminile che nell’esteriorità, anche questo oramai è assodato. Prudence Flint ha cominciato dipingendo la donna qualunque, di aspetto fin dimesso, in tutta evidenza più nubile che maritata, in età apparente fra la trentina e la quarantina, nell’esercizio delle sue attività quotidiane più banali: leggere un libro, lavorare al computer, portare a spasso il cane, fare la spesa, attendere la metropolitana, guidare un’auto, cucinare, semplicemente passeggiare, esercitarsi a suonare la chitarra o l’ukulele, fissare il vuoto. Ecco, piano piano la poetica visiva dell’artista si è affinata sulla rappresentazione del vuoto, esteriore e specialmente interiore (ambienti – fisici e ideali – squadrati ma obliqui), del suo modesto universo femminile. La ritornante protagonista (che non è lei stessa, attenzione: Prudence – nomen omen? – ritrae un’altra donna da sé) vive la propria narrazione lentamente, con gesti silenti, in scialbo déshabillé e in solitaria cura del proprio corpo, mentre fa il bagno o la doccia, si sveste e si riveste, fa stretching su una sedia. O anche al lavandino, davanti allo specchio: si strappa i peli delle sopracciglia, si lava i denti (e la possiamo osservare inaspettatamente anche mentre ne sputa la schiuma). Si capisce che vive da sola, sempre sola, tranquillamente ma sconsolatamente sola. Questa donna-archetipo, alta, non magra ma neppure davvero corpulenta, dal naso allungato a cercare di annusare il mondo e dalle labbra sottili di chi parla troppo poco, nell’intimità resta in dialogo obbligato con se stessa. Un dialogo che però, s’è visto, si basa soprattutto sui silenzi. Ma a un certo punto questo angusto palcoscenico solitario si anima, diciamo così, di nuove presenze. Arriva un’altra donna, simile a lei. A volte altre due compagne di scena. Raris-

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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

Prudence Flint, The Making, 2020

simamente, come anticipato all’inizio, persino una figura maschile mollemente spogliata. In tali permanenti silenzi – nessuno interagisce davvero con gli altri, ciascuno resta chiuso in sé – le donne, amiche reticenti, nemmeno si guardano tra loro, non di rado si danno le spalle. Eppure una certa intimità condivisa è evidente: si sdraiano sul medesimo letto, restando volentieri in mutande e reggiseno. Insomma, c’è qualcosa in più fra loro. Ma cosa? Una certa attrazione erotica aleggia, per quanto appaia fortemente soffocata. Spira appena un lesbismo flou. Tutt’altro che sexy, in appa-

renza. La tensione esiste, ma nessuno lo dice, forse nemmeno si azzarda a pensarlo. Sono racconti austeri di una pudicizia che si vorrebbe tradire: un desiderio di sesso appena affiorante oltre il sipario della tela, a tinte basse, mai accese. Ma ecco che negli ultimi oli di Prudence Flint esplodono, per quanto ancora muti, sensazionali colpi di scena. C’è una che, ripetutamente, rovescia un’altra sulle proprie ginocchia e la sculaccia compunta. Un gioco? Una punizione? Psicologicamente, la situazione si è fatta spessa. E qui l’eros sta montando, senz’altro.

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FONDAZIONE LUCIO SAFFARO


Gusto! Gli italiani a tavola. 1970�2050 M9 Museo del ’900 Venezia Mestre 25.3>25.9.22 a cura di Massimo Montanari e Laura Lazzaroni M9 è un progetto di

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LA CULTURA E LE GUERRE SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

I recenti avvenimenti in Ucraina hanno messo in luce il tema della relazione tra conflitto, tutela del patrimonio, dibattiti su eventuali sanzioni e posizioni che si sono allargate al mondo della cultura. Qual è il corretto comportamento? È giusto oppure no escludere dalle manifestazioni culturali operatori del settore, autori del passato o tematiche che rappresentano un determinato attore del conflitto? Come si devono porre le istituzioni culturali?

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GIANLUIGI RICUPERATI SCRITTORE Credo che il nostro imperativo assoluto debba essere partecipare alla resistenza dell’Ucraina contro l’Invasione russa fino a quando tale invasione sarà in corso. Come possiamo farlo? Isolando il governo russo a ogni livello. I padiglioni delle Biennali e Triennali importanti sono emanazioni dirette dei governi. Le manifestazioni culturali russe e le traduzioni dei romanzi russi contemporanei spesso beneficiano di erogazioni economiche da parte di istituzioni legate al governo. Non si può collaborare con un governo che minaccia la nostra vita, la nostra democrazia, la nostra cultura, e per certi versi – in modo esteso e ipotetico – la sopravvivenza della nostra specie. La Russia di Putin è un nemico e un ostacolo all’evoluzione della specie umana sul nostro pianeta, in un momento peraltro in cui dovremmo essere tutti uniti a lottare perché ci sia ancora una presenza umana su un pianeta sempre più surriscaldato.

ingrandimento che ci permette di comprenderne la sua complessità. Oggi invece sembra aleggiare un certo moralismo, una frenetica corsa alla censura che – forse inconsapevolmente – non avrà altro risultato che produrre pericolosi preconcetti generalisti e collegare la cultura a meri fini propagandistici, annichilendo la sua portata, la sua complessità, la sua necessità, la sua bellezza. Le istituzioni culturali, come tali, dovrebbero salvaguardarne ogni sua espressione, sforzandosi di superare dove possibile (e i casi possibili sono tanti) il semplicistico, e troppo tecnicistico, binomio cultura-governo. Non è reprimendo la letteratura russa ad esempio – come, ironia della sorte, proprio quel Dostoevskij confinato in Siberia (condannato a morte e poi graziato) per presunta appartenenza a un gruppo cospirativo contro lo Zar Nicola I – che si porta avanti una battaglia ideologica contro il governo russo o si è solidali all’Ucraina. Mi auspicherei uno sforzo maggiore, che si trovassero delle modalità più efficaci, invece di mosse del genere che per la loro palese approssimazione rischiano di diventare persino perniciose.

MARIACRISTINA FERRAIOLI CURATRICE ARTLINE

MARIA CHIARA VALACCHI CURATRICE Oggi più che mai la cultura dovrebbe essere neutrale, depoliticizzata, volta a creare dialoghi; traghettarci verso la multiforme e profonda conoscenza dei popoli, delle tradizioni, non stigmatizzandola strumentalmente come parte del nemico. Da sempre il germe dell’ignoranza genera violenza e il pregiudizio verso l’altro non fa altro che erigerci su torri lontane dal vero. La cultura è verbo e non serve per distrarci dalle facezie della vita, ma ci fornisce una lente di

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Se usciamo dalla logica dell’arte come puro oggetto decorativo e ne riconosciamo la capacità di smuovere coscienze e immaginazione anche come azione politica e strumento di indagine sociale, proprio perché in questo momento “muoiono innocenti sotto le bombe”, è quanto mai urgente far sì che l’arte “parli” e si esprima sempre nella maniera più libera possibile. È vero che è affare estremamente complesso. Negli scorsi mesi, ad esempio, ha fatto discutere la decisione [presa da artisti e curatore, N.d.R.] di chiudere il Padiglione Russia alla Biennale di Venezia. Sappiamo bene che i padiglioni nazionali sono finanziati dai governi e sono spesso espressione della politica dominante ma, proprio per questo, una macchina mastodontica

come quella della Biennale deve trovare un modo per tutelare il punto di vista di tutti. Ad esempio, adottando la soluzione di ospitare gli artisti in un altro padiglione o in un evento collaterale come avvenuto già per l’artista cinese Ai Weiwei o per Tania Bruguera, giusto per citare due esempi dissidenti. L’arte e gli artisti non possono tacere, specialmente in un momento come questo. È una sconfitta non solo per la Biennale, ma per l’intero sistema. Del resto, si sa: il silenzio è da sempre la scelta più comoda per il potere.

ELVIRA VANNINI FONDATRICE HOTPOTATOES Come tutte le guerre, l’aggressione e l’occupazione militare dell’Ucraina è espressione della violenza sistemica, predatoria e fascista del patriarcato, quindi bisogna cessare ogni collaborazione con il regime autoritario russo, anche se sarebbe un grave errore politico mettere a tacere indiscriminatamente le voci del dissenso. Boicottare gli oligarchi che guidano la guerra di Putin. Sabotare i predatori miliardari e il capitalismo selvaggio delle politiche neoliberali che demonizzano il femminismo, l’omosessualità, i diritti civili e che hanno prodotto un’accumulazione senza precedenti ripulendosi con l’artwashing: dal mega collezionista Abramovich, co-fondatore del Garage, alla V-A-C, di fronte al Cremlino, trasformata da un magnate del gas in un tempio dell’arte inaugurato da Putin in persona, altro che soft power. Dove eravamo allora? Oggi, mentre l’Ucraina cade sotto i bombardamenti, le azioni del colosso della difesa Leonardo Spa, prima industria bellica italiana per produzione ed esportazione di armamenti (terza in Europa e decima al mondo, controllata per il 30% dallo Stato), volano in borsa, traendo enormi profitti dal conflitto: il ruolo delle nostre istituzioni sta nel denunciare anche questo, altrimenti si possono cancellare un padiglione o una mostra senza mettere in discussione il proprio potere ma ricavandone in visibilità.


A proposito delle rivoluzioni che segnano l’avvio del Novecento, Szeemann aveva sottolineato che “i gesti iniziali del nostro secolo sono i quadri di Malevič, il ‘caos’ di Kandinskij, Mondrian e la piccola valigia di Duchamp”. Gli artisti russi sono forse meno noti dei grandi scrittori del loro Paese, ma la percentuale mi pare significativa: sia gli uni che gli altri, da Dostoevskij a Brodskij, sono stati spesso censurati e perseguitati; l’arte è fiorita nelle crepe del sistema, nel sottosuolo, negli appartamenti in coabitazione, ha resistito a ogni potente di turno… Oggi rinunciare a rapporti con enti governativi (anche culturali, come i musei) è una diretta conseguenza del conflitto e può essere giustificabile come corollario delle sanzioni, ma l’“embargo” alla cultura russa del passato e a quella dissidente del presente è inaccettabile. Credo che proprio ora la cultura russa, in ogni sua forma, vada studiata.

Non commento i giudizi retroattivi. Penso che sia dovere degli intellettuali riflettere sul futuro. È lì che la nostra responsabilità è chiamata in causa. Ho molti amici che patiscono questo conflitto. Sto cercando di aiutarli come posso. La manager che ha lavorato per il mio studio fino a settembre è ucraina ed è rifugiata in Romania con la sua famiglia. Metà dei miei amici russi sono dovuti fuggire dal Paese perché minacciati. Io non vedo differenze tra la Russia e l’Ucraina. Sono due Paesi distrutti, pieni di vittime. Gli ucraini alla fine di questa guerra torneranno in un Paese distrutto che dovranno ricostruire. I russi fuggiti, forse, non potranno più tornare a casa per molti e molti anni. Non dobbiamo fare l’errore di confondere i dittatori con il popolo che tengono in ostaggio attraverso violenza e disinformazione. Il nostro compito è stare vicini alle donne e agli uomini che rappresentano i loro Paesi e le loro culture. Oggi come mai dobbiamo abbracciare gli ucraini che hanno perso tutto, ma non il futuro, e i russi che devono trovare la forza di riprendersi il loro Paese, strappandolo al fango di questa stagione di follia.

STEFANO BOERI PRESIDENTE TRIENNALE DI MILANO In un momento così drammatico, crediamo sia più importante che mai preservare e valorizzare le occasioni di dialogo tra Paesi, culture, popoli diversi. Ed è esattamente questo l’intento della 23a Esposizione Internazionale. Triennale Milano ha, sì, deciso di revocare la partecipazione del governo russo alla 23a Esposizione Internazionale, ma non vuole assolutamente escludere artisti, progettisti e scienziati russi. Allo stesso modo ci siamo impegnati a garantire la presenza del Padiglione dell’Ucraina e abbiamo inaugurato il progetto Planeta Ukrain, per costruire un ponte tra i Paesi e mantenere viva la connessione con artisti, intellettuali, musicisti, critici, curatori e scienziati che si trovano in larga parte a Kiev o in altre città ucraine, al momento sotto i bombardamenti. Planeta Ukrain vuole essere una piattaforma che guardi al futuro e apra uno spiraglio di speranza, perché questo è il compito della cultura, dell’arte e di una istituzione come Triennale: immaginare continuamente e costantemente il futuro, mantenendo vivi il confronto e lo scambio.

SERGIO RISALITI DIRETTORE MUSEO NOVECENTO FIRENZE Il sistema dell’arte si trova spiazzato dal tragico che giunge, mai inedito, mai inusuale, e nel migliore dei casi quel sistema si trova a rincorrere il presente per recuperare lo scarto rispetto alla storia. Da quel momento in poi cresce la retorica, con tutte le sue figure e le sue apparecchiature. Moda e arte si allineano al sentimentalismo di maniera, riflettono la superficie mediatica assieme ai canali di comunicazione occupati da esperti di geopolitica, armamenti, tattiche militari e quant’altro. Il discorso e le immagini in movimento sembrano avvicinarci agli eventi ma in realtà ci astraggono da essi e alimentano l’assuefazione che è generata nell’immediato. Tanto l’istinto alla sopraffazione e alla violenza quanto l’istinto di sopravvivenza si bilanciano in noi dai primordi. Siamo tutti impreparati e improduttivi rispetto alla crudezza e

LUIGI FASSI DIRETTORE ARTISSIMA Nei confronti di istituzioni culturali incardinate in logiche di rappresentanza politica – tanto più in Paesi non democratici o comunque non liberali – è legittimo e anche doveroso manifestare dissenso, sino alla loro esclusione dall’arena del confronto culturale, se indulgono a forme di connivenza, implicite o esplicite, con politiche di violenza, negazione di diritti fondamentali e azioni eticamente inaccettabili. Diverso per istituzioni culturali che rispondono solo delle proprie idee perseguendo una logica di autonomia e indipendenza: a queste non può essere negato uno spazio di ascolto. Similmente, riguardo alle persone vale l’adagio illuminista: a ogni opinione deve essere garantito diritto di espressione anche se non possiamo condividerne i contenuti, e, va da sé, le persone non possono essere discriminate in quanto tali. Il riconoscimento della persona mediante la reciproca attribuzione di valore tra soggetti diversi nell’ambito dell’interazione sociale è un tema centrale della cultura europea ed è alla base della giustizia e del diritto sociale all’esistenza. Dobbiamo guardarci da processi di esclusione che colpiscono alcune categorie di individui, magari su base etnica, condannate a una degradazione morale e rigettate da una società che persegue omogeneità sociale.

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GIAN MARIA TOSATTI ARTISTA E DIRETTORE ARTISTICO QUADRIENNALE

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SILVIA BURINI DIRETTRICE CSAR CENTRO STUDI SULLE ARTI DELLA RUSSIA

terribilità del presente. All’artista e all’opera starebbe il grande compito di anticipare, di essere sempre in anticipo perché sempre nel cuore della tragedia. E ci poniamo le solite domande di sempre. Vengono prima le urgenze umanitarie o quelle culturali? Dobbiamo tutelare il patrimonio culturale e artistico o le persone? In altri momenti, superata l’urgenza più tragica, si potranno discutere i se e i ma. Non adesso, adesso i simboli di pace sanguinano. Nessuna opera d’arte allontana la violenza, la guerra. L’arte – un libro, un quadro, una scultura, un gesto simbolico – tutt’al più possono salvarci dall’angoscia perché ci danno da pensare, magari allentano la potenza degli istinti rendendoci più umani e perfino angelici. A me pare che un grande velo nero sia già steso sull’occidente da tempo. Un imperialismo fascista e violento stende la sua mano sul mondo. Ma facciamo come se così non fosse. Non credo sia il tempo adesso di lasciare solo agli altri il prendere decisioni radicali. Quando ci sono in gioco la vita e la libertà non resta che dissodare il linguaggio per comprendere chi siamo e cosa scegliamo di essere.

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Lawrence Carroll a cura di Gianfranco Maraniello



APP.ROPOSITO

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SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]

FARE ESPERIENZA DI TRE MAESTRI

CLAUDIA GIRAUD

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YOU ARE LEO

Questo è un tour guidato nella Milano ai tempi di Leonardo, indossando un visore. Il tour è presentato in occasione delle celebrazioni per i 500 anni della morte di Leonardo da Vinci (1452-1519) con uno strepitoso successo, vedendo protagonisti più di 40mila partecipanti. Le tappe del viaggio sono cinque: si parte da Piazza Duomo, dove il percorso ci fa intravedere luoghi che non esistono più come Santa Maria Maggiore, youareleo.com Santa Tecla, il Portico dei Figini e il quartiea partire da 15 € re del Rebecchino. La seconda tappa è nella on site corte di Palazzo Reale per osservare il cavallo d’argilla di fronte a quella che era la bottega di Leonardo, per poi arrivare di fronte alla Pinacoteca Ambrosiana e ammirare alcune opere come il Codice Atlantico o la Vergine delle rocce, passando in Corso Magenta e finendo a Santa Maria delle Grazie con il Cenacolo. Il viaggio è accompagnato dal supporto di uno storico dell’arte che permette di contestualizzare la visita, immersiva anche nell’audio.

IL DIVINO

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Il progetto è stato presentato al SIGGRAPH nel 2019 ed essendo questa la più grande e prestigiosa manifestazione per la grafica tridimensionale interattiva, il risultato è strabiliante. È il frutto di un lavoro minuzioso di documentazione storica nella realizzazione dei celebri affreschi di Michelangelo per la Cappella Sistina e di una ricostruzione meticolosa fino ai minimi dettagli: partendo dai lavori del 1800 a firma di sistinevr.com Paul Letarouilly, si è passati alla campagna free di rilievo fotogrammetrico, creando un Microsoft VR, Oculus, HTCVive risultato non solo realistico, ma filologico ed estremamente gradevole e fluido nella navigazione. È possibile apprezzare la grana delle pennellate e il disegno dei piccoli particolari. Questo lavoro, per la qualità eccelsa del dataset creato, potrebbe anche aiutare gli storici e documentare il prima e il dopo dei controversi lavori di restauro compiuti negli anni.

RAPHAELLO

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Il museo virtuale delle opere di Raffaello in VR nasce all’inizio del periodo pandemico, sulla scia della mostra alle Scuderie del Quirinale. L’intento era quello di portare la magia dei quadri a un pubblico più ampio, superando le limitazioni imposte dal lockdown. Il museo virtuale presenta le opere maggiori della ritrattistica di Raffaello e ogni opera è corredata da un apparato critico. Sono presenti un’audioguida, la spiegaskylabstudios.it/museovr/ zione di un critico, ma anche contenuti spefree ciali per i bambini e per persone con web app differenti abilità. La struttura del museo con il suo ambiente tridimensionale è abbastanza standardizzata. Meritevole l’intento di permettere l’approfondimento alle varie fasce di pubblico con contenuti specifici, anche se le animazioni che ricalcano e muovono i dipinti lo rendono a tratti grottesco.

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LUIGI GHIRRI IN EMILIA Luigi Ghirri: Vedere Oltre è il ciclo di mostre e giornate di studio, promosso da Regione e Apt Servizi Emilia-Romagna, che da aprile a dicembre celebrerà a Reggio Emilia, Modena e Parma i trent’anni dalla morte del fotografo. parma2020.it/it/vedere-oltre/ LUCIO DALLA A BOLOGNA Nel decennale della scomparsa e nell’80esimo anniversario dalla nascita del cantautore bolognese, una mostra – ideata e organizzata da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare di Roma in collaborazione con la Fondazione Lucio Dalla – lo celebra nella sua città. Fino al 17 luglio al Museo Civico Archeologico di Bologna, poi a Roma, Napoli e Milano. mostraluciodalla.it CARLO LEVI A TORINO Si chiama Tutta la vita è lontano il progetto in cui la letteratura si fonde con il teatro, la musica, il cinema e l’arte visiva, organizzato dalla Fondazione Circolo dei lettori di Torino in occasione dei 120 anni dalla nascita di Carlo Levi. circololettori.it BEPPE FENOGLIO AD ALBA Beppe Fenoglio 22 è la serie di iniziative pensate dal Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba per celebrare i cento anni dalla nascita delllo scrittore e partigiano, traduttore e drammaturgo, capace di raccontare la Resistenza e il mondo contadino delle Langhe con uno stile efficace e peculiare. beppefenoglio22.it PIER PAOLO PASOLINI A BOLOGNA Oltre alle tre mostre a Roma del progetto Tutto è Santo, anche Bologna è sede di un ricco programma che celebra il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini: PPP 100 anni di Pasolini a Bologna, promosso dal Comune di Bologna e con il patrocinio dell’Università. Tra le iniziative, quella della Cineteca, che include la mostra Pier Paolo Pasolini. Folgorazioni figurative nel nuovo spazio espositivo del Sottopasso di Piazza Re Enzo. culturabologna.it/pppbologna


LABORATORIO ILLUSTRATORI

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MARJANI LA VOLPE SARDA behance.net/marjani

Gianluca Marras, il cui pseudonimo è Marjani, che tradotto dal sardo significa “volpe”, nasce a Cagliari nel 1979. Esordisce con un character design tragico e grottesco scaturito dalla commistione fra maschere tradizionali locali e orientali, per approdare a una figurazione nostalgica e malinconica più classica, che si somma a suggestioni estetiche derivanti dall’universo nipponico.

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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

La tua formazione? Vengo da un percorso di studi umanistici, non specificamente artistico. La mia formazione classica influisce profondamente sulla mia poetica, tanto da avere un approccio quasi letterario al disegno.

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Quali sono gli illustratori a cui guardi? Non ho modelli illustrativi specifici. Apprezzo e stimo molti illustratori, ho sicuramente sviluppato nel tempo una predilezione per le illustrazioni vintage e minimali, ma la mia ispirazione non ha precisi punti di riferimento ed è tendenzialmente caratterizzata dalla multidisciplinarietà. Come definisci la tua ricerca? La mia ricerca si concentra essenzialmente sul tratto, l’elemento forse in grado di identificarmi maggiormente. Scarnificarlo, renderlo essenziale ed espressivo a prescindere da quello che disegno e o illustro, a prescindere dallo stile, che spesso è una gabbia, è la mia meta. Ovviamente è un percorso che non si conclude mai. Quali tecniche preferisci utilizzare? Digitale. Disegno molto con foglio 6b e matita, ma la finalizzazione dei miei lavori è sempre digitale. Questa scelta risponde ad alcune mie esigenze espressive, e principalmente a quella di un pieno controllo delle tavole. D’altro canto non ho mai usato il vettoriale, e il mio utilizzo del digitale è quasi definibile come un analogico elettronico. Per me è fondamentale che il mio tratto rimanga caldo e “manuale”. Descrivimi il processo creativo di una tua illustrazione. Non ho un unico processo creativo. Di solito parto da un’idea di massima e cerco di svilupparne gli elementi essenziali in poco tempo per poi lavorare meticolosamente su composizione e palette.

© Marjani per Artribune Magazine

I tuoi gusti in merito a cinema e musica. Sono tendenzialmente onnivoro. Amo moltissimo sia il cinema che la musica. Nutro un’autentica venerazione per Studio Ghibli e per Wes Anderson. Ascolto moltissima musica, senza generi specifici, anche se la mia tazza di tè è la musica elettronica. Ho anche un feticismo per il rap italiano. Cosa sogni di illustrare? Se Murakami venisse da me e mi dicesse di illustrare Norwegian Wood, ecco, sarebbe veramente bellissimo.

Qual è il tuo concetto di bellezza? È una domanda stupenda ma è difficilissimo rispondere. Identifico ancora la bellezza con la malinconia e la associo al concetto di tempo. La bellezza è impermanente. A cosa lavori e quali sono i progetti futuri? Lavoro al progetto più difficile della mia vita. Un racconto della mia famiglia per immagini: una sorta di autoanalisi che mi sto concedendo e che sto sviluppando con la gallerista e curatrice Chiara Manca.

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ARCHUNTER

MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

BDR BUREAU bdrbureau.com

BDR bureau, Scuola Enrico Fermi, Torino. Photo © Simone Bossi

Con il conferimento del Premio T Young Claudio De Albertis promosso da Triennale e MAXXI e il recente accesso alla fase conclusiva dell’EUMiesAward, la scuola Enrico Fermi di Torino è senza dubbio tra le architetture italiane del momento. Un’inedita storia di successo per un intervento di edilizia scolastica, tanto più perché firmato da professionisti under 40. Eppure, Alberto Bottero (1984) e Simona Della Rocca (1985) non sono nuovi a stupire. Formatisi al Politecnico di Torino, i due progettisti esordiscono nel 2013 vincendo lo YAP MAXXI, il più prestigioso fra i concorsi per giovani architetti nostrani. Insieme ai compagni di studi Valeria Bruni e Fabio Vignolo, Bottero e Della Rocca ideano un grande volume sospeso che gravita per tutta l’estate sulla piazza del museo romano. Trasparente e leggera, realizzata in materiali e tecnologie low tech e low cost, l’installazione He preannuncia l’attitudine alla sperimentazione dei due architetti piemontesi. Nel 2016 il duo intraprende un percorso autonomo con BDR bureau per esplorare l’idea di “un’architettura aperta”. “Nel nostro lavoro”, spiega lo studio, “questo significa pensare spazi generosi, ragionati ma non eccessivamente determinati nel disegno, che abbiano una propria qualità e la capacità di adattarsi. I progetti sono sviluppati a partire da un’ampia interpretazione dei luoghi, con la tensione a trasformare i limiti in opportunità. Forse anche per questo”, aggiunge BDR,

“ci interessa lavorare in contesti di riuso, dove l’architettura si misura con un processo di stratificazione e ne diventa parte integrante”. Ne è un esempio proprio il pluripremiato intervento di recupero della scuola media torinese, in cui l’aggiunta di una struttura metallica al complesso esistente moltiplica le possibilità di fruizione di aule e aree comuni con terrazze continue. Modello esemplare per il recupero sostenibile del patrimonio, la scuola Fermi ha aperto a BDR la strada per un’indagine ad ampia scala sulla tipologia scolastica. Oltre a un istituto a Varese, lo studio sta infatti seguendo la fase esecutiva di un innovativo polo in Belgio: “Progettato con Carton 123 architecten e il paesaggista Joost Emmerik, si tratta di un campus diffuso in un contesto esistente, con spazi d’arte, attrezzature condivise e una scuola primaria per bisogni speciali”. Il desiderio di sperimentazione dello studio si spinge oltre, come testimoniano il cantiere per la riqualificazione di una cascina nel Monferrato e vari progetti in fase preliminare, tra cui una palestra e residenze collettive. “Lavorare su progetti e contesti diversi è stimolante, così come collaborare con altri studi. In prospettiva”, conclude il duo, “contiamo di crescere, mantenendo però una dimensione familiare che ci permetta di seguire i progetti in prima persona”. Intanto, l’appuntamento è per la fine di aprile, quando all’EUMiesAward lo studio BDR si contenderà con Lacol il titolo di emergente d’Europa.

Nasce a Torino Artàporter. L’app che fa esporre gli artisti in bar e ristoranti Con l’obiettivo di sdoganare la formula delle mostre-in-ristorante e favorire la diffusione e la vendita dell’arte emergente, a Torino è nata Artàporter, app che gestisce il matching fra artisti ed esercizi commerciali. “Un’idea nata per agevolare principalmente gli artisti, che sono da sempre l’anello debole della catena dell’arte”, dichiara Massimo Gioscia, ideatore della startup insieme a Dario Ujetto. “Ho voluto elaborare un modello intelligente per aumentare la loro visibilità e anche la possibilità di vendita delle opere, che non devono restare ferme in un atelier, ma spostarsi e arricchire i locali, renderli più belli e frequentati dagli appassionati d’arte, ma anche dai semplici curiosi che amano immergersi nella bellezza. Con Artàporter vogliamo ripensare ‘i luoghi comuni dell’arte’, quelli mentali, che sono ahimè ancora tanti, e quelli fisici, aumentando il numero delle gallerie d’arte ‘urbane’ attraverso la rete dei negozi di tutto il mondo”. Sono già quindici i locali aderenti a Torino, che riportano all’esterno del locale la vetrofania Artàporter. Aperte le candidature per artisti e negozianti sul sito. artaporter.it

Biennale Arte 2022: a Katharina Fritsch e Cecilia Vicuña vanno i Leoni d’Oro alla carriera

GIULIA RONCHI L La Biennale ha assegnato i Leoni d’Oro alla carriera, che per questa edizione – dal titolo Il latte dei sogni, dal 23 aprile al 27 novembre 2022 – vengono assegnati all’artista tedesca Katharina Fritsch e alla cilena Cecilia Vicuña. “Il contributo di Fritsch nel campo dell’arte contemporanea e, in particolare, in quello della scultura non ha paragoni. Il suo lavoro si distingue per opere figurative al contempo iperrealistiche e fantastiche: copie di oggetti, animali e persone rese nei più minuscoli dettagli ma trasformate in apparizioni perturbanti”, ha sottolineato la direttrice Cecilia Alemani, che ha proseguito, a proposito di Vicuña: “È un’attivista che da anni lotta per i diritti delle popolazioni indigene in America Latina e in Cile. Nel campo delle arti visive si è distinta per un’opera che spazia dalla pittura alla performance, fino alla realizzazione di assemblage complessi”. labiennale.org/it/arte/2022


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Al via a maggio 2022 la prima edizione di Lugano Dance Project con tre nuove coreografie, ideate da tre affermati talenti della scena contemporanea internazionale, site-specific performance, tavole rotonde, atelier d’artista, incontri e una serata Tanzfaktor dedicata alla danza svizzera emergente, al centro culturale LAC e in luoghi non convenzionali della città. Nuove produzioni Virginie Brunelle/Annie Hanauer/ Lea Moro Performance site-specific Simona Bertozzi/ Lorena Dozio/Muhammed Kaltuk–Company MEK/ Caroline Laurin-Beaucage–Lorganisme/Ana Pi/ Cristina Kristal Rizzo & Megumi Eda/Cindy Van Acker Tanzfaktor Alba Castillo–Company Snorkel Rabbit/ Lucas Del Rio/Lisa Laurent & Mattéo Trutat/ Luca Signoretti Dance Company www.luganodanceproject.ch

LUGANO DANCE PROJECT 1a EDIZIONE 25—29 MAGGIO 2022

Festival Donor

in collaborazione con

con il sostegno di


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PAROLA D’ORDINE: INTROSPEZIONE. INTERVISTA A CECILIA ALEMANI SULLA SUA BIENNALE

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attesa è altissima nei confronti di una Biennale Arte travolta dalla pandemia, che si appresta finalmente ad alzare il sipario. Cecilia Alemani (Milano, 1977) riflette sull’edizione della Biennale di cui tiene le redini, avvolgendo il filo dei pensieri e delle scelte alla base di una mostra che si concretizzerà, fra Giardini e Arsenale, dal 23 aprile 2022. Come curatrice ti sei trovata a fare i conti con una esperienza del tutto inedita: progettare esclusivamente a distanza la mostra per eccellenza. Che cosa ha significato nel concreto? E quanto questa modalità ha influito sulle scelte messe in campo passo dopo passo? Non c’era molta scelta, ho dovuto affrontare la situazione con i pochi mezzi che avevo. Da un lato mi sento di dire che ho studiato di più – cosa che normalmente non è facile fare durante la preparazione di una Biennale, quando si è impegnati in viaggi e ricerche –, dall’altro devo ammettere che è stato molto faticoso, anche psicologicamente. È stato un processo piuttosto solitario, ma le conversazioni digitali con artisti e artiste – in un tempo per tutti di stallo, di incertezza – sono state forse più interessanti e profonde di uno studio visit e sono entrate a far parte delle preoccupazioni che animano questa mostra. C’è un altro evento drammatico con cui ti stai trovando a fare i conti: la guerra in Ucraina, che sta avendo pesanti ricadute anche sul piano culturale. Cosa credi che la cultura debba o possa fare in questo momento? Penso, forse idealisticamente, che la cultura sia quel canale che permette di conoscere una società diversa dalla propria. Il rischio è che per i prossimi dieci anni non riusciremo a conoscere nulla della produzione culturale ucraina, ma ancora più di quella russa, per effetto della chiusura di frontiere e canali di comunicazione. La cultura, anche negli anni della Guerra Fredda Cecilia Alemani. Photo Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

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e nei periodi molto bui del secolo passato, era un canale di dissenso, di apertura, sebbene complesso. La guerra, inoltre, sta accadendo in un momento in cui il mondo è attraversato dall’idea di cancel culture e le posizioni prese nelle ultime settimane sono anche il risultato di questo, non solo dell’evento bellico. Tutto ciò spaventa: chiudere una porta può dare una soddisfazione immediata ma, come ha detto il mio amico András Szántó in un suo articolo su Artnet, nel momento in cui chiudi quella porta, non la riapri più.

LA BIENNALE DEL POSTUMANO A proposito di andare a fondo dei temi e delle istanze, quando hai presentato la tua Biennale, hai specificato che ribalterà la visione antropocentrica rinascimentale, sollevando le riflessioni più disparate. Quale tipo di narrazione e quale strada vuoi tracciare? Questo aspetto si manifesta nel tema e nella posizione filosofica della mostra, che guarda al postumano e che potrebbe malignamente essere definita per tale ragione “trendy”. In realtà, oltre al mio interesse verso il pensiero postumano, espresso da autrici come Donna Haraway o Rosi Braidotti, credo che questo pensiero si sia imposto con grande insistenza nel lavoro degli artisti e delle artiste in mostra e non. In generale mi sembra che ci sia una forte preoccupazione, articolata in modi diversi, verso la relazione con l’ambiente e con la natura o con la tecnologia e con l’altro. Dunque ho voluto adottare questo pensiero come un framework della mostra. Questo pensiero come si riflette nella scelta delle persone che hai invitato? A me ha sempre interessato fare mostre inclusive, basate su una decisione più conscia e consapevole rispetto allo spazio dato

E infatti la tua Biennale è diventata un caso. Lo spirito dei tempi comunque emerge. In molti padiglioni, ad esempio, le protagoniste sono le donne.

ARTISTE E CORPO NELLA BIENNALE DI CECILIA ALEMANI Quando hai presentato le artiste della tua mostra le hai definite disobbedienti. In cosa consiste la disobbedienza? La disobbedienza è ai cliché e ai canoni che si associano molto spesso a queste identità e corpi. In mostra ci sono molti corpi che respingono una composizione o visione tradizionale. Penso sia importante rispettare tutte le voci individuali, senza generalizzazioni. Sembra che ci sia, nella tua Biennale e non solo, un tentativo di ritorno a un corpo, passato però attraverso dinamiche recenti come la smaterializzazione del contatto e della fisicità, imposta dalla pandemia, e la mediazione, a tratti invadente, della tecnologia. Il tuo postumano appare come una summa di tutto ciò: un ritorno a un corpo che deve fare i conti con una tecnologia diventata a sua volta corpo. Sì. È un argomento attuale e che ha una manifestazione, appunto, fisica. Pure la mostra è molto fisica, forse anche in

Gli allestimenti ideati da Formafantasma contribuiscono a questa idea di fisicità? I Formafantasma hanno compiuto un lavoro quasi autoriale sulle capsule storiche. Più che sul corpo, credo ci sia stata una riflessione sul potere del display in un contesto come quello della Biennale caratterizzato dalla monumentalità. Mi hanno aiutata a creare una successione di spazi compressi e più dilatati, soprattutto all’Arsenale.

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ARTISTI E PANDEMIA In molti si sono interrogati sulla valenza ottimista o pessimista della tua Biennale. Al netto delle etichette, qual è lo “stato d’animo” della tua mostra? Io sono una persona ottimista, ma ovviamente questa Biennale è frutto dei tempi. Il sentimento che vige di più è quello dell’introspezione. Ho la sensazione che gli artisti durante la pandemia abbiano introiettato quello che stava capitando in modo intimista, diaristico, onirico, senza abbandonare il contenuto ma con metodologie meno “urlate”.

In Italia c’è ancora la tendenza a non prendere sul serio qualcosa in cui sono coinvolte le donne e io lo trovo un fatto piuttosto sconvolgente.

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La tua Biennale quale compito può avere in questo scenario? Speriamo di creare delle opportunità di discussione e di argomentazione che vadano al di là del semplice boicottaggio.

In una intervista hai detto che realizzare una mostra come questa, in Italia, è un manifesto e una dichiarazione di intenti, poiché il clima che si respira qui è ancora di stampo “medievale”. Quali reazioni ti aspetti dal pubblico italiano e internazionale? In Italia c’è ancora la tendenza a non prendere sul serio qualcosa in cui sono coinvolte le donne e io lo trovo un fatto piuttosto sconvolgente. Non è invece mai stato scandaloso che, ad esempio, nella Biennale di Robert Storr ci fosse il 20% di donne. Al netto dei numeri, che contano fino a un certo punto, vorrei che anche un visitatore comune potesse vedere una mostra con le stesse tensioni e le stesse rime del passato ma con una grande quantità di donne e che la donna artista non debba sempre essere per forza assimilata all’immaginario femminile e protofemminista. L’arte deve anche parlare della nostra società, e costruire intere programmazioni museali su mostre di artisti uomini non è il riflesso della nostra società.

risposta agli anni che stiamo vivendo. Gli artisti hanno fatto cose e questa credo sia una reazione alla mancanza del rapporto somatico con l’opera.

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È stato un processo piuttosto solitario, ma le conversazioni digitali con artisti e artiste – in un tempo per tutti di stallo, di incertezza – sono state forse più interessanti e profonde di uno studio visit.

alle artiste. Quando ho iniziato a lavorare alle capsule storiche che saranno presenti in mostra, ho scelto di guardare a momenti storici e movimenti dai quali le donne erano state escluse. Ho fatto quindi un lavoro più direzionato sul genere, cercando di raccontare una storia di cui anche la Biennale di Venezia, in un certo senso, si è un po’ dimenticata.

In effetti in molti hanno accusato gli artisti di non aver fatto sentire abbastanza la propria voce durante questi anni pandemici. Ma come si può chiedere a un artista di rispondere con immediatezza a un qualcosa che impiegheremo decenni ad assorbire? Sono d’accordo. Per la maggior parte delle persone coinvolte nella mostra questa pandemia è stata l’evento più rivoluzionario, trasformativo e drammatico della vita. Gli artisti hanno delle velocità di assimilazione diverse. La macchina del mondo dell’arte va veloce, nel momento in cui si è fermato l’ingranaggio, improvvisamente ci si è trovati a fare i conti con una temporalità differente. ARIANNA TESTINO

labiennale.org

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David Medalla 9 Apr 14 Sep 2022

Parables of Friendship MUSEION Museum for modern and contemporary art Bolzano Bozen museion.it Funded by

Institutional Partners David Medalla, Bambi Shitting Dollars, 1989. Collage on paper. Courtesy: private collection Design: Studio Mut

In collaboration with

BIRD FLIGHT

Erika Giovanna Klien in dialogue with contemporary artistic positions

9 Apr 7 Sep 2022

MUSEION Museum for modern and contemporary art Bolzano Bozen museion.it Institutional Partners

Supported by

Design: Studio Mut



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CONCIERGE

VALENTINA SILVESTRINI [ caporedattrice architettura ]

IL PRIMO HOTEL DI PATRICIA URQUIOLA A VENEZIA vretreats.com/ca-di-dio

Suite Vista Laguna. Courtesy Hotel Ca’ di Dio

Sono le scultoree vele del lampadario formato da 14mila cristalli in vetro di Murano ad accogliere gli ospiti di Ca’ di Dio, primo hotel progettato a Venezia da Patricia Urquiola. All’architetta e designer spagnola, da oltre vent’anni alla guida del noto studio milanese e attualmente impegnata sul fronte hôtellerie anche a Roma e Milano, il Gruppo Alpitour ha affidato nel 2019 l’interior design e la direzione artistica del cinque stelle aperto da pochi mesi nel sestiere di Castello, a ridosso dell’Arsenale e degli spazi espositivi della Biennale. Parte dell’esclusiva collezione di dimore di VRetreats, la struttura ne sposa la vocazione al lusso non convenzionale ed elegge la città lagunare a matrice di ogni suo dettaglio. “Venezia doveva essere il nucleo da cui tutto avrebbe avuto origine”, ha raccontato Urquiola. “L’attenzione nella scelta dei materiali, l’importanza del genius loci sono elementi fondamentali per me. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca per esaltare la personalità di Ca’ di Dio, senza stravolgerne il passato, ma reinterpretandolo in chiave contemporanea.” Un approccio dettato dalla storia del manufatto architettonico, oggetto di un intervento di restauro e riqualificazione, condotto in accordo con la Soprintendenza, costato 25 milioni di euro. Risalente al

XIII secolo ed eretta lungo la Riva degli Schiavoni, Ca’ di Dio ha conosciuto secoli di ospitalità – da alloggio per i pellegrini diretti in Terra Santa a rifugio per le donne sole e in difficoltà – ed è stata rinnovata nel 1544, su disegno dell’architetto e scultore Jacopo Sansovino. La “venessetia”, intesa come “il fascino, l’atmosfera e l’essenza più intima di Venezia”, nelle parole del direttore Christophe Mercier, plasma l’identità dell’hotel e sintetizza due visioni spaziali: il rigore dell’impianto originale si dissolve nelle soluzioni, sofisticate e sartoriali, degli interni, evocando i raffinati palazzi della Serenissima. Dalle 66 camere (57 suite e 9 deluxe), ai due ristoranti, fra cui Vero con le proposte dello chef Raimondo Squeo; dalla sala lettura alle tre corti, con il verde che richiama i raccolti giardini lagunari, fino alla lobby, un tempo chiesa, il lusso è sinonimo di unicità, cura e abilità artigianale. A realizzare gli elementi decorativi in pietra, vetro o marmo, le finiture tessili, i rivestimenti, come il “rinato” terrazzo alla veneziana, e le lampade sono state infatti selezionate maestranze veneziane. Fra i plus dell’esperienza: la Pura City SPA by The Merchant of Venice; l’esclusiva linea di gin, da provare al bar Alchimia; e il music blend concepito come dialogo tra l’Oriente e Venezia.

PUTINPEACE: artisti contro la guerra. Immagini, storie e messaggi di pace sul canale Instagram GIULIA RONCHI L Sono partiti in tre, recandosi al confine tra Romania e Ucraina, per documentare, accogliere, offrire un sostegno concreto alla tragedia umanitaria in corso: sono Andreana Ferri, Umberto Cofini e Fabrizio Spucches. Dopo aver realizzato ritratti, interviste e reportage, i primi due sono ripartiti per l’Italia, mentre Spucches ha deciso di proseguire in loco la sua missione continuando ad accogliere coloro che riescono a passare il confine. Le testimonianze vengono poi pubblicate sulla pagina Instagram @putinpeace, condividendole con la vastità della rete. Oltre alle opere dei tre fondatori, il progetto PUTINPEACE ha raccolto lavori provenienti da tutto il mondo, da grandi della fotografia come Oliviero Toscani o della moda come Jean-Charles de Castelbajac e dell’arte con TvBoy, passando per grafici, fotografi, illustratori, artisti visivi e video che vogliono sostenere l’iniziativa e opporsi alla guerra. Il canale Instagram chiuderà quando questa sarà finita, considerando solo a quel punto il lavoro concluso. Tutti noi non vediamo l’ora che questo accada. putinpeace

NECROLOGY PASQUALE SANTORO 30 settembre 1933 – 20 febbraio 2022 L MONICA VITTI 3 novembre 1931 – 2 febbraio 2022 L JAMES BIDGOOD 28 marzo 1933 – 31 gennaio 2022 L PAOLO GIOLI 12 ottobre 1942 – 28 gennaio 2022 L BRIGITTE KOWANZ 13 aprile 1957 – 28 gennaio 2022 L THIERRY MUGLER 21 dicembre 1948 – 23 gennaio 2022 L UMBERTO BIGNARDI 25 marzo 1935 – 22 gennaio 2022 L BOUBA TOURÉ 1948 – 21 gennaio 2022 L ANDREINA CERRUTI 19 gennaio 1923 – 18 gennaio 2022 L STEVE SCHAPIRO 16 novembre 1934 – 15 gennaio 2022 L CHIARA SAMUGHEO 25 marzo 1925 – 13 gennaio 2022


7 Padiglioni extraeuropei alla Biennale di Venezia 2022

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ISRAELE A cura di Shelley Harten, il progetto Queendom di Ilit Azoulay si riversa all’esterno del padiglione ai Giardini, affrontando il tema dell’appropriazione culturale attraverso fotomontaggi e un’installazione sonora. NEPAL Tales of Muted Spirits – Dispersed Threads – Twisted Shangri-La racconta, attraverso l’esperienza di Tsherin Sherpa, cultura, storie e tradizioni del Nepal, spesso avvolte da un’aura mitica, frutto di una visione occidentale “patinata”. COREA DEL SUD Curata da Young-chul Lee, Gyre presenta sette installazioni di Yunchul Kim: il pubblico si ritrova all’interno di una dimensione in cui oggetti, esseri viventi e natura convivono. UGANDA Acaye Kerunen e Collin Sekajugo sono gli artisti del padiglione al debutto alla Biennale di Venezia negli spazi di Palazzo Palumbo Fossati. A cura di Shaheen Merali, Radiance – They Dream in Time racconta la storia sociale dell’Uganda. CILE Turba Tol Hol-Hol Tol è il progetto curato da Camila Marambio che riunisce un team multidisciplinare di creativi cileni. Hol-Hol Tol nella lingua dei Selk’nam – indigeni della Terra del Fuoco – significa “cuore delle torbiere”, di cui viene raccontata la storia e l’urgenza della loro salvaguardia e conservazione. SINGAPORE Pulp III: A Short Biography of the Banished Book è il progetto di Shubigi Rao curato da Ute Meta Bauer, che esplora la storia dei libri, toccando concetti come la censura, le biblioteche, la stampa, la libertà di espressione e la privacy.

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BRASILE Riflette sulla storia culturale e sociale del popolo brasiliano Com o coração saindo pela boca, installazione di Jonathas de Andrade. A cura di Jacopo Crivelli Visconti, analizza espressioni e idiomi riferiti al corpo umano.

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DESIRÉE MAIDA

POLTRONA FRAU COMPIE 110 ANNI E LANCIA LA ARCHIBALD ANNIVERSARY LIMITED EDITION FIRMATA DA FELIPE PANTONE

GIULIA RONCHI L Tecnica, progettualità, artigianalità e ricerca. Poltrona Frau giunge al compimento dei 110 anni e per celebrare la sua storia ha scelto di coinvolgere un artista internazionale, invitandolo a ripensare uno dei suoi modelli più iconici in chiave contemporanea. Nasce così la Archibald Anniversary Limited Edition, firmata dall’argentino-spagnolo Felipe Pantone, noto per i suoi affreschi, murales, dipinti e sculture che fondono “passato analogico e futuro digitalizzato”. La poltrona Archibald – il modello è stato disegnato nel 2009 da Jean-Marie Massaud – è prodotta in 110 pezzi, in vendita da aprile 2022 sull’e-commerce di Poltrona Frau, nei flagship store e nei rivenditori selezionati. Attingendo al mondo dell’immagine digitale e alla palette ColorSphere® di Poltrona Frau, Pantone ha creato un motivo ipnotico che vibra sulla superficie in pelle: una griglia di rossi, arancioni, gialli, bianchi e blu che ricorda le temperature calde e fredde di una mappa di calore. Il motivo sfumato viene stampato direttamente sulla pelle con una tecnica solitamente riservata alla piccola pelletteria di lusso, enfatizzato dalla tonalità Multicolor Natural Chrome con cui sono rivestite la base e le sottili gambe in metallo del modello e che conferisce un particolare gioco di

luce e riflessi. “Ho avuto I’opportunità di visitare Io stabilimento di Poltrona Frau per vedere il Museo, I’intera collezione e conoscere la storia del brand”, spiega l’artista. “Ho scelto Archibald per Ia struttura minimale e le caratteristiche uniche, come i braccioli e i dettagli dello schienale. La mia idea è stata di utilizzare il design minimale e iconico della poltrona e di accostarlo alle mie grafiche che sono molto ‘rumorose’ e dinamiche”. Il progetto sarà anche esposto presso il flagship store di Poltrona Frau di via Manzoni dal 7 al 12 giugno 2022 durante il Salone del Mobile di Milano, ha un’attenzione per la sostenibilità ambientale, grazie all’uso di una pelle priva di cromo, che consente una sostanziale riduzione dell’uso di acqua, componenti chimici e sostanze inquinanti. “Questa collaborazione”, precisa Nicola Coropulis, CEO Poltrona Frau, “vuole spostare Ia prospettiva di Poltrona Frau verso il futuro, non solo nei termini di una prima collaborazione con un artista internazionale, ma anche sul tema della tutela ambientale. La nuova Pelle Frau Impact Less® porta a compimento un percorso verso Ia sostenibilità che da sempre contraddistingue la ricerca e l’evoluzione della Pelle Frau®”. poltronafrau.com

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PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI


Ph credits: Martino Lombezzi · Alessandra Chemollo

Entra per la prima volta nel cuore di Piazza San Marco alle Procuratie Vecchie e immergiti nella mostra interattiva per scoprire i tuoi punti di forza

Mostra interattiva Procuratie Vecchie Piazza San Marco 119, Venezia Dal mercoledì al lunedì 10-19 thehumansafetynet.org/visitaworldofpotential


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MARCO ENRICO GIACOMELLI [ filosofo e docente ]

UNA NUOVA COLLANA DI SAGGI

ANTOLOGIA MASSIMO MININI

Siamo ai nastri di partenza: debutterà fra poco una nuova collana dell’editore romano Castelvecchi, diretta da Christian Caliandro e intitolata Fuoriuscita. Per capire quale sia la direzione che intende intraprendere, fondamentale leggerne la presentazione, dove si spiega che essa “propone parole, idee, interpretazioni dell’arte contemporanea che siano fuori dai tracciati consueti, e che al tempo stesso costituiscano un interstizio in grado di aprire ad altre, nuove forme”. In quali forme? Con “saggi in cui l’arte contemporanea incontra la musica, la letteratura, il cinema, l’economia, il dibattito culturale, e che sono in grado di fondere con originalità i generi (critica d’arte, autofiction, cronaca, narrativa, teoria, storia dell’arte)”. Con quali obiettivi? “Imparare a vedere l’arte non come pensiamo che dovrebbe essere, ma innanzitutto come essa è oggi, nella realtà – e poi come potrebbe essere nell’immediato futuro”. La prima uscita della collana, com’è consuetudine, è firmata dallo stesso Caliandro, a cui spetta l’onere e l’onore di aprire la discussione. Caliandro sceglie di remixare una serie di testi usciti nell’ultimo anno in diversi libri e riviste, fra le quali proprio Artribune. Testi a sua firma, ma ricchi anche di citazioni e di dialoghi, dunque in realtà il lavorìo è almeno doppio e talvolta sfiora la cacofonia, nel senso del caosmos di sapore guattariano. Perché il mondo è un posto tutt’altro che semplice e lineare, come ci è stato spesso raccontato e come ancora oggi si tenta di descriverlo; il mondo è invece un luogo complesso, dove non si possono però nemmeno deporre le armi della logica, perché nella sua complessità talora irrazionale c’è dentro anche la logica, così come la verità, la realtà, i fatti. Ecco perché Caliandro sceglie – non è solo, ma i compagni di viaggio sono ancora pochi, e in qualche caso sono compagni di viaggio scaltri e astuti – di non concettualizzare soltanto, ma di far fluire il ragionamento negli interstizi dei ricordi, della riflessione aforistica e sfrangiata, del dialogo costruttivo con i suoi interlocutori, che sono in alcuni casi i suoi studenti, i partecipanti ai workshop – non è dunque un dialogo a distanza inter pares, narcisista e agonistico. Per fare tutto questo, va da sé, bisogna trovare una lingua, cioè una grammatica, una sintassi, una retorica. Anche qui i compagni di viaggio ci sono, pochi ma ci sono: Longhi e Lonzi, Preciado e Bruno, per citare soltanto quattro nomi, sui quali magari Caliandro stesso sarebbe solo parzialmente d’accordo.

Poteva Massimo Minini fare un libro “normale”? Se non sapete di chi stiamo parlando, colmate im-me-dia-ta-men-te la lacuna, perché, signori, parliamo non del solito “protagonista” del sistema dell’arte internazionale, ma di un personaggio che come pochi, pochissimi altri, sa unire il fiuto dello scout, la pragmaticità del mercante, l’imprenditorialità del gallerista, la follia dell’entusiasta, il rigore del collezionista, la competenza del critico, l’astuzia del comunicatore... e sicuramente ci siam persi qualche sua caratteristica in quest’elenco. Tornando al libro: le dimensioni sono importanti, 24x33 centimetri; la copertina e la sovraccoperta anche, perché sono disponibili in azzurro, giallo, viola o verde, e sono gli Inchiostri su carta per Massimo in 4 colori firmati Daniel Buren. Dentro ci sono “tutti i testi che volevo salvare dall’oblio”, dai già-classici Pizzini a una selezione straordinaria di Comunicati stampa. Sì, Massimo Minini sa anche redigere strabilianti comunicati stampa, che sono perle di scrittura critica e creativa. Scusate se è poco.

Christian Caliandro – L’arte rotta Pagg. 270, € 13 Castelvecchi castelvecchieditore.comeinaudi.it

FEMMINISMO LIBRI PER SAPERE TUTTO

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Le strategie per negare la discriminazione di genere sono tutt’altro che defunte: non esiste, non esiste più... I sei recenti libri che vi consigliamo spaziano dall’excursus storico alla riflessione teorica. Mostrando come il femminismo permetta di affrontare i problemi più urgenti e scottanti che riguardano il pianeta.

Massimo Minini – Scritti Pagg. 414, € 30 Silvana Editoriale silvanaeditoriale.it

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La guerra è in Europa. Era successo appena 30 anni fa. Le immagini dell’assedio di Mariupol non possono non ricordare quelle di Sarajevo, circondata dall’Armata Popolare Jugoslava per oltre tre anni. Questo libro racconta l’eroica resistenza culturale della città bosniaca.

L’autore parte dal 1977, quando inaugura il Museo d’Arte Contemporanea di Teheran. Poi si concentra su 4 artisti che in Iran hanno deciso di restare: Moakhar, Golshiri, Hedayat e Tavakolian. Infine racconta il sistema dell’arte del Paese. Uno sguardo in presa diretta.

Caira & Cavigioli La resistenza oltre le armi Pagg. 130, € 12 Mimesis mimesisedizioni.it

Mohammadjavad Hosseinkhani Arte contemporanea in Iran Pagg. 208, € 15 Aracne aracneeditrice.it

Da Ildegarda di Bingen alle Guerrilla Girls, il talento critico e narrativo di Costantino D’Orazio al servizio del racconto di decine di artiste.

Italiane ma non solo, artiste ma anche polemiste e ballerine. Il racconto della battaglia per la libera espressione delle donne nel XX secolo.

Costantino D’Orazio Vite di artiste eccellenti Pagg. 270, € 18 Laterza, 2021 laterza.it

Claudia Salaris Donne d’avanguardia Pagg. 288, € 22 il Mulino, 2021 mulino.it


MARCO PETRONI [ teorico e critico del design ]

Il fiorentino Centro Di – Centro di Documentazione Internazionale sulle arti è stato fondato nel 1968 da Ferruccio e Alessandra Marchi; casa editrice e libreria, per due decenni è stato un attore fondamentale del sistema dell’arte nella sua declinazione editoriale. Con la direzione di Ginevra Marchi, dalla fine degli Anni Zero ha ripreso slancio. Merito in particolare del progetto XXI. Guide d’artista, curato da Alberto Salvadori e Giacomo Zaganelli. Il piano dell’opera prevede 20 guide di 20 Regioni affidate a 20 artisti; ognuna “condurrà o riporterà a una conoscenza del territorio italiano alternativa ai percorsi solitamente turistici”, dichiarava nel 2018 la stessa Marchi introducendo il primo volume, dedicato alla Toscana e realizzato da Zaganelli. L’anno seguente è stato il turno della Puglia con il leporello di Fabrizio Bellomo e ora, dopo la pausa pandemica, è appena uscito il Friuli Venezia Giulia con i magnifici disegni di Nicola Toffolini e gli interventi poetici di Eva Geatti.

Fantascienza e Antropocene

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Il 17 febbraio 1600 viene mandato al rogo Giordano Bruno. Il 17 febbraio 1907 James Joyce partecipa alla commemorazione. Il 17 febbraio 1977 Luciano Lama viene cacciato dalla Sapienza. Testi e disegni si intrecciano, ed epoche, in un libro indefinibile e affascinante.

Giornalisti e neuroscienziati, una fondazione che raccoglie pezzi rari e uno scacchista, naturalmente. Tutti riuniti, insieme anche a un fotografo, non per tentare di esaurire l’argomento scacchi, perché chiunque abbia contezza del “gioco” sa che è inesauribile. Un libro magnifico, come sempre quando a metterci la firma editoriale è FMR. Sulla scacchiera Pagg. 168, € 60 Franco Maria Ricci francomariaricci.com

Marco Malvestio – Raccontare la fine del mondo Nottetempo, Milano 2021 Pagg. 216, € 15 edizioninottetempo.it

La mostra alla Galleria Nazionale e il libro che l’accompagna sono un doveroso focus sull’altra metà dell’arte. All’ombra, anzi alla luce di Carla Lonzi, il cui archivio è stato acquisito dal museo.

Una panoramica ragionata dell’immagine della donna nella cultura (popolare) di questi ultimi decenni. Colto, curioso e militante.

Antropocene, ok. Ma siamo certi che il danno lo stia facendo il genere umano nel suo complesso? O invece quell’anthropos è maschio, bianco, eterosessuale...

Jude Ellison S. Doyle Il mostruoso femminile Pagg. 304, € 18 Tlon, 2021 tlon.it

Johanna Zylinska La fine dell’uomo Pagg. 108, € 11,70 Rogas, 2021 rogasedizioni.net

Nicola Toffolini – La regimazione di acque e cuccioli di drago Pagg. 192, € 35 Centro Di centrodi.itjohanandlevi.com

Terrinoni & Giacopini Fantasmi e ombre Pagg. 108, € 15 Luca Sossella mediaevo.com 9 studiose per 9 saggi che approfondiscono temi e protagoniste esplicitati nel titolo del libro. E poi le conversazioni con 13 artiste. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Sessanta Pagg. 180, € 21 Postmedia Books, 2021 postmediabooks.it

Io dico Io – I say I Pagg. 588, € 40 Silvana Editoriale, 2021 silvanaeditoriale.it

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L’immagine di Venezia sommersa, che si trasforma in località dove praticare snorkeling, apre un viaggio tra luoghi, brani, immagini e immaginari di un mondo dove il disastro è già in corso. “Viviamo già nel perimetro di un immaginario della catastrofe”, ci avverte Marco Malvestio in Raccontare la fine del mondo. Un ammonimento che si fa premessa e paradigma narrativo per rivelare il potenziale di conoscenza che la fantascienza ha come dispositivo di rappresentazione e svelamento del mondo reale. La letteratura fantascientifica, rivolgendo lo sguardo al futuro, in realtà si attiva, agisce nel presente dando vita a iperstizioni, a visioni di futuro che già agiscono nel presente. Un tempo, un’epoca che chiamiamo Antropocene, a sottolineare l’eccezionale e ineluttabile impronta che l’uomo ha prodotto sul pianeta. Uno dei più durevoli portati della crisi dell’immaginario moderno e contemporaneo è la scoperta del nucleare con la sua carica spaventosa, capace di mettere in questione agli occhi del mondo il ruolo della scienza e degli scienziati. Riportando un insieme composito di referenze cinematografiche, seriali e letterarie, Malvestio ci mostra come l’energia atomica e la costruzione di armamenti nucleari incarnino uno dei primi e inquietanti segnali della trasformazione della specie umana da semplice forza biologica in devastante agente geologico. L’autore ci mette di fronte alle storture del modo di vivere e di scegliere come abitare il pianeta: “È possibile sottrarsi alla catastrofe senza intervenire non sugli strumenti tecnologici ma sulle loro premesse culturali?”. L’Antropocene è anche l’era dei virus e la pandemia da Covid-19 ne è la manifestazione più evidente. È difficile raccontare la pandemia al di là dell’ossessione mediatica, perché ha un andamento non lineare che sfugge alla possibilità sistematica di narrare un decorso. Lo stiamo vivendo sulla nostra pelle da più di due anni: il virus si presenta e ripresenta in forme mutevoli e impreviste, acuendo la paura di contaminarsi. Un’ansia che sta dando forma a comportamenti e immaginari governati dal timore dell’altro, proiettandoci in un presente sempre più votato alla sopravvivenza a discapito della pienezza del vivere. Malvestio cerca di suggerire vie d’uscita da questo immaginario catastrofico che domina il nostro tempo, invitandoci a scoprire un’estetica complessa come l’Afrofuturismo. Uno spiraglio di ribaltamento del presente in un possibile futuro dove il continente africano è un luogo in cui si sviluppano innovativi e inclusivi rapporti con la tecnologia e l’ambiente. L’autore conclude il saggio affermando che “riflettere su Antropocene e fantascienza significa cercare di immaginare cos’è l’Antropocene e che cosa significa per noi: immaginare come finisce il mondo, se il mondo finisce; ma anche cambiarlo”.

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GUIDE D’ARTISTA

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1 Il teatro di Mariupol prima della distruzione

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2 Mary Rozzi per United Photographers for Ukraine

4 Il David di Firenze coperto da un drappo nero

5 To get there for Ukraine © Francesco Pistilli

LE INIZIATIVE DAL MONDO ITALIANO DELL’ARTE E DELLA CULTURA IN SUPPORTO DELL’UCRAINA GIULIA GIAUME LE INIZIATIVE DEL MINISTERO DELLA CULTURA SUPPORTATE DALLO STATO Sono due le proposte del ministro 1 della Cultura Dario Franceschini per portare supporto all’Ucraina: una è volta alla ricostruzione del teatro della città di Mariupol, demolito dai bombardamenti russi, mentre la seconda prevede la donazione di due milioni di euro da destinare a venti fondazioni culturali italiane per finanziare residenze rivolte ad artisti ucraini. GLI UNITED PHOTOGRAPHERS FOR UKRAINE DI PERIMETRO L’associazione Perimetro ha coin2 volto i principali volti della fotografia contemporanea italiana e internazionale perché donino una loro immagine a sostegno del progetto United Photographers for Ukraine. Questo – che ricalca l’iniziativa a favore della città di Bergamo colpita dalla pandemia, intrapresa dalla stessa Perimetro – andrà a fornire sostegno all’ospedale pediatrico di Kiev, oltre alla Croce Rossa Internazionale. 4ukraine.perimetro.eu

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LE FORME DI SUPPORTO SIMBOLICO Tra le forme di supporto simbolico 3 – oltre all’illuminazione dei luoghi della cultura con i colori della bandiera ucraina e all’allontanamento da teatri e musei di personaggi vicini al presidente russo Vladimir Putin – ricordiamo la scultura del David, in Piazza della Signoria a Firenze, coperta da un drappo nero; la campagna social del MIC La cultura unisce il mondo; il programma di lezioni della Triennale di Milano, Planeta Ukrain; la mostra del MAXXI di Roma Ukraine: Short Stories. Contemporary Artists from Ukraine (il cui ricavato è devoluto a UNHCR, UNICEF e Croce Rossa); le copertine d’autore come quella di Mimmo Paladino per il Corriere della Sera o le dieci copertine da collezione di Grazia a sostegno di Emergenza Ucraina della Fondazione Francesca Rava Italia Onlus. TO GET THERE FOR UKRAINE Il progetto To get there for Ukraine, 4 creato da 74 fotografi, donerà all’associazione non governativa Vostok-SOS – che fornisce protezione e supporto diretto in Ucraina – i ricavati della

vendita di stampe fotografiche d’autore. Ogni foto è stampata su carta certificata Hahnemühle Baryta in formato 20x30 ed è in vendita a 60 euro l’una sul sito dell’iniziativa fino al 31 marzo 2022. L’iniziativa è stata lanciata spontaneamente, con il supporto di Photolux Festival, Ardesia Project e Jest. LE RESIDENZE D’ARTISTA RACCOLTE DA ARTISTS AT RISK L’organizzazione non profit Arti5 sts at risk si è fatta carico di segnalare programmi di residenze emergenziali con premi, borse di studio e supporto finanziario, che includono quelle strutture in Lussemburgo, Olanda, Francia, Germania, Slovacchia, Lettonia, Svezia e Repubblica Ceca. L’associazione non tutela solo gli artisti ucraini ma anche i dissidenti russi e bielorussi e tutti coloro che, nel mondo, sono in pericolo a causa di conflitti. artistsatrisk.org


GESTIONALIA

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IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

ESSERE CULTUREMAKER

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Quanti di voi si sentono, sono, vorrebbero essere culturemaker? Parafrasando l’ultima uscita di Elena Granata – Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi, Torino 2021), un titolo che mette al centro i luoghi e le persone che li vivono, e i loro inventori – ne scaturisce una riflessione che pone l’accento sulla dimensione culturale di quei luoghi e di quelle persone. È la città, anzi le città, con i loro spazi più diversi (angoli, palestre, chiese, scuole, teatri, wunderkammer…), con tempi alla Bergson (“tutte città da un quarto d’ora?”), storie accadute (“il placemaker nasce nel medioevo”) e che accadono, a dare forma a un insieme di racconti, exempla come buone pratiche, ispirazioni nate da traspirazioni. In filigrana la cultura, nelle sue diverse e multiformi espressioni, traspare insieme all’istanza dominante del “re/ri”: rigenerazione-restituzione-relazione-ricucitura-reinvenzione e molto altro ancora. Sono (almeno) tre le riflessioni che tornano utili. Prima riflessione. Lo specialismo è un bene se gli specialisti sanno lavorare, agire, pensare anche come squadra e intelligenza collettiva, come “pensiero di rete”, come “società dell’apprendimento” per citare Joseph E. Stigliz e il suo imparare a conoscere. Dei “danni dello specialismo” (titolo di un paragrafo del testo di Granata) siamo più o meno tutti coscienti e ne abbiamo subìto le conseguenze: dal sistema educativo e della formazione fino a quello delle istituzioni culturali, ogni volta e laddove gli specialisti non hanno preso consapevolezza di essere parte di un insieme, quella tessera che percepisce la sua singularis historia mentre vede il mosaico che si sta componendo con le altre. È l’arte musiva, di composizione e ricomposizione, che fa la differenza nella governance e nello sviluppo delle organizzazioni, la capacità di ri-conoscere la dipendenza (sana, generativa, svelatrice) nei confronti degli altri e l’intima interconnessione che ci caratterizza come professionisti, operatori, inventori, imprenditori culturali, e come persone. È la nostra capacità di costruire un sapere a vasi comunicanti, fortemente radicato e ispirato dalla storia e dalle storie. Ma come si può essere realmente disruptive, parlare di innovazione, di tensione evolutiva senza conoscere le nostre radici? E questo vale ancor più immersi come siamo nelle nostre piattaforme digitali. Seconda riflessione. La sostenibilità non è piena e autentica se non è anche sostenibilità economica. Inutile dirsi

© Marjani per Artribune Magazine

È l’arte musiva, di composizione e ricomposizione, che fa la differenza nella governance e nello sviluppo delle organizzazioni. culturemaker se non sappiamo far quadrare i conti, se l’unica ed esclusiva contezza è quella del cahiers de doléances che i fondi non ci sono, non sono sufficienti, non sono tanti quanto… innescando una malsana competizione che fino a oggi si è rivelata spesso una “guerra tra poveri”, guerra di risorse finanziarie certo, ma anche guerra

di risorse umane, rimanendo inermi e inerti di fronte a uno dei fenomeni (e dei problemi) più seri: la retention dei talenti. Terza e ultima riflessione. Consideriamo la nostra semenza: con l’anniversario dantesco ormai alle spalle, tra le infinite straordinarie citazioni utili a noi abitanti del XXI secolo, scelgo quella del canto X del Purgatorio: “Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova”. E ancora una volta sono le nostre radici a svelarci come essere contemporanei, come essere culturemaker: Dante e il visibile parlare. Mentre lavoriamo, progettiamo e operiamo per le istituzioni culturali e le imprese creative, ricordiamoci che prima vi è un pensiero, che va accompagnato poi a quello che il sommo poeta definisce magistralmente il “visibile parlare”. Non il solo parlare e non il solo mostrare. Questa espressione ci ricorda che, mentre lavoriamo, progettiamo, operiamo, siamo chiamati ad abilitare nuove visioni.

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DURALEX

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RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

OPERE DELL'INGEGNO: LIMITI E CONDIZIONI PER CITARLE Nel settore del diritto d’autore e dei diritti connessi vige la regola generale secondo cui l’utilizzazione di opere e materiali protetti deve essere preventivamente autorizzata dai titolari dei diritti (d’autore e connessi), a meno che non ricorra uno dei casi di eccezioni e limitazioni. In un sistema così delineato la protezione del diritto d’autore e dei diritti connessi è necessaria per incentivare la creatività di autori e artisti interpreti ed esecutori, ma anche per consentire ai produttori di continuare a finanziare tali creazioni. Al contempo è però importante prevedere alcune eccezioni e limitazioni per raggiungere un equilibrio tra il diritto dei titolari a essere remunerati e l’interesse degli utilizzatori e della collettività alla circolazione e alla fruizione del patrimonio culturale. Tra le eccezioni e limitazioni ai diritti d’autore e connessi c’è la citazione, che in Italia è disciplinata dall’art. 70 della legge sul diritto d’autore. Tale norma stabilisce che il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; inoltre, se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l’utilizzo deve avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. La citazione, inoltre, deve essere sem-

pre accompagnata dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi degli autori, dell’editore e dell’eventuale traduttore. Questa norma è spesso soggetta a interpretazioni non corrette volte a estendere i confini delle utilizzazioni che non necessitano del consenso dei titolari dei diritti. In passato, per esempio, è stata invocata la citazione per giustificare la pubblicazione di un catalogo contenente le riproduzioni fotografiche di opere d’arte esposte in una mostra senza il preventivo consenso dell’autore. In relazione ai cataloghi delle mostre è ormai pacifico che la riproduzione fotografica di opere d’arte in queste pubblicazioni costituisce, fra gli altri, esercizio del diritto di riproduzione, che deve essere autorizzato dall’autore. Ciò anche alla luce del principio secondo cui essere proprietari di un’opera non significa anche avere i diritti di utilizzazione di quell’opera, poiché per legge la cessione di uno o più esemplari dell’opera

La riproduzione fotografica in scala rientra nel diritto di esclusiva dell’autore e deve essere autorizzata.

non comporta, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti. Sulla citazione si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione (08/02/2022, n. 4038), che ha chiarito quali sono le condizioni affinché la riproduzione di un’opera sia considerata citazione lecita e non violazione dei diritti d’autore. Il caso esaminato dalla Corte ha riguardato le opere dell’artista Mario Schifano e ha visto il coinvolgimento di diversi soggetti, tra cui l’Archivio M.S. e la Fondazione M.S. Multistudio. Uno dei fatti oggetto di contestazione – oltre all’uso improprio del nome dell’artista – era la riproduzione in scala di 24mila opere all’interno di un’opera in sei volumi, pubblicata dalla Fondazione e avente a oggetto la catalogazione informatica dei dati relativi ad alcune delle opere dell’artista presenti nell’archivio della Fondazione. La Corte ha chiarito che la riproduzione di un’opera d’arte, quando sia integrale e non limitata a particolari delle opere medesime, non costituisce una citazione, cioè una utilizzazione libera in base all’art. 70 della legge sul diritto d’autore. Inoltre, per aversi citazione la riproduzione parziale deve essere strumentale agli scopi di critica e discussione, oltre che al fine meramente illustrativo correlato ad attività di insegnamento e di ricerca scientifica dell’utilizzatore. Il nesso di strumentalità impone di verificare se la riproduzione, anche per l’estensione con cui è effettuata, non sia eccedente rispetto ai fini di critica, discussione e insegnamento. I frammenti riprodotti, poi, non devono porsi in concorrenza con l’utilizzazione economica dell’opera. In mancanza di tali condizioni anche la riproduzione fotografica in scala, così come qualsiasi altro tipo di moltiplicazione dell’opera, rientra nel diritto di esclusiva dell’autore e deve essere autorizzata, senza che possa essere invocato il diritto di citazione.

IL DISTRETTO DI SANTA MARIA NOVELLA A FIRENZE

Piazza della Stazione

Museo di Santa Maria Novella a

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Basilica di Santa Maria Novella

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Galleria Poggiali

Piazza Santa Maria Novella

Museo Novecento The 25th Hour Hotel

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HZERO Museo Marino Marini

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8-10 aprile 2022 www.un-fair.com

C/O SUPERSTUDIO MAXI VIA MONCUCCO 35 MILANO


FORTE DI BARD VALLE D’AOSTA 11 MARZO 5 GIUGNO 2022 Info fortedibard.it

Partner istituzionali

Partner tecnico

Media Partner

Catalogo


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VIAGGIO NELL’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE DI VENEZIA ARIANNA GANDOLFI [ media relations strategist ] MANIFATTURA TABACCHI Santa Croce Nata nel sestiere Cannaregio, la Manifattura Tabacchi fu presto trasferita a Santa Croce, dove c’erano gli spazi necessari per un significativo ampliamento della struttura, che fu costruita con chiari rimandi architettonici alle ville venete, come si può notare dal timpano che sovrasta il portone d’ingresso. Dopo il Regno d’Italia contava 1.741 dipendenti di cui 1.500 donne, conosciute con il nome di tabacchine: numericamente predominanti rispetto agli uomini, riuscirono a ottenere la riduzione dell’orario e il miglioramento delle condizioni lavorative. La Manifattura Tabacchi, chiusa dai Monopoli di Stato meno di vent’anni fa, oggi è oggetto di un’importante ristrutturazione che la vedrà ospitare la nuova Cittadella della Giustizia di Venezia.

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SANTA CROCE

COTONIFICIO VENEZIANO Dorsoduro

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Oggetto di numerose successioni e cambi 2 di proprietà, fu un punto di riferimento per tessitura, filatura e tintura. Il Novecento segnò per il Cotonificio Veneziano un ampliamento significativo, generato in particolar modo dalla necessità, durante la Seconda Guerra Mondiale, di produrre divise in filo di canapa, rayon e cotone. Prospero anche durante il boom economico, nel secondo dopoguerra divenne una realtà di secondaria importanza e chiuse negli Anni Settanta. Dopo un’importante ristrutturazione divenne una delle sedi dello IUAV e di numerosi dipartimenti dell’Università Ca’ Foscari.

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MOLINO STUCKY Giudecca Imponente e maestoso, è uno dei simboli più famosi della Venezia industriale del secolo scorso. Nacque grazie alla determinazione di Giovanni Stucky, imprenditore svizzero che – come molti altri colleghi – arrivò a Venezia cercando investitori. Impegnato nella molitura dei cereali e già proprietario di alcuni mulini in terraferma, decise che Venezia era perfetta per la sua crescita, in quanto le materie prime potevano arrivare via nave o attraverso la ferrovia. Entrando nell’edificio, oggi sede dell’Hotel Hilton, è possibile ammirare alcuni dettagli della fabbrica, come i magazzini, gli orologi, le strutture in ferro, così come ripercorrere tutta la storia fotografica dell’azienda, che si dedicò anche alla produzione di pasta. Simbolo del Molino Stucky è la torre silos usata per lo stoccaggio dei cerali. Il Molino passò di proprietà dopo la crisi del 1929.

CANNAREGIO

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DISTILLERIA PIZZOLOTTO Giudecca

FORTUNY Giudecca

Conosciuta come ex Pedavena Dreher, un tempo era la sede della distilleria Pizzolotto, specializzata in estratti e infusi: produceva un’ampia gamma di rosoli, sciroppi, rum e liquori per oltre 55 diversi tipi di prodotti. Oggi quest’area ospita studi d’artista e attività artigiane.

Tra la ex Dreher e il Mulino Stucky si trova una delle poche fabbriche ancora attive a Venezia e impegnate nella stampa su tessuto: la Fortuny. Fondata a inizio Novecento, dal 1988 è di proprietà della famiglia Riad.

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CANNAREGIO – BRILLANTINA E BEAUTY: LA LINETTI Venezia, Cannaregio, Zona Linetti

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FIAMMIFERI & CO.: SAFFA Cannaregio Saffa è l’acronimo di Società Anonima Fabbriche Fiammiferi e Affini, una delle più significative aziende dell’epoca per la produzione di fiammiferi, che venivano venduti sia in Italia che in Grecia, Turchia, Russia, Ungheria. Insediatasi qui a inizio Novecento rilevando una piccola azienda locale impegnata nella stessa attività, la Saffa ispirò i nomi delle calli della zona, tra le quali Calle del Camin e Calle del Solferin. Ci lavoravano quasi mille operai. Oggi la zona è residenziale.

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CASTELLO

Assai probabile che una percentuale elevatissima di voi lettori di Artribune Magazine trascorrerete qualche giorno a Venezia in occasione della Biennale Arte, diretta quest’anno da Cecilia Alemani (se scorrete le pagine del giornale, troverete una lunga intervista che abbiamo realizzato con lei). Dopo i Giardini e l’Arsenale, e le tante mostre e padiglioni sparsi per la città, potreste uscire dalle rotte dell’arte contemporanea e seguire questo inatteso fil rouge. O magari prendere parte a Venezia fra arte e paesaggio, l’itinerario di Artribune Travel che prenderà vita dal 20 al 23 maggio. Tutte le informazioni le trovate sul nostro sito.

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Quella che oggi è la sede della Regione Veneto un tempo ospitava la Fabbrica Linetti, storica azienda divenuta famosa per la sua brillantina grazie al Carosello. Prima situata in zona San Marco, con l’avvento della ferrovia si avvicinò alla stazione. Ci lavoravano 300 operai.

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EX FABBRICA HERION Giudecca Facilmente raggiungibile in traghetto, verde e piena di spazi liberi, nel Novecento la Giudecca divenne la meta ideale di molti imprenditori, come i fratelli Herion, che qui ampliarono la loro attività di maglieria sviluppatasi grazie all’importazione di pura lana dall’Argentina e dall’Australia. Nella zona non è più visibile alcun reperto di archeologia industriale, ma il chiostro della Chiesa dei Santi Cosmo e Damiano, attiguo ai locali della fabbrica, è diventato uno spazio dedicato all’artigianato e ospita piccole botteghe e laboratori. I fratelli Herion, che amavano investire anche in altri settori, intrapresero per anni la professione di agenti per la vendita di orologi da taschino Junghans e aprirono accanto alla loro azienda una sede produttiva che – dopo essersi specializzata nell’assemblaggio di pezzi provenienti dall’estero – finì per occuparsi interamente della produzione dei meccanismi. L’area, che si estendeva per oltre 2.000 metri quadrati, oggi ospita un teatro e vari complessi residenziali progettati da Cino Zucchi.

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FOTOGRAFA IL QR PER PRENOTARE IL TOUR CON ARTRIBUNE TRAVEL

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ART MUSIC

CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]

BOUND: IL CONCEPT ALBUM VISIVO DEGLI EARTHSET orcd.co/earthset_bound

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Earthset, frame da Bound © Elide Blind e Simone Tacconelli

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Fare un’operazione legata all’esperienza dei cine-concerti, ma con un percorso inverso rispetto a quello della sonorizzazione di un film: dal creare una colonna sonora per le immagini al creare una colonna visiva per la musica. È questa l’idea alla base di Bound, il nuovo disco del quartetto alternative rock bolognese Earthset, composto da Luigi Varanese, Costantino Mazzoccoli, Emanuele Orsini ed Ezio Romano, noto per aver firmato, in collaborazione con la Cineteca di Bologna, la soundtrack del primo film muto di fantascienza/horror prodotto in Italia: L’Uomo Meccanico. Uscito a marzo, Bound è un concept album esistenzialista, sul tema delle relazioni, umane e non, dove ogni canzone è collegata alla precedente e alla successiva, dove ogni brano ha il proprio video che va a comporre un’unica narrazione audiovisiva, dalle sonorità spesso evocative e malinconiche, squarciate da improvvise impennate noise e dodecafoniche. “Non dei semplici videoclip, ma undici video-ritratti, uno per ogni canzone del disco, che visti nell’ordine della tracklist andranno a comporre un’unitaria narrazione dell’album”, precisa la band, che ha coinvolto due artisti visivi di Bologna, Elide Blind e Simone Tacconelli, anche nella creazione delle foto, delle copertine dei singoli e del progetto grafico del supporto fisico del disco: un progetto multidisciplinare, fatto di musica, letteratura, fotografia, performance live e arti visive. “Il legame che si è deciso di trattare è quello che si manifesta attraverso l’atto del ricordare”, raccontano i due artisti. “La rievocazione di una memoria è una relazione che persiste anche dopo l’assenza, la mancanza, la morte”. Per farlo hanno utilizzato il piano-sequenza e un’estetica rétro, ispirata alle avanguardie cinematografiche degli Anni Venti (in particolare Man Ray), ma anche a David Lynch, realizzando “immagini statiche che nel loro fluire raccontano di un’unica emozione attraverso diversi simboli. Non stupisce che sbattendo le ciglia alla fine di ciascun brano, un televisore possa diventare un’alba in riva al mare, oppure un sasso nel fiume, una pillola in un bicchiere”. Il risultato è un po’ alla Bill Viola, dove la camera fissa raggiunge vette di sublime poesia nel dare impercettibile movimento al suono di The Stranger’s Eye, il secondo singolo: “Mi son perso nell’occhio dell’estraneo, ho sentito il tepore di quella vista sconosciuta, e ora son qui seduto coi miei pensieri, cullato dal dubbio… riusciremo mai a sopravvivere a questi giorni di aprile?”.

Moda: chi sostituirà Virgil Abloh alla guida di Louis Vuitton? ALDO PREMOLI L La sfilata dello scorso gennaio a Miami è stata l’ultima tra quelle progettate da Virgil Abloh per Louis Vuitton. Da quando Abloh, a soli 41 anni, si è spento lo scorso 28 novembre, nessuna comunicazione è stata diffusa sulla persona con cui LVMH intende sostituirlo. In un primo tempo (forse) per segno di rispetto. Ma a meno di tre mesi dalla ripresa delle sfilate uomo la cosa pare rivelare l’impasse, mentre le congetture si fanno più insistenti. Non è tanto il nome del successore di Abloh a essere davvero importante, quanto il criterio con cui verrà scelto. Sostituire un personaggio carismatico come Abloh non è semplice. Ma se la logica sarà quella di scegliere un designer moda di talento, LVMH potrebbe già averlo in casa. C’è Jonathan Anderson, che ha rianimato Loewe. Nigo è un’altra possibilità: proprio Abloh lo aveva indicato poco prima di mancare per il ruolo di direttore artistico di Kenzo. Fuori casa (ma è difficile dire di no a un brand come Vuitton) ci sono Ronnie Fieg, che ha fondato Kith, e Chitose Abe, l’allieva di Rei Kawakubo fondatrice di Sacai. Outsider sotto osservazione potrebbero essere la britannica Grace Wales Bonner, Jerry Lorenzo di Fear of God e Samuel Ross di A Cold Wall, oltre al fondatore di Casablanca Charaf Tajer. E se il successore di un disruptor come Abloh fosse invece un creativo esterno al modo della moda? Anche questa è un’ipotesi e non priva di senso, almeno per due ragioni. La prima è che il successo di Abloh deriva dall’essere stato un personaggio poco definibile in termini tradizionali, un manipolatore di sogni e di segni più che un couturier in senso classico; la sua eredità calza poco con quello che potrebbe fare da Vuitton un “sarto” ancorché geniale. L’ottimo Nicolas Ghesquière è il direttore artistico del brand per l’abbigliamento femminile dal 2013 e il suo contratto è stato rinnovato nel 2018. Lo scorso 7 marzo il suo ultimo show tenutosi all’interno del Musée d’Orsay è stato un’esibizione di potenza (da parte di LVMH) e di grande talento (da parte di Ghesquière). Tuttavia non a lui, ma proprio ad Abloh, era stata affidato il ruolo di supervisore dell’intera sezione Moda e pelletteria di LVMH. La seconda ragione dunque balza agli occhi guardando ai numeri più che alle forme di cui è capace il brand. Louis Vuitton ha un fatturato che nel 2021 ha raggiunto i 64,2 miliardi di euro. Circa il 27% delle vendite totali di LVMH. La sua divisione Moda e pelletteria è cresciuta del 57% nei primi nove mesi del 2021. Vuitton da solo rappresenta il 58% delle vendite e l’80% dei suoi profitti. Che sono in aumento del 42% rispetto al 2019 e del 47% rispetto al 2020. Sono stati Asia e Stati Uniti i principali motori di crescita: rispettivamente del 40% e 30% nel quarto trimestre del 2021 rispetto al quarto trimestre del 2019. L’Europa? Conta molto meno: qui le vendite sono aumentate dell’1% nel quarto trimestre rispetto allo stesso periodo del 2019. La Russia? Di nessun peso critico. Il più potente gruppo finanziario della moda (150mila dipendenti diretti il cui patron, Bernard Arnault, appartiene al gruppo dei cinque uomini più ricchi al modo) opererà una scelta dettata dalla logica tradizionale che vede la sostituzione di un designer come un movimento su una scacchiera data? O sarà in grado di elaborare una strategia inedita? louisvuitton.com


SERIAL VIEWER

GIULIA PEZZOLI [ registrar e curatrice ]

VIALE DEL TRAMONTO IN SALSA ARGENTINA

È la storia di una delle redazioni più influenti degli Stati Uniti, improvvisamente travolta dallo scandalo di uno dei suoi giornalisti di punta, il co-conduttore, accusato da un’ex collaboratrice di comportamenti sessuali scorretti. Ciò avviene mentre il Paese è al centro del vortice del movimento #MeToo, con rivelazioni, teste importanti che cadono, arresti, processi. E naturalmente cade anche la testa incriminata, eppure non è sufficiente. Viene fuori infatti che la proprietà ha da sempre saputo e ignorato, così come i colleghi. Le vittime non sono state difese, le loro richieste non sono state ascoltate e, se il movimento #MeToo non avesse smosso le coscienze in tal senso, le cose sarebbero sempre andate così, in nome di questioni di potere, ricatti, semplice cameratismo maschile, paternalismo e volontà di rimettere al proprio posto chi non la pensa allo stesso modo e “rompe le scatole”, in questo caso le donne. Un sistema corrotto dove la paga non chi sbaglia ma chi ne subisce le conseguenze. La redazione affronta, complice anche la presenza fresca di una nuova giornalista, un processo autocritico interno ed esterno per riconquistare la serenità del gruppo di lavoro, la reputazione e l’affezione degli ascoltatori, non senza molti ostacoli: l’opinione pubblica, gli intrighi interni tra colleghi, la volontà della proprietà di mettere a tacere il tutto e di dimenticare senza affrontare il trauma. Non mancano i colpi di scena, né un racconto splendido e inquietante, forse tra i pochissimi finora usciti dal mondo delle serie tv, della pandemia, fra Italia e resto del mondo, ripercorrendone l’intera storia fin dai primi giorni, né ancora una disamina intelligentissima sul tema del politically correct e delle sue luci e ombre. The Morning Show è disponibile su Apple TV+, starring Jennifer Aniston, Reese Whiterspoon, Steve Carell, Billy Crudup, Valeria Golino. La terza stagione è in produzione. Da non perdere.

Mara Ordaz, nota stella del cinema dell’epoca d’oro, vive in una villa isolata nella campagna madrilena con il marito (ex attore pure lui) e con il regista e lo sceneggiatore dei suoi più grandi successi. Ormai dimenticati da pubblico e critica e serenamente rassegnati all’isolamento, i quattro anziani artisti trascorrono le giornate tra drammi emotivi e problemi economici, ma il loro delicato equilibrio viene improvvisamente messo a rischio dall’arrivo di due giovani agenti immobiliari interessati all’acquisto dell’immobile e disposti a tutto pur di “liberarlo” dalla presenza dei suoi inquilini. A dieci anni dal bellissimo e pluripremiato Il segreto dei suoi occhi, Juan José Campanella presenta al pubblico una black comedy meravigliosamente confezionata, una miscela perfetta di humour, thriller e pungenti riflessioni sulla Settima Arte. Remake della pellicola del 1976 Los muchachos de antes no usaban arsénico, del prolifico regista argentino José A. Martínez Suárez, La casa delle stelle (El cuento de las comadrejas) può vantare una sceneggiatura praticamente perfetta e performance attoriali magistrali. Dramma, commedia e suspense si incontrano in un prodotto dal carattere fortemente metacinematografico, grazie al quale Campanella rende omaggio a questa complessa arte presentando, con sguardo ironico e divertito, cliché e idiosincrasie dei suoi numerosi e fondamentali protagonisti. Oltre alla magnifica Graciela Borges (icona del cinema argentino degli Anni Sessanta), la cui interpretazione di Mara Ordaz richiama per intensità e movenze la Norma Desmond del Viale del Tramonto, il film si avvale del talento di volti noti del mondo dello spettacolo, come quello di Oscar Martínez o di Marcos Mundstock, che interpretano rispettivamente un regista e uno sceneggiatore felicemente ritirati dalle luci della ribalta. Accanto a loro, tra passeggiate, pittura en plein air e partite a biliardo, l’anziano e malato Pedro (Luis Brandoni), attore in pensione vissuto sempre all’ombra dell’ingombrante e talentuosa moglie/diva. Campanella, con grande maestria, riesce a dare alla pellicola un ritmo serrato senza affrettare i tempi, svela i suoi personaggi tra le pieghe di battute taglienti e riflessioni filosofiche, lasciando intravedere i misteri e i segreti inconfessabili che circondano la casa e regalando al pubblico un finale stupefacente.

USA, 2019 – in produzione GENERE: drammatico CAST: Jennifer Aniston, Reese Whiterspoon, Steve Carell, Billy Crudup, Valeria Golino STAGIONI: 2 EPISODI: 20 (50’-66’ ognuno)

ARGENTINA – SPAGNA, 2019 REGIA: Juan José Campanella GENERE: commedia, dramma, thriller SCENEGGIATURA: Juan José Campanella, Darren Kloomok CAST: Graciela Borges, Oscar Martínez, Luis Brandoni, Marcos Mundstock, Clara Lago DURATA: 129’

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SCANDALO IN REDAZIONE

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

LIP – LOST IN PROJECTON

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gia g a i V con ! e n u b i r Art I nostri contenuti si trasformano in esperienze reali Un palinsesto di viaggi e itinerari inediti trasformano gli articoli e le scoperte quotidiane di Artribune in esperienze sul territorio, per entrare nel vivo della cultura affiancati dagli esperti della nostra squadra.

2022 20 – 23 MAGGIO

Venezia fra arte e paesaggio 14 - 17 LUGLIO PER LE PRENOTAZIONI

Procida: identità, eredità e prospettiva 15 – 18 SETTEMBRE

Roma futura 31 OTTOBRE – 03 NOVEMBRE

Torino Moderna 08 – 11 DICEMBRE

Bolzano Contemporanea 2023 16 – 19 MARZO

Rimini tra nuova urbanistica e nuovi musei 27 APRILE – 01 MAGGIO

Street Art tra Taranto e Bari

www.artribune.com/artribune-travel


I TEATRI Peculiare è l’articolato circuito dei teatri cittadini, che si snodano lungo i secoli, dall’antico Teatro Romano (I sec. a.C.) agli ottocenteschi Teatro Ventidio Basso e Teatro dei Filarmonici, fino a strutture moderne come il Teatro Montevecchi, tutti partecipi di una fitta programmazione culturale, tra prosa, lirica, danza e concerti.

I PONTI I ponti scandiscono la visita della città: al Ponte Romano, che collega il centro con il quartiere Porta Cappuccina, segue, in direzione di Porta Maggiore, il Ponte di Cecco, oggetto di suggestive leggende, edificato nel I secolo a.C. sul fiume Castellano: il suo aspetto attuale è frutto di una ricostruzione filologica del 1960, dopo la distruzione subita nel 1944.

LE ISCRIZIONI Si parla di “travertino parlante” nel ricostruire i fili di una prassi molto in voga tra Umanesimo e Rinascimento, che alla metà del Quattrocento riempì le architravi di diverse dimore di motti e proverbi incisi nella pietra: pillole di saggezza popolare espresse in volgare o in latino, massime talvolta sagaci e irriverenti, rimaste impresse nella storia della città

Ascoli Piceno. La citt del travertino parlante

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LE PIAZZE La scenografica piazza del Popolo è un salotto cittadino che porta memoria del fervore progettuale del Rinascimento, con il porticato elegante che la circonda su tre lati. Proseguendo nell’esplorazione si attraversano altre piazze simboliche come piazza dell’Arengo e piazza delle Erbe, la cui toponomastica segnala l’antica funzione.

Marche

Grottammare

Ponte Romano

Ripatransone Piceno

Monte Vettore

Offida

Ascoli Piceno

Umbria

Teatro dei Filarmonici

Abruzzo

Piazza delle Erbe

Piazza del Popolo Teatro Romano Piazza Arrigo

Ponte di Cecco

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Teatro Ventidio Basso

Teatro Montevecchi

Il centro storico di Ascoli ha mantenuto un’intimità fatta di antichi tracciati, oggi rinvigoriti da un bel fermento culturale. Ma è nel rapporto con il territorio del Piceno che la dimensione turistica della città si esalta. IL MONTE VETTORE Vetta più alta delle Marche, con i suoi 2.476 metri di altitudine, dalla cima del Monte Vettore si gode di una vista che spazia dal Conero alla Maiella. Siamo nel cuore del Parco dei Monti Sibillini, duramente colpito dal sisma del 2016, ma tornato a mostrarsi in tutta la sua vitalità. sibillini.net

LE TRADIZIONI DI OFFIDA Sulle colline del Piceno che guardano il mare, il borgo medievale di Offida è epicentro del fermento enologico del Piceno (la Docg di riferimento è il Pecorino), ma anche custode della tradizione del merletto a tombolo, lavorazione tramandata dal Quattrocento, che in passato diede vita a una vera e propria scuola. ilmerlettodioffida.it

GROTTAMMARE Quel che colpisce, girovagando tra i vicoli dell’abitato storico di Grottammare, è l’affastellamento di case e l’innumerevole quantità di scorci che inquadrano il mare. Sul litorale, d’estate, i turisti affollano le spiagge della Riviera delle Palme; ma nel nucleo medievale, arroccato sul Monte Castello, si respira la storia di un borgo antichissimo.

LE CANTINE DI RIPATRANSONE Nota con l’appellativo di Belvedere del Piceno, Ripatransone è uno scrigno di edifici rinascimentali e barocchi (ma l’attrazione più celebre è il vicolo più stretto d’Italia, largo solo 43 cm). Attorno si irradia la campagna delle eccellenze vinicole, punteggiata di cantine dedite all’ospitalità, per scoprire le Doc Falerio dei Colli Ascolani e Rosso Piceno Superiore.

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Maelee Lee: Genesis Curated by Dr. Thalia Vrachopoulos

19.04 > 28.06.2022 Galleria San Polo Ruga Vecchia S. Giovanni San Polo 387 - Venice Visiting hours: Tuesday- Sunday h. 11am-6pm (Mon closed) Opening: 19th April h. 6pm leemaelee.works


IX PREMIO FONDAZIONE

12 MARZO / 22 MAGGIO 2022

Luca Azzurro Renata e Cristina Cosi Silvia Inselvini KEM L’orMa Enrico Minguzzi Sebastiano Raimondo Dario Tironi Valeria Vaccaro Paolo Baratella

STADTGALERIE KIEL Andreas-Gayk-Straße 31 Kiel - Germany stadtgalerie-kiel.de fondazione-vaf.it

Consultate il nostro sito web per conoscere le prossime date delle mostre in Italia


L OSSERVATORIO CURATORI L

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Il visual essay di Giuliana Benassi DARIO MOALLI [ critico d’arte ]

Gli "osservatorî" ideati da Dario Moalli su curatori e spazi non profit si sono trasformati, dallo scorso numero di Artribune Magazine, in quattro pagine di visual essay redatti dai protagonisti di volta in volta interpellati.

ACCONTI DI IERI. Quando frequentavo il liceo scientifico, il professore di matematica rimaneva sempre spiazzato dal modo bizzarro in cui affrontavo lo studio delle funzioni. Commentava spesso: “Ma lei scenderebbe mai da un treno in corsa?”. Evidentemente il mio esercizio era errato, però in fondo a me interessava proprio quel cambiamento di traiettoria improvvisa, quel salto nel vuoto in luoghi ignoti. Fuori dalla metafora, il mio percorso si è ben presto indirizzato verso la storia dell’arte, prima all’università tra Urbino e Pisa, rispettivamente arte moderna e medievale. La frustrazione di essere rinchiusa in un archivio immaginando di conversare con gli artisti del passato mi fece di nuovo prendere un’altra strada: quella viva dell’arte contemporanea. Da qui la vita è ricominciata ancora una volta, a Roma, città che ha segnato dal 2010 la mia visione curatoriale: l’incontro con gli artisti, la magia dei luoghi. La mia pratica curatoriale si è perciò mossa mettendosi in ascolto degli artisti che nel tempo sono i compagni di strada, partecipando nel dialogo alle loro visioni, con lo scopo di mettere in scena gli approdi di ciascuno in luoghi non convenzionali per attivare un dialogo fra arte, spazio e pubblico nel segno del fare: fare artistico, fare esperienza. Nel 2014 è nato il progetto nomade, itinerante, There Is No Place Like Home, che simbolicamente incarna il contenitore più estremo di sperimentazione perché le mostre si svolgono sempre in luoghi diversi, per poco tempo e aperte h24, con l’idea di attivare lo spazio e chiamare gli artisti a realizzare opere site-specific o pensate per interpretare la poesia del luogo, di giorno e di notte. Roma è stata la prima fonte d’ispirazione perché regala luoghi immaginifici e felliniani d’eccezione. Altre occasioni espositive si sono sviluppate in altre città come Venezia e Torino e altri progetti tra Londra, in

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BIO Giuliana Benassi (Forlì, 1984) vive a Roma. Curatrice indipendente e storica dell’arte. Si è laureata in Storia dell’Arte presso l’Università di Pisa. Pone al centro delle sue ricerche il rapporto tra opera d’arte e luogo espositivo, con una particolare attenzione al concetto di site-specific. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma, dal 2020 presso l’Istituto Pantheon di Roma-Milano. È art advisor presso l’American Academy in Rome. È co-fondatrice e direttrice del progetto There Is No Place Like Home, con il quale ha ricevuto il Premio Artribune per l’Arte Contemporanea nel 2017. Per il quotidiano il Manifesto cura ALT – Rubrica d’arte contemporanea. Dal 2014 è curatrice della residenza artistica Ritratto a mano. Ha collaborato con diverse istituzioni e associazioni tra le quali: Tang Contemporary Hong Kong, Museo Laboratorio della Mente, Istituto Svizzero, Post Ex, artQ13 Roma, Fondazione Lac o Le Mon Lecce, MAMbo Bologna, Follemente Festival Teramo, Istituto Italiano di Cultura Londra. Ha curato libri per le case editrici NERO, Viaindustriae e Palombi. Photo © Giuliano Del Gatto

alcune località d’Abruzzo, la mia regione d’origine, Cluj e Hong Kong, in collaborazione con diverse realtà, istituzionali e non. Molti i progetti attivati con realtà artistiche indipendenti, oltre a There Is No Place Like Home, anche Limone, artq13, Post ex. RACCONTI DI OGGI (ROMA 2021-2022). In via del Mandrione, all’interno di uno spazio ex fabbrica del Chinotto Neri, già palestra di pugilato, quaranta artisti hanno esposto le loro opere, raccontando le loro visioni più profonde. Un grande edificio lungo e stretto tra le due linee di tensione dell’acquedotto romano e della ferrovia, metafora di Roma, ma in generale di un momento storico carico di contraddizioni e compreso tra la velocità del cambiamento e la lentezza del ritmo temporale, tra la percezione della catastrofe e il guizzo di una rinascita costruttiva. La scia del progetto è

una strada di sperimentazione: qui gli artisti hanno la possibilità di esprimersi nello spazio, attivando un’operazione site-specific ancorata radicalmente al luogo. Poi in tre b&b nel centro di Roma, il progetto Post-Turismo in collaborazione con Post ex. Un’altra sfida che gli artisti hanno accolto per leggere questo momento pandemico nei luoghi di assenza, risalendo la china tra ironia, magia e spleen. Ma i veri protagonisti sono gli artisti, a loro la voce, insieme ai luoghi, attraverso opere site-specific nel visual essay.


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JOSE' ANGELINO

There is no place like home, Torino

2018 GABRIELE SILLI

Martello-Fiore, Roma

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2017

ph Federico Tribbioli

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2019 LULU' NUTI GIROLAMO MARRI

Mirabilia Urbis, artq13, Roma

ph.Giorgio Benni, Enrico Fontolan

2020 MASTICO

Appunti notturni, Roma

Pezzo di carne attaccato all’osso. Lo divorava con devozione e voracità accertandosi che non fossero rimasti brandelli di grasso tra le insenature del midollo. Per far ciò sfruttava quegli attimi fugaci di bagliore dei fari delle auto in corsa. Era seduto tra il cassonetto e il marciapiede. Quel tanto che bastava per avere un appoggio per la schiena stanca. Aveva il volto nudo. Incurante del virus, incurante della vita. Dalla finestra il triangolo allungato di luce del lampione tagliava a metà la fine della via. Oltre il buio potevo immaginare, se fosse stato giorno, il trenino giallo rallentare: fermata Torpignattara. I marciapiedi erano soli, la città era sola, lui anche era solo. Se mi fossi sporta di più avrei potuto vedere altre ombre? Certamente sarei caduta spiattelandomi tra le crepe vertiginose del marciapiede. Sola davanti al computer. Avrei dovuto scrivere l’ennesimo progetto di mostra per il prossimo anno. Una mostra chiusa, vietata dal primo starnuto di stagione. Ma no, era meglio buttare tutto nel cestino e non pensarci più. Ancora no. Valeva la pena scrivere con la stessa tenacia con cui lui mangiava il pezzo di carne; valeva la pena aggredire l’arte come quegli ultimi brandelli di carne attaccati all’osso. Mentre il mondo sanguina. Da quella notte, pensai, l’arte non poteva più esistere se non per saltare giù dalla finestra e rotolarsi per la strada. Per bucare l’asfalto. Per infilarsi nelle feritoie della città, tra il marciapiede e il cassonetto.


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GABRIELE SILLI LUCA GRIMALDI FEDERICA DI CARLO There is no place like home/rome, Roma

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ph Eleonora Cerri Pecorella

2022 JONIDA PRIFTI (ACCHIAPPASHPIRT) CALIXTO RAMIREZ/ GENUARDI RUTA

ELENA BELLANTONI

Post-Turismo, Post ex, Roma ph Ludovica Anzaldi, Amalia Di Lanno

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IL FUTURO DEI MUSEI È NEI DEPOSITI LIVIA MONTAGNOLI [ storica dell’arte ]

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© Marjani per Artribune Magazine

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he si tratti del cuore, del cervello, del polmone (e dunque del respiro) di un museo, o di tutte queste cose insieme, il deposito è sempre più al centro della riflessione sul futuro della museologia. E anzi, da qualche decennio a questa parte – pur con colpevole ritardo dal punto di vista di chi ne sostiene la funzione strategica e propulsiva nel ciclo vitale degli istituti museali – il dibattito sulla gestione e il ruolo dei depositi ha concretizzato la teoria della conservazione preventiva di cui si nutre la moderna museologia. Nelle grandi istituzioni museali, del resto, l’esposizione permanente rappresenta solo una piccola porzione di una riserva invisibile, che arriva a coprire spesso il 90-95% del patrimonio custodito. Questo è vero in tutto il mondo, innanzitutto per limiti strutturali – tanto più in Italia, dove gran parte dei musei sorge in edifici storici e cerca di mettere a frutto spazi preesistenti, spesso vincolati – che non consentono l’esposizione dell’intera collezione. Problema, questo, mitigato in parte con le rotazioni periodiche messe in atto per rispondere a un’esigenza primaria e fortunatamente sempre più diffusa: rendere i depositi museali luoghi vivi di formazione e di cultura. Storicamente, ancorché troppo spesso mal organizzati (un sondaggio ICCROM 2011, che ha raccolto le risposte di 1.490 musei in 136 Paesi, riportava dati preoccupanti, col 52% dei depositi riempiti oltre la capacità, il 46% dei musei senza un regolamento preciso per la gestione del deposito, il 49% senza personale adeguatamente formato, il 42% sprovvisto di attrezzature adeguate), i depositi hanno sempre svolto quella che è la funzione principale del museo: la conservazione. Ma, fatte salve le opere che per particolari fragilità necessitano di cautele speciali, la questione, oggi, è poter illuminare un patrimonio escluso dall’attività di valorizzazione di cui il museo dovrebbe farsi promotore nel dialogare con la collettività, ribadendo la sua funzione sociale, nel senso più pieno della missione culturale. Oggi, soluzioni più che convincenti – con punte avveniristiche – per dirimere la questione coinvolgono un numero crescente di istituti, che affrontano il problema adottando strategie condivise o strutturando progetti ad hoc centrati sulla gestione e fruizione dei depositi. Gli studi sull’utilizzo (ricerca, attività educative, memoria, identità, creatività) delle collezioni – inteso sia come accesso sia come impiego intellettuale del patrimonio – sono fioriti soprattutto in ambito anglosassone, ma si stanno diffondendo globalmente. Lavorando bene su un deposito (ricordando che il mantenimento di collezioni ingenti riveste anche costi esorbitanti), un museo può presentarsi come istituzione più trasparente e più dinamica.

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Da refugium peccatorum ad autentico motore del museo: com’è cambiato il ruolo del deposito nel corso dei secoli? Facciamo il punto della situazione sull’onda del successo riscosso dall’esempio olandese. Ma anche in Italia le best practice non mancano.

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MUSEI E DEPOSITI: UN PO’ DI STORIA

Prima di passare in rassegna l’attualità per tracciare le prospettive future, è utile riallacciare i fili con l’evoluzione storica dei musei, e dunque dei loro depositi. Il museo moderno si configura per la prima volta nella seconda metà del Settecento (siamo al British Museum, fondato nel 1759), su impulso del clima illuminato del XVIII secolo, quando la sua missione principale doveva essere l’educazione della società sulla storia e l’identità culturale della propria nazione. La volontà di conservare, dunque, è alla base della nascita dei musei, e a questa esigenza rispondono sin dall’inizio anche i depositi, che però, all’epoca, risentono delle finalità educative del progetto museale: fino alla metà del Novecento, nei “magazzini” vengono relegate sia le opere d’arte che non rispecchiano il valore educativo e morale sia quelle rifiutate dal potere (l’esempio più lampante, in tal senso, ci riporta al periodo della Rivoluzione francese, quando al Musée des Monuments viene portata l’arte ecclesiastica del Medioevo, per raggruppare le opere appartenenti al patrimonio monarchico ed ecclesiastico, mettendo all’indice la produzione dei secoli bui). Al contempo, col fiorire dei grandi musei, nel XIX secolo si pone per la prima volta un problema di spazi: le politiche colonialiste portano a un aumento smisurato delle collezioni, che saturano i depositi, non più adeguati allo scopo. Succede, per esempio, a Berlino, dopo la proclamazione dell’impero tedesco nel 1871. Qui, una figura come Wilhelm Bode si rende protagonista di una imponente campagna di acquisizioni e inizia a ragionare su un criterio di distribuzione delle collezioni più simile a quello odierno: le opere d’arte più celebri saranno esposte al pubblico, quelle che rivestono principalmente un interesse scientifico finiranno in deposito, organizzate per scuole, a uso e consumo degli studiosi. Eco di questa impostazione si ritrova in Francia nel 1930 nei Cahiers de la République de Lettres, de Sciences et des Arts: i capolavori nel percorso museale, i depositi riservati soltanto agli specialisti. Negli stessi anni si inizia a profilare con forza l’inadeguatezza dell’impianto classico del museo, ormai più che congestionato. Se ne discuterà, nel 1934, a Madrid, al primo incontro internazionale di museografia. In questa occasione, lo storico dell’arte Louis Hautecoeur, conservatore dei Musei Nazionali Francesi, proporrà le prime linee guida sull’organizzazione di un deposito. Sono le premesse per lo sviluppo della museologia, disciplina che riflette “sul museo e sulle sue collezioni, sulla storia degli oggetti e sul riflesso che questa storia nascosta deve avere nella loro esposizione e nei vari processi di comunicazione al pubblico”. Nel mezzo, le devastazioni dei conflitti mondiali impongono di sottolineare come i depositi possano

DEPOSITI MUSEALI NEL MONDO: I PIÙ CURIOSI, ORIGINALI E CORPOSI

SAAM LUCE FOUNDATION CENTER WASHINGTON

GLASGOW MUSEUMS RESOURCE CENTRE GLASGOW

LARCO MUSEUM LIMA

BRITISH MUSEUM LONDRA

È un ottimo progetto di visible storage quello dello Smithsonian American Art Museum. Oltre 3mila opere sono disposte nella Great Hall in stile vittoriano. americanart.si.edu

Polo di conservazione di arte precolombiana, custodisce i tesori del Perù. Dalla sua fondazione, nel 1926, apre i suoi depositi al pubblico: si cammina tra più di 30mila oggetti antichi in ceramica di grande pregio manifatturiero. museolarco.org

Esempio di deposito centralizzato, raggruppa raccolte che spaziano in qualsiasi ambito (dalle belle arti ai reperti naturalistici ai mezzi di trasporto). Al suo interno sono proposti tour guidati di diverse tipologie, dai behind-the-scenetour, che offrono uno sguardo sulle attività quotidiane del centro di ricerca, alle visite in lingua dei segni e per ciechi. glasgowlife.org.uk

Il più visitato tra i musei londinesi espone solo 80mila degli 8 milioni di oggetti nella sua collezione. Il 99% del patrimonio museale è dunque conservato in deposito. britishmuseum.org

VICTORIA AND ALBERT MUSEUM LONDRA

La collezione include circa 4 milioni di oggetti. Il museo, già all’avanguardia nel predisporre soluzioni di visible e open storage, nel 2024 inaugurerà una avveniristica Storehouse. vam.ac.uk

LOUVRE-LENS LIÉVIN

Compie dieci anni nel 2022 la sede satellite del Louvre, progettata nell’area di un sito minerario dismesso. Dal 2019 un nuovo edificio progettato da Rogers Stirk Harbour + Partners accoglie il Louvre Conservation Center, che ospita 250mila opere in arrivo dai depositi della casa madre. louvrelens.fr


L’antico palazzo imperiale conserva quasi 2 milioni di oggetti di interesse storico-artistico. I suoi depositi, attualmente in fase di ampliamento, si articolano ora anche sotto al palazzo, riorganizzati secondo criteri di allestimento tematici.

GALLERIE D’ITALIA MILANO

Nella sede di un’ex banca, il deposito assume le sembianze di un vero e proprio caveau, progettato dall’architetto Luca Beltrami, che conserva circa 500 opere della collezione di Intesa Sanpaolo, visibili su prenotazione. gallerieditalia.com

Nel caveau sotterraneo della Calcoteca, con condizioni microclimatiche monitorate in modo costante, trovano posto le 24mila matrici metalliche in carico all’Istituto, eredità della Calcografia Nazionale. Si tratta della raccolta più consistente e rappresentativa di questo genere al mondo, dal Cinquecento ai giorni nostri grafica.beniculturali.it

MANN NAPOLI

Migliaia sono gli oggetti antichi (molti provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano) conservati negli storici depositi del sottotetto chiusi da enormi grate di sicurezza (che sono valse l’appellativo di Sing Sing: ne parliamo anche nell’inserto Grandi Mostre), tra sculture in bronzo, candelabri, lucerne, vasellame. Alla statuaria è dedicata la sezione apposita delle Cavaiole. mann-napoli.it

PERCHÉ UN DEPOSITO DEV’ESSERE ACCESSIBILE

L’ultima svolta, quella che ci riporta al presente, data agli Anni Settanta, quando si profila l’esigenza di rendere il pubblico partecipe della vita del museo, informandolo innanzitutto su ciò che viene conservato al suo interno. Come concepire la fruizione dei depositi museali conciliando le loro molteplici funzioni, cioè la priorità accordata a chi in deposito fa studio e ricerca – perché non esisterebbero le esposizioni permanenti senza il grande lavoro di ricerca condotto in deposito – con la volontà di coinvolgere attivamente il grande pubblico? Nel 1976, il museo etnografico della British Columbia University di Vancouver progetta il primo deposito completamente accessibile ai visitatori. E sempre l’America, negli Anni Ottanta, si rivela il terreno più fertile per esperienze analoghe. Fin dalle origini, infatti, il museo americano manifesta un orientamento al pubblico molto più marcato rispetto a quello europeo. Attorno alle classiche funzioni di conservazione ed esposizione degli oggetti artistici, si apre una gamma di altre funzioni che evidenzia la priorità della missione didattica. E i depositi ne sono motore. A Washington, non a caso, si tiene la prima conferenza ICOM dedicata ai depositi museali, da cui discende un testo di riferimento come Museum Collection Storage (1979) di Verner Johnson e Horgan: se fino a quel momento ci si era concentrati sulla finalità conservativa dei depositi (si veda la conferenza Unesco del 1968), nella capitale degli Stati Uniti si inizia a parlare anche di accessibilità.

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ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA ROMA

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CITTÀ PROIBITA BEIJING

rivelarsi essenziali nella salvaguardia del patrimonio (funzione, questa, purtroppo sempre attuale, come dimostra il conflitto in Ucraina). Anche l’esperienza traumatica della guerra sarà propedeutica alla nascita di una nuova coscienza che indirizza la missione museale verso il miglioramento della gestione dei depositi, all’epoca rivelatisi spesso inadeguati a proteggere le opere. Nel 1953 viene pubblicato un rapporto che sancisce le condizioni essenziali per il ripristino dei musei italiani, redatto dall’allora direttore generale delle Antichità e delle Belle Arti, Guglielmo de Angelis. Tra i punti fondamentali del rapporto emergono: la necessità di costruire depositi funzionali per attutire l’accumulo di oggetti, l’importanza di creare spazi da adibire a laboratori di restauro e sale di studio.

VISIBLE & OPEN STORAGE

MARTA TARANTO

I depositi del MarTa custodiscono reperti più che sufficienti ad allestire molti musei, compresi ricchi corredi funebri in arrivo da necropoli urbane. museotaranto.beniculturali.it

Le opzioni più perseguite, in origine, sono quelle dei visible o degli open storage. Nel primo caso, il deposito è integrato nel percorso museale attraverso una oculata progettazione degli spazi. Emblematici sono i visible storage fondati dalla Henry Luce Foundation in quattro grandi istituzioni statunitensi: il Metropolitan Museum of Art

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PUÒ ESISTERE UN MUSEO SENZA MOSTRE? Le mostre d’arte sono un prodotto che, senza dubbio, continua ad attrarre numerosi visitatori al punto che, spesso, per quei musei non superstar, i visitatori delle mostre rappresentano una quota importante dei visitatori totali. Questa evidenza, negli ultimi anni, ha portato a un progressivo incremento delle mostre ospitate o prodotte dai musei, allertando talvolta alcuni interpreti ortodossi della cultura che hanno sentito l’esigenza di sottolineare come il ricorso eccessivo alle mostre possa trasformare il museo in un eventificio. Eppure, dal punto di vista culturale, la mostra è un momento di analisi e approfondimento scientifico di estrema rilevanza per la trasformazione di un patrimonio in nuova conoscenza. Attraverso l’indagine critica e la curatela, le mostre espongono ai visitatori chiavi di lettura che rievocano il valore contemporaneo di tutta la storia dell’arte.

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L’ESEMPIO DEL DEPOT BOIJMANS A ROTTERDAM

Mettere in mostra le opere è divenuto un elemento importante in moltissime strategie di diffusione culturale adottate dai musei, a iniziare dai casi internazionali come il Depot Boijmans a Rotterdam, che di fatto trasforma il magazzino in un luogo deputato È oggi possibile un alla fruizione, scevra da museo senza mostre? qualsivoglia lettura critica, Alla luce di queste ma disposta esclusivariflessioni, no. È anzi più mente su esigenze tecniche probabile che esistano (le opere sono suddivise sulla base delle esigenze di mostre senza musei. tutela delle stesse, come temperatura, livello di umidità dell’aria ecc.). Per certi versi, in fondo, si potrebbe affermare che la mostra sta al museo come il museo al deposito.

IL CONCETTO DI FRUIZIONE OGGI

Ovviamente ci sono delle grandi differenze nei criteri curatoriali e scientifici da adottare per allestire una collezione permanente e quelli invece da adottare per la produzione di una mostra, ma il fenomeno delle mostre da un lato, e quello delle aperture dei depositi dall’altro, riflettono un fenomeno culturale che va ben oltre la mera dimensione artistica e si inscrivono all’interno di uno scenario che riguarda l’intero concetto di fruizione nella nostra epoca contemporanea. Sono incarnazione e metafora del database (deposito) e della playlist (mostra), dell’accessibilità totale (open-data) e della necessità di selezione e analisi dei dati (infografiche), dei cataloghi senza fine (Maps, Netflix, Amazon) e della necessità di sintesi (Tripadvisor, le serie più belle del 2021, gli articoli di tendenza). È oggi possibile un museo senza mostre? Alla luce di queste riflessioni, no. È anzi più probabile che esistano mostre senza musei. STEFANO MONTI

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Terre degli Uffizi. Mostra su Dante al Castello Guidi di Poppi nell'ambito del progetto Uffizi Diffusi

nel 1988, la New York Historical Society nel 2000, il Brooklyn Museum nel 2005 e lo Smithsonian American Art Museum nel 2006. In Europa, invece, l’esempio precoce è quello del Victoria and Albert Museum di Londra. Il progetto viene realizzato nel 2010 dall’Opera Amsterdam Architects al sesto piano della sede storica del museo: le vetrine sono organizzate per consentire la fruizione di un’ampia collezione di ceramiche, ma il sistema non ostacola l’intervento di conservatori e studiosi. Anche la Francia dice la sua: il Musée du quai Branly di Parigi, progettato nel 2006 da Jean Nouvel, ospita la collezione etnografica di arte e cultura autoctona di Africa, Asia, Oceania e America. In una scenografica torre di vetro, alta 27 metri e divisa in sei livelli, sono esposti con la formula del visible storage 10mila strumenti musicali della collezione etnomusicologica. L’open storage segnala invece l’apertura di un deposito preesistente – che molto spesso coincide con quello storico – al pubblico. In Italia la Galleria Borghese di Roma è stata una delle prime istituzioni ad agire in tal


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ragionare di deposito-museo (quando la collezione conservata in deposito confluisce in un nuovo museo, con l’obiettivo di renderla fruibile) e di collection center (prendendo spunto dai depositi centralizzati sviluppati nel Nord Europa, come quello progettato in Danimarca secondo i canoni dell’architettura ecosostenibile nel 2003, a Vejle, che riunisce le opere di ben 16 musei. In Italia l’idea è stata utile per realizzare nel 2012 un deposito d’emergenza post terremoto nel Palazzo Ducale di Sassuolo, in Emilia), applicando al contempo le nuove tecnologie alla sfida della divulgazione delle collezioni non esposte, fruibili anche online grazie alla digitalizzazione del patrimonio (un esempio di open storage digitale è quello avviato, nel 2021, dalla Collezione Maramotti, con la pubblicazione su YouTube e social di una serie di video dedicati a opere conservate nell’archivio della collezione).

LA RIVOLUZIONE DEL DEPOT DI ROTTERDAM

Il progetto 100 opere tornano a casa trasferisce temporaneamente le opere conservate nei depositi di grandi istituzioni museali in piccoli musei di aree interne.

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senso, distinguendosi per la peculiarità del deposito collocato al terzo piano del museo, allestito come una seconda pinacoteca, quasi fosse un prolungamento della collezione permanente. I visitatori, previa prenotazione, possono essere accompagnati da una guida alla scoperta di questa ricchissima quadreria. Al modello dell’open storage aderisce sin dalla sua fondazione anche il MUDEC di Milano, che nasce proprio con l’obiettivo di accogliere e rendere accessibili le nutrite collezioni raccolte nel corso del Novecento nei depositi del Castello Sforzesco. A sua volta, il Museo delle Culture dispone di un deposito progettato appositamente affinché il pubblico possa visitarlo: collocato al piano terra dell’edificio, è organizzato con diversi dispositivi – contenitori, armadi, cassettiere e griglie – e ordinato secondo i criteri geografico-culturali e tipologico-stilistici. Si accede con una guida, in piccoli gruppi, per un tour che dura poco meno di un’ora (al termine viene richiesto anche un parere sulla visita, attraverso un questionario anonimo). Solo nel XXI secolo, inoltre, si è iniziato a

Il caso più eclatante di deposito-museo, che ha prepotentemente acceso i riflettori sul tema, è il Depot Boijmans inaugurato a Rotterdam nell’autunno 2021, risultato spettacolare – a firma MVRDV – di un lavoro avviato anni fa per l’urgenza di trasferire il deposito del museo Boijmans Van Beuningen – che espone soltanto il 7% delle opere dell’intera collezione – in un luogo sicuro, a seguito dell’inondazione che lo colpì nel 1999. Frutto di un sistema di finanziamento che vede collaborare pubblico e privato, il “contenitore” si presenta come un’imponente struttura riflettente, coronata da una terrazza giardino. Gli spazi, adeguatamente attrezzati per non confliggere con la primaria funzione conservativa, sono stati modulati per offrire un’ampia gamma di servizi al visitatore: il percorso consente una visione totale delle collezioni, attraverso i tre piani che alternano laboratori di restauro e spazi espositivi; i dipinti sono esibiti su rastrelliere, i disegni, le stampe e le fotografie, che non possono essere esposti a lungo, sono conservati in sale chiuse al pubblico, ma è possibile fare richiesta per vederli. Le opere sono disposte secondo la tipologia e le esigenze climatiche, piuttosto che per epoca o movimento artistico, e questo modifica l’approccio di chi guarda, stavolta nella posizione di interrogarsi concretamente sulla funzione scientifica e conservativa di un museo. Al piano principale si trovano anche la caffetteria e i servizi per il pubblico, mentre in terrazza, dove spicca il giardino delle sculture, si arriva per ammirare la città dall’alto e per godere della cucina del giovane chef Jim de Jong, al ristorante Renilde. A tutto questo si aggiunge un servizio offerto ai collezionisti privati, che al Depot possono trovare ospitalità per le proprie opere. Un precedente potrebbe essere individuato nel Centre de Conservation du Louvre di Liévin, inaugurato nel 2016 in

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LE PRINCIPALI NORME CHE REGOLANO LA GESTIONE DEI DEPOSITI MUSEALI IN ITALIA

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DM 10 MAGGIO 2001 Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei. Al punto VI si tratta della gestione e cura delle collezioni: la fruizione dei depositi da parte del pubblico è limitata alla consultazione, che deve comunque essere garantita e regolata. RIFORMA FRANCESCHINI, 2014 La riforma affronta anche la questione dei depositi, spostando l’area di competenza dalle soprintendenze ai musei stessi. Inoltre, dà nuova importanza ai "depositi" dei musei statali, incrementa l’attenzione sui beni a deposito e rafforza il legame tra queste e le altre attività del museo.

Dal deposito della Galleria Borghese, Roma. Photo IF Experience © Galleria Borghese

prossimità del Louvre Lens e progettato da SANAA come sede distaccata (con laboratorio di restauro visitabile e depositi parzialmente accessibili) del museo parigino, essa stessa concepita per riallocare la sconfinata collezione del Louvre. Il Centre de Conservation, invece, dovrà accogliere le opere di una sessantina di depositi del circuito del Louvre, stimate in 250mila oggetti: l’operazione è ancora in corso e terminerà, probabilmente, solo nel 2025. L’anno precedente, invece, dovrebbe inaugurare la V&A East Storehouse progettata a Londra da Diller Scofidio + Renfro, questa sì molto vicina, nell’approccio alle collezioni museali e nei servizi offerti al visitatore, al Depot di Rotterdam. Il nuovo edificio di Here East, nell’area del parco olimpico del 2012, renderà accessibili al pubblico 250mila oggetti, 350mila libri e mille archivi in arrivo dai depositi del Victoria and Albert Museum, qui sistemati in ambienti adibiti alla conservazione, per preservarli e per consentire ai visitatori di scoprire da vicino le dinamiche che regolano un museo dietro le quinte.

DEPOSITI MUSEALI. LA SITUAZIONE IN ITALIA

In Italia, i musei nascono in gran parte all’interno delle mura dei palazzi storici e non in edifici appositamente progettati.

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Il caso più eclatante di deposito-museo, che ha prepotentemente acceso i riflettori sul tema, è il Depot Boijmans di Rotterdam. Questo vincolo ha sempre procurato non pochi problemi, specie davanti all’aumentare indiscriminato delle collezioni (ricordando che in Italia l’art. 54 del Codice dei Beni Culturali prevede l’inalienabilità dei beni, inibendo lo strumento del deaccessioning, diffuso nel mondo anglosassone), con la difficoltà di adibire e organizzare depositi funzionali. Di fronte alla priorità di stabilizzare la funzione conservativa, l’attenzione si è concentrata sull’importanza di rendere fruibili i depositi con molto ritardo, negli ultimi vent’anni, e la strategia più utilizzata per rendere accessibile il maggior numero di opere possibile è stata (ed è) quella della rotazione. Nel 2019, nella Matera Capitale europea della cultura, la giornata di studi L’essenziale è invisibile agli occhi, organizza-

DM 21 FEBBRAIO 2018 Adozione dei livelli minimi uniformi di qualità per i musei e i luoghi della cultura di appartenenza pubblica e attivazione del sistema museale nazionale.

ta da ICOM, ha posto l’attenzione sulle potenzialità dei depositi museali, “tra cura e ricerca”. Passaggio fondamentale dell’incontro è la definizione dei depositi come “risorse invisibili, nodi cruciali della prassi museale attuale, occasioni per operare in una logica multidisciplinare, spazi di studio e ricerca e presidi di tutela attiva e luoghi di inserimento occupazionale delle professionalità museali”. Recependo questi stimoli, varie esperienze messe in campo negli ultimissimi anni fanno guardare positivamente al futuro. È il caso della Gallerie degli Uffizi, che conserva in deposito l’80% delle sue collezioni. L’apertura di nuove sale nell’autunno 2021 ha consentito di ampliare l’esposizione permanente e presto si provvederà a riallestire la collezione di autoritratti attualmente visitabile solo su appuntamento. Ma è l’operazione Uffizi Diffusi l’iniziativa più lungimirante, fortemente voluta dal direttore Eike Schmidt, strenuo sostenitore della necessità di dislocare sul territorio le opere finora chiuse nei depositi, allestendo nuove sedi museali regionali che diano respiro ad aree escluse dai circuiti turistici. Punta di diamante del progetto sarà il recupero della medicea Villa dell’Ambrogiana di Montelupo Fiorentino per farne un centro espositivo delle opere in arrivo dai depositi degli Uffizi, in un contesto di grande pregio storico-artistico (a 24


DEPOTS IN NUMBERS

Sviluppato e promosso a livello internazionale da ICCROM (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property) e Unesco, il metodo Re-Org è stato approntato nel 2011 con l’obiettivo di fornire linee guida per la riorganizzazione dei depositi museali condivise a livello internazionale, al fine di migliorare la conservazione dei beni e promuoverne la valorizzazione. Il metodo è messo a disposizione di tutti i musei attraverso un manuale online (a cura di Simon Lambert e a Gaël de Guichen) scaricabile gratuitamente, centrato sulla necessità di creare condizioni ambientali e organizzative ottimali per una doppia finalità: da un lato, consentire la conservazione preventiva dei beni, dall’altro creare le condizioni ideali per la fruizione delle opere in deposito. Re-Org è stato sperimentato per la prima volta in Canada ed è già stato applicato in circa 150 musei nel mondo. La carta vincente di Re-Org è il fatto di non comportare modifiche strutturali, né assunzione di nuovo personale, ricordando però che i soggetti ideali individuati per sperimentarlo sono le realtà di piccola-media dimensione (con collezioni che non superano i 10mila oggetti). E l’Italia, che conta moltissime piccole istituzioni museali, potrebbe costituire un campo di applicazione ideale. Ma il condizionale è d’obbligo perché finora, nella Penisola, sono poche le realtà che hanno sposato il progetto. La prima sperimentazione di un certo rilievo ha preso forma nell’ultimo anno in Emilia Romagna, coinvolgendo i musei civici di Modena e di Cento (FE). iccrom.org

la percentuale di opere esposte sul totale del patrimonio conservato nei grandi musei del mondo

95%

gli oggetti museali nel mondo conservati in deposito (considerando un totale di 55mila musei)

60% degli spazi adibiti a deposito (su un campione di 136 musei analizzati, ultimo dato raccolto nel 2011) sono ancora insufficienti o inadeguati dal punto di vista della sicurezza e della conservazione

1 museo su 2 nel mondo non ha spazio a sufficienza in deposito

1934

1956 1968 1976 2011

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1 museo su 4 nel mondo ha un sistema di documentazione delle opere in deposito incompleto

la prima volta in cui si parla in un convegno ufficiale di depositi museali (conferenza Lega delle Nazioni riunita a Madrid) anno di fondazione dell’ICCROM l’Unesco dedica un capitolo ai depositi nella pubblicazione sulla Conservazione del patrimonio culturale Prima conferenza dell’ICOM sul tema dei depositi museali Battesimo del metodo Re-Org 3 minuti: tempo necessario per individuare e recuperare un oggetto in un deposito gestito secondo le linee guida di Re-Org

L STORIES L DEPOSITI L

milioni di euro ammonta il finanziamento condiviso in parti uguali dal MiC e dalla Regione Toscana, tre-quattro anni saranno necessari per completare il progetto). Work in progress anche al MANN di Napoli, i cui storici depositi nel sottotetto – ribattezzati negli Anni Settanta Sing Sing per la peculiare conformazione strutturale – sono stati recentemente “illuminati” dal progetto fotografico di Luigi Spina. L’idea del direttore Paolo Giulierini è quella di trasformarli in una sezione visitabile del museo. Ma ci si muove anche a livello amministrativo. Alle finalità del progetto comunale varato a Pordenone su impulso dell’assessore alla Cultura Alberto Parigi – per recuperare il patrimonio nascosto nei depositi dei Musei Civici, con un programma di mostre cittadine – risponde su scala nazionale il progetto 100 opere tornano a casa, che vede il Ministero della Cultura collaborare con Rai Documentari. L’iniziativa ha preso le mosse a dicembre 2021 e prevede di trasferire temporaneamente le opere conservate nei depositi di grandi istituzioni museali in piccoli musei di aree interne, così da renderle visibili al pubblico e al contempo favorire nuove economie di territorio. Partecipano 14 istituti tra i più importanti d’Italia e 28 – per cominciare – sono i piccoli musei coinvolti, con l’opportunità di creare “nuovi percorsi attrattivi e itinerari turistici”, come auspicato dal ministro Dario Franceschini. Nel ripensare la centralità dei loro depositi, dunque, i musei d’Italia e di tutto il mondo si mettono in discussione: aprirsi alla comunità, specie dopo le chiusure forzate indotte dalla pandemia, sembra oggi ancora più vitale per disegnare il futuro del settore.

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ORGANIZZARE UN DEPOSITO: IL METODO RE-ORG

42mila

i soci (musei) affiliati a ICOM

136

i musei aderenti all’ICCROM

145

i musei nel mondo che già applicano il metodo Re-Org

20%

la superficie minima da destinare ai depositi nel complesso di una struttura museale nella corretta gestione di un museo 2 il numero massimo di oggetti da spostare per recuperare un’opera in deposito secondo le linee guida di Re-Org

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LA FUNZIONE DEL DEPOSITO. 4 DIRETTORI A CONFRONTO

Nella gestione e nella vita di un

risorsa o più un limite? Perché? Qual è la strategia migliore per far

Mi l

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3 vivere un deposito museale?

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Negli ultimi anni avete adottato delle soluzioni che vanno nella direzione di facilitare l’accesso e la fruizione delle opere conservate in deposito?

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MARINA PUGLIESE direttrice MUDEC (Milano) mudec.it

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Lavorare su soluzioni di open storage è fattibile con le risorse economiche e gli spazi a disposizione?

7

I vostri depositi sono fruibili a distanza, magari grazie alla digitalizzazione?

sta? C’è un programma di rotazione almeno parziale fra opere esposte e opere in deposito?

2 museo oggi, il deposito è più una

o an

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Con quale criterio un’opera resta

4 in deposito anziché essere espo-

Al MUDEC abbiamo circa 8.500 oggetti in deposito e 500 esposti. Molti musei etnografici come il MUDEC, in virtù della varietà del patrimonio che custodiscono, hanno depositi visitabili, facendo dunque dello storage una risorsa complementare al percorso espositivo.

Sin dall’apertura del MUDEC, nel 2015, abbiamo pensato alle collezioni e al deposito visitabile in termini di complementarietà, attivando delle visite guidate del deposito con tagli e racconti specifici (ad esempio improntate sulle questioni conservative).

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po

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FRANCESCA CAPPELLETTI

direttrice GALLERIA BORGHESE (Roma) galleriaborghese.beniculturali.it

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2

Renderlo almeno parzialmente fruibile, creando visite speciali che diano ai visitatori la possibilità di accedere a un “dietro le quinte” della vita del museo. Certamente, le opere ruotano sia attraverso i nuovi percorsi delle collezioni, sia attraverso le occasioni espositive di approfondimento. Del resto, in generale ma per i musei delle culture del mondo in particolar modo, il superamento di una narrazione univoca ed eurocentrica comporta la necessità di sperimentare letture diverse delle collezioni.

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Che patrimonio conservano i vostri depositi museali in rapporto all’intera collezione?

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I depositi della Galleria Borghese contengono circa duecento pezzi, che non trovano posto nelle sale o che sono “in osservazione” per motivi di studio, conservazione, restauro. I depositi sono senz’altro una risorsa: il nostro è organizzato come una quadreria, le opere sono tutte a vista… È un luogo fantastico, di osservazione ravvicinata e di contatto per esempio con le opere di piccole dimensioni, che sono conservate all’interno di vetrine. Il miglior modo è di passarci tempo per studiare e di aprirlo, quando possibile, al pubblico. Ultimamente abbiamo varato il progetto Alla Galleria Borghese i quadri scendono le scale, che prevede l’esposizione al pubblico, in una sala della Pinacoteca, di dipinti tratti dal deposito. Li abbiamo alternati finora tre volte, ogni tre settimane. Anche i quadri di dimensioni più grandi ogni tanto vengono alternati nelle sale, in modo che tutti possano essere visti dal pubblico con regolarità.

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Prima del Covid c’era la possibilità di prenotare visite guidate e certamente la ripristineremo appena possibile.

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È certamente più facile se, come nel caso del MUDEC, l’open storage viene concepito quando si progetta l’architettura museale, in quanto vanno considerati molti fattori quali gli accessi e la sicurezza.

6

Sì, abbiamo formulato un progetto di rinnovamento e accessibilità dei depositi, che avrà luogo nei prossimi anni e che certamente cambierà la maniera in cui potranno essere visitati.

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No, stiamo lavorando alla digitalizzazione del patrimonio e quindi all’accessibilità online delle singole opere, ma non credo sia opportuno rendere i depositi fruibili a distanza, per questioni di sicurezza.

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Siamo stati fra i primi musei a proporre una conoscenza online dei depositi, con riprese al loro interno e con la divulgazione delle principali attività che ospitano.


EIKE SCHMIDT direttore UFFIZI (Firenze)

PAOLO GIULIERINI direttore MANN (Napoli)

uffizi.it

mann-napoli.it

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Nell’Ottocento c’era la moda delle gallerie secondarie, a distinguere i capolavori di una presunta serie A dalle opere di serie B, all’epoca davvero poco valorizzate dall’allestimento. Tutto questo oggi è superato, ma sono convinto che sia importante studiare ogni soluzione per mostrare il patrimonio in deposito. Dunque ricorriamo innanzitutto alla rotazione, penso alle opere tessili, come gli arazzi, e alla collezione di autoritratti che presto inaugureremo nell’edificio principale. Ma credo molto anche nello strumento dell’allestimento dislocato: l’abbiamo concretizzato – e continueremo a farlo – con il progetto Uffizi Diffusi. L’idea è quella di esporre opere finora inaccessibili in luoghi più vicini a dove le persone vivono e lavorano. Tra le strategie a monte, però, non bisogna dimenticare il restauro: spesso le opere d’arte dei depositi non sono subito disponibili, dunque non basta avere un luogo sicuro dove esporle. C’è da considerare innanzitutto la peculiarità di alcuni oggetti: il nostro nucleo di 180mila tra disegni e stampe non potrà mai essere esposto in maniera continuativa, dunque ruota ogni cinque anni. In linea generale, per la maggior parte delle opere in deposito non è ipotizzabile una strategia oggettiva di esposizione. È fondamentale sviluppare programmi di ricerca sulla propria collezione, perché il museo non è preposto solo alla tutela: la ricerca, nei musei, è il motore della scoperta. Attinge dai depositi e al tempo stesso contribuisce a valorizzarne le opere. Come nell’archeologia lo scavo dev’essere un processo scientifico, lo stesso vale per lo scavo metaforico nei depositi, che deve essere guidato da principi scientifici. In parallelo bisogna fare ricerca archivistica. Da queste azioni discendono operazioni di restauro e mostre ed esposizioni temporanee. A volte anche cifre che sembrano imponenti possono rivelarsi più che giustificate, mentre nel reperire gli spazi ci si può muovere con intelligenza, anche in funzione del recupero di strutture inutilizzate. Dunque, se pensiamo a un progetto come il Depot di Rotterdam, parliamo di spese di realizzazione e mantenimento enormi, difficilmente emulabili. Ma calandoci nel nostro contesto, prendo l’esempio del progetto più costoso che stiamo seguendo: il recupero della Villa dell’Ambrogiana di Montelupo, la più grande villa medicea tra tutte, immersa nel paesaggio, con accesso diretto dall’Arno. Per restaurarla sono stati stanziati 12 milioni di euro dal MiC, cui si aggiungono i 12 milioni di finanziamento della Regione Toscana. Potrà ospitare più di mille opere d’arte in arrivo dai depositi degli Uffizi, in una posizione strategica tra i due aeroporti di Firenze e Pisa, non distante da Livorno, in un’area che dunque beneficerà di nuovi flussi turistici, con ricadute positive sull’economia del territorio. Ecco come costi che sembrano esorbitanti si rivelano “irrisori” al cospetto di investimenti che non scendono sotto al mezzo miliardo per gran parte dei musei costruiti ex novo negli ultimi dieci anni.

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Il complesso dei depositi, ripartito tra oggetti di vita quotidiana, statue, affreschi, ceramiche e monete, rappresenta circa il 70% dell’intero patrimonio. Si tratta di una risorsa. Dobbiamo però uscire dall’idea superficiale di esporre tutto. In primo luogo per evitare l’effetto dell’infinita ripetitività che distoglie l’attenzione; inoltre perché, se correttamente allestiti, i depositi diventano un luogo formidabile di studio, ricerca, ma anche visita periodica del pubblico. Da questi nuclei possono generarsi inoltre infinite mostre, tante quante ne produce l’Archeologico a Napoli, in Italia e nel mondo. Anzitutto censirlo e controllarlo digitalmente; di seguito ordinarlo, renderlo accessibile, sicuro, gradevole anche sotto il profilo grafico. Condividere i dati in piattaforme aperte (escludendo i dati sensibili) è poi il modo più efficace per connettersi con tutto il mondo, generando infinite possibilità di studio e valorizzazione. Oltre alle mostre degli oggetti si possono però creare esposizioni artistiche, come di recente abbiamo fatto con una personale di Luigi Spina dedicata a Sing Sing, il nostro deposito più noto. Normalmente l’opera resta in deposito, fatta salva la disponibilità di spazi, quando è una replica che non aggiunge altro agli oggetti già esposti. Nel nostro caso abbiamo, ad esempio, migliaia di recipienti in terracotta o bronzo provenienti da Pompei che sarebbero illeggibili se ammassati in una esposizione. A meno che non volessimo, all’inverso, puntare sul tema della ricchezza e del numero. Questa scelta l’abbiamo fatta, ad esempio, per la costituenda sezione delle oreficerie: ma con i gioielli è un altro mondo. Le opere comunque ruotano ciclicamente tramite mostre interne, prestiti singoli e mostre organizzate dal MANN in tutto il mondo.

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Stiamo da tempo lavorando a un programma di digitalizzazione completa delle opere, studio dei corretti parametri di conservazione, riordino dei materiali anche con corrette protezioni antisismiche. I nostri interlocutori sono di primo livello: musei olandesi, americani, giapponesi, il Dipartimento di Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli per la prevenzione in caso di terremoto.

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Certamente sì. Però bisogna prima conoscere a fondo e proteggere ciò che si offre al pubblico. Operazioni spot periodiche hanno poco senso.

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Mi viene da pensare al progetto MANN in Colours che presto fornirà un database sul mondo del colore delle statue (sia esposte che non). L’Europa tramite i fondi PON e il PNRR sta investendo molto su questo patrimonio. Entro il 2022 avremo 200mila schede online dei nostri materiali. Non sarà più un problema di metri quadri, perché nel web non c’è problema di spazio e sorveglianza e lì i musei possono crescere a dismisura.

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Tra mobili, quadri e statue, sicuramente parliamo di una quota superiore all’80%: meno del 20% delle nostre collezioni è esposto, anche se negli ultimi anni abbiamo ampliato il numero grazie alle nuove sale, e continueremo a farlo nei prossimi mesi e anni sia agli Uffizi che a Palazzo Pitti.

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Già dagli Anni Novanta la sovrintendenza di Firenze ha sviluppato un progetto di digitalizzazione, che ci vede partecipare con le nostre collezioni. Sul sito degli Uffizi sono disponibili oltre 600mila foto e schede delle nostre opere.

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A CHE PUNTO SIAMO CON LA RESTITUZIONE DELLE OPERE D’ARTE ALLE EX COLONIE? ALESSANDRO LEONE [ giornalista ]

Il dibattito sulla restituzione di reperti e opere d’arte trafugate nelle ex colonie dei Paesi europei e occidentali è uno dei nodi principali della museologia contemporanea. E proprio per questo non è di facile soluzione. L’Italia, poi, ha una posizione ancora più atipica: di carnefice, sia nei confronti di alcuni Paesi africani che delle famiglie ebree a cui furono sottratti i beni durante il nazifascismo; di vittima, quale terra di conquista per spregiudicati archeologi e collezionisti nel passato più o meno recente. Cerchiamo di fare il punto della situazione.

I

bronzi del Benin sono conosciuti universalmente come simbolo di pregiata fattura artistica. Il complesso di oltre mille placche e sculture metalliche adornava il palazzo reale del Regno Edo, oggi nel sud della Nigeria, prima di essere depredato dall’impero inglese. Correva l’anno 1897 e le ambizioni coloniali britanniche in Africa si stavano espandendo. I soldati osarono entrare nel Benin durante una solenne cerimonia religiosa, un agguato che costò la vita alla maggior parte di loro. La risposta di Londra non si fece attendere: una spedizione punitiva mise a ferro e fuoco Benin City, trasformando in bottino di guerra i famosi bronzi, che intrapresero il loro viaggio verso circa cinquanta musei europei e nordamericani. Negli ultimi anni, però, qualcosa sta cambiando e i bronzi hanno cominciato a tornare lentamente a casa, dove verranno accolti nel nuovo museo Edo. Nel 2014, un

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consulente medico britannico in pensione, Mark Walker, ha restituito due sculture rubate da suo nonno durante l’assedio del 1897. Poi è stato il turno dell’Università di Aberdeen, in Scozia, che aveva acquistato una testa di Oba, il sovrano del Benin, e del Jesus College dell’Università di Cambridge, che aveva ricevuto in dono dal padre di uno studente nel 1905 un gallo di bronzo. Anche la Germania, una delle principali destinazioni delle opere, ha chiesto ai musei un elenco dettagliato per restituire tutti i bronzi arrivati attraverso il commercio d’arte. Non sempre è così facile stabilire l’origine degli oggetti, se siano stati saccheggiati oppure acquistati legalmente, soprattutto in un contesto di dominio come quello coloniale. Il tema della restituzione delle opere d’arte giunte nei Paesi europei durante quel periodo è all’ordine del giorno e i musei si dividono principalmente in due blocchi: chi, come il British Museum o l’Humboldt Forum di

Berlino, crede nell’idea del museo universale e nel ruolo degli artefatti come testimoni di un passato sanguinario; chi, come il Museo Africa di Tervuren (Belgio), accetta che le opere abbiano bisogno del loro contesto originario per essere pienamente comprese.

REPARATION MOVEMENT

La morte di George Floyd per mano di un poliziotto statunitense nel maggio del 2020 e le successive proteste del movimento Black Lives Matter hanno ravvivato il dibattito. I manifestanti si sono scagliati contro alcuni simboli emblematici della disparità razziale e sociale, come le statue di Leopoldo II in Belgio, che aveva fatto del Congo il suo possedimento personale, o Hans Sloane a Londra, il padrino del British Museum accusato di schiavismo. Era già successo altre volte nella storia, per esempio con la statua di Giorgio III a New York nel 1776 o con i monumenti monarchici nella Francia rivoluziona-


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L STORIES L RESTITUZIONI L Africa Museum, Tervuren. Photo © Jo Van de Vijver

ria. La scultura o la statua in questi casi diventa una sintesi delle ingiustizie, rappresentazione di un sistema da abbattere. Questo discorso rientra nel più grande concetto di reparation o dei reparation movement, che chiedono ai responsabili del colonialismo, dello schiavismo e della discriminazione razziale non solo risarcimenti finanziari ma anche e, soprattutto, un’ammissione di colpa. Lo ha fatto ultimamente la Germania, che ha riconosciuto nel maggio scorso il genocidio degli Herero e dei Nama in Namibia e destinerà 1,1 miliardi di euro per la ricostruzione e lo sviluppo. Negli Stati Uniti sono nate numerose commissioni in Oregon, a New York, in California e alla Camera per studiare proposte di riparazione per gli afroamericani. Ma il riconoscimento della propria responsabilità passa attraverso misure specifiche e la restituzione delle opere d’arte trafugate è sicuramente una delle più

richieste. Per Beatrice Nicolini, professoressa di Storia dell’Africa alla Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, questa necessità risponde a obiettivi politici: “Le richieste provengono spesso dalle leadership politiche africane per avere un consenso più ampio dal basso. E poi invece c’è dall’altra parte una necessità di riconciliarsi con un’eredità molto faticosa, alla luce dei recenti movimenti che provengono dal mondo anglosassone”. La battaglia delle ex colonie per riavere indietro il patrimonio rubato affonda le sue radici già nelle prime fasi della decolonizzazione. Nel 1954, la Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali ha sancito la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto armato e nel 1970 la Convenzione Unesco ha imposto il divieto di illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni artistici. Queste iniziative

non sono mai state applicate in modo retroattivo, impedendo alle potenze europee di riflettere sui saccheggi del passato coloniale. Quindi, le restituzioni sono state poche e sporadiche: la Nigeria ha cominciato per esempio a reclamare i bronzi del Benin già negli Anni Settanta, senza successo. Oggi il dibattito è più vivo che mai. Paesi come Francia, Olanda, Germania e Belgio hanno cominciato ad affrontare più seriamente la loro pesante eredità. In assenza di un quadro legislativo internazionale di riferimento, ognuno propone un sistema diverso, più o meno centralizzato e con un ruolo più o meno nevralgico dei musei. Vediamo quali sono i diversi approcci.

L’APPROCCIO "CASO PER CASO"

Durante un viaggio in Burkina Faso nel 2017, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la fine della Françafrique, la strategia di influenza politica,

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AFFAIRE PARTENONE. UN PICCOLO FRAMMENTO DI GRANDE LUNGIMIRANZA Se ne parlava da tempo e qualche giorno fa è stato sottoscritto l’accordo che consentirà al frammento del fregio del Partenone del Museo archeologico regionale Antonino Salinas di Palermo di essere esposto al Museo dell’Acropoli di Atene, ricongiungendosi con gli altri marmi presenti nel bellissimo museo greco. L’accordo sta suscitando una considerevole attenzione mediatica: ma si tratta davvero di una restituzione? E come si colloca nel contesto internazionale di questo tipo di accordi? Innanzitutto, pur trattandosi di un’intesa internazionale a beneficio di due istituzioni museali pubbliche, in virtù della particolare distribuzione delle competenze del nostro ordinamento, è stato concluso tra il Ministero della Cultura greco e l’Assessorato alla Cultura e ai Beni dell’Identità Siciliana. Inoltre, benché sulla stampa si parli comunemente di “restituzione”, a ben vedere non è proprio così. Trattandosi di un bene di proprietà pubblica, l’accordo si limita in realtà a prevedere un prestito di quattro anni rinnovabile per una sola volta. Si tratta di una soluzione transitoria – in ossequio all’art. 67 del Codice dei beni culturali e del paesaggio – in attesa dell’avvio dell’iter legislativo che potrà portare alla sdemanializzazione e alla conseguente autorizzazione alla restituzione vera e propria. In cambio il museo siciliano otterrà il prestito di una statua acefala del V secolo a. C. e di un’anfora risalente all’VIII secolo a. C., oltre alla previsione di specifiche iniziative culturali comuni all’insegna della collaborazione tra le due istituzioni. L’accordo si conforma alla prassi recente – non solo italiana – per questo tipo di situazioni. Anzi, può ben dirsi che si sia in presenza di un vero e proprio modello ormai consolidato nel variegato universo delle relazioni politico-diplomatico-culturali internazionali degli ultimi decenni. Il tema più delicato, al di là della tipologia dell’accordo, è però quello della legittimità delle richieste di restituzione di beni al Paese di origine anche dopo secoli dallo spostamento o dal trafugamento dal luogo in cui si trovavano. Queste richieste,

commerciale e militare in Africa partendo dalla restituzione dei manufatti artistici. “Sarà una delle priorità”, ha detto a Ouagadougou. Come primo passo, Macron ha commissionato uno studio all’accademico senegalese Felwine Sarr e alla storica dell’arte francese Bénédicte Savoy per elaborare una strategia di ritorno delle opere. Il risultato è stato ampiamente criticato da alcuni musei e da riviste di destra come Le Point, alimentando la paura che gli istituti artistici sarebbero stati “svuotati”. Savoy e Sarr sostengono “una restituzione perenne” e senza condizioni come soluzione principale di fronte ai prestiti a lungo periodo. Il rapporto elabora un calendario che coinvolgerebbe innanzitutto ventiquattro opere da riportare in Mali, Benin, Nigeria, Senegal, Etiopia e Camerun, mentre la Francia dovrebbe occuparsi di creare un inventario di oggetti per ogni Stato africano. Le commissioni bilaterali discuterebbero a quel punto con i Paesi quali artefatti della lista vogliono recuperare. Dalla pubblicazione del rapporto è già passato qualche anno e le iniziative del

infatti, sempre più frequenti, stanno mettendo a dura prova le relazioni politiche ed economiche tra gli Stati, imponendo una revisione storica delle passate politiche di potenza (e a volte di sopraffazione) praticate da molti Paesi europei. Da qualche anno il tema è divenuto particolarmente caldo, almeno a partire dalla promessa fatta da Emmanuel Macron durante una visita ufficiale in Burkina Faso nel 2017 di restituire entro cinque anni i beni culturali sottratti ai Paesi africani in epoca coloniale e presenti nei musei francesi. Il rapporto pubblicato alla fine del 2018 dalla Commissione Sarr-Savoy voluta dal presidente francese per pianificare il processo di restituzione – non a caso ispirata a una “nuova etica relazionale” – prevedeva almeno tre tappe da concludersi entro il 2022, ma il processo è lento e complesso e finora ha reso concretamente possibile la conclusione di pochi accordi: il più importante, chiuso nel novembre 2021, riguarda la restituzione da parte della Francia di ventisei oggetti del tesoro del regno d’Abomey alla Repubblica del Benin. Questa iniziativa ha riacceso il dibattito internazionale sul tema, favorendo iniziative analoghe anche in Germania, Olanda, Belgio e Regno Unito. Naturalmente il contenzioso in questo genere di vicende può essere davvero spinoso ed è il frutto della contrapposizione di opposte visioni giuridiche, etiche e filosofiche che investono le nozioni di patrimonio culturale, di museo “universale”, di conservazione e di fruizione dei beni culturali, di legami di appartenenza e di sostenibilità. Il caso dei frammenti del Partenone rientra in questo ambito. Le vicende dei marmi acquisiti nel 1811 dall’ambasciatore britannico presso la Sublime Porta ottomana, Lord Elgin, e da circa due secoli conservati nel British Museum sono note, così come le ricorrenti richieste del Governo greco volte a ottenerne la restituzione, per ora senza successo nonostante i buoni uffici del Comitato intergovernativo dell’Unesco per la promozione del ritorno dei beni culturali al loro Paese di origine e il

Resta complicato piegare la legge francese a una restituzione incondizionata di tutte le opere, perché sono protette dal principio di inalienabilità. governo francese si contano sulle dita di una mano. Nel luglio del 2020, l’Algeria ha ricevuto i resti di ventiquattro resistenti alla colonizzazione francese, mentre un anno prima l’ex primo ministro Édouard Philippe aveva consegnato, in prestito, la spada dell’eroe El Hadj Omar Saidou Tall al Senegal. Queste scelte dimostrano che la Francia ha preferito prediligere un approccio di restituzione “caso per caso” piuttosto che un’analisi esaustiva del suo patrimonio artistico.

Resta complicato, però, piegare la legge francese a una restituzione incondizionata di tutte le opere, perché sono protette dal principio di inalienabilità. Questo obbliga il governo ad approvare leggi ad hoc per ogni oggetto, com’è avvenuto recentemente per il ritorno di 27 manufatti in Benin e Senegal. Il 4 novembre 2020 i senatori hanno approvato un disegno di legge limitato esclusivamente a questo caso e la ministra della Cultura Roselyne Bachelot ha specificato che si tratta di un’iniziativa di “carattere strettamente eccezionale e limitato”. A gennaio, il Senato ha risposto rilanciando l’idea di creare una commissione nazionale che comprenderebbe anche potenziali richieste di restituzione da Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, ma il governo di Macron non è d’accordo ed è difficile che la proposta venga esaminata prima delle elezioni di aprile. “Ogni Paese ha dato una risposta diversa, mentre la Francia ha un’idea di restituzione a molti Paesi dell’Africa occidentale con cui non vuole perdere alcuni rapporti che di sicuro non sono basati su oggetti d’arte ma su altro”, spiega Nicolini.


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MANLIO FRIGO

docente di Diritto Internazionale all’Università di Milano of counsel nello studio BonelliErede – Focus Team Arte e beni culturali

Non sempre è così facile stabilire l’origine degli oggetti, se siano stati saccheggiati oppure acquistati legalmente, soprattutto in un contesto di dominio come quello coloniale. europei e gli occidentali hanno fatto del male ai popoli diseredati. Sono andato a recuperare ciò che è nostro di diritto”, dice Diyabanza. Oggi è sotto processo a Parigi ma è fiducioso che le accuse cadranno, perché non si tratta di furto ma di protesta politica, che lui definisce “diplomazia attiva”. “Il presidente ha evidenziato la difficoltà di giudicare un tale atto, poiché richiederebbe un processo contro la colonizzazione”, aggiunge.

Come ha sottolineato il professore di archeologia contemporanea all’Università di Oxford e curatore del Pitt Rivers Museum Dan Hicks, la protesta visiva di Diyabanza implica un ribaltamento dei ruoli: per la prima volta un bene culturale viene sequestrato in Europa per conto delle popolazioni africane. E le quattro azioni non resteranno le uniche, perché l’attivista prevede di visitare presto altri musei. Da poco ha inoltre creato il Fronte multiculturale contro il saccheggio, che ha l’obiettivo di riunire non solo gli africani ma anche gli indigeni delle Americhe, gli Amerindi e le vittime indiane del saccheggio britannico. Anche la Germania avanza lentamente verso le restituzioni, per ora affrontate soprattutto caso per caso. La Namibia ha riaccolto la croce di pietra della riserva naturale di Cape Cross oltre alla Bibbia e alla frusta dell’eroe nazionale Hendrik Witbooi, mentre resti umani di cinquantatré nativi sono tornati in Australia. Recentemente si sono aggiunti alla lista alcuni teschi hawaiani. Su altri esemplari di più alto valore, come

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Tra l’85% e il 90% del patrimonio dell’Africa subsahariana si trova fuori dal continente. La Francia detiene circa 88mila opere, la maggior parte custodite nel Musée du Quai Branly. Proprio lì, a giugno 2020, alcuni attivisti del gruppo Unité Dignité Courage hanno trasmesso in diretta social un primo atto di riappropriazione di una stele funeraria in legno del XIX secolo proveniente dal Ciad. A capo di questo movimento c’è Mwazulu Diyabanza, che rimase molto colpito quando la madre gli raccontò da piccolo, nell’allora Zaire, del furto di tre oggetti del suo bisnonno da parte di colonizzatori europei. “Ho scelto le opere una volta che ero lì nei musei. Scelgo quella che mi parla di più e che è disponibile in quel momento, senza alcuna premeditazione”, afferma via mail. Nei mesi successivi ha ripetuto la stessa protesta con altri manufatti nel Musée des Arts africains, océaniens et amérindiens di Marsiglia, nel museo Afrika di Berg en Dal (Olanda) e al Louvre. Inoltre, ha fatto richiesta di restituzione di alcune opere anche ad altri istituti, come il Mas di Anversa. “Gli

patrimonio culturale. In questo caso, utilizzando un modello di accordo analogo, ci siamo posti nella virtuosa e quasi inedita posizione di chi favorisce il ritorno al Paese di origine, ottenendo in cambio una cooperazione modulata nel settore culturale. L’Italia, proprio grazie al suo straordinario fascino culturale e al prestigio di cui godono talune tra le sue istituzioni poste a tutela del patrimonio (in particolare il Comando dei Carabinieri per la tutela del Patrimonio Culturale), esercita un peso considerevole presso le istituzionali della cultura mondiale e segnatamente presso l’Unesco. La disponibilità alla collaborazione internazionale quando si tratta, come in questo caso, di mostrare sensibilità verso le speculari aspettative altrui rappresenta un segnale forte e diviene un incontestabile elemento di coerenza e di credibilità internazionale. Sotto il secondo profilo non si può non segnalare l’impatto che, almeno indirettamente, questa vicenda potrà esercitare sul ben più spinoso contenzioso che oppone la Grecia al Regno Unito e al British Museum. Come la stampa britannica non ha mancato di osservare, il risalto attribuito a questo accordo, pur non avendo conseguenze dirette sul piano degli obblighi giuridici, avrà certamente l’effetto di aumentare la pressione sul Regno Unito per giungere a una soluzione negoziata circa la sorte dei fregi del Partenone del British Museum. Il percorso tracciato dagli accordi di cooperazione culturale – al cui interno la restituzione e il ritorno di beni si accompagnano a una serie di altre prestazioni quali prestiti, iniziative di scavo e di ricerca gestite congiuntamente, scambi di professionisti, organizzazione di mostre, convegni e seminari in collaborazione – è ormai ampia. L’Italia ne è stata tra i più convinti apripista e, con questo nuovo accordo, prosegue sulla strada giusta.

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successivo coinvolgimento del Parlamento europeo. Meno nota invece la circostanza che parti e/o frammenti dei fregi siano presenti anche in musei di altre città europee, tra le quali Roma (Musei Vaticani), Vienna, Monaco, Copenaghen, Palermo e Heidelberg. Per la verità proprio il Museo di antichità dell’Università di Heidelberg fu il primo, nel 2006, a promuovere il ritorno di un frammento di una lastra del Partenone, donandolo alla Grecia. Pur nell’alveo del più ampio contesto delle richieste di restituzione, il caso dei marmi del Partenone si distingue perché non si tratta solo del simbolo di una collettività nazionale, ma di un’intera civiltà e addirittura di tutta la cultura occidentale. Proprio partendo da questa constatazione, la (futura) restituzione del frammento del Museo archeologico di Palermo al Ministero della cultura greco assume un significato ancora più rilevante, sia Il tema più delicato è quello in ottica italiana, della legittimità delle richieste sia in prospettiva di restituzione di beni al internazionale. Sotto il primo proPaese di origine anche dopo filo non sfugge la secoli dallo spostamento o dal portata fortetrafugamento dal luogo in cui si mente simbolica trovavano. dell’iniziativa di un Paese come l’Italia, ricco di arte e di cultura che frequentemente si trova a chiedere il ritorno o la restituzione di beni del suo patrimonio culturale oggetto di spoliazioni o di smembramento. A partire dal 2006, il nostro Paese ha infatti negoziato una serie di accordi di cooperazione culturale con importanti musei stranieri ottenendo contestualmente la restituzione o la donazione di beni di pertinenza del nostro

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Il direttore dell’Africa Museum di Tervuren, Guido Gryseels, di fronte all’opera Réorganisation di Chéri Samba. Photo C. Dercon

il busto di Nefertiti che l’Egitto sostiene sia stato illegalmente portato via dall’archeologo Ludwig Borchardt nel 1912, non ci sono invece aperture. Nel 2019, il Governo federale ha approvato con i Länder alcuni punti chiave per il rimpatrio delle opere sulla base della provenienza: “Vogliamo la restituzione di oggetti di origine coloniale, la cui appropriazione oggi non è più legalmente o eticamente giustificabile”, ha dichiarato l’allora sottosegretaria alla Cultura Monika Grütters. Uno storico di Amburgo, Jürgen Zimmerer, ha criticato la misura sostenendo che spetti alle potenze coloniali il compito di dimostrare la legittima acquisizione dei beni, altrimenti da ritenere saccheggiati. L’iniziativa più significativa dall’approvazione delle linee guida riguarda ancora una volta i bronzi del Benin, per cui si prevedono le prime restituzioni nel 2022. Nella riflessione della Germania sul proprio passato coloniale, che comprende le scuse ufficiali per il genocidio in Namibia, si è inserito prepotentemente l’Humboldt Forum, il museo inaugurato a dicembre 2020. Situato nel restaurato castello di Berlino, la sua collezione si fonda su oggetti provenienti da ogni parte del mondo, molti razziati o rubati. Il suo primo direttore, Neil MacGregor, ha gestito il British Museum dal 2002 al 2015 ed è un sostenitore della visione del museo universale ed enciclopedico. Pochi mesi fa è scoppiato l’ultimo caso, che riguarda la Luf-Boot, una barca di sedici metri trasportata in Germania dalle colonie

La collezione dell'Humboldt Forum di Berlino si fonda su oggetti provenienti da ogni parte del mondo, molti razziati o rubati. della Papua-Nuova Guinea. Lo storico Götz Aly ha dimostrato in un libro che i soldati se ne appropriarono dopo due giorni di bombardamento e la fondazione a capo dell’Humboldt Forum ha dovuto ammettere che non c’è traccia di alcuna compravendita. Nel 2017, l’autrice del rapporto francese Bénédicte Savoy si dimise dal Comitato consultivo del museo in segno di protesta, segnalando la mancanza di trasparenza sulla provenienza dei reperti.

I COMITATI DI ESPERTI

Le sale dell’Africa Museum di Tervuren, un comune fiammingo a diciotto chilometri da Bruxelles, sono state per molto tempo la massima esaltazione della colonizzazione belga del Congo sotto il re Leopoldo II. Il suo monogramma appare 45 volte lungo tutta la struttura, un edificio storico che aveva l’obiettivo di glorificare le gesta sanguinarie dei soldati anche dopo l’indipendenza dello

Stato africano nel 1960. Poi, nel 2001 Guido Gryseels si è insediato come nuovo direttore: “Invece di un museo sull’Africa coloniale, volevamo diventare un museo sull’Africa contemporanea, con una visione critica sul passato e, al contempo, uno spazio dove la voce africana fosse centrale”, racconta. Essendo un monumento storico, il museo non poteva essere sottoposto a interventi radicali, per esempio eliminando i simboli del re. Gryseels si è quindi dedicato a un’opera di reinterpretazione del patrimonio artistico con alcune mostre temporanee. Iniziò da un’analisi sull’origine della collezione, cercando di capire se le opere fossero giunte in Belgio perché acquistate o depredate con brutalità. Si soffermò poi sulla diaspora africana e sull’indipendenza del Congo vista dalla prospettiva dei congolesi, mettendo in secondo piano quella degli invasori. Nel 2013, la struttura era finalmente pronta per chiudere i battenti per alcune modifiche e aggiunte strutturali che avrebbero cambiato la sua concezione originaria. Cinque anni dopo, il museo ha riaperto al pubblico con un ampliamento dello spazio e alcune novità nella collezione: “L’unico modo per affrontare il retaggio coloniale era attraverso l’arte contemporanea. Abbiamo chiesto a quindici artisti africani di realizzare un’opera che entrasse in contrasto con il messaggio coloniale dei vari spazi del museo”, racconta Gryseels. Così, tra i vari interventi, i visitatori possono vedere, quando splende il sole, i nomi dei 1.500 soldati colonizzatori che adornano una delle gallerie oscurati da quelli delle loro vittime in Congo. L’Africa Museum giocherà probabilmente un ruolo fondamentale nella strategia del governo sulla restituzione del patrimonio artistico all’ex colonia, come annunciato dal Segretario di Stato per la Politica Scientifica Thomas Dermine: “Tutto ciò che è stato acquisito con la forza e la violenza in condizioni illegittime deve essere restituito. Non appartengono a noi, ma al popolo congolese”, ha dichiarato in una nota. Il Belgio sta seriamente affrontando il suo passato, come testimoniato anche dalla lettera di scuse del re Filippo al presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, dove si dice “profondamente dispiaciuto per le ferite” inflitte dal suo popolo. Adesso, il governo ha iniziato un processo che a lungo termine riporterà le opere a casa, nonostante Tshisekedi non abbia fatto ancora richiesta formale. A Kinshasa esiste un museo nazionale che però può ospitare fino a 12mila pezzi, molti meno di quanti già ne possieda. Il museo di Gryseels aiuterà nei prossimi cinque anni a formare nuovo personale, a creare siti di stoccaggio e a rinnovare gli istituti artistici locali. Una commissione mista belga-congolese si è già messa all’opera per decidere come gestire le restituzioni. Il primo importante passo in avanti è arrivato a febbraio, quando l’ex potenza coloniale ha consegnato al


SULL’ESPROPRIO NAZI-FASCISTA DI OPERE D’ARTE

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persecuzioni ed espropri nazifascisti sono ritenute imprescrittibili e quindi attivabili senza limiti di tempo. Il piano del diritto e degli interessi non è l’unico e spesso nemmeno il prevalente nei casi di “emersione” di opere espropriate dai nazisti. I profili reputazionali e mediatici hanno un’importanza tanto maggiore quanto rilevante è l’opera e quanto è nota la collezione o il museo che la detiene. L’aspetto della valorizzazione (o meglio della possibile svalutazione) dell’opera e con essa della collezione in cui l’opera requisita dai nazisti si trova è altrettanto cruciale. Per la sensibilità moderna le opere trafugate dai nazisti, anche nel caso in cui l’acquirente sia protetto da impenetrabili barriere di un diritto che protegge il suo acquisto di buona fede, non potranno che subire una perdita di valore a causa del fatto che nessun operatore professionale degno di tale nome vorrà trattarla nell’ipotesi di una vendita o di un prestito museale. Cosa fare in questi casi, quali siano gli scenari possibili in tema di diritti azionabili di fronte a una corte di giustizia, quali siano le conseguenze reputazionali e quali gli strumenti per governare o provare a governare tali variabili è il focus su cui concentrare l’attenzione del collezionista o del direttore e responsabile della galleria o del museo che dovesse essere toccato da una tematica così delicata. Chiunque oggi affronti l’acquisto di opere passate di mano tra il 1930 e il 1950 vorrà senz’altro avere da parte del venditore dichiarazioni e garanzie soddisfacenti circa la legittima provenienza dell’opera. Ma anche il collezionista o il museo che non abbia a oggi già condotto una due diligence completa ed efficace sulla propria collezione sarà più propenso, alla luce delle considerazioni che precedono, a chiedere una ricerca su fonti aperte e banche dati per accertarsi che nella sua collezione non vi siano opere di provenienza dubbia. Una ricerca di tal genere oggi è sempre meno complessa e più accurata. Le banche dati sia gratuite sia a pagamento contengono tantissime segnalazioni di agevole consultazione. Il sistema di soft law, le convenzioni e gli accordi internazionali spingono gradualmente ma decisamente verso una composizione di equilibri tra diritti confliggenti. Per questo sempre di più gli operatori e i consulenti suggeriscono al collezionista, al museo e alla galleria d’arte soluzioni negoziate e trasparenti che trovino la soddisfazione di tutte le parti coinvolte. Il tema delle opere rubate, razziate ed espropriate in tempo di guerra è stato sempre più sentito e conosciuto, negli scenari di guerra che si sono succeduti dopo la Seconda Guerra Mondiale e che hanno visto, ancora una volta, non solo il furto e la razzia del patrimonio artistico e culturale proprio dei teatri di guerra ma anche la distruzione degli stessi. In queste ore si sta assistendo a un nuovo assurdo conflitto proprio alle porte dell’Europa e di nuovo ci si chiede anche quale sarà il destino di preziose testimonianze della cultura dell’arte e della tradizione dei Paesi oggetto della cieca violenza espressa nel contesto dello stesso.

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Il 25 marzo l’Ateneo Veneto ha ospitato una nuova conferenza sulla tematica della restituzione delle opere d’arte espropriate da nazisti e fascisti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’oggetto della conferenza può sembrare anacronistico a una lettura superficiale. Un po’ come discutere nell’era delle e-mail e delle videoconferenze “dell’annoso problema dei ritardi delle regie poste”. Un flashback. E invece il tema è tutt’altro che fuori tempo. Perché parlare oggi di eventi accaduti tra il 1930 e il 1945? Com’è possibile che ci possano essere ancora effetti attuali delle terribili persecuzioni, requisizioni ed espropriazioni operate da nazisti e fascisti in Italia ed Europa? Il tema è attualissimo e fa parte di un movimento che ha radici recenti (la conferenza di Washington del 1998 sulle opere sottratte dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale). La modernità – attraverso la digitalizzazione e la messa in rete di banche dati sempre più dettagliate e sofisticate – sta progressivamente e molto velocemente portando alla luce situazioni in cui gallerie e musei, così come collezionisti privati, diventano consapevoli che nelle loro collezioni sono incluse opere la cui provenienza è probabilmente, o addirittura certamente, attribuibile a requisizioni nazifasciste. L’argomento attualissimo è, Chiunque oggi affronti dunque, quello l’acquisto di opere passate che interseca di mano tra il 1930 e il 1950 tanti piani e profili confliggenti, vorrà senz’altro avere da parte spesso inconciliadel venditore dichiarazioni e bilmente. Gli garanzie soddisfacenti circa la interessi conlegittima provenienza dell’opera. trapposti. Da una parte quello degli eredi dei proprietari barbaramente e illegittimamente espropriati di un loro bene, solitamente degno di attenzione per valore o per qualità artistiche. Dall’altra quello degli attuali proprietari che, magari del tutto inconsapevolmente, hanno acquisito o, a loro volta, ereditato l’opera che si accerta essere frutto delle razzie nazifasciste. Il diritto degli attuali proprietari alla tutela della proprietà di un bene acquisito in buona fede contro il diritto di coloro i quali hanno subìto soprusi e violazioni tanti decenni fa. Un confronto nel tempo e nello spazio. In moltissimi casi, in Paesi regolati dal diritto civile, come Italia, Francia e Germania, la prescrizione (cioè il termine temporale per attivare un’azione a difesa di un diritto) fa prevalere le ragioni degli attuali proprietari contro quelle degli eredi degli espropriati. In altri casi e in altri sistemi di diritto – non ultimo quello statunitense, che ancora rappresenta il più grande dei mercati per le opere d’arte – le azioni a difesa di diritti degli eredi di chi ha subìto

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LUIGI M. MACIOCE

partner dello studio Boies Schiller Flexner Italy

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L’opera dell’artista congolese Freddy Tsimba che proietta, quando splende il sole, i nomi delle vittime dei colonizzatori su quello dei 1.500 soldati belgi. Africa Museum, Tervuren. Photo © Jo Van de Vyver

Congo un inventario di 84mila oggetti custoditi nell’Africa Museum. Ma ciò che rende questa strategia più avanzata rispetto alle altre è la separazione tra i concetti di proprietà legale e ritorno materiale. Il Congo diventerà il proprietario legale delle opere acquisite illegalmente e potrà decidere se riportarle nel Paese oppure no, soprattutto se non dovesse avere spazio a sufficienza. Nel secondo caso, il Belgio pagherebbe una quota per mantenere l’oggetto nel suo territorio. “In Congo non parlano di restituzione, ma di ricostituzione. Hanno ancora molto del loro patrimonio culturale, ma non tutto”, dice Gryseels. La stessa distinzione viene affrontata anche da ReTours, un progetto francese che cerca di spostare l’attenzione dal punto di vista occidentale a quello africano e pone al centro il ruolo della diaspora: “La restituzione non necessariamente implica il ritorno. Per esempio, la Francia nel 2002 doveva restituire le sculture Nok alla Nigeria perché frutto di scavi illegali. I due Paesi hanno poi firmato un accordo per lasciare le opere al Museo du Quai Branly per un periodo di 25 anni. Questa è restituzione senza ritorno”, spiega la professoressa dell’università di Nanterre e coordinatrice di ReTours Saskia Cousin.

Il Congo diventerà il proprietario legale delle opere acquisite illegalmente e potrà decidere se riportarle nel Paese oppure no, soprattutto se non dovesse avere spazio a sufficienza. Due mesi dopo l’atto di protesta di Mwazulu Diyabanza nel Museo Afrika di Berg en Dal, in Olanda, il Consiglio della Cultura ha consegnato un rapporto che invitava il ministero competente a restituire le opere sottratte alle ex colonie. Nel testo si legge che bisogna evitare “una ripetizione neocoloniale del passato in cui le proprie opinioni, sentimenti, norme e valori sono i principi rettori dell’azione” e si raccomanda di affidarsi a un comitato indipendente per studiare l’origine di ogni oggetto e creare un database. La risposta degli istituti museali è stata positiva: il Museo Nazionale delle Culture del Mondo, che comprende anche il Rijks-

museum, è stato uno dei primi a pubblicare le linee guida per il rimpatrio nel documento Return of Cultural Objects: Principles and Process. Questi stessi enti sono parte di Pressing Matter, un progetto gestito dalla Vrije Universiteit che coinvolge dottorandi interni e ricercatori esterni provenienti da Africa, Asia e Americhe. La professoressa Susan Legêne è una delle coordinatrici: “Ci sono state restituzioni fin dall’indipendenza dell’Indonesia nel 1945, ma solo su una base caso per caso. Quindi noi abbiamo iniziato a discuterne in modo più generale”, spiega. Nell’arco di quattro anni, gli oggetti verranno catalogati in diverse sezioni, come saccheggi avvenuti durante campagne militari, resti umani o visite missionarie. Ma soprattutto, Pressing Matter peserà l’importanza dell’opera per tutte le parti: “Può avere un significato per l’Olanda, può averlo per il Paese da cui proviene, può avere peso in molti modi e molti contesti. Non esiste solo il valore economico, c’è anche un valore rituale. Quindi, la restituzione non è l’unica soluzione”, afferma Legêne. La professoressa della Vrije Universiteit sottolinea che il risultato degli studi sarà principalmente accademico, ma potrà aiutare il governo a capire quali misure adottare.


GLI SCHELETRI NELL’ARMADIO: EREDITÀ COLONIALI, RESTITUZIONI E RIPARAZIONI

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comunità mentre la mostra, il museo e il patrimonio, in particolare il patrimonio coloniale contenuto nei musei etnografici Europei, appaiono al centro di una sfida e di una possibilità senza precedenti: quelle di un riconoscimento del ruolo che ha avuto storicamente la diversità culturale per la formazione dell’identità nazionale della propria comunità, e della violenza che ha caratterizzato questo processo; di una ridefinizione contestuale dei possibili, legittimi, sensi di appartenenza a una stessa comunità da parte di persone con differenti background; e di una rinegoziazione radicale dell’appartenenza del patrimonio stesso, in particolare del patrimonio di origine coloniale, per rovesciare finalmente il segno di appropriazioni storiche in una nuova forma di giustizia. Restituire letteralmente significa rendere un oggetto al suo legittimo proprietario, ma vuol dire anche re-istituire l’oggetto al suo contesto e agli usi e ai significati che in quel contesto si ritengono propri. Significa cioè permettere un processo di ri-appropriazione simbolica di quell’oggetto da parte della sua comunità d’appartenenza, dopo che quell’oggetto è stato dislocato, decontestualizzato, risemantizzato e inserito in un differente ordine simbolico da parte dello sguardo Europeo. Restituire gli oggetti, parte di un patrimonio sottratto in modi spesso illegittimi e brutali, non significa dunque restituirli così come erano prima, ma re-investirli di una funzione sociale. Un gesto che ha a che fare con una dimensione etica, e di restaurazione di relazioni di reciprocità fra le parti: nell’atto della restituzione viene esplicitamente riconosciuta l’illegittimità del possesso dell’oggetto da parte degli/delle attuali proprietari_, e la volontà di operare non solo un riconoscimento, ma anche una “riparazione” di quell’ingiustizia. Le implicazioni sono dunque non solo giuridiche ma anche di ordine politico e simbolico: si tratta di

aprire attraverso questo gesto una riflessione profonda sul passato coloniale, e il modo in cui ha contribuito alla costruzione del patrimonio dei musei occidentali; ma si tratta anche di operare un rovesciamento epistemologico, riconoscendo l’esistenza di diverse (legittime) interpretazioni del “patrimonio culturale” (un concetto del resto prettamente Europeo e tutt’altro che universale di per sé) e in generale della cultura materiale, del museo stesso come luogo pubblico e come spazio di relazione fra persone e fra comunità. Il processo delle restituzioni è anche un’occasione preziosa per noi, per demistificare le nozioni museali occidentali universalizzate e normalizzate come le uniche “scientificamente” corrette. Il modello di un museo centralizzato, devoto alla conservazione e all’esposizione del patrimonio, è solo una delle possibili configurazioni per la collocazione del patrimonio nello spazio sociale e, difficile per noi concepirlo, la conservazione non è una priorità museale universale. Iniziare una riflessione seria intorno alle restituzioni può inoltre aiutare nei paesi ex colonizzati un processo di ricostruzione di identità attraverso le storie e le memorie, che è alla base della ri-costruzione di comunità politiche, aiutando le generazioni più giovani a conoscere la loro storia e a costruire la loro identità (anche) attraverso il proprio patrimonio, come sottolinea Achille Mbembe: “Le nuove generazioni stanno emergendo dalla visione etnologica che è stata imposta all’Africa per secoli. Sul piano intellettuale, il ritorno dei nostri oggetti dal loro lungo periodo di cattività in Occidente deve permettere di chiudere questo capitolo e, grazie a questo rinnovamento culturale e artistico, di ripensare l’Africa come uno dei centri di gravità del mondo”.

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Alla fine degli Anni Novanta, Stuart Hall sulle pagine della rivista Third Text si chiedeva a chi appartiene il patrimonio: Whose Heritage? Un-settling “The Heritage” (1999). Se il patrimonio è legato alla conservazione e alla rappresentazione di arte e/o cultura che testimoniano della storia di una comunità nazionale, esso arriva ad essere “la materiale incorporazione dello spirito della nazione”, con una potente vocazione educativa tesa non tanto al comando (governing), quanto in un senso più ampio ai modi in cui lo stato, indirettamente e a distanza, induce e sollecita ne_ cittadin_ attitudini e condotte appropriate (governmentality), cioè ai modi in cui ogni cittadin_ incorpora letteralmente la propria cultura d’appartenenza e le norme sociali che ne derivano. Dunque, si chiede Stuart Hall, per chi è il patrimonio? Per coloro che “appartengono”. Cioè per coloro che appartengono a un’identità immaginata e postulata, nel passato, come culturalmente omogenea, unificata e tradizionale, come quella della nazione. Chi non vede se stess_ rifless_ nello specchio del “patrimonio nazionale” non può mai propriamente “appartenere” a quella comunità. È interessante rileggere queste riflessioni a distanza di più di vent’anni. Wayne Modest, nell’introduzione al volume Matters of Belonging. Ethnographic Museum in a Changing Europe (2019) si chiede in che modo queste riflessioni siano cruciali oggi, in un’Europa postcoloniale (ma non decolonializzata), con un tessuto sociale e culturale tutt’altro che omogeneo, anzi evidentemente interculturale, segnato da mobilità e migrazioni da paesi ex colonie e da altre parti del mondo, e da una sempre maggiore presenza di persone con origini o background culturali misti, non sempre riconosciute come cittadin_. Se tuttavia pensiamo alla nazione, seguendo Stuart Hall, come “an on-going project, under constant reconstruction”, e il museo come un dispositivo-specchio che costruisce l’immagine della propria

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Docente di Antropologia Culturale e Antropologia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera, Giulia Grechi si interessa di studi culturali e post/de-coloniali, migrazioni, museologia, con un focus sulla corporeità, sulle eredità culturali del colonialismo e sulle pratiche artistiche contemporanee che ridiscutono e rimediano questi immaginari. È co-direttrice della rivista Roots§Routes (il prossimo numero sarà proprio dedicato al tema delle restituzioni). Pochi mesi fa ha pubblicato Decolonizzare il museo (Mimesis, 2021), da cui pubblichiamo l’estratto che segue.

GIULIA GRECHI

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UN CASO A SÉ: IL BRITISH MUSEUM

A novembre del 2018, il governatore dell’Isola di Pasqua, Tarita Alarcón Rapu, ha incontrato i dirigenti del British Museum per chiedere la restituzione dell’Hoa Hakananai, un monolite moai di quattro tonnellate portato illegalmente alla Regina Vittoria nel 1868 dalla fregata HMS Topaze. “Noi siamo solo un corpo. Voi, i britannici, avete la nostra anima”, ha detto quasi in lacrime. Il museo ha accettato di parlarne per la prima volta, prima di dichiararsi aperto a un prestito, escludendo la possibilità di un rimpatrio. Non è la prima volta che un Paese o una comunità reclamano un oggetto al British Museum. Il caso sicuramente più noto riguarda i marmi del Partenone, portati in Inghilterra agli inizi dell’Ottocento da Lord Elgin, l’ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano che aveva sfruttato un controverso permesso del sultano per appropriarsi di buona parte del fregio e diverse statue del frontone. I reperti sono stati accolti in una sala dedicata dopo la vendita al governo e sottoposti a un trattamento sbiancante molto dannoso, mentre la Grecia richiedeva periodicamente il suo patrimonio. Di fronte a una delle scuse più ricorrenti del British, cioè la preoccupazione che i marmi non vengano adeguatamente custoditi, la Grecia ha costruito nel 2009 un grande museo a 300 metri dall’Acropoli, dove una sala è rimasta vuota in attesa dei pezzi mancanti. Anche Benin, Iraq, Cile, Egitto, Turchia, Cina chiedono a gran voce la restituzione del loro patrimonio e per questo motivo il museo è finito spesso sotto attacco. Alla morte di George Floyd, l’account Twitter del British ha espresso la sua vicinanza al Black Lives Matter finendo per scatenare la reazione degli utenti, che lo accusano di ipocrisia. Gli Uncomfortable Art Tours della storica dell’arte Alice Procter hanno evidenziato il passato colonialista dei reperti di molti istituti britannici e hanno spinto il British a rispondere con una serie di conferenze, le Collected Histories Talks, che hanno cercato di dimostrare che non tutti gli oggetti accolti nelle sale sono stati trafugati. Procter ha risposto che bisognerebbe prendere in considerazione non solo quell’aspetto ma anche il contesto di disuguaglianza in cui le opere sono state acquistate.

L’ITALIA FUORI DAL DIBATTITO

In Italia il dibattito sulla decolonizzazione artistica è piuttosto arretrato, nonostante ci siano state alcune importanti restituzioni: nel 1984 l’Albania ha riaccolto la dea di Butrinto sottratta nel 1928 e nel 1999 è tornata in Libia la Venere di Leptis Magna donata da Hermann Göring a Italo Balbo. L’operazione più complicata risale al 2008, quando la stele di Axum è stata ricollocata in Etiopia nel punto in cui la trovò la spedizione archeologica italiana del 1935.

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UNA MAPPA PARZIALE DELLE RESTITUZIONI

GRECIA

r Gran Bretagna r Germania r Italia r Austria r Olanda TURCHIA

r Gran Bretagna r Germania r Francia r USA NIGERIA

r Francia r Gran Bretagna r Germania BENIN

r Gran Bretagna r Francia EGITTO

r Gran Bretagna r Germania ETIOPIA

r Francia r Italia

ALBANIA

AUSTRALIA

ALGERIA

CAMERUN

ANGOLA

CIAD

r Italia

r Francia r Portogallo

r Germania r Francia r Francia


FRANCIA

q Grecia q Nigeria q Cile q Benin q Iraq q Egitto q Turchia q Cina

GERMANIA

ITALIA

q Grecia q Albania q Egitto q Libia q Nigeria q Etiopia q Namibia q Grecia q Australia q Turchia q Papua-Nuova Guinea

USA

q Italia q Turchia

AUSTRIA

q Messico q Grecia BELGIO

q Congo SPAGNA

q Colombia PORTOGALLO

q Angola OLANDA

q Grecia

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q Mali q Benin q Nigeria q Senegal q Etiopia q Camerun q Algeria q Ciad q Turchia

GRAN BRETAGNA

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CILE

CONGO

LIBIA

NAMIBIA

CINA

IRAQ

MALI

PAPUA-NUOVA GUINEA

COLOMBIA

ITALIA

MESSICO

SENEGAL

r Gran Bretagna r Gran Bretagna r Spagna

r Belgio r Gran Bretagna r USA

r Italia r Francia r Austria

r Germania r Germania r Francia

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Trasportata a Roma nel 1937, venne posizionata di fronte al Ministero delle Colonie, oggi sede della FAO, prima di entrare dieci anni dopo negli obblighi assunti dall’Italia con il trattato di pace e in seguito nell’Accordo bilaterale tra Roma e Addis Abeba del 1956. Tuttavia, l’imperatore Hailé Selassié lasciò che l’obelisco restasse in Italia fino alla richiesta del governo etiope nel 1991. Nel 2004, un nuovo Memorandum con il Paese africano iniziò i lavori di trasporto dell’obelisco, terminati nel 2008. Nello stesso anno, un altro episodio aiuta a capire la difficoltà dell’Italia nel relazionarsi con il suo passato coloniale: la restituzione della Venere di Cirene alla Libia. Ritrovata nel 1913, servì successivamente da simbolo per la retorica imperialista del fascismo: “Il suo ritrovamento venne inteso, innanzitutto, come un segno del fato. [...] Da lì, si proseguì poi con un’autonoma interpretazione razziale: nel delicato marmo bianco, le forme eleganti e sinuose furono ritenute tipiche della razza mediterranea e appartenevano, quindi, all’Italia”, si legge nel libro Le memorie del futuro. Musei e ricerca, scritto da Evelina Christillin e Christian Greco, rispettivamente presidente e direttore del Museo Egizio di Torino. Una volta emanato il decreto per la restituzione nel 2002, l’associazione Italia Nostra fece ricorso al TAR appellandosi a questioni patriottiche e d’identità. L’iniziativa non passò, ma quando si diffuse la notizia della presunta sparizione della Venere nel 2015, le polemiche sul tema si riaccesero. Come sottolinea anche la professoressa Beatrice Nicolini, l’Italia è sempre stata più attiva sulle richieste di restituzione del proprio patrimonio artistico. “Saremmo noi a dover chiedere un’eventuale restituzione. Abbiamo talmente tanta ricchezza artistica, monumentale e museale che non abbiamo abbastanza spazio per mostrarla. Siamo veramente oggetto di sottrazione da sempre”, sostiene. (Questo doppio ruolo dell'Italia si riflette, in ambito ministeriale, nel Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali, al cui interno opera il Gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali, N.d.R.) In effetti, il nostro Paese è riuscito a riottenere indietro alcuni artefatti, come la Venere di Morgantina, una statua di Zeus di oltre due metri restituita dal Getty Museum, o gli otto pezzi delle statue di Demetra e Kore ceduti dal Bayly Art Museum. Adesso la procura di Torre Annunziata sta chiedendo il ritorno del Doriforo di Stabiae al museo di Minneapolis, dove la statua è arrivata negli Anni Settanta grazie a un trafficante di opere d’arte. Ma la vicenda più importante riguarda la restituzione della phiále d’oro alla Sicilia, un precedente per la lotta al commercio illegale dell’arte. L’opera era stata acquistata da un privato a Catania, rivenduta a un collezionista di Enna, ceduta al titolare di una società

Un’illustrazione di Mwazulu Diyabanza. Courtesy l'artista

di Zurigo e infine acquistata dal miliardario Michael Steinhardt, uno dei principali benefattori del Metropolitan Museum. Nel 1999, la Corte d’appello di New York emise la sentenza che riportò in Italia il manufatto.

LE ALTRE RICHIESTE

In misura minore, altri ex imperi coloniali hanno un contenzioso aperto con le loro ex colonie. È il caso della Spagna, che ha ricevuto dalla Colombia un sollecito per il ritorno in patria del tesoro Quimbaya, un gruppo di oggetti precolombiani. Fu un regalo del presidente Carlos Holguín alla regina María Cristina nel 1893, ma si sostiene che sia avvenuto senza il consenso del Parlamento di Bogotá. Anche l’Angola reclama alcuni oggetti al Portogallo, mentre il traffico d’arte ha portato in Austria il pennacchio di Montezuma, richiesto dal Messico. La Turchia è stato il Paese più attivo e aggressivo nella campagna di richieste di restituzione. Il governo ha annunciato nel 2012 la costruzione del gigantesco Museo delle Civiltà, una struttura di 25mila metri quadrati da inaugurare nel 2023, anno del 100esimo anniversario della Repubblica. Per riempirlo, Erdogan ha lanciato una sorta di

guerra dell’arte che ha portato a pochi risultati. Durante una visita negli Stati Uniti il presidente turco è tornato in patria con l’Ercole Stanco, dopo una strategia di pressione contro il Boston Museum of Fine Arts. Le altre richieste, tra cui una sfinge di pietra del Pergamon Museum di Berlino o una statua d’oro del Met, non sono andate a buon fine. Il Louvre si è rifiutato di rinunciare a una collezione di piastrelle del mausoleo di Selim II e in risposta la Turchia ha impedito l’accesso nei suoi siti agli archeologi francesi. Nei prossimi anni si capirà quale sarà il sistema più efficace, quello caso per caso di Francia o Germania, o quello basato sulle commissioni di esperti di Belgio e Olanda. E soprattutto, quale sarà il ruolo delle ex colonie in questo processo: “Il dibattito così com’è al momento sembra senza dubbio una tattica dilatoria da parte degli occidentali, che vogliono convincersi della validità della restituzione”, dice Mwazulu Diyabanza, che aggiunge: “Il discorso non è di per sé negativo, ma prima le nazioni europee e occidentali devono accettare l’idea della restituzione incondizionata e immediata. Solo allora il dibattito diventerà interessante per trovare soluzioni pratiche e materiali per il rimpatrio”.


UN CASO CONCRETO: IL MUDEC DI MILANO

Come gestite la vostra identità museale, che inevitabilmente affonda le radici in un passato meno sensibile a certe questioni, a fronte della necessità di “decolonizzare il museo”? Il museo da molto tempo si è dotato di un ufficio apposito, l’ufficio Reti e Cooperazione Culturale, che ha come finalità la promozione della partecipazione alla vita del museo da parte delle comunità diasporiche, anche in termini di scelte museografiche e museologiche. Ad esempio, la nuova esposizione permanente è stata oggetto di un processo partecipativo che ha visto il coinvolgimento di alcuni cittadini che hanno contribuito con la loro visione nel come trattare alcuni argomenti e alcuni materiali che riguardano il passato coloniale. Abbiamo inoltre dedicato grandi energie nel proporre al pubblico una narrazione degli eventi storici connessi ai nostri oggetti il più possibile multi-sfaccettata e trasparente rispetto alle dinamiche di potere asimmetrico che queste storie rivelano, anche utilizzando opportuni strumenti linguistici. Ci sono modelli a cui fate riferimento per trarre ispirazione? Penso ad esempio al progetto molto articolato del Museo Rietberg di Zurigo. Secondo noi uno dei progetti più interessanti che sono stati portati avanti negli ultimi tempi è stato quello promosso dal Goethe Institute Tutto passa tranne il passato perché ha visto il coinvolgimento di diversi musei europei e africani e un confronto su lunga durata rispetto ai temi quali le restituzioni, le riparazioni e le collaborazioni transnazionali. A livello educational, avete in programma attività che affrontano questi nodi? Le attività educational del museo sono esternalizzate. Tuttavia, sempre attraverso l’ufficio Reti sopra menzionato, facciamo piccoli progetti di formazione, specialmente rivolti ai formatori e agli insegnanti.

Sul tema sono usciti libri importanti, dal celeberrimo rapporto Sarr-Savoy al recente Decolonizzare il museo di Giulia Grechi, di cui offriamo ai nostri lettori un estratto proprio in queste pagine. Quale testo consiglieresti ai nostri lettori, anche non strettamente e tecnicamente legato alla questione. Il rapporto Sarr-Savoy, pur non essendo esattamente un testo divulgativo, è sicuramente una pietra miliare nella letteratura sulle restituzioni. La stessa Savoy ha collaborato a un altro volume interessante, che mostra anche il ruolo del mercato nella circolazione dei beni: Acquiring Cultures: Histories of World Art on Western Markets. Consiglio di leggerlo a chi desidera occuparsi di storia della cultura materiale. Chi invece vuole avvicinarsi all’argomento provenance in maniera meno tecnica può cimentarsi con Un’eredità di avorio e ambra di Edmund De Waal. Un’ultima domanda che si lega alla stringente e drammatica attualità. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto riemergere in maniera palese l’utilizzo strumentale della cultura nei conflitti. Mi riferisco in particolare alle richieste incrociate di restituzioni dei prestiti museali, poi fortunatamente “smussate”. Evidentemente si tratta di “restituzioni” molto diverse rispetto a quelle che deve affrontare ad esempio un “museo etnografico”, ma quale riflessione può generare questa seconda accezione? L’uso politico del patrimonio è una questione antica che risale fino ai tempi della preistoria: nelle situazioni di conflitto o di asimmetria del potere, il patrimonio viene sempre usato in questo senso. Ma è sempre stato usato anche a fini diplomatici nel senso positivo del termine. D’altro canto, se il patrimonio non avesse un forte valore identitario, non sarebbe al centro di questioni tanto cruciali. Credo che non si smetterà mai di reclamare, distruggere ma anche “scambiare” patrimonio: fa parte delle interazioni (di incontro ma anche di scontro) tra le persone. Sta a noi che questi scambi diventino sempre più collaborativi e alla pari.

L STORIES L RESTITUZIONI L

Qual è la vostra politica in merito alla questione delle restituzioni? La questione delle restituzioni è molto complessa e ogni caso vale a sé. Non abbiamo ricevuto delle richieste formali da parte di governi internazionali a oggi, ma da tempo il museo sta lavorando su tre diversi fronti: 1. trasparenza delle collezioni e tracciabilità della provenienza degli oggetti per chiarire eventuali situazioni scorrette di acquisizioni avvenute nel passato; 2. disamina dello status quo relativamente alle procedure di eventuali alienazioni del patrimonio (per legge il patrimonio dello Stato è inalienabile e quindi non cedibile se non a seguito di provvedimenti specifici); 3. redazione di un documento sulla politica dell’acquisizione o della ricezione di donazioni che tenga conto delle più attuali normative in materia di circolazione dei beni non europei nonché dei criteri etici stabiliti da ICOM, esaminando anche i vademecum di due diligence realizzati all’estero, per esempio le Guidelines for German Museums. Care of Collections from Colonial Contexts, la cui terza edizione è stata pubblicata nel 2021.

Avete programmi di dialogo aperti con realtà museali di Paesi di cui conservate manufatti? Non intendo solo per quanto riguarda il tema delle restituzioni, ma di dialogo su un più ampio raggio. Certamente, da molti anni il museo ha una missione archeologica e antropologica in America Latina che segue le orme di uno dei fondatori del museo, ovvero l’esploratore milanese Antonio Raimondi. Raimondi è una figura molto positiva di esploratore che è diventato un padre della patria in Perù, dove è emigrato per motivi politici a metà dell’Ottocento. La missione archeologica è nata per contestualizzare meglio i lavori di Raimondi e gli oggetti peruviani del museo. Abbiamo svolto moltissime azioni concrete per la promozione e la difesa del patrimonio archeologico in Perù, oltre a collaborare con i musei locali per effettuare formazione. La missione ha anche promosso un programma di lavoro femminile, finalizzato alla ripresa della produzione di ceramica e tessuti tradizionali per rivitalizzare una tradizione importantissima ma anche promuovere l’indipendenza economica alle donne.

MARZO L MAGGIO 2022

Come ci si comporta praticamente alla richiesta di restituzione? Come si preparano i musei italiani? Come affrontano a monte la questione postcoloniale? Ne abbiamo parlato con Carolina Orsini, conservatore delle Raccolte Archeologiche e Etnografiche del Museo delle Culture di Milano.

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MARCO ENRICO GIACOMELLI mudec.it

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ARTE, ARTISTI E PANDEMIA. COME CAMBIANO LE COSE POST COVID SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

L STORIES L ARTISTI L

N

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essun angolo del nostro pianeta è rimasto intoccato dalla crisi causata dall’emergenza Covid-19. Il virus ci è costato molte vite e i lockdown che abbiamo sperimentato in molte nazioni ha distrutto posti di lavoro e imprese. Nel momento in cui stiamo scrivendo, l’impatto socio- economico lasciato dalla pandemia, a lungo e medio termine, è molto difficile da prevedere e misurare”. Con questa frase preoccupata e accorata inizia il rapporto sulle industrie culturali e creative, “in the face of Covid-19. An Economic Impact Outlook”, presentato a giugno 2021 da Unesco, che ha cercato di mappare le conseguenze della pandemia in molti dei settori produttivi a livello globale. Ce lo ricordiamo tutti: musei chiusi per lunghi periodi o con accesso ridottissimo. Eventi cancellati. Cinema e teatri non accessibili, in un bailamme di proteste e di reazioni contrastanti. C’era chi sosteneva che i luoghi della cultura “sono i più sicuri di tutti”, alcuni con la sui generis motivazione “perché hanno pochi visitatori” – non rendendosi conto che più che una difesa questo è il modo migliore per affossare l’offerta culturale agli occhi degli stakeholder. Chi diceva “che era meglio tener chiuso: andar per mostre ed eventi è totalmente accessorio, la salute prima di tutto”. Chi invece ribadiva: “In un momento di grande difficoltà la rinascita deve venire prima di tutto dalla cultura. La bellezza non è qualcosa a cui rinunciare. Non si vive di solo pane”. E così via. Tra le manifestazioni di protesta più recenti, a gennaio 2022, e più curiose, c’è quella messa in atto dal Van Gogh Museum ad Amsterdam, che ha trasformato le sue sale espositive in centro estetico e salone di bellezza per esprimere il proprio dissenso verso le misure governative olandesi che, a fine dicembre 2021, per arginare la diffusione del contagio della variante Omicron, avevano posto a chiusura i luoghi di cultura, lasciando però aperti parrucchieri, centri estetici e palestre. Di conseguenza, l’istituzione dedicata a uno dei più famosi artisti al


Reverie, Clessidra senza tempo, 2020, opere uniche, materiali diversi

mondo si era dotata di strumentazioni, specchiere e make-up, lasciando tuttavia le opere del famoso Vincent appese alle pareti, per offrire una esperienza unica di benessere. Un evento fonte di grande ispirazione ed emblematico nel dimostrare i controsensi e le difficoltà continue cui ci ha abituato la pandemia (probabilmente inapplicabile tuttavia in Italia, dove vigono le severe regole della destinazione d’uso degli spazi).

IL RAPPORTO UNESCO

L STORIES L ARTISTI L

Se in apparenza queste esternazioni hanno un che di performativo e curioso, in realtà nascondono una problematica reale fatta del rischio del crollo dell’economia di un intero settore. Minori ricavi, conseguenti perdite di posti di lavoro, minori occasioni e mobilità per gli artisti. È questo lo scenario che emerge dal rapporto Unesco Re|shaping policies for creativity. Addressing culture as a global public good, pubblicato nel 2022, che fin dalle prime pagine ci racconta in breve lo stato dell’arte. Secondo il rapporto, infatti, con il suo 3,1% del PIL mondiale e il 6,2% dell’occupazione, cultura e creatività rappresentano un settore giovane, tra quelli in più rapida crescita al mondo, ma proprio per questo tra i più vulnerabili, anche perché spesso trascurato da investimenti di carattere pubblico e privato. E con il Covid siamo andati peggio. È in corso, infatti, si legge sul rapporto, “una tendenza al ribasso degli investimenti pubblici per la cultura, che indica nuove sfide per i settori culturali e creativi”. Malgrado gli ottimi risultati. Le esportazioni di beni e servizi culturali, ad esempio, spiega la pubblicazione scaricabile dalla piattaforma Unesco, sono raddoppiate di valore dal 2005 fino a raggiungere, nel 2019, 389,1 miliardi di dollari. Nonostante ciò, dall’incedere dell’emergenza pandemica, i settori di cultura e creatività sono stati per molteplici ragioni, molte delle quali già elencate (tra queste la necessità di una presenza fisica), tra i più colpiti con il venir meno di ben 10 milioni di posti di lavoro solo nel 2020. Le entrate degli operatori culturali sono diminuite del 10%, per un ammontare di circa un miliardo di euro. Inoltre, secondo il rapporto sono stati 7mila gli eventi di Performing Arts cancellati in Italia tra febbraio e marzo 2020; per ciò che concerne Biennali ed eventi di rilievo nel mondo, uno su tre è stato cancellato.

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Il seguente articolo è un’anticipazione del libro di Come vivono gli artisti?, di prossima uscita per i tipi di Castelvecchi, nell’ambito della collana di saggi d’arte contemporanea Fuoriuscita diretta da Christian Caliandro. Del progetto vi parliamo anche nelle pagine dei libri in questo numero di Artribune Magazine

L’ANOMALIA DELLE GALLERIE D’ARTE

Musei e gallerie chiusi (almeno nel primo lockdown), minori possibilità di viaggiare, progetti di residenze e bandi posticipati o addirittura annullati hanno gravato ulteriormente sugli artisti e sulle loro entrate. Proprio a proposito delle residenze, una fonte importantissima sia di entrate che di esperienze, un formato che però alla luce di quanto avvenuto avrebbe forse bisogno di una riattualizzazione, gli artisti Salvatore

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L STORIES L ARTISTI L

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Iaconesi e Oriana Persico commentano: “In generale si è molto soli. E non solo gli artisti. Soli nel senso che siamo costantemente esposti alla fragilità: anche se abbiamo tanti amici, quanti potrebbero rispondere a una nostra crisi? E noi potremmo rispondere alla loro? Precarietà e competizione ci stanno mettendo in difficoltà. La residenza è parte di questo scenario. Più che ‘residenza d’artista’, intesa come luogo o modalità di permanenza in cui svolgere un progetto o una ricerca, sarebbe più interessante riscoprire e attualizzare modelli di ‘abitare’ anche del passato, come le reti di monasteri, in cui si andava per abitare, lavorare, studiare, relazionarsi, e anche per viaggiare e confrontarsi con altri. Alcuni arrivavano e andavano via, altri stavano per tutta la vita, secondo un percorso che poteva avere significati diversi, da quelli spirituali alla carriera, dalla diversità alla protezione alla persecuzione, e tanti altri. Noi stiamo chiamando questi e altri concetti il Nuovo Abitare, usando le tecnologie per descrivere e praticare queste nuove modalità di un possibile abitare alla ‘fine del mondo’”. Una anomalia positiva e allo stesso tempo contraddittoria in Italia è stata offerta dal DPCM di novembre 2020, che prevedeva la serrata per le istituzioni pubbliche, ma non per le gallerie d’arte che, in quanto esercizi commerciali (leggasi negozi), potevano proseguire nella loro attività. Un “cavillo” che da una parte ha permesso agli spazi for profit di continuare con militanza nel loro lavoro, sia a sostegno degli artisti che del pubblico, con la responsabilità di reggere per lungo tempo da soli l’intera programmazione artistico-culturale in presenza del Paese; dall’altra offriva una cifra esatta di quella che ancora è purtroppo la percezione della promozione culturale in Italia. E inoltre escludeva dall’intera narrazione quegli artisti che, per questioni di pratica, di occasioni della vita, di decisioni, o semplicemente per incompatibilità del lavoro con le richieste di mercato, hanno scelto di non avere una galleria commerciale a sostegno della propria attività.. “Quella che era già una situazione precaria per molti artisti è diventata insostenibile, minacciando la diversità creativa”, spiega Audrey Azoulay, direttore generale di Unesco, nella sua introduzione al rapporto 2022. “Allo stesso tempo, ci siamo resi conto di quanto abbiamo bisogno della cultura, della creatività e della diversità delle espressioni culturali protette dalla Convenzione dell’Unesco del 2005 sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali. Abbiamo bisogno della vitalità di un settore che dà lavoro ai giovani e alimenta l’innovazione e lo sviluppo sostenibile [...]. Oggi, per superare la crisi, dobbiamo garantire il posto che spetta alla cultura nei nostri piani di ripresa. Ma abbiamo anche bisogno di politiche a lungo termine per rispondere alle sfide strutturali evidenziate dalla crisi. Artisti e professionisti della cultura di tutto il mondo

90%

dei musei ha chiuso temporanemente durante la pandemia

13%

ha chiuso definitivamente

Chiusure di musei

In grado di fornire contenuti digitali

39% Mondo Arabo

26% Musei in Europa

27% Asia

7% Musei negli Stati Arabi

24% Africa

5% Musei in Africa

12% America Latina + Caraibi 10% Nord America Fonte: Museums Around the World in the Face of COVID-19 (Unesco, 2020)

8% Europa

-20.300 € 75-80%

3 musei su 5 hanno subito una perdita di a settimana nell’aprile 2020

perdite stimate di reddito

Gli artisti americani hanno perso una media di di entrate procapite

-21.500 $ -50,6 mrd. a livello nazionale

Fonte: Covid-19’s Impact on the Arts (Americans for the Arts, 2020)

Fonte: Survey on the Impact of the COVID-19 Situation on Museums in Europe (NEMO 2020)

La trasformazione digitale non può essere la sola valvola di sfogo di un settore puramente relazionale.

si sono espressi, ad esempio, su questo tema nei dibattiti ResiliArt organizzati dall’Unesco. Hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di creare regolamenti che forniscano agli artisti un certo grado di sicurezza, sulla necessità di fornire supporto per quanto riguarda la digitalizzazione garantendo diversità culturale, catene di valore eque e un’equa remunerazione dei creativi da parte delle principali piattaforme digitali”.

IL TEMA DELLE COMPETENZE DIGITALI

Il tema delle competenze digitali e della trasformazione delle nostre abitudini è un altro degli aspetti che dovremo affrontare nel prossimo futuro. Da una parte hanno concesso una amplificazione della diffusione di contenuti, immagini, progettualità di artisti, critici, curatori, che altrimenti sarebbero rimasti chiusi negli studi senza la possibilità di un solido contatto nell’intera filiera produttiva. Ricordiamo tutti il fiorire di

iniziative, dirette streaming, dispacci internazionali, chiacchiere su Clubhouse (che l’arte contemporanea in Italia ha scoperto, lasciandosi sedurre, per poi abbandonarlo nel lasso di qualche settimana), con progetti di grande spessore, come Radio GAMeC, iniziative in streaming e le immancabili viewing room online che, pur con tutti i dubbi, hanno dato respiro a fiere, gallerie d’arte, artisti, e offerto qualche strumento per mantenere vivo il network internazionale distrutto dal Covid. Secondo il rapporto Unesco 2021, il 26% dei musei in Europa è stato in grado di produrre contenuti digitali. Dall’altra parte, però, la trasformazione digitale non può essere la sola valvola di sfogo di un settore puramente relazionale, né questo fenomeno può essere lasciato alla unica creazione di movimenti spontanei. Come ricorda il report Unesco, “nei prossimi anni dovranno essere affrontate barriere significative per garantire processi e sistemi di governance per la cultura resilienti, informati, trasparenti e partecipativi. Sarà inoltre necessario incoraggiare politiche e misure per facilitare l’accesso delle diverse espressioni culturali all’ambiente digitale”. Inoltre, stando alla ricerca, sono pochi i Paesi che dispongono di quadri normativi per affrontare le sfide imposte dal digitale. Rimangono pertanto notevoli divari in termini di equa remunerazione per i creativi che operano in questo ambito, sia in termini di diritto d’autore nell’ambiente digitale che di rilevabilità dei contenuti culturali digitali. L’accesso irregolare alla connettività


IL DESTINO DEI PRINCIPALI FESTIVAL DEL CINEMA INTERNAZIONALE PREVISTI PER IL 2020

3 musei su 10 hanno sospeso i contratti con lavoratori freelance

76%

cancellati

Fonte: Survey on the Impact of the COVID-19 Situation on Museums in Europe (NEMO 2020)

non cancellati

41%

Formato tradizionale in loco

I SETTORI CULTURALE E CREATIVO RAPPRESENTANO IL del PIL

3.1% 6.2% di tutta l’occupazione

34%

PERCENTUALE MEDIA DI PERSONE OCCUPATE NELLA CULTURA, COME PERCENTUALE DELL'OCCUPAZIONE TOTALE

Fonte: Re|shaping policies for creativity. Addressing culture as a global public good (Unesco, 2022)

6,2% Totale globale 5,9% Europa occidentale e Nord America 5,8% Europa orientale 6,9% America Latina e Caraibi 6,7% Asia

SPESA PUBBLICA MEDIA PER "SERVIZI CULTURALI" E "SERVIZI DI RADIODIFFUSIONE ED EDITORIA" IN PERCENTUALE DEL PIL, 2010-2019 0,8%

8,2% Africa

paesi sviluppati

0,5%

paesi in via di sviluppo

Fonte: Cultural employment data (UIS, 2016) | The Artists Information Company COVID-19 impact survey (BOP Consulting, 2021)

0,4% mondo

0,3%

UTENTI ATTIVI GITHUB PER CONTINENTE, 2020-2021

0,2%

2010

2011

2012 2013 2014

2015

2016 2017

5,9%

2018 2019

31,5%

Fonte: The Artists Information Company COVID-19 impact survey (BOP Consulting, 2021) | Fondo Monetario Internazionale

Nord America -2,3% sul 2019

ARTISTI DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO IN 13 BIENNALI D'ARTE % di artisti 2018-2020 % di artisti 2012-2017 Manifesta Svizzera Whitney Biennale USA

27,3%

Europa +0,7% sul 2019

Documenta Germania

30% 32%

31,2%

Asia + 0,3% sul 2019

33% 39% 45%

Biennale di Venezia Italia

42% 45%

Biennale di Shangai Cina Biennale di Sharjah EAU Biennale de L’Havana Cuba DAK’ART Senegal

Fonte: The 2021 State of Octoverse (GitHub, 2021)

38% 38%

Biennale di Gwangju Sud Corea

Biennale di San Paolo Brasile

Africa +0,3% sul 2019

Oceania -0,1% sul 2019

15% 12% 13% 13% 32% 32%

Biennale di Istambul Turchia

2,3%

1,7%

Fonte: The Artists Information Company COVID-19 impact survey (BOP Consulting, 2021)

Biennale di Lione Francia

Biennale di Sidney Australia

Sud America + 1,0% sul 2019

L STORIES L ARTISTI L

0,6%

Online

Formato ibrido

Fonte: The Artists Information Company COVID-19 impact survey (BOP Consulting, 2021)

0,7%

25%

MARZO L MAGGIO 2022

24%

3 musei su 5 hanno interrotto completamente i loro programmi di volontariato

Aprile 2020

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56%

75%

ARTISTI ITALIANI INCLUSI NELLA BIENNALE DI VENEZIA DAL 2007 AL 2019 6% (6 su 10) Biennale 52 2007 11,5% (10 su 87) Biennale 53 2009 11,9% (10 su 84) Biennale 54 2011

63%

8,5% (14 su 164) Biennale 55 2013 2,9% (4 su 139) Biennale 56 2015

66% 66% 64% 73%

2,6% (5 su 193) Biennale 57 2017 2,4% (2 su 84) Biennale 58 2019 Fonte: Quanto è (ri)conosciuta all’estero l’arte contemporanea italiana? (2022)

76% 73% 92% 87%

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MARZO L MAGGIO 2022

#65/66 QUOTA DI COPERTURA MEDIATICA GLOBALE PER NAZIONALITÀ DEGLI ARTISTI DI OGNI EPOCA

Cinesi 11,69%

Americani 26,42%

Italiani 6,96%

Francesi Tedeschi 7,12% 5,43%

Spagnoli 5,20%

Inglesi 9,79%

Altre 19,27%

Cinesi 9,32%

Americani 30,29%

Fonte: Articker/Phillips, 2021

L STORIES L ARTISTI L 110

Ma come è cambiato e sta cambiando il sistema dell’arte? Secondo l’artista Giuseppe Stampone, “il sistema dell’arte non ha avuto la fortuna di cambiare perché appartiene a un modo di fare postmoderno e non è riuscito già da tempo a rispecchiare la nuova realtà del villaggio globale; un’arte tattile, neo-dimensionale, che ha completamente ribaltato concettualmente il sistema dell’arte. Ancora non si manifesta totalmente ma le cose sono già avvenute, il cambiamento è avvenuto, ora deve solo manifestarsi agli occhi del sistema contemporaneo obsoleto non più in grado di rappresentare la realtà. Oggi si parla di crisi economica del sistema dell’arte”, prosegue Stampone, “ma sbagliamo, così continueremo ad annegare negli abissi! La crisi è strutturale e potrebbe essere una liberazione, l’acqua purifica, oggi stiamo vivendo un momento di mutazione epocale, l’onda anomala: questa grande onda d’acqua mi fa venire in mente la visione (più che catastrofica, salvifica) del ‘Diluvio Universale’. Non è un problema di medium ma di mentalità, è un problema di sensibilità tecno-culturale, e anche fisico, perché per fare ‘surf ‘ e camminare sull’acqua bisogna sapere che il

Tedeschi 3,20%

Altre 27,17%

Spagnoli 1,62% Giapponesi 6,15%

COME CAMBIA IL SISTEMA DELL’ARTE

Italiani 1,87%

Francesi 2,97%

Giapponesi Olandesi 3,94% 4,29%

e alle competenze – prosegue il rapporto Unesco – rafforza le disuguaglianze esistenti, portando a un divario digitale crescente e a una diversità limitata degli attori in grado di impegnarsi e di trarre vantaggio dall’economia creativa digitale.

QUOTA DI COPERTURA MEDIATICA GLOBALE PER NAZIONALITÀ DEGLI ARTISTI NATI DOPO IL 1960

Inglesi 15,90%

Un sistema che, non potendo rigenerarsi proponendo nuovi formati, si è ancorato a quelli consolidati. diluvio universale non è una catastrofe. I social network e le piattaforme digitali sono oggi i simboli di apertura e partecipazione. L’arte è aperta e partecipativa per sua stessa natura. L’artista ha sempre incarnato la figura ideale di colui che deve interpretare e guidare verso ‘nuove’ strade, utilizzando i medium del proprio tempo, in periodi di transizione come questi”. C’è un po’ la sensazione, in generale, di aver perso qualche scommessa, con un sistema che, non potendo rigenerarsi proponendo nuovi formati, si è ancorato in maniera profonda, forse rimuovendo un trauma, a quelli consolidati e precedenti e non potendo evolvere maggiormente nella struttura si è rivolto, anche giustamente, ai grandi temi. Qualche passo in avanti c’è stato: gli artisti italiani, anche i mid-career, sono tornati in maniera più sostanziale nei musei italiani;

Canadesi 1,52%

sono nati nuovi progetti, lanciati da gallerie o associazioni di gallerie, ma la strada da percorrere è ancora lunga, in termini di lavoro, di sostegno agli artisti, di acquisizione di competenze digitali. “Adesso che c’è stata la riapertura”, commenta l’artista Reverie, “il mondo dell’arte ha ripreso a correre più di prima. Il susseguirsi frenetico di fiere ne è una lampante dimostrazione, così come il calendario serratissimo di eventi e di mostre. La virtualità inoltre è rimasta una dimensione importante. Si scopriva online, si comprava unicamente online e adesso è rimasto un motore molto importante ma per fortuna non più il solo”. E sembra emergere in maniera sempre più forte la necessità di costruire un dibattito reale e specifico intorno a questi argomenti. In Italia un tentativo in tal senso è quello portato avanti a più riprese dalla Associazione AWI – Art Workers Italia, nata nel 2020, come movimento informale e “come sforzo di immaginazione politica di un gruppo di lavoratori”, e ci sono state esperienze come il Forum dell’Arte Contemporanea (l’ultimo si è svolto a novembre 2020) che hanno provato a porre sotto la lente le criticità del settore. È necessario continuare sulla strada della ricognizione su quelle che sono state le trasformazioni effettive in termini generazionali, sociali, culturali, psicologici ed economici, e le conseguenti ricadute in termini concreti e percettivi sul settore. E soprattutto sulle vite degli artisti, che sono il primo motore di tutta questa straordinaria e difficile partita.


"IL SISTEMA HA RUBATO LA PAROLA ARTE" INTERVISTA A GRAZIA TODERI

Come vivono gli artisti? Quali sono le loro fonti di reddito più ricorrenti? Ci sostengono musei e collezionisti privati, e a volte commissioni per progetti speciali.

E dai curatori cosa vorresti? Una conoscenza più approfondita della storia dell’arte, anche contemporanea. E di lavorare per un ”sistema” che sia davvero “un sistema dell’arte” e non un sistema economico e di privilegi personali. Purtroppo è molto difficile anche per loro, perché subiscono esattamente gli stessi ricatti degli artisti. I più rigorosi sono spesso emarginati e sostituiti da quelli più compiacenti. Cosa credi che abbiano i colleghi stranieri, in termini di supporto, che gli artisti italiani non hanno?

In quanto artista, come gestisci sia in senso pratico che dal punto di vista emotivo le questioni relative a famiglia, malattia, maternità? Essendo nata femmina, con grande difficoltà da sempre. Quali effetti hanno avuto la pandemia e i lockdown che si sono susseguiti sulla tua ricerca? Hanno reso il mio lavoro ancora più concentrato e cerco ancora di più di non perdere tempo. Quali invece sulla sostenibilità? Credo che poche persone abbiano migliorato la loro sostenibilità grazie alla pandemia. Come è cambiato, se è cambiato, il sistema dell’arte? Il “sistema”, che ha rubato la parola “arte”, continua a proclamare la sua crescita bulimica in nome dell’arte, ma è al servizio dell’economia, del turismo, dell’intrattenimento, della comunicazione, della sociologia... Qual è oggi la parola che indichi il contesto nel quale l’arte non sia necessariamente asservita a tutto ciò? Inoltre, oggi si confonde la creatività con l’arte. Ogni essere umano può essere creativo, ma l’artista è colui che coltiva quotidianamente una disciplina severa sulla propria creatività. Che da una parte la controlla, ma dall’altra la libera, trasformandola in “arte”.

L STORIES L ARTISTI L

Cosa ti aspetteresti di più dal sistema dell’arte? Cosa vorresti che ti desse? Vorrei che la voracità del “sistema dell’arte” si facesse un pochino da parte. Nell’organizzazione delle mostre ogni figura professionale è retribuita, mentre all’artista viene chiesto di lavorare o prestare l’opera (cioè la parte essenziale della mostra) senza nessun compenso. Non vengono nemmeno riconosciuti i diritti di copyright previsti dalla legge per la pubblicazione delle immagini. Ma la cosa peggiore è la richiesta di rinunciare anche alla qualità di installazione dell’opera. È un “sistema” ricattatorio e gli artisti che si oppongono, chiedendo rispetto dell’opera, sono additati per sempre come “di cattivo carattere” e sostituiti da quelli più compiacenti. Cresce così la mediocrità.

Che ruolo ha la residenza d’artista nell’economia sia intellettuale che pratica di un artista? Per ogni artista ha un ruolo diverso.

MARZO L MAGGIO 2022

L’Italia soffre di provincialismo perché non accetta di essere meravigliosamente provinciale. Le istituzioni credono di essere internazionali finanziando l’uscita sporadica degli artisti. Senza capire che è soprattutto ciò che finanziano in Italia che deve diventare di qualità internazionale. I colleghi stranieri sono supportati innanzitutto dai loro musei, e poi anche esportati. In Italia, invece di affrontare i reali problemi, che sono quelli istituzionali, si chiede agli artisti di tentare la fortuna passando qualche mese all’estero.

Come si è evoluto il mercato dell’arte negli ultimi decenni? Che ruolo ha avuto la strutturazione di un “sistema”? Come vengono trattati gli artisti in quest’ultimo? Un dialogo a tutto capo con l’artista Grazia Toderi (Padova, 1963).

Com’è dal tuo punto di vista l’attuale situazione di mercato? Com’è cambiato per esempio da quando hai cominciato a lavorare in questo ambito? Tempo fa era molto semplice. La galleria ospitava la mostra di un artista, al quale comprava una o più opere. Spesso commissionava un testo di presentazione della mostra a un critico. Collezionisti e musei compravano dalla galleria. Poi l’arte è diventata una appetibile bolla speculativa. E sono nate nuove identità, molto abili a intercettare finanziamenti, che hanno iniziato a strutturarsi in vari modi e a proporre servizi “in nome dell’arte”. Così sarebbe interessante oggi conoscere, all’interno del totale dei finanziamenti pubblici destinati all’arte contemporanea, quale sia la percentuale dedicata agli artisti. Ovviamente in cambio delle loro opere o del loro lavoro.

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Date queste premesse, come si evolverà il “mestiere” dell’artista in Italia nel prossimo futuro? Parlare di futuro è un fantasticare dispersivo e fuorviante, se già oggi agli artisti non si lascia il presente. Se ti pensi da qui a dieci anni, come ti vedi? Sarò migliore di adesso, avendo più lavori realizzati e più esperienze. graziatoderi.com

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È SBARCATA SU TIKTOK ED È A CACCIA DI IDEE

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Antoni Clavé Lo spirito del guerriero

22 aprile - 23 ottobre 2022 orari: 10 - 18

chiuso il martedì

ACP - Palazzo Franchetti San Marco 2842 30124 Venezia


TIZIANO/MILANO • YSL/PARIGI

Donatello, Madonna col Bambino, 1410-15 ca. © Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst. © photo Ela Bialkowska OKNO studio

DONATELLO/FIRENZE • LUIGI SPINA/NAPOLI

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IN APERTURA / DONATELLO / FIRENZE

Donatello, Firenze e il Rinascimento

Giulia Giaume

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uesta non è solo una mostra storica, ma un momento storico”. Il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, non ha dubbi. Donatello, il Rinascimento è una delle mostre del 2022. Centotrenta opere da tutta Europa, di cui cinquanta solo di Donatello, ricostruiscono un’immagine monumentale del genio fiorentino, la più completa mai composta, che riporta alla sua figura l’inizio del Rinascimento e della gloria fiorentina: una grandissima occasione per conoscere l’artista nel suo tempo, anche grazie al contributo di circa sessanta istituzioni internazionali. Donato di Niccolò di Betto Bardi (Firenze, 1386-1466) emerge qui come il nume tutelare dell’arte rinascimentale insieme al maestro e amico Filippo Brunelleschi – con cui lavorò alla cattedrale fiorentina dopo essere stato l’allievo del suo “rivale”, quel sommo orafo Ghiberti che si aggiudicò la porta nord del Battistero con Il

sacrificio di Isacco –, nonché artista rivoluzionario e dirompente. Dall’interpretazione tridimensionale dello strumento prospettico alla creazione della tecnica dello “stiacciato”, con cui dava forma a bassorilievi tridimensionali attraverso variazioni di spessore millimetrico, fino all’attenzione per la psicologia e alle emozioni dei soggetti, Donatello semplicemente cambiò ogni parametro artistico catapultandolo nella modernità. “Donatello non è solo un patriarca di un’epoca, come Giotto prima e Michelangelo poi”, spiega il curatore Francesco Caglioti, professore di Storia dell’Arte Medievale alla Scuola Normale di Pisa, “è un uomo che esorbita dall’arte occidentale”.

LA MODERNITÀ DI DONATELLO

Il percorso espositivo, che si snoda tra Palazzo Strozzi e il Museo Nazionale del Bargello, accompagna i visitatori dalla giovane età del maestro alle ultime creazioni, accostando alle sue opere sculture, dipinti e disegni di Brunelleschi, Masaccio, Mantegna, Bellini, Raffaello,

Michelangelo e molti altri artisti. Il percorso di Donatello viene qui studiato ed esposto con rigore scientifico impeccabile, prima di tutto del curatore Caglioti, facendone emergere lo spirito moderno e trasgressivo, alla base di una continua ridiscussione dei canoni artistici preesistenti. “È stato il più grande allievo di Brunelleschi, ma lo ha superato introducendo sempre nuovi elementi e giocando con i tempi della rappresentazione. Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Pontormo sono allievi ideali di Donatello, più intelligenti di quelli troppo vicini al suo fuoco”, ricorda il professore, che lo indica senza esitazione come una delle personalità più influenti dell’arte italiana di tutti i tempi. Basti guardare la Madonna della Scala di Michelangelo, una perfetta rielaborazione della Madonna dei Pazzi, così come l’Imago Pietatis di Bellini è figlia diretta dell’omonima opera del fiorentino, per non parlare della Testa Carafa, la gigantesca protome di cavallo in bronzo “tanto perfetta da sembrare antica”, disse il Vasari (allestita qui accanto alla greca Testa Medici del 340 a. C.).


IN APERTURA / DONATELLO / FIRENZE Le quattordici sezioni cronologico-tematiche mostrano come Donatello fosse “versato in tutte le tecniche della scultura. Per questo si rese immediatamente conto dei limiti di questa rispetto alla pittura, a confronto della quale veniva considerata un’arte più primitiva, che aveva perso importanza con il procedere dei secoli. Così lui rompe e sconvolge la scultura e la storia dell’arte, e dialoga da maestro con i discepoli scultori e tanti pittori”, spiega Caglioti. La prospettiva brunelleschiana, pensata come una scienza perfetta, era un vincolo troppo oneroso: “Donatello lascia a Paolo Uccello e Piero della Francesca il proseguimento di quelle ricerche e sceglie di farne un uso patetico, drammatico, romantico”.

DA FIRENZE ALL’EUROPA

L’esposizione, seppur intrisa di fiorentinità – il Marzocco in pietra serena è il perfetto simbolo della città, nato dall’unione del Martocus d’età romana con il giglio rosso in campo bianco di derivazione guelfa –, ha una piena dimensione europea, e non solo per la sua genesi. Realizzata in collaborazione con la Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst dei Musei Statali di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra, la mostra proseguirà proprio in queste due sedi: una funzione da tedofora, quella della città di Firenze, che sancisce una storica alleanza inter-europea per entità e qualità. “Abbiamo dimostrato, con questi prestiti straordinari e il profondo dialogo in corso, che l’Europa unita nella cultura funziona”, riassume la direttrice del Museo Nazionale del Bargello, Paola D’Agostino. La mostra è un trionfo. Ma di quelli non “facili”. La scultura gode meno di quella immediata comprensione garantita alla pittura da successo e diffusione – motivo per cui si rende necessaria la lettura di una densa mole di informazioni, presenti in tutte le sale – e osservare in tutta la sua gloria l’arte di Donatello trasforma la comune visione del Rinascimento, umiliando la pre-concezione scolastica e aprendo a una autentica rivelazione. fino al 31 luglio 2022

DONATELLO, IL RINASCIMENTO a cura di Francesco Caglioti Catalogo Marsilio Arte PALAZZO STROZZI Piazza Strozzi – Firenze palazzostrozzi.org MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO Via del Proconsolo 4 – Firenze bargellomusei.beniculturali.it

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3 DOMANDE AD ARTURO GALANSINO Questa mostra è un omaggio semplicemente grandioso, ma anche un’occasione storica, è corretto? È così. È l’unica occasione per poter comprendere qualcosa di questo genio incredibile. Ma non solo. Molte delle opere qui presenti non si erano mai mosse prima di essere esposte e sicuramente non si sposteranno mai più. Non è solo un’occasione unica nella vita, ma un’occasione unica nella storia. Donatello è un artista famoso ma, rispetto a quanto ha influito sulla storia dell’arte, neanche poi così noto. Sorprendentemente. Il grande pubblico non è infatti sempre in grado di collocare Donatello nel tempo e nello spazio, e definire

le sue opere principali. Non è un artista così mainstream, eppure nel suo patetismo è più contemporaneo dei contemporanei. L’allestimento della scultura è complicato: come vi siete mossi per ospitare Donatello a Palazzo Strozzi? La scultura non è “instagrammabile” quanto la pittura, è molto difficile da fotografare, da riportare sulla carta dei libri e sugli schermi (sfida che Sky Arte ha raccolto con un documentario per l’occasione), anche se dal vero resta fortissima. Abbiamo allestito le opere considerando quello che era il punto di vista pensato dallo scultore, la sua idea “estrema” di prospettiva – che comprendeva meglio di chi l’aveva inventata –, sia a livello di rilievi sia di statuaria.

DONATELLO E IL RINASCIMENTO: UNA STORIA PARALLELA

1386

Nasce a Firenze Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, da una famiglia di tiratori di lana.

1401

Tradizionalmente l’inizio del Rinascimento, coincide con la data del concorso per la porta nord del Battistero di Firenze, la “porta del Paradiso”, vinto da Lorenzo Ghiberti (primo maestro di Donatello).

1406

Donatello è inserito con successo nel cantiere del Duomo Fiorentino, diventando amico di Brunelleschi.

1411-15

Donatello realizza le statue per Orsanmichele, fornendo il primo esempio noto di stiacciato, e per il campanile di Giotto.

1428-38

Il pulpito del Duomo di Prato viene commissionato alla compagnia fondata da Donatello e Michelozzo, cooptato per gestire la mole di commissioni. Rimandata per dieci anni, l’opera si concluse in un capolavoro assoluto, un pulpito “a calice” con sette rilievi decorati con coppie di spiritelli danzanti su fondo a mosaico.

1443-54

Decennio padovano (e più genericamente nordico) di Donatello, durante il quale realizza grandi opere come la costruzione dell’altare di Sant’Antonio da Padova, con opere come la Deposizione di Cristo e il prospettico Miracolo dell’asina.

1466

Donatello, il Rinascimento. Installation view at Palazzo Strozzi, Firenze 2022. © photo Ela Bialkowska OKNO studio

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Donatello muore (secondo Vasari, in disgrazia) e trova sepoltura nei sotterranei della basilica di San Lorenzo a Firenze, vicino a Cosimo il Vecchio, proprio sotto l’altare.


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#28

OPINIONI

La guerra e il peso della cultura

La censura da Michelangelo ai social

Antonio Natali storico dell’arte

Fabrizio Federici storico dell'arte

È

azzardato avanzare proposte su accadimenti d’attualità quando già in partenza si sappia che saranno pubblicate in un foglio la cui uscita sarà di qualche tempo successiva. L’argomento è la guerra in Ucraina. E la riflessione muove dalla necessità che ognuno nell’ambito delle sue competenze s’adoperi per il ritorno alla pace. Nella fattispecie il quesito verte sulle possibilità della cultura (in questo caso dell’arte) di contribuire a far recedere Putin dalla sua aggressione scellerata.

La proposta è di non concedere in prestito, per i prossimi anni, opere d’arte dello Stato italiano ai musei di Putin LA RISPOSTA ALLA GUERRA

Lo strazio di gente in fuga disperata, i volti attoniti di bimbi portati di corsa nei rifugi effimeri delle cantine, le file di donne silenziose che nel gelo cercano di varcare i confini d’una terra che le accolga, e infine le lacrime (le troppe lacrime) che tutti versano fra i morti e le macerie, devono indurre a trovare al più presto una soluzione (che non sia armata) per fermare la tragedia ucraina. Putin, preso da un furore dissennato, va avanti nel suo progetto espansivo, evocando sempre più spesso la minaccia d’una guerra nucleare. E dalle nostre parti ormai il pensiero circola che solo la sua destituzione possa porre fine allo strazio. Nei Paesi dell’occidente le istituzioni culturali annullano manifestazioni che coinvolgano personalità russe. E lo fanno a malincuore, giacché gli artisti penalizzati non meritano (quasi mai) quel trattamento. Ma il popolo su cui Putin impèra e su cui ricadono gli effetti nefasti delle sue scelte – esterne, ma anche interne – deve sapere che chi lo governa l’ha isolato dal contesto civile del mondo. Non mancano le colpe dell’occidente e si dovrà tenerne conto

anche in sede di negoziati per la pace; però questa è l’ora delle contromisure e dei deterrenti, non quella dei distinguo. Le armi allora no; ma l’isolamento sì.

CHE COSA PUÒ FARE LA CULTURA

In questo scenario si poneva la proposta (che ho avanzato su un quotidiano fiorentino il 27 febbraio e che ora ribadisco su questa più pertinente testata) di non concedere in prestito, per i prossimi anni, opere d’arte dello Stato italiano ai musei di Putin. A chi sorridesse di questa minaccia posso assicurare – da uomo che per una decina d’anni ha diretto gli Uffizi e per trenta ha visto i musei fiorentini contribuire considerevolmente all’esito felice d’esposizioni a Mosca e a San Pietroburgo – che si tratterebbe di un’emarginazione culturale pesante e vergognosa, non dirò per Putin, che coltiva altri interessi, ma per gl’intellettuali che l’appoggiano, sì; specialmente se altri Stati europei e americani si conterranno allo stesso modo. I politici italiani hanno per tanto tempo considerato i nostri capi d’opera biglietti da visita dello Stato italiano e di se stessi, prestandoli dove ci fosse da far brillare il nome del nostro Paese e magari quello loro personale. Ecco, è giunta l’ora d’usare quei beni a favore di un’umanità sofferente e della pace. P. S. 14 marzo 2022. Mentre in Italia si prende tempo strologando sul valore unitivo della cultura, la questione dei prestiti sembrava risolta dai russi; che, pretendendo la restituzione anzitempo di loro opere concesse a mostre in Italia, avrebbero obbligato il nostro governo a esercitare (almeno per amor proprio) il principio della reciprocità. Il direttore dell’Ermitage adesso dice che quelle restituzioni sono sospese, perché i ponti della cultura devono essere gli ultimi a saltare. Ci dica allora quali altri ponti rimangano dopo che tutto è già saltato per colpa di Putin.

Q

uanto l’arte sui social sia bersaglio della censura è noto. Ne so qualcosa io stesso: la mia pagina Mo(n)stre è sempre più vittima, specialmente su Facebook, delle ire di Meta. L’ultima pietra dello scandalo è stata la copertina di Vanity Fair Italia con Mahmood e Blanco allo stato brado (ma con i Paesi Bassi ben coperti), peraltro mixata con il mosaico ravennate raffigurante Giustiniano e il suo seguito: ma quale oscenità, si rimuova subito e si punisca il pornografo! Poco prima questa sorte era toccata a una miniatura del XV secolo (sic), raffigurante una scena di autoevirazione, peraltro postata spesso in passato: ma questa volta la scena era associata a una didascalia (“Cosa potranno fare i No Vax dopo il 6 dicembre”) che prendeva in giro (direi in maniera bonaria e, in fondo, intrisa di umanità) gli oppositori dei vaccini anti-Covid, i quali non hanno gradito, hanno segnalato il post e ne hanno ottenuto la rimozione.

I social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa IL POTERE DELL’ALGORITMO

Il problema non è solo la cancellazione del singolo post: il colpevole è sottoposto a punizioni via via più severe, quali l’impossibilità di postare e commentare per alcuni giorni e un deciso ridimensionamento della distribuzione dei post una volta che può farlo di nuovo. Impossibile, o comunque molto difficile, protestare o anche solo sapere quando il castigo avrà termine. Perlomeno Michelangelo (si parva licet…), saputo che papa Paolo IV, come riporta Vasari, voleva fargli “acconciare” il Giudizio, perché “disonesto”, poteva mandare a dire al pontefice “che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto”.

All’alba del terzo millennio non si sa nemmeno con chi prendersela: a manovrare la mannaia non c’è un essere umano, ma il misterioso, totemico “algoritmo”, che celebra in ogni suo imperscrutabile decreto il trionfo della macchina sull’uomo. Gli errori e gli arbitrî, naturalmente, abbondano: seni dipinti presi per veri, seni veri di cui non si vogliono capire le ragioni (come quelli legati alla sensibilizzazione sul tema del tumore al seno), l’utilizzo di certi termini travisato e punito, perché non se ne colgono la sfumatura ironica, l’uso provocatorio, il carattere di citazione.

UNA QUESTIONE DI LIBERTÀ

Quando la Rete si è affermata, pareva che si dischiudesse un’epoca di sconfinata libertà, di creatività senza barriere. I rischi della riduzione di tale libertà, di cui pure si è iniziato a parlare da subito, sembravano remoti, e invece eccoci qua: i social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa. Ovviamente io, come chiunque amministri una pagina social, sono parte del problema: con la mia attività su Facebook e Instagram contribuisco a tenere in piedi e a rafforzare il monopolio. Chi è dedito a rivisitare e divulgare l’arte è in cerca di soluzioni: qualcuno è migrato altrove, come i musei viennesi che hanno aperto un profilo sulla piattaforma per adulti OnlyFans. Si spera che le proteste e gli abbandoni rendano più sensibili su questi temi i responsabili dei maggiori social (anche nell’ottica della tutela dei loro stessi interessi, in primis commerciali), e che l’arte – del passato come del presente – e la creatività siano trattate con maggiore rispetto e senza ottusità.


OPINIONI

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A quando una mostra sulle serie tv?

Musei e cultura nell’era trans-pandemica

Stefano Monti economista della cultura

Elisabetta Barisoni responsabile di Ca’ Pesaro, Venezia

I

l fenomeno delle serie (chiamarle serie tv è forse anche un po’ rétro) è uno dei fenomeni culturali più importanti del nostro tempo. Basti pensare a come Squid Game abbia portato alla luce un malessere sociale della Corea del Sud, e a come Servitore del Popolo sia riuscita ad anticipare la futura ascesa politica dell’attuale presidente ucraino. Realizzare una mostra dedicata alle serie, definita con una severa metodologia scientifica e con una grande conoscenza non solo delle serie tv, ma anche della realtà che raccontano, potrebbe essere forse l’opportunità di creare, nello stesso prodotto, una mostra che è insieme blockbuster e un'occasione di ricerca.

COME ESPORRE LE SERIE TV

Sarebbero molteplici, infatti, le innovazioni che l’organizzazione di una mostra di questo tipo permetterebbe di affrontare, e di presentare poi al pubblico. Dalle riflessioni più prettamente artistico-culturali alla natura degli allestimenti, fino al difficile e delicato equilibrio tra leggerezza e rappresentatività culturale che il progetto curatoriale dovrebbe garantire, per produrre un percorso espositivo e culturale che non sia né troppo commerciale né troppo sofisticatamente ricercato. Indubbie poi le conseguenti riflessioni in merito alle opere che sarebbero portate in mostra e a quale sarebbe la loro natura una volta trasportate all’interno del percorso curatoriale. Ma le innovazioni riguarderebbero anche aspetti molto meno teorici: dalla gestione dei rapporti e delle autorizzazioni necessarie con le case di produzione sino alla corretta tipologia di display da utilizzare per favorirne la fruizione.

UN’OPERAZIONE COMPLESSA

E, non da ultimo, sarebbe interessante considerare le numerose possibilità in termini di organizzazione della mostra, come

la possibilità di inaugurare, nello stesso momento, la stessa identica mostra in più Paesi, incrementando in modo considerevole le tecniche e le possibilità di distribuzione di questa peculiare categoria di prodotto artistico, tenendo altresì conto delle connessioni tra questa tipologia di mostra e le recenti introduzioni in ambito tecnologico-digitale, ad esempio la creazione di NFT delle opere esposte.

Una mostra sulle serie tv coniugherebbe blockbuster e ricerca

Una mostra che si presenterebbe sicuramente come un’operazione complessa, ma che permetterebbe al mondo dell’arte di affrontare molteplici elementi che, a oggi, non hanno ancora trovato un proprio preciso inquadramento all’interno del sistema dell’arte contemporaneo.

È

una giornata fredda ma luminosa a Venezia. Ci avviciniamo alla primavera, una stagione che tutti aspettavamo come momento di rinascita e ricostruzione. Dopo due anni di pandemia, le istituzioni culturali guardavano al 2022 come un miraggio di (quasi) normalità. Correvamo troppo, dicevano i primi commentatori dell’emergenza sanitaria; non sono del tutto d’accordo, stavamo correndo sì, ma in una direzione che andava verso una pluralità di voci sul territorio nazionale. Con l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani e il Direttivo di cui faccio parte lavoravamo alla definizione di una geografia culturale che non fosse concentrata solo sui grandi centri ma che potesse ricollocare l’eccellente lavoro fatto da molti nel panorama italiano.

MUSEI E PANDEMIA

Non concordo con chi intravedeva un clima da gioiosa Apocalisse nella società pre-pandemia, tuttavia molte cose sono cambiate negli ultimi due anni. In primo luogo ci siamo dovuti porre una domanda spesso data per scontata: siamo davvero un settore essenziale? In tempi brevi, le istituzioni italiane si sono riorganizzate per tenere viva la propria voce, attraverso iniziative digitali, il più possibile partecipative. Hanno imparato a comprendere meglio potenzialità e limiti di un mezzo fondamentale, senza rivalità con l’esperienza dal vivo, e hanno risposto all’appello, cogliendo ogni occasione di partecipare e rilanciare artisti, collezioni e attività, malgrado le interruzioni e la scarsa mobilità nazionale e internazionale. È stato importante porsi la domanda sul proprio ruolo e sul proprio agire. La risposta, infine, mi è arrivata da una visitatrice di Ca’ Pesaro, nel giugno 2021: abbiamo sempre bisogno di bellezza e del Museo come luogo dove piangere, ridere, stare in pace, pensare, ricordare. Qualcosa forse è cambiato anche nel pubblico, più attento e più concentrato sul patrimonio storico e culturale.

DAL VIRUS ALLA GUERRA

Nuove riflessioni sono entrate nelle istituzioni, a testimoniare che le rivoluzioni non sono sempre rotture ma talvolta registrano l’accelerazione di fenomeni già in atto. Penso al rapporto tra uomo e tecnologia, tra postmoderno e postumano, alla nostra sopravvivenza sulla Terra, infine al movimento #MeToo e alla cancel culture. Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo; senza volerli relegare a ruolo di termoigrometri del presente o di inutili Cassandre, siamo in attesa di vedere quali opere sono nate e nasceranno da questo eccezionale periodo della Storia.

Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo Certo non è facile leggere il presente; mentre stiamo lavorando alla ricostruzione di un’era trans-pandemica, un nuovo dramma è piombato sulle nostre vite. Il virus ci aveva resi simili e vicini come esseri umani vulnerabili. Lo scoppio della guerra in Ucraina ci ha riportato invece in una dimensione di restaurazione, di rassegnata adesione a odiosi ricorsi storici. Un dramma umanitario e geopolitico si sta consumando mentre a Venezia fervono i preparativi della nuova stagione espositiva. Aspettavamo la Biennale Arte del 2022, ingenuamente paragonandola a quella del 1948, quando il Commissario Ponti scriveva: “L’arte invita tutti gli uomini, oltre le frontiere nazionali, oltre le barriere ideologiche, a un linguaggio che dovrebbe unirli in una umanistica intesa e universale famiglia contro ogni babelica disunione e disarmonia”. Possiamo solo continuare a lavorare perché la primavera che sta arrivando sia davvero una stagione di umanistica intesa e di rinascita.


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FOTOGRAFIA / LUIGI SPINA / NAPOLI

La memoria di Pompei negli scatti di Luigi Spina

Angela Madesani

L

a mostra di Luigi Spina (Santa Maria Capua Vetere, 1966) nelle sale della Villa dei Papiri al MANN di Napoli presenta cinquanta fotografie in bianco e nero dedicate ai manufatti conservati nei depositi del museo partenopeo, le cosiddette “celle di Sing Sing”. Si tratta di oggetti di vario genere, dai vasi alle anfore ai pezzi di pane bruciato. Le immagini di Spina evocano un attimo particolare, la fine di un mondo, la catastrofe. Ci troviamo di fronte a un grande calco collettivo, che oggi, a duemila anni di distanza, viene raccontato da un linguaggio, come la fotografia analogica, dotato di una valenza indicale.

LA POETICA DI SPINA

La mostra è accompagnata da un libro di grande accuratezza che contiene i testi di Paolo Giulierini, direttore del MANN, João Vilela Geraldo, Davide Vargas e dello stesso Luigi Spina. Il volume è pubblicato dalla casa editrice 5 Continents, con cui il fotografo ha instaurato

una collaborazione decennale, che ha portato alla realizzazione di volumi come Diario mitico, ispirato ai capolavori della collezione Farnese, in cui l’arte diventa il punto di partenza per una riflessione sull’esistenza, proprio come nella mostra del MANN. Le ricerche di Spina, nel corso degli anni, sono sempre partite da un progetto di libro, sua grande passione. A oggi ne ha ventidue all’attivo e le sue opere sono pubblicate in un centinaio di volumi di ambito internazionale.

fino al 30 giugno 2022

SING SING. IL CORPO DI POMPEI Catalogo 5 Continents Editions MANN Piazza Museo 18/19 – Napoli mann-napoli.it

IL FUTURO DI SING SING

Siamo al cospetto di una mostra e di un libro di grande raffinatezza in cui è tuttavia evidente il percorso di studio e di successiva valorizzazione del patrimonio, compiuti dalla direzione dello staff scientifico del museo. La mostra, in cui il tempo è sospeso, offre un’interessante visione di un patrimonio archeologico di straordinaria portata e prelude a una nuova politica di accessibilità pubblica dei depositi museali. Il futuro di Sing Sing è segnato, per questo si è voluto l’intervento di Spina. Entro breve, infatti, i pezzi ritorneranno nelle rinnovate sezioni vesuviane del museo.

photo © Luigi Spina


FOTOGRAFIA / LUIGI SPINA / NAPOLI

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PAROLA A LUIGI SPINA Sei uno dei massimi fotografi di archeologia in Italia. Come sei approdato a questo mondo? Sono di Santa Maria Capua Vetere, un luogo che ha una storia archeologica importante e ho sempre vissuto tra le rovine. Sin da ragazzo mi sono posto il problema della mia identità e di quella degli altri, così accade quando ci si confronta con il patrimonio. Mi interessa indagare gli individui soprattutto da un punto di vista antropologico. In realtà è l’uomo a essere al centro della mia ricerca. La mostra raccoglie otto anni di lavoro, ho fotografato oggetti che provengono in particolare da scavi ercolanesi e pompeiani. Sono oggetti di natura personale, come se fossi entrato nelle case di queste persone. Si tratta di un lavoro sul tempo. In tutte le mie ricerche affronto un problema temporale, è anche questo un modo di confrontarsi con la morte. Occuparsi di passato implica spesso una dimensione tragica. Sing Sing è un luogo senza tempo, in cui sono raccolti oggetti che un tempo erano di qualcuno e che ora assumono la veste di oggetto assoluto. Qui ci troviamo di fronte alle tracce di quanto è rimasto in seguito a un olocausto naturale. Con questo lavoro sottolineo la coltre grigia del vulcano che aleggia sugli oggetti. Molti di essi non hanno più il colore della vita, sono ingrigiti. Quegli oggetti erano parte di un corpo sociale che non esiste più e che non si può più ricostruire. Inoltre volevo uscire dallo stereotipo del bell’oggetto, dell’opera d’arte, così ho fotografato molto di più gli oggetti di uso comune. Il progetto giunge al culmine con Anastilosi, che è collocata nella parte centrale del volume pubblicato da 5 Continents Editions. Per gli archeologi è il momento ricostruttivo, ottenuto mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture.

Le tue fotografie sono di grande qualità. Utilizzi il banco ottico? Per questo lavoro sì, anche se, nel corso degli anni, non ho utilizzato solo questo strumento. Nel tuo testo, che accompagna il libro, parli di “senso civico del sacro”. Nell’accezione spirituale del termine? Certo. Sono convinto che ci debba essere una sorta di sacralità civile, un fondamento di base da cui tutti dovremmo attingere. È un recinto, un vivaio delle coscienze. È un punto su cui rifletto sempre e cerco di farlo attraverso la fotografia, il linguaggio che mi appartiene. Hai realizzato il tuo primo libro con Electa Napoli quando avevi circa trent’anni, mi hai raccontato che ne inviasti una copia a Federico Zeri. Come andò? Dopo una quindicina di giorni dalla ricezione del libro mi scrisse, poi ci sentimmo al telefono. Mi disse che, a suo parere, il libro era bellissimo, e mi chiese cosa avrebbe potuto fare per aiutarmi. Mi consigliò di continuare a fare foto. Nel 1998, otto giorni prima della sua morte, mi scrisse una lettera, che conservo gelosamente, dove si scusava di non potere venire alla mia mostra, a causa di un forte dolore alle ossa. Chiudeva la lettera con: “Le auguro il successo che le sue fotografie meritano”. È stato un importante monito per andare avanti. Sin dall’inizio ho sempre lavorato per progetti, non sono un fotografo in senso stretto. Come hai studiato l’allestimento della mostra? La mostra fotografica è allestita presso la Collezione della Villa dei Papiri. L’intento mio e del direttore, Paolo Giulierini, è stato quello di far dialogare le immagini di Sing Sing con i bronzi ercolanesi simbolo della catastrofica eruzione del Vesuvio. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]

SING SING: LA STORIA DEL DEPOSITO Curioso nome Sing Sing per il deposito di un museo archeologico fra i più importanti al mondo. A tutti noi fa venire in mente il penitenziario, a cinquanta chilometri da New York, dove in Colazione da Tiffany Audrey Hepburn andava a portare notizie a Sally Tomato, il pericoloso gangster che là era rinchiuso a vita. Il carcere di massima sicurezza, in attività dal 1826, fu costruito nel villaggio allora chiamato Sing Sing e poi ribattezzato Ossining. Il deposito si trova nei sottotetti del MANN. L’idea di chiamarlo così è venuta, negli Anni Settanta, all’archeologo Giuseppe Maggi: si tratta, infatti, di un lunghissimo corridoio popolato da quindici celle. Come spiega il direttore del MANN, Paolo Giulierini, fra le pagine del volume che accompagna la mostra: “Sing Sing è l’esito finale di una sciagurata scelta avviata a partire dagli Anni Sessanta che previde, sulla scorta delle nuove idee di riordino per contesti, lo smontaggio sistematico di buona parte di un museo nato essenzialmente da collezioni e reperti scavati senza precisi riferimenti. Se a questo processo si aggiunge l’insensata decisione, del 1958, di separare la collezione pittorica moderna per trasferirla alla Reggia di Capodimonte, che museo non era, si comprendono bene le ragioni del perché Napoli non può ancora a pieno titolo concorrere, come potrebbe tranquillamente fare, con altri colossi nazionali e internazionali che non hanno subito tale destino”. Sing Sing ospita gli oggetti quotidiani di Pompei ed Ercolano sopravvissuti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Non si tratta di oggetti di seconda scelta, quanto piuttosto di oggetti dismessi, che racchiudono storie di vita interrotte e rese eterne dalla catastrofe naturale.


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GRANDI CLASSICI / TIZIANO / MILANO

Tiziano e le donne nella Venezia del ‘500 Neve Mazzoleni

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a mostra allestita fra le sale di Palazzo Reale a Milano identifica in Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1489 ca. – Venezia, 1576) il testimone privilegiato dello stile di vita delle donne veneziane. Più di 100 opere, di cui 47 sono dipinti, 16 dei quali di mano del pittore veneto, accompagnato anche dai maestri coevi, come, fra gli altri, Giorgione, Palma il Vecchio, Jacopo Tintoretto, Paolo Veronese, Lorenzo Lotto, Paris Bordon, Bernardino Licinio, Giovanni Cariani, il Moretto da Brescia, ritraggono con precisione questa peculiarità storica della Repubblica della Serenissima. La maggior parte delle opere provengono dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, mentre i contributi letterari attingono dalle principali raccolte, archivi, biblioteche milanesi. Secondo la curatrice Sylvia Ferino: “Tiziano ha ricreato la donna. Che si trattasse di dipinti religiosi, di ritratti, di ‘belle donne’ o di personaggi femminili della mitologia, l’artista riuscì a conferirle un aspetto così vitale e luminoso, un tale spessore e un erotismo sempre così meravigliosamente sofisticato da assicurare fama eterna alla donna e a se stesso”.

LE DONNE VISTE DAGLI ARTISTI

In un percorso che si snoda in undici sezioni, Tiziano e i suoi contemporanei definiscono un profilo modernissimo della donna, riproponendo generi ricorrenti in pittura, con nuove esplorazioni che risuonano nei documenti d’epoca, che siano poesia, oppure saggi di letteratura di costume o proto-forme di istanze femministe. I due ritratti di Isabella D’Este (1534 e 1536) ed Elisabetta Gonzaga della Rovere (1537 ca.) di Tiziano aprono la mostra con eleganza e autorevolezza, “testimonial” del concept curatoriale, soprattutto nell’idealizzazione della prima, che risulta più giovane della figlia, nonostante ai tempi della realizzazione del dipinto avesse già sessant’anni. Interessante anche il Ritratto di una bambina di casa Redetti del bergamasco Moroni, dove il canone nobilita anche le più piccole. La Serenissima non approva il culto della memoria e vieta i ritratti celebrativi, soprattutto delle donne. Ma gli artisti veneti trovano alternative: il genere delle “Belle veneziane”, circolato con vivacità nel collezionismo patrizio della città lagunare, permette loro maggiore autonomia con la rappresentazione di donne senza identità precisa, fra le spose promesse identificabili dagli anelli gemelli del fidanzamento e le

fino al 5 giugno 2022

TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO a cura di Sylvia Ferino Catalogo Skira PALAZZO REALE Piazza del Duomo 12 – Milano palazzorealemilano.it

in alto: Tiziano, Venere e Marte, 1550 ca. Olio su tela, 97x109 cm. Kunsthistorisches Museum, Vienna a destra: Tiziano, Giovane donna con cappello piumato, 1534-36 ca. Olio su tela, 96x75 cm. Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo

cortigiane lascive di cui in mostra spiccano le procaci dame di Palma il Vecchio. Anche il patrimonio librario documenta l’interesse per le molteplici manifestazioni della femminilità del tempo, ad esempio attraverso la serie di 23 xilografie di Cesare Vecellio del 1590, che catalogano in modo sistematico i costumi muliebri, dalle “donzelle et fanciulle di Venezia” alle “donne di Venetia attempate et dimesse”.

NON SOLO IDEALIZZAZIONI

Il filone iconografico “Apri il cuore” propone le dame ritratte mostrando il petto nudo, stimolando con l’occasione nuove indagini e scoperte. Enrico Maria Dal Pozzolo, nel volume di accompagnamento all’esposizione, approfondisce l’iconografia della misteriosa Laura di Giorgione del 1506, tradizionalmente identificata con la Virtù, data la presenza dal lauro, tenendo in considerazione anche tradizioni mariane: “Si sa, infatti che in epoca medievale vari


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LA MOSTRA IN NUMERI

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sezioni

testi celebravano il seno di Maria: uno dei più significativi è il Liber Marialis di Jacopo da Varagine, da cui si evincono decine di nessi simbolici. In effetti, nel Quattrocento italiano si registra quella che è stata definita una ‘teleologia sulla posizione del seno’. […] L’allattamento di Gesù Bambino era un’esperienza mistica concessa a molte sante”. Dal Pozzolo trova nella lirica profana un’ulteriore chiave di lettura: ad esempio, il poeta Pontano descrive il petto femminile come fonte da cui nasce un raggio di sole che rischiara la notte. È verosimile per lo studioso che tali componimenti circolassero fra gli artisti, cosicché il seno accanto all’immagine della fonte di vita è divenuto simbolo di luce interiore. Insieme alle idealizzazioni, troviamo in mostra le ombre che minacciano il femminile, seppur trasposte in storie mirabili di sante ed eroine: nel Tarquinio e Lucrezia del 1572-76 ca., Tiziano denuncia la violenza brutale sulla donna, mentre nella Susanna e i vecchioni, (1555-56 ca.), Jacopo Tintoretto definisce con chiarezza, in una meravigliosa composizione di generi pittorici, la purezza della donna rispetto al voyeurismo perverso e rapace dell’uomo, ridicolizzato nelle figure dei due vecchi.

FRA ARTE E LETTERATURA

La pittura si dimostra alleata della letteratura anche nel testimoniare come le donne veneziane partecipino alla cultura: in mostra spiccano i ritratti di Veronica Franco di Domenico Tintoretto e la Salomè, alias Tullia d’Aragona, di Moretto da Brescia, cortigiane erudite, diventate famose poetesse, di cui troviamo i volumi nelle teche. Molte figlie di famiglie notabili ricevevano una cultura umanistica e si cimentavano con la lirica, come Gaspara Stampa. Attraverso le storie degli amori di Venere, con Marte, con Adone, Tiziano coglie l’occasione per ritrarre il bellissimo e divinizzato corpo delle donne, ma anche per mettere in guardia dai rischi dell’amore. Altro genere di riferimento sono le trasformazioni di Giove nel concupire ninfe e fanciulle, raccolte nel classico di Ovidio Le Metamorfosi. Per Tiziano e gli altri maestri veneti, non si tratta unicamente della trasposizione erudita del testo, bensì di una conferma sull’eternità delle passioni umane e quasi di un insegnamento morale. La chiusura del percorso è affidata alla bella Ninfa e Pastore, opera tarda di Tiziano (1575), che non ha espressi riferimenti letterari, ma è una donna sopra le epoche, dominante anche nella sua fisicità, unica a comprendere la forza del destino, della natura, presenze minacciose nello sfondo indeterminato del dipinto, che regnano sopra la civilizzazione, l’amore, l’arte.

di cui

21

opere

47 dipinti

volumi a stampa

66 opere

provenienti dal Kunsthistoriches Museum di Vienna

24 opere

provenienti da musei italiani e internazionali

16

dipinti di Tiziano

5

dipinti di Tintoretto

5

dipinti di Palma il Vecchio

LE OPERE A RISCHIO RESTITUZIONE In questi giorni l’opera di Tiziano intitolata Giovane donna con cappello piumato (1534-36 ca.) dell’Ermitage di San Pietroburgo ha concentrato molta attenzione su di sé. Il museo di provenienza aveva fatto richiesta di restituzione immediata, quasi come atto ritorsivo alla guerra in corso con l’Ucraina. Ma alla fine ha confermato l’intero periodo di permanenza a Milano. Un ottimo segnale di distensione almeno sulle collaborazioni culturali. L’opera fa parte di una serie di ritratti della stessa donna, insieme ad esempio a La Bella della Galleria Palatina di Firenze e alla Giovane donna con pelliccia del Kunsthistoriches Museum di Vienna, della quale non è stata ancora individuata l’identità. Tiziano ha creato una sorta di crescendo di erotismo e seduzione intorno a questa figura, probabilmente di nobili origini a giudicare dagli abiti fastosi, dall’eleganza dei gioielli, dalla fierezza del portamento. Da San Pietroburgo proviene anche l’opera di Giovanni Cariani Giovane donna con vecchio di profilo, del 1515-16, attribuita al pittore bergamasco solo nel 1871 dal critico d’arte Giovanni Battista Cavalcaselle, dopo precedenti attribuzioni a Tiziano. Il dipinto giunge dalla collezione Crozat, passando di proprietà imperiale nel 1772. Per diverso tempo il titolo del quadro è stato La seduzione, riprendendo soggetti dipinti da Giorgione e da Tiziano. Nel 1979, la critica d’arte Tamara Fomiciova propose una nuova interpretazione: la fanciulla sarebbe una veggente che con la sua profezia, legata alla mano sulla sfera, tiene in suo potere un vecchio che crede di poter ancora avere desideri di gioventù.


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DIETRO LE QUINTE / LUCIO FONTANA / PARMA

L’arte e le parole di Lucio Fontana

Marta Santacatterina

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a mia scoperta è stata il buco e basta: io son contento anche di morire dopo quella scoperta”. È una frase pronunciata da Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe, 1899 – Comabbio, 1968) nel corso di un’intervista concessa a Carla Lonzi (Firenze, 1931 – Milano, 1982) il 10 ottobre 1967. Ed è pure la frase conclusiva dei pannelli che illustrano la mostra Lucio Fontana. Autoritratto alla Fondazione Magnani-Rocca, a pochi chilometri da Parma. È merito di uno dei curatori, Gaspare Luigi Marcone, aver recuperato l’intervista integrale, poi pubblicata nel 1969 tra le pagine di Autoritratto della stessa Lonzi, volume che ha ispirato evidentemente il titolo della rassegna. La registrazione, presa con un allora avanguardistico magnetofono, dura un’ora e mezza, può essere ascoltata per intero in una saletta della villa di Mamiano ed è il punto di partenza di un progetto espositivo solido, che ricostruisce i pensieri espressi dall’artista attraverso le sue opere, molte delle quali provenienti dalla Fon-

dazione Lucio Fontana, che non è stata certo avara nella concessione dei prestiti. “La Fondazione ci ha offerto il suo imprescindibile supporto e il prestito di opere capitali”, dichiara Stefano Roffi, direttore scientifico della Magnani-Rocca. “Ma l’esposizione consente di far conoscere anche importanti presenze ‘fontaniane’ nel nostro territorio. Il progetto ha fin dall’inizio riscontrato l’adesione di istituzioni e collezionisti privati che non hanno esitato a far uscire lavori importantissimi dalle proprie sale, in particolare lo CSAC dell’Università di Parma che la signora Teresita, vedova dell’artista, individuò come destinatario di una importante donazione; e poi la Biblioteca Fondazione Cariparma di Busseto, Donazione Corrado Mingardi, che ha prestato il prezioso libro di Sinisgalli contenente due ‘Concetti spaziali’ di Fontana; la Collezione Barilla di Arte Moderna, con uno spettacolare ‘Taglio’ dei primi Anni Sessanta, e infine Giampaolo Cagnin, che offre alla pubblica ammirazione la grandezza di Fontana plastico con la ‘Trasfigurazione’”. Allestita nella dimora dove si conserva l’eccellente raccolta d’arte di Luigi Magnani, la mo-

stra può essere considerata un nuovo capitolo di approfondimento del Novecento italiano: “Magnani amava tanto Morandi e Cézanne perché pura forma”, precisa Roffi, “pura ricerca concettuale, senza contenuto narrativo. Si può pensare a Fontana come completamento ideale della sua ricerca: l’abbandono definitivo della materia in favore di una sintesi artistica e di una scoperta della luce che permette di scorgere il divino senza antitesi con la scienza, ma con il suo ausilio”.

FONTANA IN MOSTRA

Negli Anni Trenta, Lucio Fontana era ancora un artista figurativo: la sua esperienza nell’atelier del padre in Argentina, dove realizzava sculture per monumenti funebri, lo rese padrone nella lavorazione della materia. La mostra prende così il via con una testa di ragazza del 1931 che fa capolino sotto la magnifica Sacra conversazione di Tiziano, ma muovendo qualche passo nella prima sala ci si rende subito conto del progressivo abbandono, da parte di Fontana, della riproduzione fedele della figura, privilegiando forme organiche smaltate, colo-


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CARLA LONZI INTERVISTA LUCIO FONTANA “L’incontro tra Lonzi e Fontana è davvero una soglia, entrambi dopo poco tempo lasceranno in modo diverso il mondo dell’arte donando però un’eredità monumentale”, commenta Gaspare Luigi Marcone nel catalogo della mostra. Carla Lonzi infatti abbandonò poco dopo la critica d’arte per dedicarsi a istanze femministe, ma prima intervistò numerosi artisti, consentendo loro di parlare liberamente e ponendo solo di rado domande puntuali. Nel flusso narrativo che ne deriva, Lucio Fontana non si risparmia e rivela la sua poetica, il rapporto con l’arte contemporanea (quella dei giovani che stimava, ad esempio), gli aspetti tecnici ma soprattutto filosofici del suo lavoro. Non risparmia nemmeno giudizi a dir poco tranchant, e che ora sono spassosissimi da leggere e da ascoltare: Jackson Pollock è un “macaco”, Emilio Vedova “il primo elettricista d’Italia”. Ma quel che davvero emerge è la necessità di andare oltre la materia dell’opera d’arte, un’esigenza dettata dalla “scoperta del cosmo”, dalle riflessioni su Dio, dal senso di solitudine dell’uomo che solo da pochi anni era capace di esplorare uno spazio ricolmo di silenzio atroce e angosciante. “E allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, e ho creato una dimensione infinita”, chiosa l’artista.

rate e lucide, come dimostra la già citata Trasfigurazione del 1949. Nelle vetrine si espongono i manifesti scritti da Fontana, a partire dal Manifiesto Blanco del 1946, che pose le basi dello Spazialismo, quel movimento che lo consacrò maestro di una rivoluzione artistica imprescindibile dalle scoperte scientifiche dei decenni precedenti: la relatività di Einstein, la fisica quantistica, l’affermazione dell’atomismo. Tutt’attorno si dispongono alcune sculture “astratte” realizzate su vari materiali, dalla terracotta alla latta, e uno dei primi Concetti spaziali, del 1949, in cui Fontana pratica i buchi direttamente sulla tela grezza. Chi allestisce le mostre alla Fondazione Magnani-Rocca sa bene dove collocare il capolavoro dall’impatto visivo e semantico più importante: sulla parete di fronte alla scala che scende nel cuore del percorso espositivo. Ebbene, quel punto strategico e magnetico è oggi occupato da Attesa del 1965, opera non solo straordinaria, ma che nasconde una storia assai interessante: esposta alla Biennale di Venezia del 1966 come parte di un Ambiente spaziale, fu poi donata dallo stesso artista su-

bito dopo l’alluvione che devastò Firenze nel medesimo anno; l’invito venne da Carlo Ludovico Ragghianti, intenzionato a organizzare una mostra e un museo di arte contemporanea. Ma a proposito di questo e degli altri “tagli” di Fontana, un passaggio dell’intervista con Carla Lonzi è illuminante: “Il taglio lo faccio perché poi, sai, c’è un mercato al quale noi siamo soggetti purtroppo, ancora, perché ci sono i mercanti, i collezionisti li cercano e io li faccio…”.

SCATTI MEMORABILI E UNA COLLEZIONE DI PRIMIZIE

Accanto ad altri capolavori, non si possono non notare due serie di fotografie scattate da Ugo Mulas e che il terzo curatore, Walter Guadagnini, approfondisce in catalogo. Fontana sta per tagliare una tela o sta facendo i suoi buchi, e si scopre che la prima serie non è ripresa dal vivo bensì mediante una messinscena: “Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi”, dice l’artista al fotografo, “dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove attorno a me”. “Non ci si può non fermare e meditare sull’infinito e sulla divinità, di fronte alle opere di Fontana”, ci confida ancora Stefano Roffi, e la grande sala centrale della mostra, con il perfetto equilibrio dei lavori scelti tra il Fiocinatore del 1933, Natura del 1959-60, il luminosissimo New York su rame del 1963, è l’ambiente perfetto per una comprensione profonda ed empatica delle ricerche dell’artista.

La conclusione del percorso spinge lo sguardo in due diverse direzioni: al futuro, grazie ad alcune opere provenienti dalla collezione privata di Lucio Fontana, il quale ai suoi tempi acquistava – con evidente intuito – numerose “primizie” di quei giovani artisti che oggi consideriamo giganti: Piero Manzoni, Alberto Burri, Giulio Paolini, Paolo Scheggi. L’ultima direzione, che a dire il vero apre ulteriori percorsi di riflessione, è la Fine di Dio: un grande ovale, un uovo perfetto che inevitabilmente richiama la vita, con la sua superficie luccicante e purpurea, ma che con i suoi buchi riporta a una spiritualità e a una tensione verso l’infinito, a un nuovo “divino” da cui le opere di Lucio Fontana non possono prescindere. fino al 3 luglio 2022

LUCIO FONTANA. AUTORITRATTO a cura di Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi Catalogo Silvana Editoriale FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA Via Fondazione Magnani-Rocca 4 Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it in alto: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1951, olio, sabbia e buchi su tela, 60 x 59 cm. Milano, Fondazione Lucio Fontana. © Fondazione Lucio Fontana by SIAE 2022 a sinistra: Lucio Fontana. Autoritratto, installation view at Fondazione Magnani-Rocca, Mamiano di Traversetolo 2022. Photo Tommaso Crepaldi


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OLTRECONFINE / YVES SAINT LAURENT / PARIGI

A Parigi la mostra su Yves Saint Laurent nei grandi musei Dario Bragaglia

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ei musei parigini celebrano il 60esimo anniversario della prima collezione di alta moda firmata da Yves Saint Laurent (Orano, 1936 – Parigi, 2008) e presentata il 29 gennaio 1962. Un omaggio al talento creativo dello stilista che per tutto l’arco della sua carriera è stato costantemente ispirato dall’arte di ogni epoca.

MUSÉE YVES SAINT LAURENT

La sequenza di visita fra i sei luoghi museali è libera, ma conviene partire da avenue Marceau, che fu per trent’anni il cuore pulsante della sua attività creativa. Inizialmente due volte, successivamente quattro volte per anno, Yves Saint Laurent si rinchiudeva per settimane nelle sue residenze a Parigi e a Marrakech per disegnare le collezioni. A differenza degli altri musei, dove i modelli YSL sono messi a confronto con alcuni capolavori delle collezioni permanenti, qui si è voluto rendere omaggio a tutto il processo creativo e a coloro che vi hanno contribuito. Provenienti dal ricco patrimonio archivistico, vengono esposti materiali in gran parte inediti, come i disegni che svelano il gesto rapido, sicuro e preciso di quello che è stato anche un grande disegnatore. Salendo ai piani superiori, fino allo studio del couturier, si scoprono i vari passaggi per arrivare al modello finito. Con alcune curiosità, come l’uso delle Polaroid (l’incontro con Andy Warhol risale al 1968), sistematico a partire dal 1980, per registrare con immediatezza il lavoro prima delle sfilate, ma anche per cogliere qualche momento di intimità, di leggerezza nel lavoro dell’atelier.

MUSÉE DU LOUVRE

Nella Galerie d’Apollon quattro modelli di eccezionale ricchezza decorativa testimoniano l’audacia di Yves Saint Laurent nel confrontarsi con l’esempio classico. “Il mio proposito non è quello di misurarmi con i maestri, tutt’al più di accostarmi, di apprendere una lezione dal loro genio”, diceva. E qui siamo in un contesto dove l’esuberanza degli apparati decorativi, da Charles Le Brun a Eugène Delacroix, accompagna l’esposizione dei Gioielli della Corona di Francia. Diamanti, smeraldi, zaffiri sembrano dialogare con il caraco del 1981 in organza ricamata d’oro e pietre della Maison Lesage. Come negli altri modelli esposti, gli stili, le epoche, le ispirazioni etniche si sovrappongono in una sorta di eclettismo creativo che ha l’ambizione di elevarsi al rango delle opere che lo hanno ispirato.

L’IDENTIKIT DI YVES SAINT LAURENT A soli 18 anni un ragazzino di nome Yves, nato nel 1936 e proveniente dall’Algeria, allora colonia francese, viene segnalato a Christian Dior, a quel tempo dominatore assoluto, con Coco Chanel, della couture parigina. Di lì a poco ne farà il suo delfino: correva l’anno 1955. Il 24 ottobre 1957 Dior però muore prematuramente: un infarto lo coglie a Montecatini. L’anno seguente, il 30 gennaio, “il Santo” – così la stampa internazionale chiamerà Saint Laurent da quel momento – compie il miracolo: con una collezione che suscita entusiasmo, fuga ogni dubbio intorno al futuro del brand Dior. Il “Petit Prince” – altro soprannome affibbiatogli dai media – ha una figura fragile, ma mette immediatamente in campo un’autorità incontestabile come creativo: sforna a ripetizione collezioni haute couture che sono invariabilmente un successo. Poi accade l’impensabile: un mese dopo quella presentata nel settembre 1960,

viene chiamato alle armi per servire nella guerra all’indipendenza algerina. Yves non ha un carattere facile e, nonostante i successi, il finanziatore della maison ne approfitta per sostituirlo. Quando viene raggiunto dalla notizia, il Petit Prince si trova in un ospedale militare depresso sino all’esaurimento, sedato a stento da droghe e psicofarmaci. Accanto a lui però c’è l’incrollabile Pierre Bergé, compagno per tutta la vita, che nel 1962 fonda insieme a lui la maison YSL. Da quel momento in avanti la sua è una marcia trionfale che procede per tutti gli Anni Ottanta e Novanta. Questo almeno è ciò che appare. Perché l’utilizzo di droghe e psicofarmaci in realtà non è mai cessato: il male oscuro della depressione porta lo stilista ad abbandonare ogni attività nel 2002. Si spegnerà a causa di un cancro al cervello nel 2008. Aldo Premoli


OLTRECONFINE / YVES SAINT LAURENT / PARIGI

MUSÉE D’ORSAY

Nel cuore del Salon de l’Horloge si scopre la fascinazione che l’opera di Marcel Proust ebbe sullo stilista, fin dalla sua giovinezza. Sono esposti i modelli che Yves Saint Laurent crea in occasione del ballo Proust organizzato dal barone e dalla baronessa Rothschild il 2 dicembre 1971. Oltre a Marie-Hélène de Rothschild, a indossare gli abiti firmati YSL, ispirati ai personaggi della Recherche, furono anche Jane Birkin, Hélène Rochas e altre invitate. Gli smoking destinati alle donne alludono all’ambivalenza del maschile e del femminile, tema presente nell’opera proustiana. “Per me, niente è più bello di una donna che indossa un vestito da uomo”, dichiarò lo stilista, che fin dalla collezione autunno-inverno del 1966 aveva creato una versione femminile dello smoking.

MUSÉE NATIONAL PICASSO

a sinistra: Yves Saint Laurent aux Musées, installation view at Musée d’Orsay, Parigi 2022. Photo Nicolas Mathéus in alto: Yves Saint Laurent, Hommage à Piet Mondrian, autunno-inverno 1965. Musée Yves Saint Laurent, Parigi © Yves Saint Laurent. Photo Nicolas Mathéus

A chi gli domandava “fra i pittori chi è quello che sente più vicino?”, YSL rispondeva: “Picasso, sempre”. Affascinato dall’artista spagnolo, gli rende omaggio in diversi momenti della sua carriera. Nel 1979, dopo aver visitato la mostra dedicata ai Balletti russi presso la Biblioteca nazionale, lo stilista gli dedica la collezione autunno-inverno. In una sala del museo, i curatori hanno opportunamente voluto accostare il Portrait de Nusch Éluard di Picasso (1937) alla Veste Hommage à Pablo Picasso del 1979. Nel 1988 Yves Saint Laurent ritornerà a confrontarsi direttamente con il Cubismo di Braque e Picasso e il suo gioco di rimandi, reinterpretazioni, mimetismi è valorizzato dalla possibilità di raffrontare, con un solo sguardo, le diverse creazioni.

MUSÉE D’ART MODERNE DE PARIS

Assieme a quella organizzata al Centre Pompidou, questa del Museo d’arte moderna

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è la mostra più ricca di contenuti, dove la frase dello stilista “quando lavoro, penso costantemente all’arte, alla pittura” trova una piena esplicitazione. Sono esposte una ventina di creazioni accostate alle opere delle collezioni permanenti del museo, il cui percorso è stato per l’occasione ripensato. Forte, ad esempio, l’impatto scenografico dei tre modelli posti al centro della grande Salle Dufy, dove alle pareti dello spazio semicircolare campeggia l’affresco La Fée Électricité, dipinto nel 1936 da Raoul Dufy. Seguendo il percorso del museo, il gioco di rimandi, allusioni, corrispondenze fra le tele e i tessuti diventa godibilissimo e trasmette tutta quella felicità creativa che YSL ha sempre dichiarato di provare nelle settimane in cui lavorava alle nuove collezioni. Henri Matisse, Pierre Bonnard, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana: le sale raccontano di un dialogo ininterrotto con l’arte del XX secolo.

CENTRE POMPIDOU

Il Beaubourg è il luogo in cui, il 22 gennaio 2002, Yves Saint Laurent si ritirò definitivamente dalla haute couture dopo un’ultima sfilata retrospettiva (ma come non ricordare l’omaggio che già nel 1980 gli aveva tributato il Metropolitan Museum di New York?). Ai livelli 5 e 4 del museo, tredici punti di confronto illuminano sulle fonti di ispirazione del couturier. Henri Matisse, ancora Picasso, Fernand Léger, Robert e Sonia Delaunay, Martial Raysse, Alberto Giacometti, fra gli altri. Un momento decisivo è l’estate del 1965, quando l’opera di Piet Mondrian fa ingresso nella storia della moda. Il vestito Hommage à Piet Mondrian conosce un successo senza precedenti e contribuisce a far meglio apprezzare il pittore olandese in Francia, dove nel 1969 gli verrà dedicata la prima retrospettiva al Musée de l’Orangerie. fino al 15 maggio 2022

YVES SAINT LAURENT AUX MUSÉES

MUSÉE YVES SAINT LAURENT

CENTRE POMPIDOU MUSÉE DU LOUVRE MUSÉE D’ART MODERNE DE PARIS

MUSÉE D’ORSAY

MUSÉE NATIONAL PICASSO fino al 24 aprile 2022


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

Il Lazzaretto Nuovo è un’isola-ecomuseo da cui si sviluppa il più ampio progetto dei Lazzaretti Veneziani. Se ne fa promotrice la Fondazione Italia Patria della Bellezza, struttura nata per raccontare al mondo il talento italiano per la bellezza come parte indissolubile della nostra identità. Il Lazzaretto Nuovo è stato la soglia di Venezia nell’arco di vari secoli, luogo di passaggio di culture, lingue e oggetti da tutto il mondo. Dotato di uno dei primi impianti di fitodepurazione italiani, è un’area di circa nove ettari che si trova all’inizio del canale di Sant’Erasmo. Monastero benedettino durante il Medioevo, divenne lazzaretto con il compito di prevenire i contagi, attraverso metodi e rimedi (ad esempio l’uso di fumi con erbe mediche e aceto), poi esportati nel resto del globo. In seguito, la struttura fu trasformata in fortezza e funzionò sotto il dominio napoleonico e austriaco. Utilizzata dall’Esercito fino agli inizi degli Anni Settanta, fu poi dismessa e infine recuperata dal Ministero della Cultura e restituita alla collettività per mostre e visite.

VENEZIA IL LAZZARETTO NUOVO

Quando sarà scritta una controstoria dell’arte del Novecento in Italia, lontano dalle sintesi estreme che hanno trascurato pezzi interi di ricerca, esperienze, visioni, un posto di rilievo dovrà essere assegnato certamente a Gaetano Martinez, salentino nato a Galatina nel 1892 e morto a Roma nel 1951. Autoritratti (tema a cui è stato legato fino agli ultimi anni di attività) e ancora Maternità, nudi femminili e maschili, volti e profili animali – concepiti con un segno essenziale e sicuro: al disegno e alla scultura Gaetano Martinez ha dedicato un impegno intenso, in grado di generare forme anatomiche espressive e un lavoro sistematico sulle esperienze esistenziali. Dal Salento ha attraversato una storia intensa, soprattutto a Roma, città in cui si è trasferito stabilmente sin dal 1925, riscuotendo importanti riconoscimenti anche nazionali. Basti pensare che per ben nove edizioni è stato protagonista della Biennale di Venezia, che nel 1942 gli ha anche dedicato una sala personale.

GALATINA MUSEO CIVICO PIETRO CAVOTI

BARENE E NATURA Isola fra le più ricche di biodiversità, immersa in un ecosistema fragile oggi a rischio di scomparsa, il Lazzaretto Nuovo si arricchisce di una passeggiata naturalistica che copre un chilometro intorno alla cinta muraria del vecchio “giro di ronda”. Questo percorso, detto Il Sentiero delle Barene, racconta la Laguna esplorandone il suo ambiente più prezioso. Le barene sono distese basse e piatte di una vegetazione densa, appoggiata su un suolo argilloso, che riunisce le poche piante in grado di adattarsi alla salinità (come la Salicornia veneta, il Limonium, l’Astro marino, il Giunco). Le barene aiutano a stabilizzare il terreno, hanno un effetto depurante e costituiscono l’habitat ideale per molte specie ittiche e l’avifauna marina. Il sentiero naturalistico si snoda attraverso piccoli canali, boschetti di allori, frassini, biancospino, pruni selvatici, cannucce palustri, e offre una splendida vista a 360 gradi di fronte a Venezia.

Le barene dell’isola del Lazzaretto Nuovo, Venezia. Photo Claudia Zanfi

CHI È GAETANO MARTINEZ Scultore raffinato, si è concentrato costantemente sul fronte del disegno, sia per concepire studi progettuali propedeutici alla nascita di nuove opere plastiche, sia con lavori autonomi. Negli Anni Trenta ha deciso di donare un nucleo significativo di sculture e carte alla propria città, a cui è rimasto sempre molto legato grazie ai rapporti profondi con la propria famiglia. E il museo è uno scrigno prezioso di percorsi, che con questa città hanno un legame speciale, anzitutto quello di Pietro Cavoti, da cui prende il nome, intellettuale e artista che proprio a Galatina portò avanti una ricerca sui monumenti del proprio territorio.

La sala del dolore esistenziale

UN GIARDINO IN LAGUNA La Laguna di Venezia è la più importante zona umida d’Italia per l’avifauna acquatica. Infatti durante lo svernamento e le migrazioni, migliaia di uccelli trovano alimento nei bassi fondali lagunari, e le barene del Lazzaretto sono l’ambiente più peculiare di questo ecosistema. La visita dell’isola comprende un percorso storico e uno naturalistico. Il giardino ha gelsi secolari posti lungo i viali a raggiera di impianto austriaco, frassini e pioppi intorno al pozzo, alberi da frutto lungo le mura. Sbarcati sul pontile, si percorre il lungo viale di gelsi secolari che conduce al Tezon Grande, edificio principale dell’isola che ospita sezioni espositive temporanee e permanenti e sulle cui pareti si trovano incisioni, e simboli misteriosi. Durante la Biennale di Venezia una visita a questo inusuale giardino offre nuovi punti di osservazione sulla Laguna. Claudia Zanfi

MARTINEZ AL MUSEO CAVOTI Ma torniamo a Martinez: fra gli Anni Trenta e Quaranta espone in numerose mostre a Bari, Firenze, Napoli, Milano, Roma – dove partecipa alle Quadriennali d’Arte del 1939, 1943, 1948 – e Venezia, città nella quale – dopo la partecipazione alla Biennale del 1928 – è presente alle edizioni del 1930, 1934, 1936, 1938, 1940, 1942 (quando gli viene dedicata una personale), 1948, 1950. Partendo proprio dalle opere di Martinez custodite nel museo, Salvatore Luperto ha tracciato una disamina ampia sul tema del dolore nella scultura e nelle opere su carta dell’artista, data recentemente alle stampe proprio dal museo Cavoti, Il dolore esistenziale nell’arte di Gaetano Martinez, dove sostiene che “Martinez nelle sculture […] lascia trasparire il suo animo di un ‘vinto’ che soggiace al suo destino, ma allo stesso tempo anche la reazione alla sua desolazione con la passione per l’arte e con la consapevolezza del suo genio creativo". Lorenzo Madaro

SEZIONE GAETANO MARTINEZ Via Pasquale Cafaro 1 0836 561568


RUBRICHE

I LIBRI

Ha un’origine “antica” questo monumentale lavoro di ricerca firmato da Annie-Paule Quinsac. Un primo, importante nucleo risale al 1968, quando l’autrice presentò la propria tesi di dottorato alla Sorbona di Parigi. La dissertazione prendeva in esame il periodo 1880-1895 e venne pubblicata nel 1972 da Klincksieck, storica casa editrice fondata nel 1842 che – in quegli anni come tuttora – non ha mai cessato di esplorare con coraggio il campo della teoria e della storia dell’arte. Un esempio? Il libro più importante e meno studiato di Jean-François Lyotard - Discours, figure - è uscito per i tipi di Klincksieck. IL DIVISIONISMO 50 ANNI DOPO A distanza di cinquant’anni, il libro non soltanto viene tradotto, ma diventa di fatto un altro prodotto editoriale: l’arco temporale si estende fino al 1920, l’apparato iconografico si moltiplica, i volumi diventano due e in diversi passaggi si torna alla forma che lo scritto aveva nel 1968. E naturalmente in mezzo secolo è l’oggetto di studio stesso a variare: “Il corpus dei singoli artisti si è ampliato grazie al rinvenimento di dipinti e dati forniti da archivi finalmente catalogati, le schermaglie ideologiche hanno trovato pace, sono nate nuove tecnologie, si è tentato un inizio di diffusione all’estero”, scrive l’autrice. Ancora più rilevante è l’aggiunta di Carlo Fornara fra i pittori presi in esame più approfonditamente, che si va a sommare all’ottetto originario composto da Vittore Grubicy de Dragon, Gaetano Previati, Angelo Morbelli, Giovanni Segantini, Emilio Longoni, Attilio Pusterla, Plinio Nomellini e ovviamente Giuseppe Pellizza da Volpedo. LA CAMPAGNA FOTOGRAFICA Tutt’altro che marginale è l’importanza che i volumi riservano all’apparato iconografico. “L’importanza da me dedicata alle tavole e illustrazioni in genere nel libro odierno deriva innanzitutto dalla difficoltà di accesso alle opere divisioniste, tuttora al novanta per cento di proprietà privata”, sottolinea Quinsac. Il valore di questa pubblicazione è dunque evidente, poiché difficilmente una tale campagna fotografica sarà ripetibile a breve e de facto questo cofanetto diventerà la pietra angolare di eventuali successivi studi. Ultima chicca, fra apparati redatti con un rigore raramente riscontrato, è una sezione bibliografica in chiusura del primo tomo: si intitola Oltre la percezione: lo sguardo degli scienziati e dei tecnici sulla pittura divisionista e si concentra su quelle pubblicazioni per l’appunto tecnico-scientifiche che troppo spesso vivono una vita separata dalle riflessioni più squisitamente storico-critiche. Marco Enrico Giacomelli

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ASTE E MERCATO

ANNIE-PAULE QUINSAC DIVISIONISMO ITALIANO 1880-1920. SGUARDI E PROSPETTIVE

La Compagnia della Stampa, Roccafranca (BS) 2021 2 voll., pagg. 320+320, € 150 ISBN 9788884868688 lacompagniamassetti.i

Agli incanti di inizio marzo 2022 a Londra, la guerra sembrava lontana e nella sessione da quasi 300 milioni di dollari di Sotheby’s ha brillato un Magritte da record. Già incluso tra gli highlight più attesi della Modern and Contemporary Art Evening Sale, tanto da guadagnarsi addirittura una scenografia dedicata sulla facciata del quartier generale di New Bond Street, L’empire des lumières di René Magritte del 1961 è stato in effetti la star indiscussa della sessione di Sotheby’s. IL RECORD DI MAGRITTE Realizzato per la baronessa Anne-Marie Gillion Crowet, la figlia del collezionista e mecenate belga Pierre Crowet, l’opera è rimasta sempre proprietà della famiglia, ma è molto nota al pubblico, essendo stata in esposizione al Museo Magritte di Bruxelles dal 2009 al 2020. Con il grado di perfezione che trova qui il gusto per il paradosso percettivo e lo sgambetto logico, il dipinto è stato aggiudicato dopo oltre sette minuti di contesa e rilanci da mezzo milione di sterline a un cliente al telefono con Alex Branczik, Chairmain Arte Moderna e Contemporanea in Asia, raggiungendo, dalla stima preasta di oltre 40 milioni di sterline, quasi 60 milioni (buyer's premium incluso). Una cifra che aggiorna e triplica il record in asta per l’artista rispetto all’ultimo del 2018 e lo rende l’opera di maggior valore mai venduta in sterline. IL SURREALISMO DA LONDRA A VENEZIA E mentre si attende la sessione parigina dedicata da Sotheby’s al Surrealismo, la creatura di André Breton trova nuovi momenti di riflessione teorica ed espositiva, da Londra a Venezia. Surrealismo e magia. La modernità incantata, a cura di Gražina Subelytė, è infatti la grande mostra di prossima apertura a Venezia. Un progetto in due tappe, che prende avvio alla Collezione Peggy Guggenheim il 9 aprile, per spostarsi poi al Museum Barberini di Potsdam a fine ottobre, e sarà la prima occasione internazionale per approfondire l’inclinazione surrealista per i mondi della magia e dell’esoterismo. Se il mercato dell’arte di alto profilo non ha mostrato per ora di essere particolarmente disturbato dalle tensioni geo-politiche sul limitare dell’Europa, i confini – e l’idea di confine – tornano rilevanti alla Tate Modern, dove è in corso la mostra Surrealism Beyond Borders, che evidenzia la portata internazionale del Surrealismo. Con una ricerca condivisa con il Metropolitan di New York, l’esposizione ricostruisce come gli artisti di tutto il mondo siano stati ispirati e si siano trovati uniti dal comune terreno surrealista, da Buenos Aires al Cairo, da Lisbona a Città del Messico, Praga, Seoul, Tokyo. E, sull’orlo di una nuova crisi che ancora mette a rischio, dove non ha già distrutto, le vite umane, assume una nuova rilevanza l’idea di ripercorrere il Surrealismo come un modo di “sfidare l’autorità e immaginare un mondo nuovo”. Cristina Masturzo

SOTHEBY’S RENÉ MAGRITTE

René Magritte, L’empire des lumières, 1961. Venduto per £ 59.422.000. Courtesy of Sotheby's


Ramin Haerizadeh

Rokni Haerizadeh

Hesam Rahmanian

un progetto di OGR Torino

a cura di Samuele Piazza


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ALEX URSO [ artista e curatore ]

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suoi canali social sono seguiti da milioni di utenti, mentre in edicola e in libreria sbanca con fumetti pieni di nonsense e umorismo. Sio, nome d’arte di Simone Albrigi (Verona, 1988), è un fenomeno della comicità disegnata. L’abbiamo intervistato. Cosa significa per te essere fumettista? Significa fare i disegni con le parole! Raccontare storie. Aver realizzato il sogno che avevo fin da bambino! Tutte queste cose sono vere, ma la risposta principale è la più semplice: amo leggere i fumetti e da sempre ho voluto anch’io provare a fare in prima persona ciò che amavo di più.

Sul web fai numeri straordinari, ma anche con il cartaceo non scherzi. Come coniughi questa doppia anima? Il web è il posto dove sta la maggior parte delle persone, la maggior parte del tempo. Non ci si può permettere di non esistere sul web nel 2022, a mio avviso. Ma ci sono diversi lati negativi del digitale, in primis la forma mentis dell’utente dei social: ha pochissima attenzione e pochissimo tempo a disposizione. Di conseguenza bisogna produrre contenuti creati tenendo conto di questo aspetto. Sul cartaceo invece mi posso permettere di pensare che chi ci si approccia ha deciso di fare un investimento di denaro e soprattutto di tempo, che permette a me di scrivere qualcosa di più lungo di una pagina.

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Mi aiuti a presentarti a chi non ti conosce? Chi si nasconde dietro il nickname Sio? Sono Sio, mi hanno sempre chiamato così dalla mia adolescenza, quindi è diventato anche il nome con cui firmo tutto quello che faccio. Che sono diverse cose: fumetti online, fumetti su carta con Shockdom, in edicola e in libreria; ho scritto anche un po’ di sceneggiature per Topolino, ho un canale YouTube seguito da più di due milioni di persone, ho scritto e disegnato le vignette che appaiono dal 2021 sul Cucciolone e sono papà di un bambino di tre anni.

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E la tua attività di editore? Per Shockdom sei ideatore e autore delle riviste Scottecs Megazine, Evviva e Shonen Ciao. Alla faccia della crisi della carta stampata… Più che editore, sono un catalizzatore. La crisi della carta stampata dipende da diversi fattori, ma la volontà di leggere e di esperire storie è insita nell’essere umano. Guadagni consensi indifferentemente dal canale che decidi di utilizzare. Sei d’accordo con me se dico che, al di là del mezzo di comunicazione, l’importante è avere qualcosa di originale da raccontare? Avere qualcosa di originale da raccontare è necessario ma non sufficiente. E non conta nemmeno il qualcosa, a volte basta il come. E a volte non è nemmeno necessario essere originali. Insomma: è complicato. Personalmente, amo sperimentare con molti modi diversi di raccontare, che siano video sul web, canzoni, fumetti cartacei o il mio podcast Power Pizza. A quando, invece, un cartone animato? Mentirei se dicessi che non ho progetti e non ci sto pensando. Quindi: non ho progetti di questo genere e non ci sto pensando (disse sudando e guardandosi intorno furtivamente). instasio

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i potrebbe tentare una riclassificazione dei conflitti moderni in base al loro rapporto con i media. O meglio, per essere più precisi, si potrebbero definire moderni esattamente quei conflitti in cui i media iniziano a giocare una parte rilevante, ossia divengono un’arma, al pari di quelle impiegate sul campo di battaglia. Se la Rivoluzione Francese segna l'avvio della modernità, allora non si può sottovalutare il fatto che, a servirsi per la prima volta di un telegrafo, fu l'esercito napoleonico – per quanto, in quell’epoca pre-elettrica, fosse solo ottico. Pochi decenni dopo, il ruolo della fotografia era già talmente rilevante da spingere , nel 1855, un ex-pittore come Roger Fenton a recarsi di persona in Crimea (un territorio piuttosto ambito, se è conteso da un secolo e mezzo). Se si pensa che fino a quell’epoca le sole immagini disponibili delle guerre erano fornite da artisti che le idealizzavano, il confronto con le desolate fotografie di Fenton è sconcertante. Basti pensare alla celebre The Valley of the Shadow of Death, che ritrae un campo di battaglia deserto e punteggiato di palle di cannone – anche se, di recente, proprio la veridicità di quella foto è stata messa in dubbio da uno come Errol Morris, a sua volta famoso per il documentario su Abu Ghraib del 2008 Standard Operating Procedure. La verità dell'orrore. Ben presto il ruolo della propaganda – un termine reinventato da Edward L. Bernays nel 1928 – divenne centrale durante la Grande Guerra, e anche dopo. Forse, i guerrafondai di tutti gli orientamenti dovrebbero rileggere – o meglio, riguardare – le pagine strazianti di Guerra alla Guerra pubblicato nel 1924 dal fotografo Ernst Friedrich: grazie al montaggio di immagini affiancate, Friedrich riesce a smontare la retorica propagandistica che dieci anni prima si era servita proprio della fotografia per gettare i popoli nel conflitto e per distorcere la verità. L’avvento del cinema divenne poi strategico nella Seconda Guerra Mondiale: i Combat Film americani, girati (anche da registi come John Houston o Frank Capra) a volte ricostruendo a posteriori episodi di bombardamento, lasciano ben capire come le immagini, ormai in movimento, iniziassero a essere impiegate per edificare un determinato regime scopico, un vero e proprio “immaginario”. Dalle “immagini della guerra” si stava passando a una “guerra delle immagini”, un fenomeno fattosi sempre più pervasivo durante le crisi militari del secondo dopoguerra. Nel corso della guerra del Vietnam, ad esempio, il ruolo dei reporter televisivi, presenti sul fronte, fu cruciale: il risultato ultimo della loro testimonianza fu che i cittadini americani (e di tutto il mondo) videro quasi in diretta il volto “reale” del conflitto, innescando un effetto di protesta interna, che finì per costringere gli USA al ritiro nel 1975.

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Continuare a pensare che il nostro rapporto con la guerra, proprio perché mediale, ci abbia ridotto al ruolo di rassegnati spettatori, è ormai riduttivo. Anche se, nei conflitti successivi, gli USA dimostrarono di aver appreso la dura lezione mediatica del Vietnam, riuscendo a esercitare un ferreo controllo sulla circolazione delle immagini (come avvenne con le due Guerre del Golfo), la tecnologia dei personal device fece sì che (in assenza di fotoreporter) fossero gli stessi militari americani a diffondere le immagini più atroci delle torture inferte ai prigionieri ad Abu Ghraib – mentre, parallelamente, l’inarrestabile espansione del web rese possibile la diffusione di immagini e documenti top secret relativi ad azioni militari, grazie all’attivismo di organizzazioni come WikiLeaks. Oggi, a ragione, in molti sottolineano come anche nell’attuale guerra in Ucraina ci sia un’altissima concentrazione iconica. Le immagini che ci giungono dai giornali e dalla televisione sono infatti indiscutibilmente diverse da quelle dei conflitti precedenti, e feriscono profondamente la sensibilità occidentale per la loro inquietante assenza di esotismo. Al posto di obsolete 124 usate come autobomba o di pick up arrembati da orde di talebani, abbiamo sotto gli occhi civili che scappano trascinandosi dietro i trolley come comuni turisti, tangenziali devastate, grattacieli con i vetri infranti o tranquilli supermercati squarciati come in un disaster movie.

La vera differenza però non sta solo nei contenuti, ma nel modo con cui essi vengono costantemente ri-mediati nel nuovo ecosistema costituito dai social e dai new media. In questi ultimi, i muti spettatori da teleschermo prendono parola, e lo fanno al pari degli attori diretti del conflitto, così che tutti si ritrovano a rilanciare e bombardare lo spazio mediale, trasfigurandosi in spettautori. E quando i media mainstream restano invischiati in episodi di distorsione informativa – come è accaduto a La Stampa, che il 16 marzo ha pubblicato in prima pagina la foto di Eduard Korniyenko relativa alla morte di 23 civili a opera di un razzo lanciato dagli ucraini, spacciandolo per l’ennesima strage di civili perpetrata dall’esercito russo (che intanto sta perpetrando altre innumerevoli stragi) – subito quelle immagini vengono "re-incorniciate" dall'infinito esercito dei "socialisti" mediali, a sua volta rintuzzato da un’armata altrettanto numerosa di contro-replicatori. Continuare a pensare che il nostro rapporto con la guerra, proprio perché mediale, ci abbia ridotto al ruolo di rassegnati spettatori, è ormai riduttivo. Questa interpretazione non tiene conto del fatto che i media sono un’espressione socialmente plastica, e semioticamente piroclastica, che si evolve continuamente. La guerra delle immagini è ormai divenuta una guerra dell’immaginario: e lungo il suo sterminato e tormentato fronte siamo già tutti arruolati.

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LA GUERRA MEDIALE testo e screenshot di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L



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