Artribune #64

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centro/00826/06.2015 18.06.2015

ISSN 2280-8817

Cattelan intervista Vezzoli

+ La Capitale della cultura è in Lussemburgo + Focus metaverso

N. 64 L GENNAIO – FEBBRAIO 2022 L ANNO XII



a cura di / curated by Lorenzo Balbi e / and Davide Ferri MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna Via Don Minzoni 14 | Bologna 20 gennaio / January - 1 maggio / May 2022

Info: mambo-bologna.org

Italo Zuffi, Ho difeso il tuo onore, 2010, performance

Italo Zuffi FRONTE E RETRO


#64 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Giorgia Basili | Irene Fanizza Giulia Giaume | Claudia Giraud Desirée Maida | Roberta Pisa Giulia Ronchi | Valentina Silvestrini Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA ARTRIBUNE Photo Maurizio Cattelan 2020 COPERTINA GRANDI MOSTRE Fernando Cobelo STAMPA CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 18 gennaio 2022

GENNAIO L FEBBRAIO 2022 www.artribune.com

artribune

COLUMNS

6 L GIRO D’ITALIA Mauro Francesco Minervino Giulia Ticozzi || 14 L Massimiliano Tonelli Lo Stato prenda esempio dalla Fondazione Falcone || 15 L Renato Barilli la via crucis degli "idoneati" || 16 L Marcello Faletra La storia dell’arte come scienza (in)esatta || 17 L Fabio Severino Che la cultura ci salvi || 18 L Christian Caliandro Verosimile: appunti sull’arte comunitaria || 19 L Aldo Premoli Prende slancio l’interesse della moda per gli NFT || 20 L Claudio Musso L L’arte (non) è un’isola

NEWS

26 L STUDIO VISIT Saverio Verini Leonardo Pellicanò || 30 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo Best of 2021 || 31 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Il Paradiso Terrestre di Max Svabinsky || 32 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni 3 app per gestire musei divertendosi || 33 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Chiara Zarmati: "Una illustrazione in due secondi? Sì, certo..." || 34 L TALK SHOW Santa Nastro Padiglione Italia sì Padiglione Italia no || 36 L NECROLOGY || 37 L ARCHUNTER Marta Atzeni Carles Enrich Studio || 38 L COSE Valentina Tanni Giradischi di luce et al. || 40 L NUOVI SPAZI Cecilia Pavone Artpoetry || 41 L DIGITAL MUSEUM Maria Elena Colombo Come si dice digitale a New York? || 42 L Massimiliano Tonelli Intervista a Miguel Gotor nuovo assessore alla Cultura a Roma || 43 L GESTIONALIA Irene Sanesi Se il coraggio ci si può dare || 44 L OSSERVATORIO NON PROFIT Dario Moalli Lo spazio Mucho Mas! a Torino || 49 L DURALEX Raffaella Pellegrino Patrimonio culturale, digitalizzazione e dati: le raccomandazioni dell’Unione Europea || 50 L DISTRETTI Livia Montagnoli La nuova Rimini che piacerebbe a Fellini || 52 L ART MUSIC Claudia Giraud Karma Clima: la music factory dei Marlene Kuntz || 53 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Doppio American Dream | L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Caso e giustizia in versione danese || 54 L GUEST Maurizio Cattelan Intervista a Francesco Vezzoli

STORIES

56 L Giulia Giaume La Capitale della cultura 2022 è in Lussemburgo ed è una piccola Europa 66 L Valentina Tanni Il metaverso non esiste

GRANDI MOSTRE

78 L IN APERTURA Marta Santacatterina Il Medioevo rivive a Pistoia || 80 L LA COPERTINA Fernando Cobelo | OPINIONI L Antonio Natali Tre artisti storici e la video-arte || 81 L Stefano Monti Istituiamo la Biennale dell’arte vivente italiana | Fabrizio Federici Opere che (non) tornano a casa || 82 L FOTOGRAFIA Angela Madesani Burri e Giacomelli: storia di un’amicizia || 84 L GRANDI CLASSICI Niccolò Lucarelli L’omaggio di Firenze a Benozzo Gozzoli || 85 L GRANDI CLASSICI Arianna Testino Alessandria terra di artisti || 86 L DIETRO LE QUINTE Giulia Giaume Canova e il contemporaneo a Rovereto || 88 L ARTE E PAESAGGIO Claudia Zanfi Giarre. Radicepura || IL MUSEO NASCOSTO Lorenzo Madaro Foggia. Palazzo Dogana || 89 L IL LIBRO Marco Enrico Giacomelli Mondrian uno e trino | ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Cagnaccio di San Pietro

ENDING

92 L SHORT NOVEL Alex Urso Miguel Vila 94 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi Il falso è un momento... del falso

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QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Anna Paola Agati Roberto Ago Sofie Andersen Salvatore Astore Marta Atzeni Renato Barilli Giorgia Basili Gabriella Berardi Katiuscia Biondi Giacomelli Nancy Braun Marco Cadioli Maria Luisa Caffarelli Christian Caliandro Simona Caraceni Maurizio Cattelan Fernando Cobelo Maria Elena Colomba Carles Enrich Marcello Faletra Fabrizio Federici Marco Enrico Giacomelli Giulia Giaume Emilia Giorgi Claudia Giraud Ferruccio Giromini Miguel Gotor Auriea Harvey Luca Lagash Niccolò Lucarelli Salvatore Luperto Matteo Lupetti Lorenzo Madaro Angela Madesani Desirée Maida Alessandra Mammì Miltos Manetas Silvia Mangosio Cristina Masturzo Mauro Francesco Minervino Georges Mischo Livia Montagnoli Stefano Monti Claudio Musso Fabiola Naldi Santa Nastro Antonio Natali Cecilia Pavone Raffaella Pellegrino Leonardo Pellicanò Cristiana Perrella Giulia Pezzoli Alfredo Pirri Françoise Poos Aldo Premoli Domenico Quaranta Giulia Ronchi Irene Sanesi Marta Santacatterina Marco Scotini Marco Senaldi Fabio Severino Carla Subrizi Rino Tacchella Sam Tanson Valentina Tanni Arianna Testino Giulia Ticozzi Grazia Toderi Massimiliano Tonelli Paola Ugolini Alex Urso Roberta Vanali Saverio Verini Francesco Vezzoli Luca Vianello Miguel Vila Claudia Zanfi Chiara Zarmati



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Reggio Calabria MAURO FRANCESCO MINERVINO [ antropologo ] GIULIA TICOZZI [ fotografa ]

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Venezia Artribune #58

Portofino Artribune #63

Cabras (Oristano) Artribune #61 Palermo Artribune #59-60

esi fa ero a Londra per un convegno e un pomeriggio, in cui mi andava solo di andare a zonzo, ho comprato un vecchio numero di National Geographic, marzo 1940, su una bancarella di memorabilia e cianfrusaglie colorate in mezzo al bricà-brac multietnico del Camden Antique Market. L’ho preso perché all’interno c’era pubblicata a tutta pagina una foto a colori che ritraeva un paesaggio del Sud Italia, in uno scorcio che sulle prime feci fatica a riconoscere. Adesso quell’immagine l’ho rifotografata e la tengo nel mio studio. È una foto scattata con perizia da paesaggista ed è intrisa di colori pastosi, scanditi da una luce netta che ne acuisce la bellezza scarna e struggente. La didascalia in inglese dice che lo scatto di quell’anonimo fotografo immortala “Il passaggio dello Stretto di Messina dalla costa calabra”, la sponda di Reggio Calabria. In primo piano sullo sfondo della superficie marina spicca l’immagine insolita di un trasporto di grandi buoi bianchi dalle lunghe corna, imbarcati vivi e trattenuti sul ponte di un vecchio naviglio a vela – una grossa tartana o uno sciabecco. Quella foto immortala un’icona di quel paesaggio quasi senza tempo, praticamente lo stesso cronotopo che risale dall’età neolitica, proseguita dai fenici sino al Medioevo, e poi ritornata in auge proprio ai giorni dell’autarchia bellica, in un’Italia del Sud impoverita del regime di Mussolini. Basterebbe stringere un po’ il campo e avremmo ancora davanti agli occhi un’immagine simile a quella delle navi troiane con Enea in fuga verso le sponde del Lazio, o l'avventura omerica di Ulisse, che ascrisse per sempre questi stessi paraggi marini alle ragioni del logos, personificato dello scaltro eroe greco vittorioso sui mostri irredenti dello Scilla e Cariddi. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio e memoria. Qualche mese dopo lo scatto di quell’immagine, l’Italia fascista entrava nella catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Quello stesso passaggio dello Stretto divenne, il 4 ottobre 1943, la scena tragica in cui si consuma l’odissea minore patita dal marinaio ‘Ndrja Cambrìa narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Il traghettamento del protagonista tra i contrari della vita ha un valore simbolico e figurale. All’arrivo in Sicilia, ‘Ndrja troverà una terra stravolta, devastata dalla guerra, quasi irriconoscibile ai suoi occhi. Quattro giorni impiega ‘Ndrja per arrivare al paese delle femmine, che sarà l’inizio della sua fine, e per quattro giorni l’Orca si aggira nello “scill’e cariddi” prima di “riassommare” e andare incontro alla morte. Per il povero marinaio, alla fine del passaggio dello

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Milano Artribune #62

Stretto, non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie sulle coste della Calabria, il “paese delle Femmine”, ‘Ndrja non arriverà due volte a passare dall’altra parte del mare per tornare a casa; mentre rema su una lancia in mezzo allo Stretto si avvicina a una enorme portaerei americana, la sentinella fa partire nel buio un colpo d’avvertimento che lo prende in mezzo agli occhi, uccidendolo sul colpo. Adesso quaggiù, tra terra e mare, tra Reggio Calabria e Messina, si combatte un’altra guerra vorticosa, folle, vera e sommamente incivile. C’è l’ecatombe in mare dei migranti africani che affogano. E sulla terraferma quella domestica, finale, che si abbatte su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale aveva oltraggiato così irrimediabilmente: è il cemento dei tempi di pace che disprezza la storia, il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e del bene comune da parte dei suoi stessi abitanti immemori; loro, noi, i veri invasori. In questo mare-mondo, che contiene l’origine e la fine di tutto, quel che un tempo era genesi oggi è apocalisse. In un’età in cui il mito dominante è quello di distruggere e rinnegare ciò che resta dei miti arcaici, solo la tragedia incalcolabile della perdita definitiva di questi luoghi, di queste vite e di questi paesaggi può essere. È il tema dell’impostura infinita che stiamo vivendo.

GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

Le fotografie di Giulia Ticozzi sono state scattate in occasione della campagna fotografica The Third Island (2015) curata da Antonio Ottomanelli.

BIO Giulia Ticozzi (1984) è una fotografa e photo editor freelance. Vive a Milano. Si interessa di immagine, di teoria della fotografia attraverso la progettazione di laboratori, opere di arte pubblica e ricerche fotografiche. È laureata in geografia e diplomata in fotografia al CFP Bauer a Milano. Per diversi anni ha lavorato come assistente nello studio di Francesco Jodice. Ha svolto progetti commissionati dal Museo di Fotografia Contemporanea MuFoCo e dall’Istituto Beni Culturali Emilia-Romagna. Ha esposto a Milano presso Careof e a Torino presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ha lavorato come photo editor per il giornale online Il Post e per le edizioni nazionali de La Stampa e la Repubblica. È coordinatrice del corso di fotografia allo IED di Torino, collabora a diversi progetti di ricerca visuale ed è parte del duo di ricerca artistica Studio Figure.


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Nino, pescatore, Cannitello, Villa San Giovanni

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Arghillà, Reggio Calabria

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Rione Capo d’Armi, Motta San Giovanni

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Lungomare Falcomatà, Reggio Calabria

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Museo di Storia Naturale dello Stretto di Messina nel Mediterraneo, Villa San Giovanni Ragazzo, Parco Baden Powell, Reggio Calabria

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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

LO STATO PRENDA ESEMPIO DALLA FONDAZIONE FALCONE

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022, signori! Siamo in pieni Anni Venti ormai. E, come tutti gli Anni Venti, sono iniziati in maniera inedita e funesta. Questo 2022 porta con sé ricorrenze profonde. Non solo quella, sinistra, della Marcia su Roma del 1922. C’è infatti un altro anno del secolo, un altro anno che finisce sempre col due e che, come con l’inizio del Fascismo, cambiò verso alla storia del Paese. È il 1992. Tutto iniziò a marzo: l’omicidio di Salvo Lima a Mondello. Poi, fra Agrigento e Porto Empedocle, l’omicidio del Maresciallo Guazzelli: era aprile. Arriviamo a maggio: la Strage di Capaci. Si continuò, come è ben noto, a luglio dello stesso anno in Via D’Amelio. Politici, magistrati, militari cadevano uno dietro l’altro: una guerra della Mafia contro lo Stato; una rappresaglia del malaffare radicato e storico che per la prima volta si sentiva braccato da una nazione che ormai da anni lavorava per estirparlo. Una battaglia che fu capace di determinare il corso degli eventi, la scelta di presidenti – qualcuno dice che lì si gettarono le basi per il ventennio successivo, quello segnato dalla figura di Silvio Berlusconi. Ma la violenza eclatante della Mafia non si fermò al ‘92, durò oltre un biennio e nell’anno successivo si passò dalle vittime eclatanti (Paolo Borsellino, Giovanni Falcone...) ai target simbolici. La Mafia, ancorché capeggiata da analfabeti, capì il valore identitario della cultura nell’immaginario diffuso italiano. Venne colpita la chiesa più importante del Paese, San Giovanni in Laterano, sede della diocesi di Roma. Nella Capitale venne preso di mira anche San Giorgio al Velabro, nel cuore dell’area archeologica centrale. A Milano, in coerenza con lo spirito avanguardista della città, si puntò sull’arte contemporanea, facendo saltare in aria il PAC in Via Palestro. A Firenze, manco a dirlo, si colpirono gli Uffizi con un ordigno in Via dei Georgofili. La stagione si chiuse nella maniera più raccapricciante col martirio di Don Puglisi. A raccontarla dopo trent’anni pare una serie su Amazon Prime Video, invece fu la realtà. Una realtà che va ricordata. Come farlo? Una chiave è quella della cultura. Tenendo bene a mente gli obiettivi delle bombe del 1993, rispondere dopo tre decenni proprio con l’arte. Potrebbe essere un grande progetto pubblico, dello Stato. È invece un’attività privata, meritoriamente portata avanti dalla Fondazione Falcone di Palermo, costituitasi

27 LUGLIO 1993 Strage di Via Palestro a Milano: le vittime sono Alessandro Ferrari, Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno, Moussafir Driss

28 LUGLIO 1993 Attentati a San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma

27 MAGGIO 1993 Strage di Via dei Georgofili a Firenze: le vittime sono Fabrizio Nencioni, Angela Fiume, Nadia Nencioni, Caterina Nencioni, Dario Capolicchio

12 MARZO 1992 Omicidio di Salvo Lima a Mondello 23 MAGGIO 1992 Strage di Capaci: le vittime sono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Mortinaro 19 LUGLIO 1992 Strage di Via D’Amelio a Palermo: le vittime sono Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina

Finanziare e sostenere lo sforzo di chi non solo punta a non dimenticare, ma lo fa inventando format efficaci.

nel dicembre del 1992 dopo l’uccisione del magistrato. La Fondazione Falcone sta mettendocela tutta, per ora su Palermo. Le celebrazioni sono iniziate nel 2021. Ci si è resi conto che una giornata di commemorazione sulla Strage di Capaci come si faceva ogni anno il 23 maggio non era fattibile: niente viaggi, niente discorsi, niente folla, niente scolaresche. E allora che fare? La Fondazione ha preso a riempire Palermo di giganteschi murales d’artista

15 SETTEMBRE 1993 Omicidio di Giuseppe Puglisi a Palermo

4 APRILE 1992 Omicidio di Giuliano Guazzelli fra Agrigento e Porto Empedocle

all’insegna del design sociale: uno dedicato a Falcone, uno a Borsellino, uno a Puglisi. Poi un’operazione tra scultura, installazione e performance con i cani del Branco di Velasco Vitali. Poi il coinvolgimento della grande tradizione artistico-artigianale del legno della Val Gardena. Insomma, un progetto che ha individuato la chiave corretta per lavorare sulla memoria in maniera attiva e coinvolgente per il territorio e i cittadini. Un progetto però che doveva essere più ampio, non limitarsi a Palermo, avere quella eco nazionale che una piccola fondazione non è nelle condizioni di garantire. Visto che siamo ancora in tempo, l’Italia potrebbe prendere abbrivio da questa iniziativa lodevole e farla propria; utilizzare la Fondazione Falcone come strumento per le celebrazioni nazionali; finanziare e sostenere lo sforzo di chi non solo punta a non dimenticare, ma lo fa inventando format efficaci.


RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]

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LA VIA CRUCIS DEGLI "IDONEATI"

uesta volta intervengo su una questione non certo limitata al solo settore dell’arte ma di portata generale, relativa a tutto il mondo universitario, e dunque anche alle discipline artistiche. Pare che il nostro Paese abbia trovato finalmente la quadra nel modo di selezionare i vincitori di concorsi a cattedre. Si procede formando delle commissioni di professori di prima fascia, una per ognuna delle materie previste dall’albo disciplinare, per esempio nel nostro settore ce ne sono quattro, relative alle discipline medievali, moderne, contemporanee e metodologiche. I concorrenti all’idoneazione per il primo gradino di associato, e per quello più alto, di titolare di prima fascia, non mandano più grevi pacchi delle loro pubblicazioni ma ricorrono all’onnipotente sistema informatico, inviando i loro titoli solo per email, e anche i commissari non si incontrano più, determinando un risparmio di spese per viaggi e soggiorni (ma era così simpatico, nei vecchi tempi, che i commissari si incontrassero in presenza, così conoscendosi, e andando ad allegre riunioni di ristorante o di albergo!). Ci sono anche drastiche limitazioni nell’invio delle pubblicazioni ammesse al giudizio. E finalmente escono da tutto ciò gli idoneati.

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Basterebbe fare una leggina per cui, tanti sono gli idoneati, e tanti i soldi che lo Stato mette a disposizione per la loro chiamata.

Fin qui tutto bene. Si aggiunga che queste idoneazioni si tengono a distanze abbastanza ravvicinate, e non hanno il capestro del numero chiuso, ovvero ogni commissione può promuovere il numero di candidati che ritiene meritevoli senza un limite prefissato. Ma poi, per i poveri idoneati, ha inizio una via crucis perché devono trovare gli Atenei, e per essi i dipartimenti, che siano disposti a chiamarli, avendo i relativi fondi a disposizione. È facile chiamare un vincitore se appartenente già a un certo

dipartimento, e dunque provvisto di una propria dote, basta incrementarla anche di poco e la persona può venire chiamata. Ma se si tratta di uno studioso fuori giro, non già provvisto di un qualche ruolo, per lui o lei sono guai, perché i dipartimenti imbucano i fondi, anche nel caso che ce li abbiano, per riservarli a propri elementi quando questi verranno idoneati. Tanto è vero che questi poveri vincitori si vedono costretti a prendere una via di ripiegamento, aspettare che i dipartimenti bandiscano dei posti di ricercatore, che dopo un certo numero di anni danno un accesso automatico al posto di ruolo. Ma è una via traversa, lastricata anch’essa di ostacoli. Come rimediare? Combattendo l’ipocrisia del nostro Stato, che a ogni pie’ sospinto lamenta la crisi dei giovani che non trovano posto, o sono costretti a emigrare all’estero in cerca di un lavoro. Basterebbe fare una leggina per cui, tanti sono di volta in volta gli idoneati, e tanti i soldi che lo Stato, il governo mette a disposizione per la loro chiamata, liberando i dipartimenti dal compito di provvedere in proprio. Ma come in tanti altri casi, si predica al vento, si dichiarano buoni propositi e non si fa alcun passo per la loro realizzazione. Basterebbero pochi milioni per sanare questa piaga.

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Biblioteca Universitaria, Università di Bologna. Photo © Anagrafe delle Biblioteche d’Italia

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MARCELLO FALETRA [ saggista ]

LA STORIA DELL’ARTE COME SCIENZA (IN)ESATTA

I

n un importante libro di Martin Damus sull’arte del Novecento, che opera una lettura analitica e critica dell’arte delle prime e seconde avanguardie – L’arte del neocapitalismo –, l’autore dedica molto spazio all’anti-arte e, soprattutto, ai primi happening europei. A un certo punto prende in parola una battuta di Jean-Jacques Lebel contenuta in una lettera inviata a Wolf Vostell. In essa vi è il seguente passaggio: “Nell’orinatoio di Duchamp si potrebbe pisciare dentro”, e aggiunge Damus: “Senza tradire con ciò il gesto di Duchamp”. La frase di Lebel è vera, ma non corrisponde all’intenzione dell’autore. Mentre il commento che fa convergere battuta e pensiero di Duchamp è inattendibile. In una conversazione Lebel mi spiega che quella era una battuta e andava presa come tale. Inoltre mi ha detto che in quella lettera inviata a Vostell vi erano altre battute che confermano la direzione eroticamente ludica e ironica dei suoi happening, dove ciò che contava era il processo di concatenamento tra artisti, musicisti, attivisti e chiunque avesse voluto parteciparvi. E il gioco erotico e l’ironia costituivano “shifters [dislocazioni, N.d.R.] esistenziali e protocolli socio-politici”, come osservò Paolo Fabbri. Con le parole dello stesso Lebel, “gli happening erano generatori di caoidi estetici”. Un’espressione chiave, che nei libri dei suoi amici Guattari e Deleuze diventerà un grimaldello semiotico e filosofico. Ed è lo stesso Duchamp a ricordare questo tratto erotico di Lebel quando, in un’intervista a Pierre Cabanne, dice che “in Jean-Jacques Lebel […] c’è un bisogno di erotismo molto netto”. Happening, quindi, come una specie di Wunderkammer vivente o un gabinetto delle meraviglie. Sull’inattendibilità del commento di Damus per il quale si potrebbe pisciare dentro l’orinatoio “senza tradire […] Duchamp”, lo stesso Lebel precisa che “in realtà Duchamp opera una trasformazione. Mette l’urinoir da una posizione verticale a una orizzontale, cioè l’oggetto da valore maschile è trasformato in valore femminile con una nuova denominazione Fountaine (che in francese suona al femminile). Duchamp ha operato uno spostamento di significato attraverso la parola che ha modificato lo statuto dell’oggetto. È per questa operazione di spostamento semiotico che non ha senso pensare o interpretare il gesto di pisciarvi dentro come ha equivocato Damus”. In sostanza: non è l’oggetto in sé che è opera d’arte, ma la sua dislocazione

Jean-Jacques Lebel (dx) e Marcel Duchamp (sx), 1965 © Archivio Jean-Jacques Lebel

Ciò che si scrive sulle opere non sempre coincide con l’apparenza estetica di ciò che si vede e viceversa.

spaziale e la sua rinominazione linguistica. Ma Damus non è il solo ad aver equivocato Duchamp – e Lebel. Anche la nota critica e storica dell’arte Rosalind Krauss è smentita dallo stesso Duchamp in una conversazione con Otto Hahn, il quale riporta un passo di Krauss sull’origine di Fountaine che recita: “R. Mutt, un gioco di parole fatte col tedesco, Armutt, miseria”. Davanti a questa interpretazione (o fantasia di Krauss) Duchamp risponde seccamente: “Rosalind Krauss? La ragazza dai capelli rossi? Non si tratta affatto di questo. La autorizzo a smentire”. Sorge spontanea una domanda: nel vuoto di testimonianze dirette, cosa autorizza a raccontare a modo proprio,

fantasticando a volte, le opere di cui gli artisti sono artefici? Su questo aspetto lascio ancora la parola a Lebel: “La storia dell’arte […] non è una scienza esatta e, senza offesa per i mandarini universitari giustamente castigati da Artaud e Leiris nella loro Lettera ai rettori delle università europee del 1926, in questo campo, come in tutti gli altri, la falsa scienza regna sovrana”. Siamo nel pieno del problema del rapporto tra realtà e narrazione, in quanto esse sono state spesso definite dalla conformità tra cosa e rappresentazione convenzionale. Quante volte ci si è trovati davanti a storie verosimili (ciò che appare ovvio, l’opinione corrente) ma non davanti al vero? È la celebre questione posta da Magritte in L’usage de la parole, cioè dell’uso delle parole che negano la cosa rappresentata come tale, alludendo che si tratta di una rappresentazione, cioè di un simulacro. Se proviamo a mettere Lebel e Duchamp al posto di Ceci n’est pas une pipe, troviamo lo stesso problema di fronte a certe letture. Ciò che si scrive sulle opere non sempre coincide con l’apparenza estetica di ciò che si vede e viceversa.


FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]

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uante cose ci sta insegnando questa lunga stagione... Come sempre si ha opportunità di crescere nel dolore, nella crisi e grazie a incagli che ci obbligano a fermarci e riflettere: guardandoci intorno, guardandoci indietro. Così da poter essere in grado di pianificare un futuro più possibile. Abbiamo bisogno della cultura. È questo un ulteriore insegnamento dalla crisi pandemica. Siamo fermi e ci “auscultiamo”.

Di cosa ci si rende conto in questo momento di stallo? Che si vive nell’illusione dell’immagine. Siamo di fronte ancora una volta al mito della caverna di Platone. Non vediamo più la vita, la fotografiamo per gli altri, la rappresentiamo per loro. Non la sentiamo più, abbiamo bisogno del riscontro altrui (il like) per renderci conto che sia vera. Non si ha più un metro proprio di fortuna/sfortuna, benessere/malessere. Tutto è demandato al gradimento degli altri. Che a loro volta sono spettatori, non ci sono più protagonisti. La vita è una narrowcast dove ognuno dal proprio cellulare/telecomando vota con un like come vive un altro. Dal più estraneo degli influencer al più prossimo dei conoscenti. I primi non influenzano alcunché, a pensarci bene. Mostrano le loro vite, plastiche, artefatte, costruite per poter essere fotografate e riprese, per poter essere aspirate ma da nessuno vissute. I secondi spesso neanche li salutiamo se li incontriamo per strada. Pensiamo di sapere tutto di loro e dopo tutto “non c’è questa confidenza da addirittura rivolgergli la parola”. Li giudichiamo, questo sì: è la democrazia del XXI secolo. Perché fermarci a chiedergli “come stai?”, quando già lo sappiamo. Le illusioni raccontate sono gioie, benessere, bellezza (ovviamente per lo più stelline, perché in fondo vorremmo solo che gli altri ci invidiassero), raccontate da chi il più delle volte non solo non le vive queste esperienze (perché sono costruite, fasulle) ma non le conosce neanche, non ne

Platone, La Repubblica, 514b – 520a 4

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MONDO INTELLIGIBILE:

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Concetti geometrici conosciuti attraverso la ragione discorsiva (dianoia)

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Idee conosciute attraverso l’intelligenza pura (noesis)

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MONDO SENSIBILE:

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Ombre conosciute attraverso l’immaginazione (eikasia)

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Esseri viventi e oggetti conosciuti attraverso la credenza (pistis)

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ha gli strumenti. Ha bisogno del like degli altri per capire cosa vale (se stesso e la sua vita). Gente che trascorre feste, serate, viaggi scattando foto. Senza “vedere” sostanzialmente nulla, senza vivere nulla, bensì “registrando” affinché qualcuno si accorga che lui/lei esiste, “vive” nel senso mediatico del termine. In che modo ci può venire in aiuto la cultura quindi? Riscattandoci, come sempre. Come nessun altro più di lei è in grado di fare. Si è smarriti – o privi – di identità. Cultura è identità. Portare la memoria del passato, ricordandoci da dove veniamo, ci può insegnare chi siamo. La catarsi greca era quello stupore anche doloroso perché cruento che stimolava la riflessione, innescava la percezione, la sensibilità (facendo

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La trasmissione virale ha esacerbato il tema del contatto, la vita e la percezione si sono ancor più rarefatte.

MITO DELLA CAVERNA

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CHE LA CULTURA CI SALVI

anche pagare il prezzo, emotivo, di una colpa). La cultura deve cortocircuitare una società seduta sull’illusione. Le persone non sentono più nulla, in senso emotivo, percettivo. Le grandi masse vivono di narrazione, seguendo schemi di ciò che l’altro può riconoscere all’interno di standard e stereotipi. Non si vive più di contatto ma di immagini. La trasmissione virale ha esacerbato il tema del contatto, la vita e la percezione si sono ancor più rarefatte. Che la cultura, in tutte le sue forme, al cinema, nei libri, a teatro, nelle canzoni, nei musei, ci pungoli a sentire chi siamo, che inneschi risvegli da cortocircuito. Che la cultura, ancora una volta, ci salvi.

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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

VEROSIMILE: APPUNTI SULL’ARTE COMUNITARIA

erché lo spazio pubblico, lo spazio fisico e culturale, materiale e immateriale condiviso, si è ristretto sempre di più negli ultimi anni, contrariamente a quanto sbandierano certe retoriche sia politiche che artistiche. Perché le condizioni della relazione, soprattutto a partire dalla diffusione del Covid, si sono anch’esse ridotte drammaticamente. E perché il futuro immediato che si prepara punta a una divisione e a una separazione ancora più netta tra gli individui e tra le classi.

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Il futuro immediato che si prepara punta a una divisione e a una separazione ancora più netta tra gli individui e tra le classi.

La relazione è al centro dell’opera, di qualsiasi opera. Ovviamente, quando diciamo “opera” diciamo un’opera vivente (living), in rapporto pieno con il suo contesto. Come dichiarava Judith Malina del Living Theatre, “credo che l’arte migliore sia quella che è coinvolta nel tempo vivente. Non vogliamo riconoscere questa linea, questa frattura tra arte e vita. Se c’è la vogliamo evitare. L’artista non è da un lato artista e dall’altro uomo. Vogliamo costruire la nostra vita dalla nostra vita di teatro. Dal contenuto del pezzo teatrale non vogliamo creare la frattura tra l’ideologia e ciò che dobbiamo fare ogni giorno. Non credo però che per questo motivo non sia arte” (in Anna Maria Monteverdi, Frankenstein del Living Theatre, BFS Edizioni, Pisa 2002, pp. 116-117). Invece di opere fatte da artisti/autori che già sanno come va tutto, già conoscono l’inizio e la fine, e propongono un discorso razionale, una riflessione dritta come un fuso ma che è priva di energia vitale e che non porta in realtà da nessuna parte, in realtà… E allora occorre vedere e gustare e trovare opere che si disperdono, che si fondono, che si confondono e che creano confusione, che si mischiano e che si immischiano, opere discrete e senza pudore, opere che si inoltrano e si sporgono, si inoltrano e si sporgono… Opere che si diffondono come spore, che occupano spazi interi senza ingombrare, opere che si infiltrano anche nei luoghi interiori,

opere che sono fatte di niente e di tutto, opere che non sono noiose e che non hanno paura e che hanno paura in continuazione, opere fratte distrutte spezzate traumatizzate scomposte divelte ridotte a brandelli e in frantumi triturate e ricomposte alla meglio… LLL 25 ottobre 2021. Ciò che John Cage obiettava a Glenn Branca riguardo all’esecuzione, nel luglio 1982, del pezzo Indeterminate Activity of Resultant Masses, quando diceva che la rottura dell’amplificatore era stato l’unico vero momento di “freedom from intention”, di libertà dall’intenzione. La sua obiezione principale era contro il dominio di ogni aspetto della performance da parte dell’autore/compositore; non c’è spazio per il caso, per l’imprevisto o per la voce individuale, e Branca è in questo caso il maresciallo, il condottiero, il ‘duce’: trasferendo tutto questo sul piano sociale e politico, Branca secondo Cage “non vorrebbe vivere affatto in una società”, e le implicazioni di tutto questo conducono così a “qualcosa che assomiglia al fascismo”. Mentre la musica di Cage stesso può essere eseguita da chiunque, ovunque, in qualunque momento.

Opere che si diffondono come spore, che occupano spazi interi senza ingombrare, opere che si infiltrano anche nei luoghi interiori.

17 novembre 2021. ROSSELLA: Perché un’opera venga riconosciuta come tale è necessaria la critica d’arte? Normalmente sì, però il problema è che anche la critica d’arte non funziona nella versione precedente, ovvero noi non possiamo adattarla. Anche la scrittura critica dunque deve adattarsi. Una delle altre conseguenze è che non solo l’opera se non la viviamo difficilmente possiamo dire che la stiamo costruendo, ma per lo stesso motivo l’opera non può essere esposta secondo il dispositivo tradizionale, ovvero quello della mostra. L’esposizione di opere relazionali è un altro paradosso: anche la

mostra dovrebbe cambiare, poiché non è adatta a questo tipo di esperienze. Per me, la scrittura critica deve porsi sullo stesso livello dell’opera, accompagnando gli artisti in una chiave più esperienziale ed esistenziale. Ci sono delle qualità di base che si dovrebbero ricercare in un’opera per definirla tale? Assolutamente sì. L’elemento dello stile per esempio è fondamentale. Giulio Paolini negli Anni Novanta offre questa sintesi: “Lo stile è, per definirlo in due parole, l’impronta che rimane malgrado l’opera ed il suo autore. Il segno che, alla fine, si sente e si vede. Inevitabile, incomparabile, ma assolutamente involontario nonostante l’oblio ostinato entro cui l’autore tenta ogni volta di costringerlo. Lo stile si afferma dunque come elemento primario della soluzione chimica che regge la concezione e la realizzazione dell’opera e solo in quel momento che lo stile parla chiaramente, dice la verità solo quando è costretto al silenzio”.


ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]

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BURBERRY + MYTHICAL GAMES NFT in-game Blankos Block Party agosto 20

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LOUIS VUITTON + BEEPLE NFT in-game Louis the Game bre 2021 tto

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GIVENCHY + CHITO 15 artwork della collezione in NFT bre 2 0 cem di

ADIDAS + BORED APE YACHT CLUB + GMONEY + PUNKS COMICS Collezione NFT & fisica bre 2 0 cem di

BALMAIN + DOGPOUND Sneaker NFT & fisica BBold Dogpound

aggiudicarsi due biglietti per il prossimo fashion show di Balmain; addirittura ottenere due ingressi nel suo backstage. I proprietari dell’NFT naturalmente possono scegliere di rivendere questo privilegio a un prezzo a loro scelta. Ma non è questo che conta per il brand: nel progetto – sino a ora tra i più evoluti – la sovrapposizione tra digitale e fisico propone un’esperienza esclusiva (tipica del “lusso”) ma allo stesso tempo inclusiva (tipica del web). Balmain (proprietà di Mayhoola Investiments, fondo sovrano dell’emiro del Qatar, come il marchio Valentino) e il suo direttore artistico Olivier Rousteing hanno rispettivamente 11 e 7 milioni di follower su

Instagram. L’intento è monetizzare questo vasto seguito digitale in modo coinvolgente: la vetrina luccicante della boutique di un centro cittadino, dopo diciotto mesi di pandemia, appare preistoria. Balmain non è il solo a muoversi con decisione in questa direzione. Lo scorso maggio, Gucci ha messo all’asta un video NFT – Aria di Alessandro Michele e Floria Sigismondi – da Christie’s per 20mila dollari (tanto Gucci che Christie’s appartengono alla holding francese Artemis). Burberry, in collaborazione con Mythical Games, ha prodotto un NFT in-game per Blankos Block Party ad agosto. Sempre in agosto, all’interno del videogioco Louis the Game di Louis Vuitton sono stati inseriti 30 NFT dell’artista Beeple: ognuno poteva essere rinvenuto solo giocando e in ogni caso non rivenduto. A ottobre è arrivata la Collezione Genesi firmata Dolce & Gabbana: avrebbe nel suo insieme realizzato all’asta 1885,73 ethereum (circa 6 milioni di dollari al cambio attuale). Si è trattato della prima collezione moda dove sono comparse tanto creazioni fisiche che virtuali, comunque vendute secondo il modello NFT, in collaborazione con la piattaforma specializzata UNXD, appoggiata a sua volta a Plygin per facilitare la connessione con le blockchain. Givenchy il mese seguente ha lanciato la sua seconda collezione di quindici NFT dell’artista Chito, che è possibile acquistare sul marketplace specializzato OpenSea. A dicembre si è fatta viva pure Adidas: la divisione moda del colosso tedesco Adidas Originals ha lanciato una collezione NFT di prodotti sia fisici che digitali rivelata attraverso fumetti creati in collaborazione con Bored Ape Yacht Club, l’influencer NFT Gmoney e Punks Comics. I brand che sono in grado di affrontare gli investimenti adeguati a operazioni del genere (per gli altri la competizione è sempre più ardua) considerano l’ambiente NFT come un nuovo necessario canale di distribuzione, un modo per rimanere rilevanti anche nella demografia del metaverso. Tutto questo è così vero che persino i media cartacei tentano un disperato inseguimento, e non solo quelli della moda. Vogue Singapore lo scorso settembre ha stampato al centro della sua copertina un codice QR che, una volta scansionato, rivela due immagini digitali poi messe all’asta come NFT. Fortune ha recentemente messo all’asta alcune copertine NFT raccogliendo 1,3 milioni di dollari, mentre le copertine NFT di Time Magazine a marzo sono state vendute all’asta per 435mila dollari.

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DOLCE & GABBANA + UNXD Collezione NFT & fisica Genesi

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Lo scorso 8 dicembre Balmain ha lanciato il suo terzo NFT. Particolarmente coinvolgente l’articolazione del progetto che lo sorregge: il token rappresenta un paio di trainer nate in collaborazione con Dogpound, la palestra più frequentata dalle celebrities di New York e Los Angeles. La sneaker reale, denominata BBold Dogpound, è poi stata messa a disposizione in quantità limitate per l’acquisto nel webstore di Balmain e contemporaneamente in quello di Dogpound. Prezzo base: 1.069 dollari. Possedere l’NFT di questa trainer significa ottenere non solo la sua immagine digitale, ma una tessera grazie alla quale accedere a una sessione personalizzata con il fondatore di Dogpound, Kirk Myers;

GUCCI + CHRISTIE’S Video NFT Aria

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La vetrina luccicante della boutique di un centro cittadino, dopo diciotto mesi di pandemia, appare preistoria.

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on è una novità che NFT e Blockchain siano attualmente ritenuti un investimento privilegiato da parte del crimine organizzato. L’anonimato offerto dalle transazioni operate in criptovalute fornisce il genere di privacy ideale per ripulire ogni genere di provento illecito, spaccio di stupefacenti, prostituzione o commercio di armi che sia: un click sullo smartphone risulta più comodo dei tradizionali investimenti in ristorazione, immobiliare o società calcistiche tipico delle mafie di tutto il mondo. Persino i Paesi europei – quelli che da sempre basano la loro economia sulla movimentazione della valuta – mostrano di essere all’opera nella costruzione di autostrade informatiche utili a questo tipo di scorrimento. La criminalità organizzata dunque usa l’elemento digitale per volatilizzare il surplus creato da reali attività illecite. Esattamente al contrario e senza illeciti operano i brand della moda: per questi ultimi, l’interesse per gli NFT ha l’obiettivo di pescare nel digitale clienti attirati all’esperienza fisica che viene loro abbinata. Secondo la società di investment banking Morgan Stanley, videogiochi e NFT potrebbero costituire il 10% del mercato dei beni di lusso entro il 2030, con un’opportunità di guadagno di 50 miliardi di euro.

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PRENDE SLANCIO L’INTERESSE DELLA MODA PER GLI NFT

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CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]

IN FONDO (AL)LA GALLERIA

er la mia generazione e ancor di più per quella che l’ha preceduta, la galleria (a scanso d’equivoci, qui si parla di quella privata e commerciale) è stata inquadrata senza dubbio come il fulcro dell’arte contemporanea. Restando in Italia, già Arte Povera e Transavanguadia muovono i primi passi da spazi galleristici; recentemente, sempre più frequenti sono gli studi e le riscoperte che rispolverano una trama di intrecci e di relazioni fondamentali lungo tutto lo Stivale, da Gian Enzo Sperone (Torino) a Toselli (Milano), continuando con L’Attico (Roma) fino a Modern Art Agency (Napoli). La vita, e soprattutto la vitalità, di questi luoghi veniva tramandata intatta fino agli Anni Novanta, con strascichi verso il 2000 e con eccezioni che dal format cercavano di emanciparsi (vedi alla voce NEON). Poi il buio. O, meglio, la crisi. A dirla tutta, le crisi, al plurale, di cui quella economica è stata solo uno spicchio. Oggi però, da un osservatorio ristretto quanto privilegiato come la città di Bologna (in cui risiede chi scrive) e all’indomani dei lockdown pandemici, pare intravedersi una luce. Tre esposizioni, tra le altre, hanno attirato la mia attenzione proponendo modalità, a tratti inedite a tratti consolidate, che sembrano spingere verso un rinnovato rapporto artista-critico/curatore-gallerista. Nel tardo autunno felsineo si sono sovrapposte alcune mostre che avevano in comune la presentazione di un progetto organico (tematico, se risulta più chiaro) e l’inequivocabile illustrazione di un’idea. Partiamo da Labs Gallery, che ha affidato i suoi spazi a due degli artisti rappresentati, Giuseppe De Mattia e Giulia Marchi, per raccontare la parabola, professionale quanto biografica, di Danilo Montanari. Il suo operato prima nel collettivo SuperGruppo – da cui le iniziali EsseGi delle note edizioni da lui dirette fino al 1993 – e poi solitario con nome e cognome proprio, apre uno squarcio sull’importanza del comparto editoriale nella produzione e nella diffusione dell’arte negli ultimi qu ant’anni. Reduce dal MAC di Lissone, Alberto Zanchetta con Tetraedro ha trasformato le tre sale adiacenti della OTTO Gallery in una sequenza di stazioni: Wunderkammer, cabinet, studiolo. Dense pareti a quadreria con nomi consolidati (Arruzzo, Casadei, Portatadino) e nuove leve, accrochage di basamenti e cavalletti eterogenei per il comparto ceramico (Chiodi, Nero, Salvatori).

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fino al 10 gennaio Tetraedro a cura di Alberto Zanchetta OTTO GALLERY Via D’Azeglio 55 otto-gallery.it Bologna Centrale

fino al 27 febbraio La realtà, i linguaggi a cura di Fabio Cavallucci GALLERIA ASTUNI Via Barozzi 3 galleriaastuni.net

A rinsaldare la speranza, ad accendere un fievole lume, è proprio la qualità delle proposte, tanto negli allestimenti quanto nei concetti.

fino al 7 gennaio Danilo Montanari a cura di Giulia Marchi e Giuseppe De Mattia LABS GALLERY Via Santo Stefano 38 labsgallery.it Fabio Cavallucci invece, che dal Pecci era volato a Shenzen per la Bi-City Biennale of Architecture and Urbanism, è l’ideatore de La realtà, i linguaggi alla Galleria Astuni. A partire dall’immagine che funge da guida d’ispirazione gestaltico-programmata che nasconde il titolo in un pattern/ griglia, il percorso, da Nannucci a Rozendaal passando per Agnieszka Polska, intende (ri)portare l’obiettivo sui codici linguistici e sulle loro derive. A rinsaldare la speranza, ad accendere un fievole lume, è proprio la qualità delle proposte, tanto negli allestimenti quanto nei concetti. Anche se, come diceva il Funari di Guzzanti, “la luce in fondo al tunnel è a carico vostro!”.


AN Unguarded Moment Adrian Tranquilli mostra antologica 04 DICEMBRE 21 06 MARZO 22

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Artribune per Assicoop Modena&Ferrara e UnipolSai

ASSICOOP MODENA&FERRARA E IL MODELLO PUBBLICO-PRIVATO

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ome è nata la scelta di Assicoop Modena&Ferrara, agente assicurativo di Unipolsai nei territori di Ferrara e Modena, di avviare una raccolta di opere d’arte? La raccolta nasce nel 2002 dalla passione per l’arte e il collezionismo e dal forte radicamento territoriale che da sempre contraddistingue Assicoop. Volevamo dare un significativo contributo alle attività di conoscenza e valorizzazione del patrimonio artistico locale. In una prima fase, le opere acquisite rispondevano a un gusto personale e all’obiettivo di arredo degli uffici direzionali; presto siamo però arrivati a scelte metodologiche più rigorose e coerenti, anche grazie alla costante consulenza di esperti, tra cui lo storico dell’arte Luciano Rivi. Fin da subito abbiamo deciso di concentrarci su artisti del territorio, prima modenesi poi ferraresi, attivi tra Ottocento e Novecento. Un perno delle attività legate alla Raccolta è il partenariato tra pubblico e privato. Quali obiettivi vi ha permesso di raggiungere, nel tempo, questa formula? Fin dalle prime fasi abbiamo capito che il nostro obiettivo andava oltre il collezionismo privato: volevamo rendere fruibile ed aperta la raccolta a studiosi, cittadini e appassionati. Dopo diverse esperienze di collaborazione con enti pubblici e istituzioni culturali, che ci hanno permesso di esporre temporaneamente opere della nostra raccolta, oggi grazie all’accordo di partenariato pubblico-privato con la Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna per la realizzazione del progetto Sintonie abbiamo fatto un passo ulteriore: 37 opere sono state esposte stabilmente per i prossimi tre anni all’interno di due prestigiosi musei statali, il Museo di Casa Romei e il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara. Un progetto – sviluppato da un gruppo di lavoro costituito da funzionari del Ministero del-

La questione dei rapporti tra pubblico e privato nell’azione di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale è da tempo oggetto di riflessioni. Le iniziative promosse nel corso di ormai vent’anni da Assicoop Modena&Ferrara costituiscono un utile e fattivo contributo al dibattito, grazie a un’acquisizione di opere d’arte mirata alla definizione della storia del territorio e a una serie di buone pratiche pensate in stretta collaborazione con gli enti pubblici. Ultima tappa di questo impegno, il progetto triennale Sintonie. Ne abbiamo parlato, in questa intervista, con il presidente Milo Pacchioni. la Cultura e da rappresentanti di Assicoop e Legacoop Estense – che prevede ulteriori allestimenti tematici temporanei e iniziative didattiche e divulgative, al fine di arricchire la proposta culturale dei due musei e rendere fruibili al pubblico opere che altrimenti non sarebbero visibili. In che modo Assicoop in questi anni ha costruito il rapporto con i propri pubblici? In questi 20 anni abbiamo catalogato in modo sistematico tutte le opere della raccolta –

visibili online sul sito www.assicoop.com/gallery – promosso esposizioni temporanee, pubblicato cataloghi. In tutte queste attività, proprio con la volontà di coinvolgere un pubblico ampio, abbiamo sempre collaborato con realtà territoriali, tra cui – oltre alla Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna – l’Accademia Militare e i Musei Civici del Comune di Modena, le Gallerie Estensi, le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Ferrara. Il nostro impegno per l’arte e la cultura si è inoltre

IN ALTO: Sala del Cinquecento del Museo di Casa Romei IN BASSO: Allegoria Marina di Giovan Battista Crema, Museo Archeologico Nazionale di Ferrara A DESTRA: Opere esposte nel salottino degli uffici aziendali di Assicoop a Modena


Artribune per Assicoop Modena&Ferrara e UnipolSai

concretizzato con il sostegno a musei, teatri e iniziative di arte promosse da enti pubblici e privati, dando così forma ai principi cooperativi che ci caratterizzano. La collezione continua ad arricchirsi di nuove opere. Quali sono i criteri con cui scegliete gli artisti? Oggi la Raccolta ha più di 760 opere tra dipinti, disegni, sculture di artisti modenesi e ferraresi dall’Ottocento ai giorni nostri, acquisite da privati, dal mercato antiquario e dalle aste, prevalentemente in Italia ma anche all’estero. Tra gli artisti, a fianco di nomi noti come Boldini, De Pisis, Funi per Ferrara e Malatesta, Muzzioli o Graziosi per Modena, abbiamo nomi meno conosciuti ma altrettanto importanti rispetto agli obiettivi di riferimento. Nella scelta di artisti e opere, infatti, ci guida la volontà di una ricostruzione storico-artistica il più completa possibile di questo territorio negli ultimi due secoli.

Contenuto realizzato in collaborazione con:

LA RACCOLTA ASSICOOP INCONTRA I MUSEI DEL TERRITORIO NEL PROGETTO SINTONIE Arricchire e diversificare l’offerta culturale dei musei del territorio attraverso le potenzialità della Raccolta Assicoop: è questo l’obiettivo della collaborazione pubblico-privato SINTONIE, progetto triennale avviato da Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna, Assicoop Modena&Ferrara e Legacoop Estense. Una forma di collaborazione, secondo il Direttore Regionale Musei Emilia-Romagna Giorgio Cozzolino, “innovativa e particolarmente fruttuosa perché rafforza legami e collaborazioni già molto proficue con le realtà territoriali, in particolar modo con il mondo imprenditoriale e le comunità di patrimonio”. Un progetto che, fino al 2024, permetterà di mettere in campo diverse attività culturali, espositive, didattiche e divulgative in collaborazione con il Museo di Casa Romei e il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, a partire dalla recente inaugurazione di SINTONIE. Tra Visioni e Racconti, allestimento di 37 opere della Raccolta Assicoop nelle sedi dei due musei statali. Una doppia esposizione, visitabile per i prossimi tre anni, pensata non come una mostra tradizionale, bensì come una proposta di dialogo, integrazione e mediazione con le collezioni dei musei. Un progetto che “ben rappresenta l’impegno della cooperazione nel sostenere iniziative sociali e culturali, come modo di restituire al territorio una parte della ricchezza prodotta dall’attività di impresa”, nelle parole di Andrea Benini, presidente di Legacoop Estense. Alberto Pisa, Giovan Battista Crema, Achille Funi, Gianfranco Goberti, Gaetano Previati e Giovanni Muzzioli sono alcuni degli artisti ferraresi e modenesi tra Ottocento e Novecento presentati nel progetto espositivo, “sulla base di affinità iconografiche, formali e storiche

con gli spazi e le opere dei due musei”, spiega la coordinatrice scientifica Emanuela Fiori. Da una parte, l’Uomo in abiti rinascimentali che esamina un dipinto di Alberto Pisa apre la visita al Museo di Casa Romei evocando la figura dello stesso Giovanni Romei e “accompagnando idealmente il visitatore in un percorso rinnovato, che gli permetterà di scoprire accostamenti inediti”, spiega il direttore Andrea Sardo; il percorso prosegue nella Sala del Cinquecento con il tema dell’infanzia e dell’adolescenza, dal dipinto ottocentesco di Adeodato Malatesta con il soggetto religioso del San Giovannino, alle sculture giocose e vitali di Giuseppe Graziosi, passando per le figure di adolescente di Vittorio Magelli e Ivo Soli, assorte in una condizione mentale di sospensione. Dall’altra, il percorso al Museo Archeologico Nazionale si apre con l’Allegoria Marina di Giovan Battista Crema e continua con opere di artisti quali Achille Boschi, Giovanni Muzzioli e Mario Vellani Marchi, con opere “che rievocano l’immaginario dell’antico, ritraendo figure quali Antigone ed Edipo, le Amazzoni, Prometeo e scene raffiguranti momenti rituali come un’offerta agli dei o un rito funebre nell’antica Grecia”, nelle parole del direttore Tiziano Trocchi. “Nel salotto attiguo alla Sala delle Carte Geografiche, abbiamo voluto realizzare un allestimento che, richiamando le atmosfere delle antiche quadrerie, alluda alla passione collezionista, agli ambienti aziendali della Raccolta Assicoop e offra ai visitatori uno spazio di “sosta” di riflessività e interpretazione”, spiega la responsabile dei servizi educativi della Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna Patrizia Cirino.




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SAVERIO VERINI [ curatore ]

Leonardo Pellican apita spesso, in pittura, che le cose maggiormente degne di nota si manifestino in zone eccentriche e in apparenza marginali della superficie – sia essa tela, tavola, muro o altro ancora. È in quei punti, laterali e un po’ nascosti, che avvengono piccole o grandi epifanie; aree in cui i particolari – talvolta di dimensioni minuscole – si manifestano, invitando l’osservatore a quella “performance dell’occhio” che porta lo sguardo a percorrere la superficie pittorica in tutti i sensi. Seguendo quest’immagine, mi piace pensare a Leonardo Pellicanò (Roma, 1994) come a un pittore-esploratore, capace di scoprire segni e tracce a diverse latitudini delle sue tele. L’idea della scoperta mi sembra centrale nella sua pratica: osservando le opere di Pellicanò, ho l’impressione che certe apparizioni – che prendono la forma di tenui figure, bagliori, accenni di architetture, ipotesi di paesaggio – corrispondano ad antichissimi ritrovamenti, quasi dei graffiti che l’artista sembra aver riportato in superficie, più che realizzato di propria mano. Pellicanò intercetta queste pre-immagini, le fa affiorare traendole da quella specie di nebulosa che è lo sfondo dei suoi dipinti (realizzati quasi sempre su tele montate al rovescio, sulla parte “grezza”): dettagli che si presentano come “deviazione o attrito” (per dirla con Daniel Arasse) e che permettono di sfiorare un “sentimento d’intimità” (ancora Arasse) con l’autore e l’opera stessa.

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Partiamo dalla fine e da una domanda piuttosto ingenua: quando senti che un quadro è terminato? Quando avviene una connessione immediata e profonda tra ciò che sto provando esattamente in quel momento e quello che vedo manifestarsi sulla superficie. È qui che avviene una scoperta, o rivelazione, per cui sento di aver esplorato qualcosa di fragile e ineffabile. Questa corrispondenza tra coordinate spaziali che si collegano a luoghi remoti della memoria è ciò che dà una dimensione concreta al lavoro; il grande formato, che spesso utilizzo, permette la possibilità di attraversare spazi fisici e immaginifici allo stesso tempo. La cosa paradossale è

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che un quadro è finito proprio quando va oltre la mia intenzionalità, quando qualcosa mi è sfuggito e l’opera acquisisce una propria indipendenza, come se tra me e l’opera ci fosse uno sguardo reciproco. Quando varca questa soglia, allora so di dovermi fermare. Per comprendere la pratica di un artista, talvolta, può essere utile conoscerne i riferimenti. Chi ti piace guardare? Non solo da un punto di vista formale, ma anche di attitudine, di approccio. Il mio primo riferimento e ossessione in pittura è stato Antonio Mancini, un pittore italiano di fine Ottocento che ha passato la vita a ritrarre scene di infanzia. I bambini delle sue scene mi sembrano spesso colpiti da un’onda di idee che paralizza il loro sguardo. A volte questi soggetti riappaiono come vaga presenza, diluiti negli ampi spazi dei miei nuovi lavori. Ho un particolare interesse per il mondo delle immagini medievali, in quanto cariche di accezioni magiche, sia nel loro guardare il mondo naturale e spirituale, sia quello quotidiano. E tra i contemporanei? Direi Merlin James, che ha un rapporto decisamente unico con i supporti e le superfici: nelle sue opere c’è sempre qualcosa di irrisolto, disturbante e allo stesso tempo poetico. In Italia per me spicca Guglielmo Castelli: è riuscito a sviluppare un linguaggio fatto di fluidità e mistero che, nonostante la riconoscibilità stilistica, riesce a sorprendersi delle sue stesse rivelazioni interne. Nel suo mondo trovo un carosello intimo di

memorie dolci e seduttive, che si presenta in modo sofisticato e insieme sincero. Un altro aspetto chiave per leggere le tue opere sono i titoli, sempre molto densi – in alcuni casi simili a frammenti lirici. Ho l’impressione che, più che raccontare quel che si vede, i titoli abbiano la funzione di espandere il senso del dipinto, quasi fossero il commento di un poeta di passaggio di fronte all’opera. Sì, per me il titolo è un’occasione ulteriore per rimanere nello stato di sospensione che generano i quadri. Ha a che vedere con il lasciarsi attraversare delle immagini; più che da un’interpretazione, i titoli vengono da una sensazione di affetto che deriva da esse. In definitiva, è un mezzo per dare una prospettiva altra allo spettatore, che nel provare a decifrare l’opera si trova a dover affrontare un insieme pieno di svolte e contraddizioni interne. La pittura ha alle spalle secoli di storia e mi sembra che oggi viva di spostamenti – in avanti, indietro, di lato… – millimetrici. In quale direzione ti sembra di percorrere quel millimetro? Non so se sia veramente possibile avere una visione complessiva di quello che sta succedendo in pittura. Mi sembra che, come per tutto il resto della cultura visiva, si stia vivendo un momento di abuso gratuito dello sguardo, dovuto anche alla velocità dei mezzi tecnologici, che non permettono alcuna stratificazione e decantazione del significato. La pittura può permettere un passo

BIO Leonardo Pellicanò è nato a Roma nel 1994. Vive a Parigi e Losanna, dove sta terminando il Master in Visual Arts all’ECAL. Nel 2017, dopo essersi diplomato al triennio di Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, ha lavorato come assistente alle lezioni di pittura di Adrian Paci, per poi cominciare un percorso autonomo di insegnamento. Il suo lavoro è stato presentato in diversi contesti: Centre d’Art Contemporain, Ginevra (2021); MANA Contemporary, New Jersey (2020); Palazzo Monti, Brescia (2020); Schiavo Zopelli Gallery, Milano (2019); Academiae Biennale, Fortezza (2017). Tra le mostre personali: Fondazione Pini, Milano (2017); Boccanera Gallery, Trento (2016). Pellicanò è inoltre organizzatore e curatore di progetti collettivi che vedono il coinvolgimento di artisti della sua generazione, sia in contesti istituzionali che indipendenti.


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in alto: Leonardo Pellicanò, Leave no trace, 2020, acrilico, polvere di rame e ottone su tela grezza, 150x190 cm. Courtesy l’artista in basso: Leonardo Pellicanò, Leave no trace, 2020, dettaglio

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a sinistra in alto: Leonardo Pellicanò. Exhibition view at Studio Cinema, ECAL, Losanna 2021 a sinistra in basso: Leonardo Pellicanò, A haunted house on a sunny day is still a haunted house, 2019, acrilico e pigmenti su tela grezza, 105x140 cm. Courtesy l’artista

indietro, verso uno sguardo contemplativo. I secoli di storia che citi agiscono come strati sottostanti della nostra memoria, sono qualcosa che è presente e brulicante sotto la nostra pelle, con cui è possibile entrare in relazione fisica e diretta, giocandoci e invocando le sue molteplici sfaccettature. Sono d’accordo che, per ritagliarsi uno spazio unico fuori dal coro, bisogna essere attenti ai minimi spostamenti. Io sento di risolvere queste tensioni costruendo un apparato di lavoro fluido, che si nutre delle sue fragilità e che si relaziona in modo insolito con lo spazio espositivo, creando una rete di connessioni e complicità, fratture e sbalzi sospesi. Fai riferimento a una “relazione insolita” con lo spazio espositivo: cosa intendi di preciso? Per esempio, in questo momento sto ritornando a lavorare con colori a olio in formato piccolo. Quando installo uno di questi

La pittura può permettere un passo indietro, verso uno sguardo contemplativo.

dipinti di piccole dimensioni vicino a un lavoro di formato grande si nota come quest’ultimo sembri quasi una versione “macro” – estremamente dilatata – del precedente. Questo tipo di relazione genera un rapporto di tensione tra le opere che mira a creare un'alterazione nella percezione dello spazio.

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in alto: Leonardo Pellicanò, Fear and wonderment became one in between the last two heartbeats of the beast, three times it fell to the ground, the fourth it was lifted, 2020, acrilico e polvere di pigmenti su tela grezza, 140x170 cm. Courtesy l’artista

Ti sei formato alla NABA di Milano e poi in Svizzera, all’ECAL, che – se non sbaglio – non è il luogo più rinomato per chi si occupa di pittura. Che tipo d’esperienza è stata? E come mai la scelta di lasciare l’Italia? Sono sempre stato distante dagli ambienti dove la pittura è prevalente, esclusa la classe di Adrian Paci alla NABA, che consideravo più uno spazio per il pensiero, in senso ampio. ECAL è riuscita a farmi sentire valorizzato, anche per la mancanza di una proposta simile alla mia in quel contesto. Penso di provare un particolare godimento nel sentirmi fuori luogo. Lo stesso vale per il compiere decisioni impulsive, che al momento mi hanno portato a trasferirmi a Parigi. Lasciare l’Italia in questo momento mi è sembrata una scelta indispensabile; anche per poter apprezzare appieno la propria provenienza, credo sia necessario un distacco radicale.

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TOP 10 LOTS – BEST OF 2021

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CRISTINA MASTURZO [ docente di economia e mercato dell'arte ]

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Pablo Picasso, Femme assise près d’une fenêtre (Marie-Thérèse), 1932 Courtesy of Christie’s Images Ltd. 2021

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Pablo Picasso, Femme assise près d’une fenêtre (Marie-Thérèse), 1932 $ 103,400,000 | Christie’s, 20th Century Evening Sale New York, 13 maggio 2021

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Jean-Michel Basquiat, In This Case, 1983 $ 93,100,000 | Christie’s, 21st Century Evening Sale New York, 11 maggio 2021

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Sandro Botticelli, Giovane che tiene in mano un tondello, 1481-85 $ 92,100,000 | Sotheby’s, Master Paintings & Sculpture Part I New York, 28 gennaio 2021

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Mark Rothko, No. 7, 1951 $ 82,500,000 | Sotheby’s, The Macklowe Collection New York, 15 novembre 2021

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Alberto Giacometti, Le Nez, 1947 $ 78,400,000 | Sotheby’s, The Macklowe Collection New York, 15 novembre 2021

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Vincent van Gogh, Cabanes de bois parmi les oliviers et cyprès, 1889 $ 71,350,000 | Christie’s, The Cox Collection: The Story of Impressionism New York, 11 novembre 2021

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Claude Monet, Le Bassin aux Nymphéas, 1917-19 $ 71,350,000 | Sotheby’s, Impressionist & Modern Art Evening Sale New York, 12 maggio 2021

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Beeple, Everydays: The First 5,000 Days, 2021 $ 69,300,000 | Christie’s, Beeple | The First 5000 Days New York/Online, 25 febbraio – 11 marzo 2021

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Xu Yang, Emperor Qianlong’s Conquest of Xiyu, XVIII sec. $ 65,000,000 | Poly International Beijing, 6 giugno 2021

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Jackson Pollock, Number 17, 1951, 1951 $ 61,600,000 | Sotheby’s, The Macklowe Collection New York, 15 novembre 2021

I prezzi indicati includono il buyer’s premium.

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3 siti culturali da visitare a Roma e (ri)aperti al pubblico GIORGIA BASILI L La Capitale recupera luoghi del proprio patrimonio storico-artistico finora poco o per nulla fruibili dal pubblico, gioielli carichi di storia adesso finalmente aperti ai visitatori. È il caso di Palazzo Lateranense – La Casa del Vescovo di Roma, edificio di quasi 3mila metri quadri, con dieci sale, l’appartamento papale, la cappella privata, lo scalone monumentale che porta nella basilica di San Giovanni in Laterano. E soprattutto, il tavolo dove furono firmati i Patti Lateranensi fra l’Italia e la Santa Sede. Il tour procede fino all’Arco di Giano al Velabro, a un passo dal Campidoglio e dai Fori Imperiali, eretto per volontà dei figli di Costantino per commemorarlo dopo la morte nel IV secolo. Dopo l’attentato del 28 luglio 1993 – l’esplosione dell’ordigno piazzato da Cosa Nostra che distrusse la chiesa di San Giorgio e fece 22 feriti – il monumento è rimasto chiuso; dopo il restauro è stato poi circondato da una cancellata. Da allora l’Arco è stato fruibile solo in rare occasioni, ma adesso è visitabile ogni sabato, grazie alla comunione di intenti tra Fondazione Alda Fendi – Esperimenti e la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma guidata da Daniela Porro. Altro sito che, dopo il restauro, è stato aperto al pubblico, è la Serra moresca di Villa Torlonia, progettata da Giuseppe Jappelli per Alessandro Torlonia nel 1839, con le decorazioni di Giacomo Caneva nel 1841. Gli spazi oggi comprendono l’ingresso dell’emiciclo dove “abbiamo realizzato il bookshop e la biglietteria”, spiega Anna Paola Agati, Sovrintendente Capitolina ai Beni Culturali e Responsabile delle Ville e Parchi Storici, “lo spazio della serra; la finta grotta, che è stata restaurata ma già nel 1905 aveva subito grossi crolli, con laghetti e cascatelle; e la torre moresca, alla quale si potrà accedere con visite guidate ad hoc. Al primo piano abbiamo allestito un piccolo spazio per la didattica sul verde, specifica sulle attività che si possono svolgere con le piante”.

Serra Moresca, Villa Torlonia, Bookshop. Photo © Giorgia Basili


OPERA SEXY

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IL PARADISO TERRESTRE DI MAX �VABINSK�

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A Praga, circa un secolo fa, un artista di mezza età scopriva le gioie del Paradiso Terrestre. Prima, Max Švabinský si era distinto come tranquillo pittore di vita famigliare e di larghi paesaggi rustici, ispirato dalla sua vita nella campagna della Boemia orientale. Nato nel 1873, come quelli della sua generazione, l’ultima ottocentesca, si muoveva tra Realismo, Simbolismo e poi naturalmente Art Nouveau. Ottimo disegnatore, specializzatosi poi nell’incisione – all’acquaforte e a mezzatinta e a puntasecca – fu presto cooptato come professore all’Accademia di Praga. Nella seconda parte della sua lunga vita, confluita nel periodo filosovietico (morirà nel 1962), Švabinský fu chiamato a lavorare anche in situazioni e dimensioni monumentali, disegnando cartoni per le vetrate della cattedrale praghese di San Vito, e in situazioni e dimensioni minime, eseguendo disegni certosini per francobolli e banconote, e così guadagnandosi nel 1945 l’alta onorificenza di “Artista di Stato”. Ma oggi viene ricordato, soprattutto, per quel suo felice intermezzo, breve ma intenso, nell’Eden. Riprendendo l’antica tecnica dell’incisione su legno, tra il 1916 e il 1922 Švabinský volle dedicarsi a immaginare la vita di Adamo ed Eva immersi nella splendente Natura ancora vergine – anch’essa – prima del Peccato Originale. In alcune preziose xilografie, meditate per forma e contenuto, che poi raccolse sotto il titolo complessivo di Sonata del Paradiso, fissò dunque alcuni attimi di gioia totale, da nulla inquinata, in cui la prima lei e il primo lui si abbandonano al godimento più pieno della vita. Radiosamente nudi, si amano come mai nessuno potrà più dopo di loro. Non sono la coppia primordiale tramandataci per esempio dalle famose incisioni cinquecentesche germaniche di Albrecht Dürer, Lucas van Leyden, Hans Baldung Grien, Hans Burgkmair, tutte incentrate sul tema drammatico del Peccato Originale, immediato e fatale prodromo della Cacciata dal Paradiso. Questa Eva e questo Adamo sono invece la coppia ancora immacolata, del tutto innocente, che gioca infantilmente felice con i propri e reciproci corpi. La loro giocondità è tangibile, quando si abbracciano nel rigoglio trionfale del fogliame, osservati dagli abitanti animali dell’Eden con allegra complicità e forse quasi una punta di invidia; o quando teneri si osservano senza malizia; o quando si offrono i frutti paradisiaci (ma non quella dannata mela!) per gustarli assieme; o quando – e questa è

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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

Max Švabinský, Sonata del Paradiso, 1917, xilografia

l’immagine più potente e rappresentativa – scoprono con candido stupore il piacere indescrivibile di scambiarsi piacere fisico. Dal piacere fisico Švabinský era di sicuro molto attratto, perché tornava a rappresentarlo con evidente profondo piacere psicologico. Lo dimostrò per esempio a inizio carriera, quando nel 1902 dedicò un grande disegno a carboncino all’ispirazione sensuale di Auguste Rodin, lo scultore più carnale dell’epoca; lo dimostrò nel 1918, quando per il francobollo che gli era stato

richiesto disegnò un Mezzogiorno d’agosto in cui una paffuta contadinella danza vorticosamente tra le messi mature a florido petto nudo e svelando il suo tesoro nascosto sotto la roteante gonna; lo dimostrò nel 1929, quando dedicò una mite puntasecca allo spogliarsi di una fanciulla al momento di andare a letto, nuda anch’essa serenamente senza peccato. Aveva un’idea molto precisa del Paradiso e dei suoi godimenti, il futuro Artista di Stato Max Švabinský.

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APP.ROPOSITO

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SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]

3 APP PER GESTIRE MUSEI DIVERTENDOSI IDLE MUSEUM

L’obiettivo di questo gioco è costruire, restaurare e amministrare un museo. Bisognerà allestire mostre di ogni tipo per attirare visitatori, che verranno ad ammirare le più incredibili collezioni di opere d’arte e reperti storici che si riusciranno a mettere insieme. Il giocatore sarà responsabile di gestire la costruzione e la riparazione delle aree espositive, e di custodire le installazioni di arte contemporanea, Pop Art, arte pixodust.com moderna e classica, allestendo dipinti e sculfree ture realizzati da celebri artisti. Le possibi Android, Apple lità sono le più disparate: si può curare, oltre all’arte moderna e contemporanea, anche arte rinascimentale, o immaginare gallerie sull’esplorazione dello spazio, su reperti fossili o archeologici, o anche aree con macrofauna in forma di giardini zoologici o parchi marini. Non manca l’attività di gestione del personale e quella relativa all’incremento delle risorse.

L NEWS L

L MUSEUM MAGNATE

Sei un magnate che decide di aprire un museo. Partendo dall’Egitto, Museum Magnate è un grazioso gioco 3D che permette di creare e gestire un museo con la massima libertà decisionale. Bisogna solo mettere in campo la propria abilità di manager e costruttore e cercare in questo modo di far prosperare la propria attività. Partendo dalle attività di scavo archeologico, bisogna dapprima trovare rari manufatti per poi poterli esporre all’interno museummagnate.com delle gallerie del museo. Anche in questo giofree co è presente la parte di gestione delle risorse Android, Apple umane e la monetizzazione dei biglietti pagati dai visitatori, per poter reinvestire le risorse e far crescere le attività per il pubblico. Affascinante la ricerca di nuovo personale con campagne di recruiting mirate. È presente anche una parte di realtà aumentata, per sperimentare nuove soluzioni espositive.

L TAP! DIG!

Interessante gioco di simulazione della gestione museale, anche stavolta di tipo naturalistico. La simulazione parte dal museo in disuso che deve essere rimesso in funzione. Si procede quindi con l’indire delle campagne di scavi per incrementare le collezioni e riallestire il percorso espositivo. La simulazione prende così vita con il monitoraggio del numero di visitatori, e di come questo cresce o decresce in funzione dell’aporidio.jp peal della nuova proposta espositiva. Bisofree gna quindi gestire i beni in deposito e curare Android, Apple le collezioni, tenendo d’occhio il budget originato dalla bigliettazione. La somma di denaro che i visitatori spenderanno varierà in base al tipo di cliente e al relativo livello di soddisfazione (in relazione alle condizioni della raccolta di fossili). Con i soldi incassati si potranno finanziare nuovi scavi, creare stand espositivi e salire di livello.

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L’arte sinestetica di Filippo Sorcinelli a Santarcangelo di Romagna GIULIA GIAUME L Un’esperienza multisensoriale, quella proposta dal Museo Storico Archeologico di Santarcangelo di Romagna per la grande mostra su Filippo Sorcinelli: la personale Accordi e Fughe ripercorre la poliedrica attività dell’artista marchigiano con tele, paramenti sacri – compresi quelli realizzati per papa Benedetto XVI e papa Francesco –, fotografie, sculture, video e installazioni, il tutto immerso nella musica e nei profumi delle sue “collezioni olfattive”. L’occasione per questo racconto, aperto al pubblico fino al 27 marzo, è il 20esimo anniversario del suo Laboratorio Atelier di Vesti Sacre. Il percorso artistico di Sorcinelli è iniziato nel borgo di Mondolfo, dove ha imparato l’arte della sartoria e del ricamo, ha studiato arte Filippo Sorcinelli, e si è diplomato al ConRapporto con i santi, servatorio come mae2021 stro organista. Nel 2001 ha aperto il suo atelier e nel 2013 un marchio di profumi che porta il suo nome. Comune denominatore delle opere è sempre il concetto di “sinestesia”, la contaminazione di più sensi tra loro. focusantarcangelo.it/musas/

Rigenerazione urbana a Torino: l’opera di Salvatore Astore CLAUDIA GIRAUD L “Per uno scultore fare un’opera pubblica nella propria città è un’ambizione che si realizza, ma anche una grande responsabilità”. Così, Salvatore Astore, artista pugliese ma torinese d’adozione, parla di Anatomia Umana, gruppo scultoreo collocato in pieno centro a Torino e prodotto dalla Galleria Mazzoleni. Siamo in corso Galileo Ferraris, all’incrocio con via Cernaia, area recentemente riqualificata che si presenta come nuovo punto di riferimento e modello di sinergia pubblico/privato a beneficio dei cittadini e dei visitatori del capoluogo piemontese. L’opera, donata al Comune e assicurata per dieci anni rinnovabili, è composta da una coppia di sculture verticali in acciaio inox satinato di oltre 5 metri di altezza dalle forme che rimandano alle strutture primarie e megalitiche: due menhir da attraversare che valorizzano esteticamente l’inizio della lunga prospettiva dove svetta sullo sfondo il monumento a Vittorio Emanuele II. Un lavoro che si inserisce anche all’interno delle ricorrenze del quinto Centenario della morte di Leonardo da Vinci.


LABORATORIO ILLUSTRATORI

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CHIARA ZARMATI: "UNA ILLUSTRAZIONE IN DUE SECONDI? Sí, CERTO..." chiarazarmati.com

Sintesi formale, sinuosità e morbidezza della linea, campiture piatte e cromatismi intensi sono alla base del linguaggio visivo di Chiara Zarmati, torinese classe 1991. Il suo repertorio iconografico attinge a motivi tratti dalla natura, che spesso assumono valenze ornamentali, e da elementi ricavati dalla vita quotidiana. Con un approccio ludico e una propensione alla simmetria.

I tuoi artisti di riferimento? Cerco di non fossilizzarmi sulla sfera dell’illustrazione. Mi capita spesso di trarre ispirazione dalla fotografia, dalla moda o dal cinema. Per questo motivo direi che tra i miei principali artisti di riferimento ci sono: Noma Bar, Chris Haughton, Matisse, Hieronymus Bosch, Niki de Saint Phalle, Pipilotti Rist, David LaChapelle, Matthew Barney, Elsa Schiaparelli e Xavier Dolan. Il processo creativo delle tue illustrazioni? Utilizzare Adobe Illustrator come medium per i miei lavori ha stravolto in positivo il mio modo di fare illustrazione. Ho cominciato ad alleggerire le mie immagini e

Ultimo libro letto e ultimo film visto. L’ultimo libro che ho letto e che consiglio a tutti è Questioni di un certo genere, secondo numero di Cose, spiegate bene, la rivista del Post. L’ultimo film che ho visto invece è È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino: uno spaccato di vita e di realtà che a tratti diventa crudele, ma che non perde mai la sua brillantezza. Trovo che sia un film genuino: alla fine, anche se si è stati traditi, se qualcuno disegna un cazzo sul vetro di fronte a te, un sorriso te lo strappa sempre. © Chiara Zarmati per Artribune Magazine

a utilizzare cromie più adatte alla mia cifra stilistica. Rimane questo quindi il metodo di colorazione che prediligo. Per quanto riguarda la fase di progettazione dell’immagine, invece, non riesco ad abbandonare il metodo tradizionale: fogli di carta e matita mi aiutano a mantenere la mano in allenamento e a tenermi ancorata al mondo reale. La richiesta più singolare che hai ricevuto? Beh, mi stupisco sempre quando mi dicono: “Senti, mi servirebbe un’illustrazione. Ma non ti preoccupare, è una cosa facile facile, proprio semplice semplice, te la risolvi in due secondi”. Sì. Cosa ti incuriosisce maggiormente della realtà che ti circonda? Le persone e le loro storie. Mi piace riconoscere i dettagli che hanno contribuito a farle diventare ciò che sono. Quando vado a

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Qual è la tua formazione? Dopo essermi laureata in Illustrazione e Animazione, ho frequentato un Master nel campo dell’Illustrazione Editoriale, che mi ha permesso di appassionarmi a quest’ambito con più consapevolezza. Dopo ho viaggiato per un po’ di anni. Tra New York, Berlino e Bologna ho avuto la possibilità di relazionarmi con artisti di ogni tipo. Anche questi incontri hanno contribuito ad accrescere il mio bagaglio, ma soprattutto mi hanno aiutata a svincolarmi da tutti i preconcetti, le rigidità mentali e sociali che mi rannuvolavano la mente e mi rendevano meno consapevole e libera.

fare la spesa, mi capita spesso di soffermarmi sui prodotti che la persona di fronte a me sta posizionando sul rullo della cassa e cerco di immaginare la sua vita in base a quello che compra. E poi mi piacciono le finestre, mi piace guardarci dentro e immaginarmi storie. Niente, sono una spiona.

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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

Cosa sogni di illustrare? Beh, una copertina di The New Yorker. Come hai affrontato i vari lockdown? Il primo lockdown mi ha costretta a fermarmi a riflettere su quello che stavo facendo, sui miei desideri. Durante quel periodo ho deciso di tornare a Torino, città nella quale attualmente vivo. Penso che abbia contribuito a cambiare anche un po’ il mio stile di vita, mi ha paradossalmente aiutata a concentrarmi di più sul futuro. Forse adesso mi sento un pochino più adulta. A cosa stai lavorando ? Sto portando avanti un bellissimo progetto con un brand di moda, continuo a lavorare su progetti editoriali e nel contempo insegno. Nel futuro vorrei ricominciare a viaggiare, stabilire delle collaborazioni con artisti che facciano parte di ambiti differenti dal mio e partecipare a una residenza.

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PADIGLIONE ITALIA Sí, PADIGLIONE ITALIA NO SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

Padiglione Italia alla Biennale Arte di Venezia: una reale opportunità per gli artisti e i curatori italiani oppure no? Lo abbiamo chiesto ad artisti, curatori, storici dell’arte, giornalisti, tirando anche le somme dell’esperienza dal 2007 a oggi.

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ALFREDO PIRRI ARTISTA La Biennale di Venezia offre a ogni artista e curatrice-curatore (ma aggiungerei anche al pubblico) la grande opportunità di vivere l’arte dentro un ambiente e un paesaggio unico in quanto effimero e sorgivo. Una visione luminosa dove l’arte appare più necessaria che altrove proprio perché la sua esistenza traballante e superflua ne viene magnificata e resa maggiormente visibile. Risponderei quindi di sì in senso lato, cioè un sì non rivolto solo agli italiani. La storia del Padiglione è una storia di privazione e di paura, quella di farsi carico a pieno titolo di una visione dell’arte che porti dentro di sé la grandezza del paesaggio accudente e generativo dell’arte (italiano e non). Un paesaggio, ripeto, traballante ed effimero perché nato (come l’arte) in accordo transitorio con gli oggetti inseriti artificialmente in esso (palazzi, visioni, pensieri e calcoli). Per questo ci sarebbe bisogno di uscire dal cono d’ombra buio e periferico in cui ci siamo autoreclusi e andare dove la luce è più forte e nitida.

MARCO SCOTINI CURATORE Non vorrei esprimere un giudizio personale (che non avrebbe alcun senso) ma partire da un dato evidente, magari formulando giusto un’unica domanda. In questi quindici anni c’è mai stato un solo Padiglione Italia che abbia definito una qualche tessitura cul-

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turale di carattere contestuale o che abbia anticipato temi e problemi che oggi sono all’ordine del giorno della scena artistica internazionale? Il transito da Forza Italia al PD non mi pare aver segnato nessun cambio di registro: i rappresentanti artistici in Italia sono gli stessi. Allo stesso modo, il passaggio da un’edizione con 150 artisti a un’altra con uno solo risulta giusto una riduzione algebrica. Gli italiani registrano sempre uno scontento politico (quello sul politico di turno) ma mai una intelligenza strutturale. Per loro non fa problema l’assenza di un board di esperti, un consiglio direttivo trasparente o la presenza di un chiaro conflitto di interessi. Sono il popolo che si accontenta del “si vedrà quel che farà”.

cinque artiste italiane a rappresentare il loro Paese, disseminandole, come indicava il titolo della sua mostra, Dappertutto. Fu un’azione iconoclasta, con la quale voleva evidenziare la presenza nascosta delle donne nell’arte. Ero una di quelle artiste e mi disse: “Vi voglio Dappertutto perché le opere più innovative stanno arrivando dalle donne. Ed è con voi che voglio indicare la possibilità di abbattere, almeno nell’arte, i confini tra generi e tra nazioni”. Quell’anno Szeemann fu accusato di aver “cancellato” il Padiglione Italia, cosa non vera. E il suo discorso, consapevolmente troppo utopico, venne immediatamente travisato, banalizzato e strumentalizzato. E dimenticato, così che la battaglia tra nazionalismi potesse continuare, anche nell’arte.

GRAZIA TODERI ARTISTA

ALESSANDRA MAMMÌ GIORNALISTA

Non dovrebbe essere una “opportunità” per artisti e curatori (non essendo un ente assistenziale), ma l’opportunità di produrre e mostrare la migliore arte italiana. Questo ruolo iniziale viene spesso sostituito da altre priorità, celate dietro a un pensiero comune che invoca due aggettivi: “giovane” e “internazionale”. Sembra impossibile che, oltre a vincere la lotteria del Padiglione, gli artisti italiani possano approfondire giorno per giorno ricerche e interessanti confronti internazionali lavorando all’interno delle nostre istituzioni museali. Ida Gianelli curò nel 2007 un Padiglione Italia di eccellente qualità, che si svolgeva per la prima volta all’Arsenale. Ma la storia del suo “trasferimento” era nata nel 1999 quando Harald Szeemann, con il suo sguardo, visionario e lontano, fece un gesto che pochi capirono. Nominato direttore, oltre che della Biennale di Venezia anche del Padiglione Italia, invitò

Se la domanda è “il Padiglione Italia è una reale opportunità per gli artisti e i curatori italiani?”, la risposta non può che essere: “Mica tanto”. Perché il patrio Padiglione soffre dello stesso carattere umorale e instabile della nazione. Era al centro del mondo in tempi di perverso nazionalismo, si è poi ridotto, trasferito, scomparso, riapparso e infine ha trovato casa in uno spazio esagerato che nasconde nell’eccesso di metri quadri il danno dello sfratto dai Giardini. E se un ridimensionamento sarebbe salutare e aiuterebbe a sfruttare meglio le risorse e a far chiarezza nelle proposte, il vero problema è la totale mancanza di linea a causa di una nomina diretta nelle mani del ministro di volta in volta in carica. E così Bondi nomina Sgarbi, Bonisoli Farronato, Franceschini Viola. Ognuno di questi curatori mette in scena una sua visione dell’arte italiana. A volte con pochi nomi (Alemani), altre con


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Sono anni che seguiamo, a partire dal 2007, un susseguirsi di ipotesi, scelte, idee curatoriali all’interno del Padiglione Italia. Da allora la sensazione è che si siano succedute soprattutto idee sulla possibile “italianità” dell’Italia, sulla ricerca di un carattere che possa essere in maniera distinguibile ed efficace una presentazione al mondo dell’Italia. A chi serve, mi chiedo, questa definizione? Come possiamo continuare a pensare all’Italia in termini di codici, questioni ricorrenti, grandezza degli artisti (per chi? considerati tali a partire da cosa? dal successo o dal mercato?) in un’epoca (e non voglio qui scomodare concetti come quello della globalizzazione) in cui le interazioni culturali e anche storico-artistiche disegnano panorami e geografie che superano i confini nazionali e dunque proprio le identità nazionali? In cerca di Italia sarebbe quindi una idea? Dove, come, con quali punti di riferimento? Dinanzi a proposte esibite ogni volta come se fossero davvero il massimo possibile pensabile (tanti o pochi artisti italiani, mescolati a più o meno artisti di altre nazioni, in un altalenarsi più o meno elastico), penso che anche la Biennale di Venezia e, per quanto ci riguarda, il Padiglione Italia potrebbero essere immaginati come “laboratori” di rilettura e riscrittura di una storia che ha avuto proprio nella italianità la chiave per chiudere o circoscrivere una storia che è invece stata molte volte critica, radicale, transnazionale, già in momenti inattesi. Attendiamo comunque sempre una sorpresa o che qualcosa sia davvero inatteso e quindi sorprendente da ogni edizione. Aspettiamo-

ROBERTO AGO CRITICO DELLE IMMAGINI “Ditemi un solo artista italiano che sia emerso internazionalmente grazie alla Biennale di Venezia. […] Insieme alla Quadriennale di Roma, si è portata dietro solo malumori, false speranze, morti annunciate di artisti anzitempo”. Così un lapidario Giancarlo Politi nel suo Amarcord #63. Tale sentenza vale un pezzo mancato di storia dell’arte italiana, ma attribuisce il dolo a incolpevoli passerelle, invece che ai tanti artisti e curatori che le hanno calcate. Una manovra rieducativa? Si vincolino le iniziative curatoriali, spesso scriteriate, a un ranking annuale negoziato dalla somma degli operatori, il quale ordini gli artisti secondo valori differenziali calcolati tra meriti e necessità promozionali. Se anche tale miraggio si realizzasse, sarebbe ingenuo attendersi l’inveramento dell’arte italiana: in questo avvio di secolo non è all’altezza delle corti internazionali. Che almeno si indovinino le eccezioni nei nostri saloni di rappresentanza.

FABIOLA NALDI CRITICA E CURATRICE Prima di rispondere a quanto chiesto, avverto l’onesto obbligo di fare i migliori auguri a Viola e Tosatti. Non posso non partire da questo perché il nostro Padiglione ha urgente necessità di essere supportato e protetto: ma da chi? Forse proprio dal Paese di riferimento, dalla sua politica e da tutti noi, operatori di settore, che critichiamo, ci lamentiamo, ma non troviamo la forza comune di reagire contro l’assurda gestione dello stesso. A ben guardare, e senza entrare nel dettaglio di una edizione migliore o peggiore (ricordando oramai con malinconia l’edizione 2007), le scelte, come le modalità delle

nomine e delle coperture finanziarie, sono una dichiarazione di rassegnazione e di affermazione di interessi del tutto personali. Abbiamo reclamato il suo reinserimento nel nome della tradizione e della responsabilità in quanto Patria della Biennale, ma abbiamo abbassato lo sguardo sulla lungimiranza culturale dei nostri autori – e non basta certamente l’Italian Council a tamponare le gravi perdite. Acclamare la propria proposta artistica (anche se non è compito solo dell’Ente dare respiro alla nostra produzione nazionale) è divenuta la battaglia perseguita da tutti i politici apparsi a sostegno dell’edizione di turno, ma il risultato non è cambiato. A partire proprio dallo Stato e dai suoi rappresentanti la piattaforma di presentazione, e non di rappresentazione, della nostra ricerca visiva si è spesso trasformata in un luogo di scontri e soprattutto di conquiste.

CRISTIANA PERRELLA CURATRICE La Biennale è senza dubbio un’opportunità straordinaria. Venezia, la matrice di tutte le grandi rassegne internazionali, è ancora, con Kassel, l’appuntamento più prestigioso del mondo dell’arte globale. Per questo è incredibile che negli ultimi vent’anni non sia riuscita a fare da volano all’arte italiana. È un problema che non riguarda solo il Padiglione Italia ma l’approccio complessivo della Biennale alla rappresentazione dell’arte del Paese che la ospita. Sarebbe utile in questo senso una maggiore sinergia tra Biennale e MiC. Il Padiglione all’Arsenale è troppo grande, troppo periferico rispetto ai percorsi di visita e troppo poco finanziato. Avrebbe bisogno di tempi più lunghi per l’elaborazione del suo progetto e di un budget di produzione commisurato allo spazio da utilizzare, che consenta maggiore ambizione e maggiore libertà di manovra. La tendenza delle ultime edizioni a ridurre sensibilmente il numero degli artisti esposti è senz’altro positiva, ma rende il fundraising più difficile, soprattutto considerando che gli artisti italiani spesso non hanno alle spalle grandi gallerie in grado di finanziarne il progetto. Nel complesso credo si sia fatto un gran lavoro per dare al Padiglione il rilievo che merita ma che debbano essere ancora fatti diversi passi per raggiungere un risultato veramente efficace. Migliorerei la trasparenza dei processi di selezione, soprattutto rendendo manifeste le consulenze tecniche a cui il ministro fa ricorso per la scelta finale.

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CARLA SUBRIZI STORICA DELL’ARTE

ci quindi anche dalla prossima almeno un segnale di studio, ricerca, idee e poco allineamento a tendenze che troppo spesso descrivono le apparenze esteriori di un’epoca (già da tempo) in difficoltà.

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un’ammucchiata in polemica con un presunto complotto dell’arte internazionale (Sgarbi), altre ancora con presuntuosi tentativi di organizzare lo spazio che facilmente falliscono, penalizzando le opere (Trione). Fino a oggi, dove un solo artista avrà il non facile compito di occupare i 1.800 metri quadri di suolo patrio (sinceri auguri a Gian Maria Tosatti). Cosa possono capire dell’arte italiana in questa situazione gli osservatori internazionali? La modesta proposta, dunque, sarebbe contenersi, riqualificarsi e soprattutto affidare a un comitato scientifico la nomina dei curatori e che duri più di una Biennale, lontano dalla politica almeno quella distanza di un braccio necessaria a garantire autonomia e coerenza.

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Opere nei depositi dei grandi musei andranno ad arricchire i piccoli musei

GIORGIA BASILI L Capolavori chiusi in deposito nei grandi musei si sposteranno temporaneamente per arricchire i piccoli musei d’Italia. 100 opere (tra dipinti, reperti archeologici, sculture, oggetti d’arte) dai depositi di 14 tra i musei più importanti del Paese – dalle Gallerie Nazionali Barberini Corsini agli Uffizi di Firenze, dal Museo di Capodimonte al Museo di Brera, dalla Galleria Borghese al Museo Archeologico di Ferrara, dal Museo Archeologico di Napoli al Museo di Matera – verranno affidate a istituzioni di piccole realtà territoriali (musei comunali, regionali, ecclesiastici, palazzi e ville storiche), così da renderle fruibili al pubblico. Il progetto è stato concepito dal Ministero della Cultura, in collaborazione con Rai Documentari. Parlando di numeri, i musei coinvolti sinora nell’operazione sono 28, 13 le regioni e 21 i comuni. Lo scopo di questa operazione? La valorizzazione del patrimonio culturale in maniera diffusa su tutto il territorio nazionale, seguendo il principio della “restituzione”, riportando cioè le opere confluite nei principali musei italiani nelle chiese e nei palazzi di provenienza, e non solo: l’operazione riguarda anche opere che, inserite nelle collezioni di destinazione, danno vita ad accostamenti interessanti e favoriscono l’apertura dei musei verso nuovi pubblici. Inoltre, MiC e RAI hanno siglato un accordo per realizzare un documentario della durata di 50 minuti e 13 “instant doc”, di 20 minuti ciascuno, così da raccontare al grande pubblico il progetto.

La Clausura del Vittoriale degli Italiani apre ai visitatori GIULIA GIAUME L Ottime notizie per gli amanti del Vate. All’interno del grandioso Vittoriale degli Italiani, il complesso di edifici, strutture, vie e giardini eretto tra gli Anni Venti e Trenta da Gabriele D’Annunzio e Gian Carlo Maroni a Gardone Riviera, si potrà finalmente visitare la misteriosa Clausura. È un’apertura del tutto eccezionale quella dell’area situata tra l’Officina e il Corridoio del Labirinto tra dicembre 2021 e gennaio 2022, con un supplemento di due euro sul biglietto

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intero. La Clausura comprende gli appartamenti delle due amanti del poeta, la pianista Luisa Baccara e la governante Amélie Mazoyer, che grazie al suo ruolo di confidente del Comandante, che l’aveva ribattezzata Aélis, tenne un interessantissimo diario sul “Vittoriale segreto”. Che D’Annunzio si circondasse di amanti è cosa nota: oltre alla Clausura – dove tutto è rimasto dov’era, fino al barattolo di cipria aperto sul comodino e un rotolo di carta igienica aperto in bagno – vi era un’altra stanza, dove sappiamo aver soggiornato personalità del secolo come la pittrice Tamara de Lempicka e l’attrice Elena Sangro. Il trattamento di queste donne, però, non era dei più romantici: questo valeva anche per le due inquiline principali, e al

NECROLOGY NINO CERRUTI 25 settembre 1930 – 15 gennaio 2022 L RICARDO BOFILL 5 dicembre 1939 – 14 gennaio 2022 L SERGIO D’ANGELO 19 aprile 1932 – 4 gennaio 2022 L GIANNI CELATI 10 gennaio 1937 – 3 gennaio 2022 L BETTY WHITE 17 gennaio 1922 – 31 dicembre 2021 L WAYNE THIEBAUD 15 novembre 1920 – 25 dicembre 2021 L RICHARD ROGERS 23 luglio 1933 – 18 dicembre 2021 L JENNI CRAIN 1991 – 16 dicembre 2021 L LINA WERTMÜLLER 14 agosto 1928 – 9 dicembre 2021 L LAWRENCE WEINER 10 febbraio 1942 – 2 dicembre 2021 L VIRGIL ABLOH 30 settembre 1980 – 28 novembre 2021 L PETER WEIERMAIR 22 aprile 1944 – 26 novembre 2021 L CARLO MARIA MARIANI 25 luglio 1931 – 20 novembre 2021 L PIER LUIGI TAZZI 1941 – 11 novembre 2021 L DINO PEDRIALI 1950 – 11 novembre 2021 L FRANCESCO MELONE 1962 – 7 novembre 2021 L DESIDERIA PASOLINI DALL’ONDA 27 aprile 1920 – 30 ottobre 2021

giorno della morte del poeta il primo marzo 1938, Baccara e Mazoyer furono immediatamente allontanate dal Vittoriale dall’architetto Maroni per non farvi mai più ritorno. vittoriale.it

Anche Giuseppe Stampone avrà il suo colore. Grazie al marchio Bic SANTA NASTRO L C’è l’International Klein Blue e il Vanta Black di Anish Kapoor. E poi c’è il “blu Giuseppe Stampone”. L’artista italiano, nato a Cluses nel 1974, in Francia, residente a Roma e Bruxelles, ha finalmente il suo colore. I suoi famosi disegni, realizzati grazie all’uso virtuoso della altrettanto nota penna Bic, avranno da oggi in poi un colore dedicato. Chi non conosce l’azienda Bic? Chi non ha mai usato una penna usa e getta del noto marchio francese fondato a Clichy nel 1945 dal barone di origine torinese Marcel Bich alzi la mano. La famiglia che conduce ancora oggi l’azienda è composta da collezionisti di arte contemporanea che da sempre cercano, ci spiega Stampone, “artisti che hanno come me o Jan Fabre usato la ben nota penna a sfera per produrre le proprie opere”.

Giuseppe Stampone, Vedova Blu

A questa ricca produzione è stata dedicata nel 2018 una mostra presso la galleria 104 Paris, nella capitale francese, con 150 opere della Bic collection, comprendenti lavori di Alberto Giacometti, René Magritte, Fernand Léger, Martin Parr, Mamadou Cissé e naturalmente Stampone. Tutti rigorosamente realizzati con la biro più famosa del mondo. Il nuovo colore non sarà, almeno per il momento, in vendita. Più chiaro del regolare blu Bic, sarà prodotto esclusivamente per permettere all’artista di realizzare le sue opere. A Stampone saranno fornite le cartucce per un continuo refill della sua instancabile penna. L’artista, che segue nel sogno di ottenere un colore con il proprio nome colleghi del calibro di Yves Klein e Anish Kapoor, ha annunciato l’esito di questa ormai lunga collaborazione sui propri social, inaugurando la tinta inedita con la postproduzione della Vedova Blu, una delle più coinvolgenti opere di Pino Pascali, realizzata dall’artista nel 1968 poco prima di morire. giuseppestampone.com | bicworld.com


2021

IL BEST OF DI ARTRIBUNE: TUTTO IL MEGLIO DEL 2021

#64

MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

L ARTISTA AFFERMATO Eugenio Tibaldi + Laura Cionci L ARTISTA INTERNAZIONALE Simone Leigh L FOTOGRAFO Antonio Faccilongo L FONDAZIONE Fondazione Adolfo Pini

CARLES ENRICH STUDIO carlesenrich.com

L MUSEO ITALIANO MACRO L MUSEO ITALIANO OUTLOOK 2022 Museo del 900 Milano L MUSEO INTERNAZIONALE Depot Boijmans L NUOVO MUSEO ITALIANO Adi Museum Design L COLLEZIONISTA MECENATE Mauro De Iorio L CASA D’ASTE INTERNAZIONALE Sotheby's L CASA D’ASTE ITALIANA Il Ponte Casa d’Aste

GENNAIO L FEBBRAIO 2022

L GIOVANE ARTISTA Benni Bosetto

ARCHUNTER

L SPAZIO IBRIDO Metodo Milano L PROGETTO FUTURO Gallerie d’Italia a Napoli L MOSTRA D omenico Gnoli @ Fondazione Prada Milano L FIERA The Others L EVENTO Biennale di Architettura L GRANDE CITTÀ DELL’ANNO Rimini L PICCOLA CITTÀ DELL’ANNO Peccioli L CITTÀ OUTLOOK 2022 Roma per Giubileo +EXPO2030 L CITTÀ STRANIERA Beirut L DIRETTORE DI MUSEO Lorenzo Balbi

Carles Enrich Studio, Torre di Merola, Puig-reig. Photo © Adrià Goula

L CURATORE Roberta Tenconi L ACCADEMIA Venezia e Sassari L NOTIZIA PNRR L GALLERIA ITALIANA Raffaella Cortese L GALLERIA INTERNAZIONALE Marian Goodman L FUNZIONARIO Luigi De Luca @ Lecce L GIORNALISTA Leonardo Merlini L PROGRAMMA TV In compagnia del lupo @ Sky Arte L SERIE TV Strappare lungo i bordi L PODCAST DELL’ANNO Dannati Architetti L CATALOGO Regina @ GAMeC Bergamo L NOVITÀ DIGITALE NFT L SAGGIO G litch Feminism di Legacy Russell (resto del mondo) + Genius Loci (Italia) di Stefano Chiodi L LIBRO Enciclopedia Treccani dell’Arte Contemporanea L GRAFICO Studiolordz - Alessandro Gianvenuti L PRESIDENTE Francesca Lavazza @ Castello di Rivoli L UFFICIO STAMPA Paride Vitale L CASA EDITRICE Libri Scheiwiller L ASSESSORE ALLA CULTURA Daniele Vimini @ Pesaro L FUMETTISTA Miguel Vila L ILLUSTRATORE Antonio Pronostico

Per leggere le motivazioni, inquadra il QR

Di fronte all’avanzare dell’emergenza climatica, sono sempre più numerose le voci a favore del riuso e recupero del patrimonio esistente. Dopo il Pritzker Prize 2021, assegnato a Lacaton & Vassal per i suoi radicali interventi di rigenerazione, e l’iniziativa Renovation Wave del Green Deal europeo, l’ultima conferma arriva dall’Architectural Review, che ha conferito a Carles Enrich Studio il titolo di emergente dell’anno. A far prevalere lo studio di base a Barcellona, una serie di progetti che riattivano preesistenze storiche. Come spiega il suo fondatore Carles Enrich (Barcellona, 1980), “sfruttiamo il contrasto tra permanente ed effimero, riconoscendo usi e morfologie del passato e aggiungendo strati che promuovono nuove attività. Al contempo”, prosegue l’architetto, “otteniamo la massima efficienza energetica utilizzando tecniche e materiali tradizionali, che tessono relazioni fra progetto, paesaggio, clima e cultura”. Una filosofia che coniuga tradizione e innovazione, e che trova nel patrimonio catalano il suo campo d’azione privilegiato. Ne sono un esempio le rovine del castello di Jorba sulla sommità del Puig de la Guardia, dove lo studio, riutilizzando i 300 metri cubi di terra rimossi dallo scavo archeologico, ha disegnato una nuova topografia che facilita l’accesso al sito e ne traccia un itinerario attraverso le fasi storiche, restituendo così il monumento alla popolazione locale e ai turisti. O i resti della torre di Merola a Puig-reig, in cui una semplice

struttura in legno sostiene la preesistenza, recupera il volume originario e ne ripristina la funzione di belvedere. O ancora l’ex chiesa di Santa Eulalia a Gironella, i cui spazi medievali sono stati restaurati e trasformati in un centro per le arti aperto alla cittadinanza. Azioni minime e delicate, efficaci anche nel recupero del patrimonio edilizio. Lo dimostra l’intervento per un complesso residenziale a Badia del Vallès, dove l’inserimento di un’elegante passerella con torre-ascensore in lamiera microforata supera il dislivello di 8 metri fra le abitazioni e il centro città, regalando ai residenti, oltre a un agile collegamento con il mercato e le scuole, un nuovo spazio pubblico. Un interesse per le infrastrutture che Carles Enrich Studio sta ora sviluppando nel capoluogo catalano. Lo studio è infatti al lavoro su un mercato provvisorio: “L’obiettivo è quello di cambiare il modo in cui le strutture temporanee sono intese in città”, racconta Enrich, “una volta completata la ristrutturazione dell’edificio originario, la struttura temporanea in legno verrà in parte mantenuta e utilizzata come pergolato per attività all’aperto e per la produzione energetica. Inoltre”, aggiunge l’architetto, “stiamo lavorando su un edificio storico che verrà parzialmente demolito al suo interno per ospitare una scuola di musica, integrando un sistema bioclimatico per gestire il comfort in ogni spazio”. Per un’architettura circolare a impatto (quasi) zero.

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L NAZIONE DELL’ANNO Italia

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GENNAIO L FEBBRAIO 2022

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VALENTINA TANNI [ scrittrice e docente ]

Giradischi di luce

MUSEI DA TAVOLO Per tutti gli amanti dell’architettura moderna, questo modellino è un oggetto irresistibile. Realizzato interamente in legno dall’australiana Little Building Co., riproduce in scala uno degli edifici più iconici del Novecento: il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, disegnato da Frank Lloyd Wright e completato nel 1959. littlebuildingco.com $ 130

DIVINE FIGURE FEMMINILI

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Negli Anni Settanta, quando era impegnata nelle ricerche per The Dinner Party, una delle sue opere più importanti, l’artista americana Judy Chicago rimase affascinata dalla scoperta di alcune divinità femminili adorate dalle culture primitive. Questa candela, prodotta in collaborazione con Prospect New York, riprende il tema con una dea della fertilità in total pink. prospectny.com $ 81

Brian Eno non ha certo bisogno di presentazioni. Pioniere della musica ambient, polistrumentista, produttore, videoartista e filosofo, è da quasi cinquant’anni un punto di riferimento del panorama culturale a livello mondiale. Da sempre interessato al rapporto tra musica e immagine, e in particolare all’utilizzo della luce, ha da poco lanciato una linea in edizione limitata di giradischi a LED in collaborazione con la Paul Stolper Gallery di Londra. Il giradischi, che s’illumina cambiando colore in accordo con la musica, è un oggetto che trasmette un forte senso di sacralità, incanalando la luce in una struttura minimale ed eterea che fa tornare alla mente le atmosfere delle installazioni di James Turrell. “La luce che emette sembra come catturata all’interno di una nuvola di vapore”, ha commentato Eno dopo aver visionato il prototipo. “Siamo rimasti a fissarlo per ore, trafitti da questa esperienza totalmente nuova di percepire la luce come una presenza fisica”. Ognuno dei cinquanta esemplari disponibili, il cui prezzo viene comunicato dalla galleria soltanto su richiesta, è firmato dall’artista e ha il numero dell’edizione inciso sul fondo. paulstolper.com prezzo su richiesta

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FACCE DA RICORDARE Si possono stampare di tutte le forme e tutte le dimensioni e sono una simpatica alternativa ai vetusti biglietti da visita e alle etichette con il nome. Volete farvi ricordare da qualcuno? Perché non regalargli un adesivo con la vostra faccia? stickermule.com a partire da $ 17


BICCHIERI FILOSOFICI

Un’elegante t-shirt in edizione limitata frutto della collaborazione tra l’artista Cindy Sherman e il fashion designer Narciso Rodriguez. Tutti i proventi della vendita andranno all’associazione Planned Parenthood di New York, che si occupa di offrire supporto medico e psicologico per problemi legati alla sessualità e alla riproduzione.

L’espressione è proverbiale: c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto. Questa ironica coppia di bicchieri, ideata da The School of Life, accontenta il pessimista e l’ottimista, bilanciando anche a tavola due visioni contrapposte della vita. charlesandmarie.de € 22

ppgnyshop.com $ 65

MASCHERINE PER LA TERRA

#64 GENNAIO L FEBBRAIO 2022

T-SHIRT BENEFICHE

Uno dei tanti effetti collaterali della pandemia è senz’altro la produzione di tonnellate di rifiuti extra dovuti all’utilizzo continuativo di mascherine e guanti usa e getta. Queste mascherine del brand olandese Marie Bee Bloom sono fatte in carta di riso e contengono una selezione di semi floreali, così se vengono gettate a terra non solo non inquinano ma possono far nascere nuove piante.

SALSA DI SOIA PER GLI OCEANI

TRIS DA BAGNO

Lo studio di design australiano Heliograf ha lanciato una nuova versione della sua popolare Light Soy lamp, una lampada ispirata alla forma dei contenitori usa e getta per la soia molto diffusi in ristoranti e take away giapponesi. Stavolta la plastica utilizzata viene dagli oceani ed è interamente riciclata.

È un porta carta igienica geniale, quello disegnato dal brand HandAndHomes su Etsy. Fatto interamente a mano usando legno di pino riciclato, consiste nella riproduzione del classico gioco del tris, in cui i rotoli di carta sostituiscono i cerchi e le croci in legno le X. E ci si può davvero giocare!

heliograf.com a partire da € 169

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mariebeebloom.com a partire da € 16

etsy.com a partire da € 66,74

UCCELLINI IN DIRETTA Dal genio di Fred and Friends, azienda americana che da anni porta nelle nostre case accessori utili e divertenti, arriva una mangiatoia per uccelli che sembra uno schermo. Protagonisti della diretta sono dei volatili intenti a beccare il loro mangime. genuinefred.com $ 30

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Lecce Via Giuseppe Candido 3 329 6249713 salvatoreluperto@gmail.com

È dedicato alle sperimentazioni nell’ambito della poesia visiva Artpoetry, il nuovo spazio espositivo aperto a Lecce lo scorso 26 novembre. Il fondatore è Salvatore Luperto, critico d’arte e già direttore del MACMa, il Museo di Arte Contemporanea di Matino. A inaugurarlo è Dissonanze, mostra personale di Lamberto Pignotti.

verbovisivo, ancora oggi sconosciuto al vasto pubblico.

Come nasce l’idea di aprire questo nuovo spazio? Semplicemente per soddisfare la richiesta di tanti autori (le cui opere sono presenti al MACMa) di esporre le loro ricerche verbovisive a Lecce, ma anche per creare uno spazio culturale attivo per la conoscenza e la diffusione del fenomeno

Come concepisci il rapporto della galleria con la città e il territorio? Una naturale ripresa e continuazione della florida attività sulla poesia sperimentale che vi fu nel Salento negli Anni Settanta con il gruppo Gramma (1970) fondato da Bruno Leo, Giovanni Corallo e Salvatore Fanciano, il gruppo Ghen (1976) fondato da Francesco

L’Arco della Pace di Milano è il primo monumento del metaverso

l’Arco della Pace venire rivestito completamente con una architectural data sculpture luminosa a 360°, trasformandolo in un’opera d’arte immersiva. Questa “copertura”, generata da un innovativo algoritmo, è composta da immagini in mutamento selezionate dal collettivo, con la reinterpretazione di 20mila opere d’arte della storia del nostro Paese da parte di oltre 320 artisti. L’opera, che sarà trasformata in NFT, si inserisce in un più ampio progetto di valorizzazione di Reasoned Art, startup e società benefit italiana: la vendita del codice unico corrispondente al “monumento digitale” sarà devoluta alla creazione di uno spazio educativo e sperimentale a beneficio di giovani curatori, artisti e aficionados tramite borse di studio. ouchhh.tv

L’Arco della Pace di Milano è entrato nel metaverso. In questo spazio virtuale il collettivo internazionale Ouchhh ha infatti creato a cavallo del Capodanno una copia virtuale del monumento milanese con il nome di AI DATAPORTAL_ARCH OF LIGHT. L’iniziativa, curata da Reasoned Art in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia belle arti e paesaggio di Milano e il patrocinio del Comune, ha visto

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Piazza Libertini via M arco ni

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ARTPOETRY

Saverio Dodaro e il Laboratorio di poesia Novoli (1980) fondato da Enzo Miglietta.

Fontana dell’Armonia

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NUOVI SPAZI

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#64

Qual è il fulcro tematico del progetto? L’evoluzione della poesia visiva oggi e in particolare la commistione del linguaggio con l’arte visiva, senza escludere la cultura letteraria e artistica salentina.

Rigenerazione urbana: a Torino Italgas inaugura un’opera pubblica di Oliviero Rainaldi CLAUDIA GIRAUD L Nell’ambito del redesign di largo Regio Parco e della sede torinese di Italgas, è stata inaugurata l’opera di arte pubblica permanente di Oliviero Rainaldi: un regalo alla città

Qual è il target di pubblico scelto per Artpoetry? Artpoetry si rivolge a tutti i fruitori interessati all’arte contemporanea e alle sue tendenze concettuali. Com’è organizzato lo staff della galleria? Le iniziative proposte da Artpoetry sono curate fondamentalmente dal sottoscritto e da Anna Panareo con la collaborazione di studiosi e intellettuali del luogo protagonisti della cultura salentina, tra cui Carlo Alberto Augieri, Marina Pizzarelli e Andrea Fiore. Ci puoi dare un’anticipazione delle prossime mostre? In programma ci sono diverse iniziative. Tra le imminenti: Omaggi a Mirella Bentivoglio, in occasione dei cento anni dalla nascita di un’intellettuale tra le più stimate del secolo scorso. Una mostra di un folto gruppo di artisti che hanno omaggiato Mirella Bentivoglio dedicandole una loro opera. Poi una personale di Giovanni Fontana, attualmente il maggiore poeta sonoro italiano; successivamente l’esposizione di Ritratti Portatili di Liliana Ebalginelli, a seguire la mostra di Vittorio Fava, di Maurizio Osti, di Carlo Battisti, di Enzo Patti. Nel programma sono inserite anche iniziative sull’arte di maestri salentini del Novecento apprezzati a livello nazionale e internazionale. CECILIA PAVONE dell’azienda leader in Italia nella distribuzione del gas naturale, nata quasi 200 anni fa nel capoluogo piemontese. L’artista Oliviero Rainaldi (CaramaPhoto © Claudia Giraud nico Terme, 1956), già autore del Monumento a Giovanni Paolo II davanti alla Stazione Termini a Roma, ha concepito un’installazione diffusa, volta anche a riqualificare l’area dove sorgono i due edifici della Società. Flammarion è composta da un gruppo scultoreo articolato in più elementi – sempre in alluminio verniciato con un blu cangiante a simboleggiare la fiammella del gas – posizionato davanti al civico 9 di largo Regio Parco a Torino, e da due elementi scultorei singoli collocati rispettivamente al civico 11 e in corso Palermo 4. L’opera si ispira al concetto delle costellazioni quali insiemi di corpi celesti distribuiti nello spazio con uno schema geometrico riconoscibile, studiate e divulgate a fine Ottocento dall’astronomo Camille Flammarion. olivierorainaldi.org | italgas.it


DIGITAL MUSEUM

#64

COME SI DICE DIGITALE A NEW YORK? metmuseum.org

Torna la rubrica dedicata al rapporto fra musei e digitale. E torna in grande stile, con una intervista a Sofie Andersen, Head of Digital Content and Editorial del Metropolitan Museum of Art di New York.

Il Met ha grande attenzione per la dimensione online delle sue collezioni e per la sua diffusione gratuita in Rete... L’adozione dell’Open Access da parte del Met, che rende accessibili gratuitamente 240mila opere d’arte e 409mila immagini con licenza Creative Commons, ha quasi cinque anni e continua a essere uno degli strumenti più importanti per portare l’arte al pubblico dove si trova. È stato un enorme sforzo, lanciato da Loic Tallon e supportato da molti dipartimenti nel museo. Grazie a questo, abbiamo visto più di 250 milioni di persone ogni anno interagire con la collezione tramite Wikipedia, abbiamo raggiunto nuovi studenti in tutto il mondo con piattaforme come FlipGrid di Microsoft, abbiamo permesso ai giocatori di fare curatela sulla collezione del Met all’interno di Animal Crossing e di esplorare le nuove gallerie create dall’esperienza virtuale con Unframed di Met x Verizon. Il più grande successo del programma Open Access non è solo che possiamo diffondere più facilmente storie sulla collezione e i relativi sforzi di ricerca, ma che chiunque può trovare un’opera per ispirarsi e remixarla con altre. Si realizza così la mission del Met di essere a museum of the world, by the world, and for the world. Ti ho sentita parlare di un pubblico locale raggiunto online durante il lockdown. Ci sono molti incredibili nuovi sviluppi in corso, dalle esperienze a 360 gradi alle

Ci sono due mondi separati là fuori? Uno online e uno offline, gestiti con diversi tipi di competenza? Così come non c’è una storia da raccontare su un’opera d’arte, non c’è una modalità di vivere i musei. Dovremmo valutarli come un ecosistema di contenuti e ciò significa adottare un approccio olistico che consideri insieme i canali online e le esperienze di persona. Mentre differenti approcci possono dare forma diversa all’education in presenza o alla produzione di un video, ad esempio, tutte le narrazioni che proponiamo sono interconnesse e dovrebbero costituire la risposta alle medesime domande: “In che modo questo contenuto o esperienza aiuta il nostro pubblico a capire, connettersi, confrontarsi o contestualizzare un’opera? È questo il modo migliore per raccontare questa storia?”. È il concetto di “museo ibrido”: in verità tutti noi stiamo sperimentando in questa direzione da tempo; la sfida ora è assicurarsi che ognuno di questi sia un modo ugualmente autentico di vivere la cultura, anche nei musei. Cosa pensi del conflitto tra l’“agency” degli oggetti e l’esperienza digitale? Credo che l’esperienza artistica possa essere trasformativa e i musei possano essere spazi di incontro (tra arte, persone e idee) per creare nuove forme di significato. Musei e gallerie possono anche essere considerati tra i pochi spazi pubblici in cui possiamo riunirci in modo informale e riflettere su noi stessi e sul mondo che ci circonda,

senza aver sempre bisogno della mediazione o degli schermi che frammentano così tanto la nostra vita. Ma non penso a queste esperienze come se fossero contrapposte; esistono invece diverse modalità per le diverse esigenze dei visitatori o tipologie di opere/oggetti. Raccontaci del tuo rapporto con il Met. Quali sono i tuoi progetti preferiti? Sono al Met da quasi tre anni, ma questa è in realtà la mia seconda volta qui! Mi sono trasferita a New York per lavorare per il Met e altri musei principalmente intorno a New York, da esterna, e per dieci anni ho creato audioguide interpretative e app. Credo fermamente nel potere della narrazione, in particolare dell’audio, di connettersi con l’arte – ovviamente con l’audio non ci sono distrazioni dovute allo schermo, ed è un mezzo da cui possiamo attingere ovunque ci troviamo.

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Quanto è importante lo sviluppo digitale per un museo? Siamo arrivati a una svolta? Sì, gli ultimi diciotto mesi hanno decisamente accelerato e consolidato l’importanza del digitale per via dell’impatto di tre eventi globali interconnessi: la pandemia di Covid-19, le difficoltà economiche e il bisogno di giustizia sociale. È una linea nella sabbia per i musei; non esiste più una strategia del “reparto digitale” come funzione separata e non è più sensato metterne in discussione il valore generale. Il digitale è essenziale per gli obiettivi, il coinvolgimento e l’impatto ed è fondamentale per relazionarsi con i pubblici sia nelle sedi fisiche sia online.

innovazioni nello storytelling, ma la pandemia ci ha ricordato quanto sia importante essere informati sulle reali esigenze del pubblico. Quando il museo ha chiuso i battenti nel marzo 2020, abbiamo immediatamente dedicato i nostri canali a mettere in evidenza la collezione permanente. Essendo una grande istituzione, con una lunga storia di investimenti nel digitale, siamo stati fortunati nell’avere già pronti ricchi archivi da cui attingere; abbiamo notato enormi picchi di fruizione in particolare nella Timeline of Art History e nei nostri contenuti Met Kids.

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MARIA ELENA COLOMBO [ museum & media specialist ]

Puoi dirci qualcosa sul progetto Met Stories? È stato uno dei miei primi progetti al ritorno al Met. Originariamente concepita per il nostro 150esimo anniversario nel 2020, la serie di video è progettata per portare le voci di tutta la nostra comunità a parlare dell’importanza del Met; siamo rimasti sbalorditi dalla risposta alla serie, che ha risuonato anche di più durante la pandemia, e ha davvero messo in evidenza le connessioni emotive che così tante persone provano con l’arte. Ci stiamo preparando a lanciare i primi podcast del Met con esperienze vissute e contributi da una vasta gamma di settori. Consiglieresti un libro stimolante per i colleghi italiani? Poiché sono una digital strategist, condividerò con voi una mostra provocatoria, un progetto di Alain de Botton e John Armstrong: Art as Therapy. Il catalogo è fantastico. Porta con sé temi che ho sentito come importanti durante tutta la mia carriera, quali la proprietà trasformativa dell’arte, ma adoro il modo spensierato e accessibile in cui il progetto tiene insieme l’interpretazione con i dilemmi quotidiani che molti di noi affrontano. Forse l’arte può aiutare.

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GENNAIO L FEBBRAIO 2022

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INTERVISTA A MIGUEL GOTOR NUOVO ASSESSORE ALLA CULTURA A ROMA

LE BIENNALI DA NON PERDERE NEL 2022 CLAUDIA GIRAUD

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Intervista a tutto campo al neo assessore alla cultura di Roma, Miguel Gotor. Qui trovate un breve estratto, la versione integrale è invece su Artribune.com e la potete leggere inquadrando il QR code qui sotto.

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Assessore, come si è generato il suo arrivo in Piazza Campitelli? Questa proposta è arrivata senza che me l’aspettassi. La mia vita, con i suoi progetti di studio e di ricerca, stava andando da un’altra parte. Quali sono le impostazioni del suo predecessore Luca Bergamo che vanno portate nel 2022 e oltre? A me non convince l’idea che ogni volta che si vincono le elezioni ci sono dei barbari che vanno via e dei nuovi civilizzatori che avanzano. A noi serve soprattutto un po’ di continuità nell’azione governativa e una maggiore capacità di fare sistema al netto di logiche faziose o di esclusiva appartenenza. Ci sarà però qualcosa che dovrà andare in discontinuià… Arricchire il dialogo con gli operatori culturali e le realtà associative sarà un passaggio ineludibile per rimettere ordine a una programmazione cittadina densa ma abbastanza confusa. Un altro aspetto che poteva essere affrontato meglio è la difesa della cultura come bene comune. Roma2030, la città ospita l’Expo. Cosa succederà? Il Giubileo e l’Expo saranno grandi opportunità per la cultura e per ridefinire sul territorio di Roma una nuova mappa dei servizi culturali più rispondente alle esigenze dei territori: bisogna provare a invertire la dicotomia della fruizione culturale tra centro periferia. Ma, prima di pensare al futuro, la mia priorità è dare risposte a

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questioni aperte da anni dagli operatori culturali e restituire ai romani una città più vivace e aperta al mondo. Con quale assessorato pensa di cooperare maggiormente? La collaborazione tra cultura e turismo, soprattutto in una città come Roma, deve essere strettissima. E il rapporto con l’assessore Onorato, che si occupa anche di grandi eventi, è costante e proficuo. Sappiamo bene entrambi che alcuni dati aggiornati indicano che sempre di più nella scelta delle destinazioni turistiche influiscono elementi legati al turismo culturale, sostenibile e responsabile. Per questo mi piace parlare di turismi, un ambito in cui i luoghi d’arte, gli eventi culturali e il patrimonio artistico hanno un ruolo fondamentale. A questi vorrei aggiungerei anche gli itinerari enogastronomici. Tommaso Sacchi, da Milano, sostiene che bisognerebbe fare progetti insieme e propone una “borsa culturale” che permetta di lavorare in sinergia. Con l’assessore Sacchi ci siamo sentiti dopo la mia nomina. Sono sicuro che sarà l’inizio di un rapporto importante. Penso che lo scambio di buone pratiche tra amministratori di diverse comuni italiani, ma anche di capitali europee, sia una grande opportunità. Fare rete e creare magneti replicando esperienze che hanno funzionato può e deve essere una strada che sarà percorsa anche in chiave di una modernizzazione europea di Roma e dell’Italia. MASSIMILIANO TONELLI

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BIENNALE DI SYDNEY È attesa dal 12 marzo al 13 giugno la 23esima edizione che, sotto il titolo rīvus (fiume), invita artisti, architetti, designer, scienziati e comunità a riflettere sul tema della sostenibilità. Diretta da Jose Roca e curata da Paschal Daantos Berry, Anna Davis, Hannah Donnelly e Talia Linz, la rassegna vedrà opere d’arte, attivismi e ricerche lungo i corsi d’acqua abitati dagli aborigeni. biennaleofsydney.art DOCUMENTA KASSEL La 15esima edizione della rassegna internazionale d’arte che ogni cinque anni si svolge in Germania è in programma dal 18 giugno al 25 settembre e sarà curata da ruangrupa, gruppo di artisti e creativi di base a Giakarta. Obiettivo: “Curare una piattaforma artistica e culturale orientata, cooperativa e interdisciplinare che abbia un impatto oltre i 100 giorni di documenta 15”. documenta.de BIENNALE ARTE DI VENEZIA È tratto da un libro dell’artista britannica Leonora Carrington, Il latte dei sogni, il titolo della 59esima edizione, prevista dal 23 aprile al 27 novembre. Curata da Cecilia Alemani, si concentrerà su tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra individui e tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. labiennale.org MANIFESTA 14 PRISTINA Curata dalla scrittrice e curatrice australiana con sede a Berlino, Catherine Nichols, la 14esima edizione della biennale itinerante farà tappa a Pristina, in Kosovo, dal 22 luglio al 30 ottobre. Con un tema incentrato sullo storytelling dei luoghi e delle comunità. manifesta14.org BIENNALE DI LIONE Immaginata dai curatori Sam Bardaouil e Till Fellrath come un Manifesto della fragilità, la 16esima edizione, in programma dal 14 settembre al 31 dicembre, ne afferma il valore come intrinsecamente legato a una forma di resistenza, con radici nel passato, in contatto con il presente e in grado di affrontare il futuro. labiennaledelyon.com


GESTIONALIA

#64

SE IL CORAGGIO CI SI PUñ DARE

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Avevo immaginato un sottotitolo meglio esplicativo alla citazione manzoniana, ma mentre lo pensavo mi sono accorta che avrebbe appesantito (leggi spaventato) il lettore senza averne l’intenzione. Così lo inserisco qui, nel corpo del testo, provando nello spazio successivo a individuare una chiave meno pessimistica e più evolutiva delle nuove architetture di senso che si imporranno (anzi, che già si impongono). Se il coraggio ci si può dare: vita e sostenibilità degli enti e delle imprese culturali e creative tra pauperismo gestionale, viltà strategica e insonnia progettuale. Non so quante e quanti si riconoscano in questa superficie specchiante riguardo al modo di operare e soprattutto di essere impresa (seppur in molti casi priva dello scopo lucrativo). Partiamo dal mezzo, dalla viltà strategica, spesso alimentata dall’alibi della non inclinazione giuridica alla propensione al rischio, derivante a sua volta dal rapporto sillogistico “non ho fine di profitto ergo non risico”: siamo sicuri che possa essere una possibilità? Qual è l’impresa senza rischio? È chiara la differenza sostanziale tra rischio (componente di chi fa impresa) e incertezza (stato fluido direi costante in cui l’impresa è immersa). E altrettanto chiaro dovrebbe essere l’assunto: per innovare bisogna costitutivamente rischiare. A volte, per molte istituzioni sarebbe sufficiente riprendere in mano il proprio statuto, rileggere l’oggetto sociale e il preambolo (ve ne sono di straordinari) sulle radici e la storia per cui sono nate e comprendere quale sia la loro naturale componente di rischio da una parte e istanza di visione strategica dall’altra. Non meravigliamoci poi se la gestione viene improntata a quello che definisco impropriamente pauperismo, in quanto non riconducibile né alla vocazione degli ordini mendicanti né alla decrescita felice. Rende però l’idea. Trattasi semplicemente di un’assenza di consapevolezza rispetto a concetti quali quelli di intrapresa e continuità aziendale, non dipendenti dalla mera logica dell’assistenzialismo di varia natura. E qui si arriva all’insonnia (letteralmente “assenza di sogni”) progettuale, poiché anche il mondo dei givers intorno a noi sta cambiando, e non soltanto quelli istituzionali con i loro provvidenziali grant. Così, insieme alla messa in sicurezza delle nostre imprese culturali e creative frutto anche di capacità di pianificazione e controllo – vero humus per la sostenibilità –, abbiamo bisogno di

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IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

tornare a sognare, come capacità immaginifica di pensare al nuovo. Vi sono più strade per farlo e ciascuna realtà è giusto che individui il proprio sentiero, con tempi e obiettivi diversi: dedicando risorse umane interne all’organizzazione e andando a creare un’area think tank (anche se siamo pochi!), costruendo alleanze inedite e disruptive (non sempre allineate e conformiste per tipologia e settore merceologico, please), chiamando qualcuno da fuori a pensare “out of the box”. O anche riprendendo in mano l’atto costitutivo e l’oggetto sociale, come si diceva, incrociarlo con il sito web e gli strumenti di comunicazione adottati (che troppe volte sono diventati erroneamente il sistema di valori) e mettere il tutto in filigrana con la governance e le persone: sarà un’epifania, ve lo assicuro.

© Chiara Zarmati per Artribune Magazine

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Lo spazio Mucho Mas! a Torino DARIO MOALLI [ critico d’arte ]

L’alternanza di Osservatorio curatori e Osservatorio non profit, entrambi curati da Dario Moalli, da questo numero si rinnova: prosegue cioè, ma cambia pelle. Su ogni numero di Artribune Magazine, infatti, i curatori o gli spazi non profit coinvolti avranno a disposizione tre pagine per un visual essay. Si comincia con Mucho Mas!, spazio torinese fondato da Luca Vianello e Silvia Mangosio.

olto spesso si pensa che per fare grandi mostre ed eventi occorra molto spazio, ma al contrario gli ambienti più piccoli riescono a far immergere ancor di più lo spettatore, facendolo entrare in armonia con il luogo. È il caso di Mucho Mas!, uno spazio fondato a Torino nel 2018, gestito da Luca Vianello e Silvia Mangosio. Mucho Mas! espone artisti italiani e internazionali che focalizzano la loro attenzione sul ruolo dell’immagine contemporanea, sul continuo divenire della fotografia e come quest’ultima riesca a unirsi ad altri linguaggi in maniera assidua. Mucho Mas! accoglie progetti che riguardano la sperimentazione fotografica, ossia una fotografia che oggigiorno è messa in discussione poiché troppo relazionata al digitale e ai media, quella che il fotografo Joan Fontcuberta, nel testo Furia delle immagini, ha chiamato “postfotografia”. I due ideatori sono fortemente interessati al perenne cambiamento della fotografia e prediligono la novità nel campo, piuttosto che la tradizione. Entrambi ritengono che sia giusto accettare l’evoluzione fotografica ma, allo stesso tempo, il mezzo fotografico deve avere il compito di decodificare e dare un senso alla realtà, allontanandosi dalla moltitudine di informazioni e immagini che circolano nella nostra epoca, immagini veloci che, mosse da incessante energia, divengono insidiose. Seguendo questa linea di pensiero, si interessano ad artisti quali Luca Baioni, un fotografo che sta compiendo una piccola rivoluzione fotografica, modificando le strutture base della fotografia e tralasciando le strutture originarie del mezzo; o Achille Filipponi, che nega la comunicazione della fotografia. Notevole è anche il lavoro di

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BIO Luca Vianello, classe 1990, si è formato presso l’Istituto d’Arte “Pinot Gallizio” e poi presso l’Istituto Europeo di Design. Una volta conseguita la laurea, è stato collaboratore del collettivo Cesura e assistente del fotoreporter Alex Majoli. Silvia Mangosio, classe 1988, dopo aver studiato fotografia e antropologia a Torino, ha frequentato un corso di perfezionamento presso la Fondazione Fotografia di Modena, dove ha sviluppato un progetto dal titolo Memoriamatic. Ha partecipato a diverse mostre collettive e residenze d’artista. Nel 2013 e nel 2016 è stata selezionata per la mostra del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee.

Sc_Nc, duo di artisti milanesi che, attraverso processi di cura in siti dimenticati, scoprono e si affidano a un luogo e, in esso, trovano tutto il materiale di cui hanno bisogno per costruire un mondo parallelo, che diventa reale ma intangibile. Un altro progetto in collaborazione con Villa Romana, recentemente presentato ad ArtVerona nella sezione LAB1 curata da Giulia Floris, è la piattaforma Uncoated-content, un sito costruito dal giovane web designer Luca Zoccola che racchiude dialoghi e scambi liberi e non mediati tra artisti, nel tentativo di creare una foresta di voci e connessioni che vadano oltre i limiti del mezzo digitale. Mucho Mas! può essere associato a ter-

mini come: sperimentazione, trasformazione, innovazione e indipendenza. Questi ultimi si associano dal punto di vista concettuale a tutto ciò che è immaturo, appena nato, e questo è uno degli aspetti più interessanti, poiché si dà possibilità a ciò che oggigiorno è scartato perché privo di esperienza. Considerevole è soprattutto lo studio della curatela, ovvero quando opera e contesto entrano in sintonia e dove si lavora il più possibile per mettere in risalto l’opera all’interno dello spazio. Lo spazio piccolo pertanto è in grado di contenere un’immane quantità di oggetti, la sfida sta nel saperli racchiudere al suo interno attraverso il giusto significato.


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Treccani presenta l’Enciclopedia italiana dell’arte contemporanea. È la prima al mondo

Immobili pubblici destinati ad attività culturali. Il bando dell’Agenzia del Demanio

GIULIA RONCHI L Treccani presenta l’Enciclopedia italiana dell’arte contemporanea internazionale, diretta da Vincenzo Trione e Valeria della Valle. Un’opera magna – la prima nel suo genere e che parte dall’Italia – che si impegna a raccontare la complessità e la pluralità dell’arte mondiale e del suo sistema, avvalendosi della voce di 435 autori, tra i massimi studiosi di storia e critica delle arti di tutto il mondo, fra storici e scrittori italiani e stranieri. Il risultato è un’opera divisa in quattro volumi illustrati che contano circa 800 pagine l’uno, per un totale di oltre 3.600 lemmi e sottolemmi. Anche gli artisti sono stati parte attiva di quest’opera Treccani: a quattro maestri internazionali per quattro continenti è stato chiesto di produrre un’opera ad hoc. Sono Anselm Kiefer per l’Europa, Joseph Kosuth per l’America, William Kentridge per l’Africa e Anish Kapoor per l’Asia. A coronare il progetto, l’opera di Shirin Neshat che introduce al primo volume, alla quale è stato commissionato uno speciale “portfolio”. treccani.it

DESIRÉE MAIDA L “Si tratta di beni di proprietà dello Stato, non utilizzati per usi istituzionali che potranno essere avviati ad una valorizzazione economica, sociale, culturale, turistica, assicurandone la fruizione pubblica, sottraendoli al degrado e aprendoli al pubblico. Sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e rappresentano un ventaglio variegato di tipologie del patrimonio immobiliare pubblico di valore storico e identitario, tutti strettamente legati ai contesti paesaggistici e urbani, al tessuto socioculturale e alle comunità locali di riferimento”. Con questa presentazione, l’Agenzia del Demanio pubblica sul proprio sito web bandi di gara per l’affidamento in concessione di immobili pubblici di proprietà statale, a enti privati chiamati a farsi carico del loro recupero, riuso, gestione e valorizzazione per un massimo di cinquant’anni. Un grande progetto di rigenerazione urbana che rientra nell’ambito di Valore Paese Italia, programma promosso dall’Agenzia del Demanio, dal MiC, da ENIT e da Difesa Servizi SpA, con l’obiettivo di valorizzare il patrimonio pubblico,

Faro di Ancona, via Wikipedia CC BY-SA 2.5

di cui fanno parte ex chiese, ex depositi, ex dogane, ville, teatri, palazzi, carceri. Sono ventidue in tutto i beni demaniali oggetto dei bandi, cui possono partecipare “persone fisiche, imprese individuali, società commerciali, società cooperative, associazioni, fondazioni, consorzi”, come sottolineato nel testo dei bandi. Tutti luoghi, questi, che potranno essere destinati a svariati usi e attività riguardanti arte, spettacolo, didattica, ricerca, formazione, tempo libero, eventi, sport, cura e benessere, ristorazione, enogastronomia, poli culturali e di incontro per le comunità del territorio e attrattori turistici. Chi vorrà candidarsi al bando – che si chiuderà alle ore 12 del 19 maggio 2022 – potrà, inoltre, effettuare sopralluoghi nei siti di interesse, prenotando la visita fino al 21 aprile. agenziademanio.it

GLI SPAZI D’ARTE INDIPENDENTI DI ROMA SPAZIO MENSA

Serpentara

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PAESE FORTUNA

Parioli MAXXI

Tor Cervara

Villa Borghese

SPAZIO FONTANELLA

Roma Termini

Città del Vaticano

OMBRELLONI

STRUTTURA CASTRO

Colosseo

NUMERO CROMATICO

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Torpignattara

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Villa Dora Pamphili Terme di Caracalla

BLOCCO 13 PORTO SIMPATICA

OFF1C1NA

SPAZIO IN SITU

Garbatella

CASA VUOTA 10B PHOTOGRAPHY

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DURALEX

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PATRIMONIO CULTURALE, DIGITALIZZAZIONE E DATI: LE RACCOMANDAZIONI DELL'UNIONE EUROPEA

Tra le recenti iniziative adottate dall’ Unione Europea per incentivare la digitalizzazione, l’accessibilità e la conservazione del patrimonio culturale europeo si segnala la Raccomandazione (UE) 2021/1970 della Commissione del 10 novembre 2021, relativa alla creazione di uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale. Questa Raccomandazione si basa e sostituisce la precedente Raccomandazione (UE) 2011/711. Si tratta di atti non vincolanti, che suggeriscono linee di azione per promuovere la digitalizzazione, l’accessibilità e la conservazione del patrimonio culturale europeo, considerato un elemento chiave per costruire un’identità europea fondata su valori comuni, in grado di contribuire alla crescita economica. In questo contesto un ruolo fondamentale può essere giocato dagli istituti di tutela del patrimonio culturale (biblioteche accessibili al pubblico, musei, archivi o istituti per il patrimonio cinematografico o sonoro), che, sfruttando le opportunità offerte dalle tecnologie digitali avanzate (tecnologia 3D, intelligenza artificiale, apprendimento automatico, cloud computing, tecnologie dei dati, realtà virtuale e realtà aumentata), possono creare nuove opportunità economiche anche in altri ambiti culturali e creativi (ad esempio nel settore dei videogiochi e delle industrie cinematografiche). Lo scopo della Raccomandazione è incentivare la creazione di uno spazio

comune europeo di dati per il patrimonio culturale, aiutando gli istituti di tutela del patrimonio culturale nel percorso di digitalizzazione e conservazione dei beni. A tal fine la Commissione suggerisce di fissare obiettivi chiari, finali e intermedi: in particolare, entro il 2030 gli Stati membri dovrebbero digitalizzare in 3D tutti i monumenti e i siti del patrimonio culturale a rischio e il 50% dei monumenti, degli edifici, dei siti culturali e del patrimonio culturale più visitati fisicamente; entro il 2025 dovrebbero digitalizzare il 40% degli obiettivi globali per il 2030. Secondo i piani strategici della Commissione, nella realizzazione di tali obiettivi gli istituti di tutela del patrimonio culturale dovrebbero mettere a disposizione i loro beni digitalizzati attraverso la piattaforma Europeana (la biblioteca-archivio e museo digitale d’Europa). Viene inoltre suggerito che i dati derivanti da progetti di digitalizzazione finanziati con fondi pubblici diventino e restino reperibili, accessibili, interoperabili e riutilizzabili, secondo i principi riassunti nell’acronimo FAIR (Findable/ Rintracciabili, Accessible/Accessibili, Interoperable/Interoperabili e Re-usable/Riutilizzabili). Il tema che inevitabilmente dovrà essere affrontato dagli operatori, pubblici e privati, è quello relativo ai diritti d’autore e connessi, che potrebbero di fatto ostacolare la digitalizzazione e la condivisione del materiale culturale (libri, riviste, giornali, fotografie,

oggetti museali, documenti d’archivio, materiali sonori e audiovisivi, monumenti e siti archeologici). Sotto tale profilo dovranno essere prese in esame le misure previste dalla direttiva 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale, recentemente attuata in Italia con il Decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 177. Fra le altre, potranno trovare concreta applicazione: le norme sulla digitalizzazione e la diffusione delle opere fuori commercio che gli istituti di tutela del patrimonio culturale hanno nelle loro raccolte; le eccezioni obbligatorie per la realizzazione di copie a fini di conservazione da parte degli istituti di tutela del patrimonio culturale e per l’estrazione di testo e di dati a fini di ricerca scientifica. Un’altra disposizione di particolare interesse è quella relativa al regime giuridico del materiale derivante dalla riproduzione di opere delle arti visive di dominio pubblico. L’auspicio della Commissione è la creazione di uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale, che offrirà agli istituti di tutela del patrimonio culturale la possibilità di sfruttare le dimensioni del mercato unico, stimolando la creatività in vari settori e creando un valore per l’intera economia. La valutazione sul raggiungimento di tali obiettivi e l’eventuale revisione o integrazione delle politiche strategiche sarà effettuata con cadenza biennale sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri.

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Photo Sajad Nori via Unsplash

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RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

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CINEMA FULGOR Riaperto nel 2018 dopo attento recupero dell’architettura Liberty, è memoria della poetica felliniana (proprio al Fulgor il maestro vide i suoi primi film), con le sale “Giulietta” e “Federico” ispirate allo stile hollywoodiano Anni Trenta, su disegni di Dante Ferretti. Da dicembre convive con il Fellini Museum e il suo Cinemino. corso d’augusto 162 cinemafulgor.com

FELLINI MUSEUM Castel Sismondo, piazza Malatesta strappata al parcheggio selvaggio e oggi scenografica evocazione di un set a cielo aperto, il Bosco dei nomi ispirato da Tonino Guerra, le sale di Palazzo Valloni. Si rilegge così, in modo originale – e insieme funzionale – il concetto di allestimento museale, per onorare il genio dell’indimenticato regista. piazzetta san martino fellinimuseum.it

PALAZZO LETTIMI La facciata “a scarpa” dalle chiare fattezze rinascimentali ancora annuncia la presenza di un edificio di grande pregio storico e culturale, seppur oggi diroccato, ferita ancora non rimarginata della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, varcando il portale, si accede a un suggestivo giardino segreto degli “aromi”. via tempio malatestiano 26

IL GIARDINO DI SCULTURE DEL PART C’è la mano di Luca Cipelletti – che nel 2020 ha recuperato i due antistanti palazzi medievali, dando vita al PART, museo d’arte contemporanea della città – dietro al progetto dello spazio verde concepito come un moderno giardino all’italiana che accoglie opere di grandi artisti, da Arnaldo Pomodoro a Giuseppe Penone. via giuseppe verdi palazziarterimini.it

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Anfiteatro Romano

Nel centro storico della città malatestiana si è scommesso su una riqualificazione urbanistica e culturale audace e visionaria, ripensando la fruizione di piazze, verde pubblico ed edifici monumentali. Seguendo il faro guida del grande cineasta. BIBLIOTECA GAMBALUNGA Il primo nucleo della biblioteca civica di Rimini, che una volta al mese dà accesso alle sue sale antiche e alle preziose collezioni storiche, risale alla prima metà del Seicento, come pure il palazzo che la ospita, oggi collettore di mostre ed eventi. Si aggiunga il fascino di un Archivio Fotografico che raccoglie più di un milione di immagini. via gambalunga 27 bibliotecagambalunga.it

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TEATRO GALLI Tra le più eloquenti operazioni di rilancio del centro città, il restauro dell’ottocentesco Teatro Galli, danneggiato dai bombardamenti del 1943, ha restituito all’Italia un gioiello della progettazione acustica, capolavoro di Luigi Poletti. Ricca la programmazione, tra prosa, lirica, opera e danza. piazza cavour 22 teatrogalli.it

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ZAMAGNI GALLERIA D’ARTE E CORNICI Dagli Anni Sessanta sinonimo di cornici artigianali di ottima fattura, Zamagni oggi identifica una finestra aperta sull’arte contemporanea: Gianluca, nel proseguire l’attività di famiglia, ha concepito un nuovo spazio, che è insieme bottega d’arte e galleria, e accoglie mostre personali e collettive, incontri e presentazioni di libri. via dante alighieri 29-31 zamagniarte.it

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ABOCAR DUE CUCINE La casa dell’italoargentino Mariano Guardianelli e di Camilla Corbelli – lui ai fornelli, lei in sala – rende giustizia all’insegna con l’impegno ad avvicinare (abocar in spagnolo) due terre lontane nel segno della spontaneità di una cucina precisa, divertente, ricca di suggestioni. A prezzi decisamente accessibili. via carlo farini 13-15 abocarduecucine.it

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ART MUSIC CLAUDIA GIRAUD

6 GRANDI MOSTRE ATTESE NEL 2022 CLAUDIA GIRAUD

[ caporedattrice musica ]

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KARMA CLIMA: LA MUSIC FACTORY DEI MARLENE KUNTZ visoaviso.it | marlenekuntz.com

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Moira Franco all'opera a Ostana. Photo © Michele Piazza

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La musica non fa marce, appelli e inutili parole per arrestare il cambiamento climatico in corso, ma fa la sua parte con quello che di più concreto possiede: l’arte. Che poi è il cuore del progetto esperienziale Karma Clima dei Marlene Kuntz, un trittico di residenze nelle valli di Cuneo, caratterizzate da un laboratorio musicale e da uno studio di registrazione itinerante: una music factory in dialogo con le comunità cuneesi e nazionali che culminerà con la produzione del nuovo disco in primavera. “Ogni aspetto creativo del processo artistico Karma Clima, tra cui anche l’aspetto sonoro dell’album che stiamo producendo, è intrinsecamente connesso con le esperienze che abbiamo e stiamo vivendo lungo le residenze tra Ostana, il birrificio Baladin di Piozzo e Paraloup”, ci racconta Luca Lagash, il bassista della rock band capitanata da Cristiano Godano, nonché mente e coordinamento del progetto; “esperienze di scoperta e interazione con il territorio, e di confronto con le imprese e gli artisti di comunità, all’interno di un percorso reso ancora più stimolante dalla partecipazione di istituzioni come – per citarne alcune – la Fondazione Fitzcarraldo, il Museo del Cinema, il Politecnico di Torino, le amministrazioni locali, Unioncamere e le cooperative di comunità, di cui Viso a Viso è capofila, insieme ai tanti visitatori che si stanno affacciando con curiosità a questo laboratorio aperto, la Music Factory Karma Clima appunto”. L’idea è quella di favorire sinergie con opportunità extra-musicali, dal cinema allo spettacolo, dall’ambiente al turismo, dalle imprese innovative di montagna all’innovazione, creando qualcosa di nuovo anche in materia di business culturale. Una co-progettazione che mira a far interagire la poetica dei Marlene Kuntz con le peculiarità della dimensione rurale e montana. Anche in stretta relazione con le arti visive: “Oltre alla collaborazione avuta in loco con artisti quali Moira Franco e Franco Sebastiani, ci pare interessante poter finalizzare in modo coerente tutta l’opera di artwork e identità grafica che questo processo sta via via restituendo, così come la produzione video fotografica di Michele Piazza e Lorenzo Letizia che ci stanno seguendo costantemente lungo questo dinamico processo creativo”.

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BICENTENARIO MORTE DI CANOVA – TREVISO Questo sarà l’anno di Antonio Canova: nel 2022 ricorre, infatti, il bicentenario della morte del grande scultore neoclassico. Le celebrazioni sono già in corso al MART di Rovereto, dove le sculture del maestro originario di Possagno sono esposte accanto a opere di artisti e fotografi del Novecento, mentre il Museo Civico di Bassano del Grappa presenta la ricostruzione di Ebe, celebre gesso di Canova andato in pezzi dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Dal 25 marzo il Museo Bailo di Treviso ospiterà, invece, la grande mostra L’Ottocento svelato. Da Canova al Romanticismo storico. museicivicitreviso.it DONATELLO ED ELIASSON – FIRENZE Un altro nome di peso sarà Donatello, protagonista di una mostra-evento ai Musei del Bargello e al Palazzo Strozzi di Firenze, entrambi dal 19 marzo: qui ci sarà posto anche per l’arte contemporanea a partire da settembre con un altro suo grande esponente, il danese Olafur Eliasson, che si prevede ripeterà il successo di pubblico di Jeff Koons, vera star del 2021. palazzostrozzi.org CENTENARIO NASCITA DI PIER PAOLO PASOLINI – ROMA Il 2022 sarà anche l’anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini: una grande mostra diffusa in tre sedi – Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini, MAXXI – celebrerà da ottobre 2022 a marzo 2023 il complesso e tormentato scrittore, poeta e regista nato a Bologna. Sempre da ottobre, la Galleria d’Arte Moderna ospiterà, invece, la mostra Pasolini Pittore con 200 opere sui suoi inizi pittorici. palaexpo.it VIVIAN MAIER INEDITA – TORINO Dal 9 febbraio le Sale Chiablese dei Musei Reali ospitano la mostra di Vivian Maier, una delle massime esponenti della street photography. L’esposizione segue la tappa francese ospitata al Musée du Luxembourg e presenta oltre 250 immagini, con una sezione dedicata agli scatti, mai visti prima, realizzati durante il suo viaggio in Italia, in particolare a Torino e Genova. vivianmaier.it TIZIANO E LA DONNA NELLA VENEZIA DEL '500 – MILANO Dal 23 febbraio Palazzo Reale presenta la mostra Tiziano e l’immagine della donna, un viaggio nella rappresentazione dell’immagine femminile nel contesto della Venezia del Cinquecento. Oltre a Tiziano e Giorgione, anche Lotto, Palma il Vecchio, Veronese e Tintoretto con oltre centro capolavori. palazzorealemilano.it ANISH KAPOOR – VENEZIA Dal 20 aprile, in concomitanza con la Biennale Arte di Venezia, le Gallerie dell’Accademia dedicano una grande retrospettiva ad Anish Kapoor. La mostra presenterà i momenti chiave della carriera dell’artista anglo-indiano accanto a lavori inediti: per la prima volta verranno esposte le nuove opere create utilizzando la nanotecnologia del carbonio. gallerieaccademia.it


SERIAL VIEWER

GIULIA PEZZOLI [ registrar e curatrice]

CASO E GIUSTIZIA IN VERSIONE DANESE

Sono su Netflix due miniserie che raccontano la vita di altrettante persone che si sono fatte da sé, nel bene e nel male, con obiettivi totalmente differenti. La prima è Self Made: la vita di Madame C.J. Walker, la vera storia di Sarah Breedlove, la prima donna afroamericana a diventare milionaria. Madame C.J. Walker (interpretata nella serie da Octavia Spencer) è l’esempio più puro dell’American Dream del quale gli Stati Uniti tornano ad avere bisogno. Ai nastri di partenza è una donna che lavora come lavandaia per famiglie bianche e non solo, con soli tre mesi di istruzione e due matrimoni falliti alle spalle. Ma riesce a diventare – grazie alla sua passione, alla voglia di vivere e al desiderio di incidere sulla società, nonostante tutte le difficoltà, i contrasti, i limiti imposti da una società bianca e paternalista – protagonista del mondo imprenditoriale americano del primo Novecento, con l’omonimo brand di prodotti per capelli dedicati a donne afroamericane, intercettando i bisogni di una fetta di pubblico allora ignorata dal mercato. Inoltre, insieme alla figlia A’Lelia, mecenate e grande filantropa, è fondamentale nella rinascita culturale di Harlem. Se Madame C.J. Walker è una storia positiva di affermazione, di quelle al termine della quale scatta un sicuro applauso, True Story invece fa molto ridere (anche grazie alla coppia Kevin Hart e Wesley Snipes), ma alla fine lascia l’amaro in bocca, mettendo totalmente in crisi il mito del successo nel mondo contemporaneo. Tra colpi di scena, equivoci, relazioni familiari complesse, ambizioni, sentimenti e delusioni, la serie creata da Eric Newman ci pone di fronte a un bivio. Il fine giustifica sempre i mezzi? Cosa è giusto e cosa è sbagliato? E soprattutto ci chiede di amare i protagonisti e allo stesso tempo di condannarli. Così Kid, l’attore comico main character della serie, al centro di un dramma personale e familiare che coincide però anche con il punto più alto della sua carriera e dei profitti che ne conseguono, diventa l’ago della bilancia della nostra morale. Noi da che parte stiamo?

Una serie di sfortunati eventi costringe Emma e la figlia adolescente Mathilde a prendere un treno per andare in città. Sul vagone, la madre si lascia convincere dal gentile Otto, un matematico esperto di statistiche e calcolo delle probabilità, a sedersi al suo posto. Pochi istanti dopo, un’esplosione distrugge parte del treno, uccidendo la donna e lasciando completamente illeso Otto. Ricordando alcuni avvenimenti che hanno preceduto la detonazione, il matematico, tormentato dal senso di colpa, convince il neo vedovo Markus, militare affetto da disturbo da stress post-traumatico e distaccato in Medio Oriente, che l’incidente in realtà è stato causato da una banda di estrema destra per eliminare un testimone chiave in un processo, innescando in lui un irrefrenabile desiderio di vendetta. Tra i più produttivi e talentuosi sceneggiatori europei degli ultimi venticinque anni, il danese Anders Thomas Jensen, sebbene poco conosciuto al pubblico italiano, ha già dimostrato la propria abilità e originalità dietro la macchina da presa con pellicole come Flickering Lights (2000), Le mele di Adamo (2005) o il più recente Men & Chicken (2015), ancora inedito nel nostro Paese. Con Riders of Justice, Jensen conferma la sua inesauribile capacità di osare e sperimentare, di usare con padronanza scrittura e regia per creare opere fluide e spiazzanti di cui è impossibile prevedere lo svolgimento. Tra revenge thriller, black comedy, azione e dramma, Riders of Justice è un film atipico, allo stesso tempo toccante e divertente, adrenalinico e profondo. La sceneggiatura si muove con sicurezza in direzioni inaspettate, senza paura di disattendere le aspettative di un pubblico abituato a canoni di genere piuttosto rigorosi. Ogni personaggio è descritto e tratteggiato con attenzione: ha uno spessore, un passato tragico grazie al quale ha sviluppato particolari sensibilità e idiosincrasie con derive patologiche. Per questa variopinta galleria umana, Jensen sceglie un cast di grande qualità, composto da attori particolarmente noti in madrepatria e, nel caso del protagonista Markus (Mads Mikkelsen), a livello internazionale. Con continui riferimenti a statistiche, probabilità e causalità, Riders of Justice mette in scena l’eterna battaglia tra destino e libero arbitrio, cerca di eliminare l’aleatorio per trovare, attraverso elaborate teorie matematiche, le ragioni di un accadimento, il “perché” che sempre attanaglia chi è colpito da una tragedia. Ma caso, coincidenze, eventi imprevedibili e inspiegabili fanno capolino, mandando all’aria ogni piano di razionalizzazione della vita.

Self Made USA, 2020 GENERE: drammatico, biografico CAST: Octavia Spencer, Tiffany Haddish, Carmen Ejogo, Garrett Morris EPISODI: 4 (45’ ognuno) True Story USA, 2021 GENERE: drammatico, commedia CAST: Kevin Hart, Wesley Snipes, Tawny Newsome, Paul Adelstein EPISODI: 7 (da 58’ a 35’ ognuno)

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DOPPIO AMERICAN DREAM

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

LIP – LOST IN PROJECTON

DANIMARCA, 2020 REGIA: Anders Thomas Jensen GENERE: azione, thriller, commedia, dramma SCENEGGIATURA: Anders Thomas Jensen, Nikolaj Arcel CAST: Mads Mikkelsen, Nikolaj Lie Kaas, Lars Brygmann, Nicolas Bro, Andrea Heick Gadeberg DURATA: 116’

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L CATTELAN INTERVISTA VEZZOLI L

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MAURIZIO CATTELAN INTERVISTA FRANCESCO VEZZOLI Q

uella in copertina questo mese è un’opera di Maurizio Cattelan, realizzata ad hoc per Artribune Magazine. Fino al 20 febbraio è visitabile la sua grande mostra in Pirelli HangarBicocca a Milano, intitolata Breath Ghosts Blind. Ve l’abbiamo raccontata più volte, anche con un’esclusiva intervista allo stesso Cattelan. Che però spesso e volentieri passa dall’altra parte del microfono, e da intervistato diventa intervistatore. Proprio in concomitanza con la mostra milanese, Marsilio e Pirelli HangarBicocca hanno infatti pubblicato il libro Index, che raccoglie tutte le conversazioni che vedono l’artista padovano in qualità di chi fa le domande. Ad esempio a Francesco Vezzoli, in una intervista uscita nel 2014 su Flash Art International (grazie per aver autorizzato la ripubblicazione!) e che riproduciamo qui, tradotta in italiano. Quell’intervista, però, è seguita da una “seconda puntata”, inedita come la copertina di questo numero. Buona lettura. (Marco Enrico Giacomelli) Se fossi una delle tue opere, saresti... Se fossi una delle mie opere, sarei la prossima. Ricordo a malapena i titoli dei miei lavori. Mi è difficile persino ricordarne la data, a quali collezioni, pubbliche o private, appartengano e anche il prezzo a cui siano state vendute. Sono molto distaccato dalle “opere” che sono là fuori; e in un certo senso è un po’ colpa mia. Per me esiste solo “un’opera”, che non è necessariamente un’opera d’arte, ed è la mia vita. Quindi posso solo proiettarmi nel futuro, nel prossimo progetto, quello che allevierà tutto il dolore e renderà la mia vita più leggera. Se fossi un vecchio film, saresti... Sarei un film italiano che ha

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avuto una vita travagliata sul mercato americano. Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, a cui furono tagliati 40 minuti e che, ovviamente, finì per essere un terribile flop; Ludwig (1973) di Visconti, che ha subito più o meno la stessa sorte avversa… Per non parlare di quanto sia stato difficile per Sergio Leone ultimare C’era una volta in America (1984) o le lotte tra Bernardo Bertolucci e Barry Diller per i tagli alla versione americana di Novecento (1976). Ogni volta che un regista italiano ha provato a realizzare un film davvero epico sulla storia del proprio paese, per qualche misteriosa ragione è finita in un terribile fallimento. Io stesso mi sento un fallimento epico. Se fossi un paio di scarpe, saresti… Nike di Samotracia, comode e sempre alla moda. Se fossi un’opera di Rossini, saresti… Sarei Maria Callas che canta l’aria “Una voce poco fa” dal Barbiere di Siviglia (1782), durante il concerto di Amburgo del 1959: “Una voce poco fa / Qui nel cor mi risuonò / Il mio cor ferito è già”. Se fossi un locale notturno, saresti…

Quando ero studente a Londra ero un assiduo frequentatore di discoteche e passavo ogni singola notte fuori, ballando fino alle prime ore del mattino. La club culture allora era molto diversa: la totale assenza di social media rendeva l’andare in giro per discoteche una necessità per fare sesso, e questo valeva ugualmente per gay o etero. Quei locali erano sporchi, densi di emozioni, intensi, ambiziosi… Riesco a ritrovare tutte queste qualità in una sola discoteca al mondo: il Plastic di Milano. La qualità più importante per un nightclub è la musica, e la selezione del Plastic è semplicemente perfetta per me: un mix tra gli LP più recenti e la musica pop più nostalgica e romantica degli anni Settanta e Ottanta: è come una sinfonia d’amore, che mi fa andare avanti e mi fa sentire meno solo. Se fossi tua madre, saresti… Se fossi mia madre sarei molto amata da mio figlio. Amo mia madre profondamente e con tutto il cuore. Mi sento incredibilmente protettivo nei suoi confronti e vorrei poter alleviare il dolore che prova e darle tutto ciò che desidera. Purtroppo a volte sente un dolore che, per quanto mi sforzi, non riesco ad attenuare; e la gamma dei suoi

desideri è piuttosto modesta: la maggior parte delle cose che le regalo per lei è troppo stravagante o non necessaria. In qualche modo, nel profondo, spero che le piaccia la mia vacuità. Lei, con le mie due nonne, mi ha dato una notevole quantità di amore e comprensione. Non la ringrazierò mai abbastanza per questo, ma non la perdonerò nemmeno: mi ha abituato a uno standard di attenzione emotiva che fatico a trovare negli esseri umani di cui finisco per innamorarmi. Immagino che dovrebbe essere ritenuta colpevole per il mio egocentrismo, poiché sto solo cercando di recuperare tutto l’amore che ero abituato a ricevere da lei quando ero bambino. Se fossi cieco, saresti… Recentemente, su un social network, ho iniziato a chattare con una persona cieca. È uno di quei social che le persone usano per incontrarsi e soprattutto per fare sesso. La foto era abbastanza attraente, e mentre chiacchieravo con lui ho iniziato inevitabilmente a fantasticare su tutte le cose più ovvie. Ma quando mi ha rivelato il suo handicap mi sono improvvisamente bloccato. Ho iniziato a parlare e a chiacchierare in maniera più educata, tradendo un leggero imbarazzo. Ovviamente se n’è accorto e quindi ho dovuto decidere molto velocemente se il suo handicap potesse essere un ostacolo all’onestà del mio desiderio. Ho deciso che non lo era, e così ho continuato a chattare con lui e a dirgli cose sconce con la stessa naturalezza con cui lo avrei fatto con qualsiasi altro utente. E mi sono divertito. Come accade il novantanove per cento delle volte, la chat non ha portato a un incontro reale. Questo, però, non ha nulla a che fare con il suo handicap, ma con la natura di questi incontri casuali e decisamente immateriali. Quindi la mia risposta alla tua domanda è la seguente: se fossi cieco sarei arrapato tanto quanto lo sono adesso mentre digito questa intervista surreale indossando gli occhiali. Se fossi una perversione, saresti… Quando, alcuni anni fa, stavo


Se fossi un amore, saresti… Sarei “l’Amore che non osa dire il suo nome”. Se fossi un criminale, saresti… Un ladro di gioielli: mi imbarazza troppo comprarli e comunque non sono abbastanza ricco. Se fossi una canzone di David Bowie, saresti… Sarei l’unica volta che una grande rockstar internazionale come Bowie ha accettato di cantare nella mia lingua madre. Per la precisione: ha registrato la versione italiana della sua canzone Space Oddity (1969) e ha fatto riscrivere i testi da un paroliere italiano. Il titolo è Ragazzo solo, ragazza sola. È davvero straziante ascoltare la voce di Bowie alle prese con le parole… Ed è ancora più straziante che ciò sia accaduto solo una volta nella storia della musica pop italiana del dopoguerra. Se fossi un anno, saresti… L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, con Giorgio Albertazzi. Se fossi una forma di tortura mentale, saresti… Documenta. Se fossi una rivista porno, saresti… Men’s Health, che è porno allo stato puro! Se fossi un profumo, saresti… Sarei il profumo che indosso

sempre in abbondanza: Ritratto di signora di Frédéric Malle.

La pettinatura di Rita Levi Montalcini.

Se fossi una cosa folle da fare, saresti… Penso proprio che sarei me stesso: ho fatto tante cose folli e inutili nella mia vita privata, ma non me ne pento affatto.

Se fossi un procuratore di calcio, saresti... Sarei pessimo perché sceglierei i calciatori bonazzi e non quelli bravi, I’m “weak in the presence of beauty” (Alison Moyet).

Se recitassi in Jesus Christ Superstar (1970), saresti… Madonna.

Se fossi un taboo, saresti... Il nightclub londinese creato da Leigh Bowery.

Se fossi un peccato, saresti… L’ingordigia, perché non considero affatto la lussuria un peccato.

Se fossi una stagione dell’amore, saresti... Quella che viene e non quella che va.

Se fossi un consiglio, saresti… Per favore, non accettare mai un’intervista con Maurizio Cattelan: ti prosciuga il cervello.

Se fossi una città del futuro, saresti... Roma caput mundi.

Se fossi me, saresti… Se fossi Maurizio Cattelan sarei più famoso di Francesco Vezzoli. [Maurizio Cattelan, Ritratto dell’artista come giovane lavatrice: Francesco Vezzoli visto come se fosse..., in Flash Art International, n. 297, July-September 2014, pp. 82-89; poi pubblicata in Index, Pirelli HangarBicocca-Marsilio, Milano-Venezia 2021, p. 258]

Se fossi una pianta, saresti... Un pino marittimo perché stanno vicino alla spiaggia. Se fossi un virus, saresti... Language is a virus di Laurie Anderson. Se fossi un gatto, saresti... Decisamente Garfield. Se fossi un’architettura di Zaha Hadid, saresti... La fire station così faccio amicizia coi pompieri. Se fossi un monumento, saresti... L’Ara Pacis – senza la teca di Richard Meier e tutta ridipinta nei colori originali, sgargiante come un foulard di Hermès. Se fossi un marxista, saresti... Donald Trump. Se fossi un chirurgo plastico, saresti... Alfonso Signorini. Se fossi uno scienziato, saresti...

Se fossi un collezionista, saresti... La famiglia Torlonia tutta. Se fossi Bettino Craxi, saresti... Deluso dai miei nani, dalle mie ballerine e anche dai miei delfini. Se fossi il direttore di Sanremo, saresti... Mark Ronson. Se fossi una prigione, saresti... Vorrei esser l’Asinara – senza ironie – solo perché vicina alle spiagge più belle del mondo. Se fossi la fidanzata di Boris Johnson, saresti... Disperata. Se fossi una macchina, saresti... Una macchina da scrivere disegnata da Ettore Sottsass.

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L CATTELAN INTERVISTA VEZZOLI L

Se fossi un politico, saresti… Se fossi un politico non sarei mai Dominique Strauss-Kahn. Ho vissuto una parte così grande della mia vita in hotel che non mancherei mai di rispetto a nessuna delle persone che lavorano in questi luoghi, che per me sono come case temporanee. In effetti, non ho mai scopato con un cameriere o un portiere di nessuno degli hotel in cui sono stato – e, fidati, alcuni di loro erano decisamente sexy. Non sarei mai neppure Bill Clinton. Non c’è niente di più deprimente che approfittare del tuo grande potere per ottenere un pompino. In un modo o nell’al-

tro, il sesso è sexy se la persona di fronte a te ha qualche potere su di te. Non trovo sexy trarre vantaggio sessuale da persone che lavorano per me o che mi ammirano o sono innamorate di me. (Per quanto ne so, nessuno appartiene comunque a queste ultime categorie.) Non sarei mai nemmeno François Hollande: è troppo incasinato. Temo che, nonostante le mie convinzioni politiche, se fossi un politico sarei Nicolas Sarkozy o Silvio Berlusconi: sposerei il tipo più famoso e bello del mondo al culmine della sua bellezza e mi circonderei di squillo sempre pronti a soddisfare tutti i miei desideri in qualsiasi momento di ogni giorno. Ecco perché non sarò mai un politico.

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cercando di creare una versione contemporanea dei Kinsey Reports per la Fondazione Prada, ho incontrato alcuni esperti molto stimati sui temi della sessualità e del feticismo. E, proprio come sospettavo, hanno confermato la mia sensazione che il fiorire dei social network ha cambiato radicalmente il nostro approccio alla sessualità. In passato, un uomo o una donna, etero, gay, lesbica o transgender, riusciva molto raramente a trovare una vera corrispondenza delle sue fantasie sessuali più specifiche. Principalmente perché queste erano considerate questioni piuttosto imbarazzanti, anche all’interno dei confini di una relazione abbastanza consolidata. Al giorno d’oggi, qualunque sia la tua perversione, comunque sia strutturata la sequenza di atti che ti sono necessari per raggiungere un orgasmo pienamente soddisfacente, qualunque cosa sia, di qualunque luogo si tratti, non importa: puoi star certo che esiste un sito web dove persone che condividono le stesse fantasie possono soddisfarle e renderle reali. Tutto ciò ha reso la monogamia un affare molto più complesso e la pornografia online molto più redditizia. Personalmente non ho una perversione specifica. Credo che un feticismo eccessivo possa portare infelicità: più aperta è la tua sessualità, maggiori sono le tue possibilità di avere fortuna. Come disse una volta Karl Kraus: “Non esiste sotto il sole essere più infelice di un feticista che si strugge per uno stivale e deve accontentarsi di una donna intera”.

Se fossi uno scrittore, saresti... Marziale. Se fossi una pizza venuta male, saresti... Un NFT. Se fossi te stesso, saresti… Meno famoso di quello che vorrei. Se fossi un baffo di Salvador Dalí, saresti... Cotonato. Se fossi un incubo, saresti... La fine del desiderio.

[Maurizio Cattelan, Intervista a Francesco Vezzoli, 2021]

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LA CAPITALE DELLA È IN LUSSEMBURGO ED È UNA PICCOLA E GIULIA GIAUME [ storica e giornalista ]

I programmi della cittadina lussemburghese Esch-sur-Alzette, capofila di altre diciotto municipalità nella valle al centro dell’Europa, vanno a creare un punto di riferimento culturale e territoriale per gli anni a venire. Mentre il programma di quest'anno, in collaborazione con le altre Capitali della cultura, la serba Novi Sad e la lituana Kaunas, prendono corpo. Ecco il nostro reportage dal Lussemburgo che parla sette lingue.

Belval, Esch-sur-Alzette

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CULTURA 2022

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INDUSTRIA E CULTURA A BELVAL

Il centro storico di Esch, piccolo ma curatissimo, è sormontato da due grandi torri, nerissime e drammatiche: eccolo il segno di quella storia industriale che ha permesso il rapido sviluppo di una valle altrimenti agricola e pastorale, diventato oggi la traccia di un passato fatto di carbone e metallo, di un sacrificio umano, di un avanzamento tecnologico. Le torri si stagliano in pieno Sturm und Drang – non deve sorprendere che la città ospiti la Steampunk Convention – sull’area di Belval, l’antico centro industriale della città. Qui, dopo decenni di quiete, il ritmo di costruzione e innovazione è tornato frenetico. Non c’è tempo da perdere: non capita tutti i giorni di essere scelta come Capitale europea della cultura. Data la complessità territoriale dell’area e la potenzialità comunitaria dei paesi della valle, la piccola Esch non è da sola a tenere questo titolo, ma fa da portabandiera per altre diciotto municipalità a cavallo tra il Lussemburgo del sud e la regione del Grand Est, in Francia, includendo circa 200mila abitanti su una superficie di 260 kmq. Poco più dell’area di Genova. Dei circa 160 progetti in cantiere per Esch2022, questo il nome del programma, quasi la metà ha una prospettiva internazionale, circa il

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C

' è una valle, nel cuore dell’Europa, che incarna il sogno dei fondatori dell’Unione. Le basse colline circondano il fiume Alzette che, secoli dopo averle scolpite, dà ancora loro il nome; si chiudono intorno a un pugno di paesi che ignorano le frontiere, parlano tante lingue diverse e, pur mantenendo un briciolo di orgoglio nazionale, non possono che riconoscere nel proprio numero e nella reciproca alleanza una forza nota solo alle grandi città. Le cittadine che popolano la valle dell’Alzette guardano a un centro, sopra tutti, per decenni riferimento della produzione industriale e oggi sull’orlo di una rivoluzione identitaria: Esch-sur-Alzette, periferia meridionale del Granducato di Lussemburgo e secondo centro per dimensioni nella piccola nazione europea.

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UROPA

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20% è organizzato in collaborazione con le altre due Capitali europee della cultura – Kaunas, in Lituania, e Novi Sad, in Serbia –, più o meno la stessa percentuale delle iniziative da parte francese. “Il progetto è internazionale e multiculturale, con la Francia abbiamo un sentiero e un destino comune”, spiega Nancy Braun, direttrice di Esch2022, che aggiunge come siano anche “in partnership con Lituania e Serbia”. Tutti gli attori coinvolti puntano a un unico obiettivo: creare cultura là dove non ce n’è.

Fino a pochi anni fa, la città non aveva mai sviluppato un’identità culturale indipendente.

Amsterdam

L’Aia

PAESI BAS

Rotterdam

Bruges Calais

Dunkirk

Gand

BELGIO

Bruxelles

Lie

LA FINE DEL PENDOLARISMO?

È di una brutale onestà lo statement che ha portato all’ottenimento del titolo dopo una lunga selezione: Esch ha sempre avuto una vocazione mineraria – ne sanno qualcosa gli italiani, emigrati in massa insieme ai portoghesi per estrarre il carbone dalle montagne della red soil region – e industriale, oggi ereditata da uno stabilimento dell’Arcelor Mittal. Confinata nella sua unica valenza e nella posizione periferica, la città non ha mai sviluppato un’identità culturale indipendente e non è mai stata oggetto delle attenzioni della corona prima degli ultimi anni. Siamo onesti: voi avreste investito per promuovere un’area che di notte perde, ancora oggi, l’equivalente di un terzo dei suoi abitanti? 200mila transfrontalieri entrano ogni giorno nel Paese di circa 600mila abitanti – anche per questo i trasporti sono completamente gratuiti – e lo abbandonano la sera, motivo per cui i locali e le attività commerciali sono relativamente pochi e i treni in partenza molti. Le cose, però, stanno cambiando. Se in epoca industriale al sud del Paese era richiesto solo di fornire acciaio al nord per renderlo competitivo, oggi la valle è finalmente pronta ad accogliere terziario e turismo, e soprattutto a trattenere i giovani pendolari della zona, vantando gli asset lussemburghesi derivati dallo status di paradiso fiscale: stipendi alti, tasso di occupazione sopra la media europea – qui sono molte le grandi aziende digital – e una buona qualità della vita.

Amiens

Reims

Parigi

FRANCIA Troyes

Orléans


UN UNICUM EUROPEO

2 Paesi 19 municipalità 200.000 abitanti 260 kmq territorio

SSI

Essen Düsseldorlf

Colonia Aquisgrana

50%

del programma per pubblici giovani

Bonn

egi

Le collaborazioni territoriali tra le diverse amministrazioni, centri culturali e produttivi vogliono portare a un piano di sviluppo ultradecennale.

27%

del programma in collaborazione con Kaunas e Novi Sad Francoforte sul Meno %

50

del programma ha una dimensione europea

Lussemburgo

GERMANIA

ESCH

Stoccarda Nancy Strasburgo

Basilea

SVIZZERA Zurigo

Il 49% degli abitanti del Paese è di provenienza esterna, la capitale è la città con più nazionalità in Europa: è in questo ricchissimo contesto che Esch2022 si propone di “ospitare la cultura in ogni sua manifestazione”, spiega la ministra della Cultura del Granducato Sam Tanson. L’obiettivo è quello di far fruttare in termini di creazione e innovazione la ricchezza trans-settoriale e trans-frontaliera di cui ha sempre goduto e da cui dipende ancora oggi il territorio, andando a convertire il know how locale e l’anima “Erasmus” dell’area in forza motrice attrattiva per la popolazione locale e la sua auspicabile prole, oltre che per il turismo, sebbene “questo non sia un progetto turistico, anche se ci saranno ottime ripercussioni, ma culturale”, dicono gli organizzatori. È per coloro che devono scegliere dove mettere su famiglia, dove investire nel mercato immobiliare e pagare le tasse, che nella città fioccano le esposizioni museali ad hoc e i progetti tarati su un modello familiare, come il nascituro Teatro per Bambini di Esch, al pari delle grandi città europee. Questo è lo scenario a lungo termine previsto per il progetto: le collaborazioni territoriali tra le diverse amministrazioni, centri culturali e produttivi vogliono portare a un piano di sviluppo ultradecennale, sempre nel segno della sostenibilità e dell’apertura. “È questo progetto di rifondazione ad aver garantito la vittoria”, dicono gli organizzatori di Esch2022, che ne hanno presentato il programma nella nuovissima struttura per concerti Rockhall, un palazzo con palco, bar e sala conferenze sulla neonata avenue du

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31 dipendenti +400 volontari +160 progetti 2000 eventi

Dortmund

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ESCH2022 IN CIFRE

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A Esch, una città che è liminale in ogni suo aspetto, si parlano sette lingue: il francese, il lussemburghese – un ex dialetto dalla radice germanica e lessico francese che sta assurgendo al ruolo di lingua dopo secoli di soppressione (con grande orgoglio degli abitanti del Paese, oggi viene insegnato a scuola) –, l’inglese, il tedesco, il portoghese, lo spagnolo e l’italiano, dato che gli abitanti di origine italiana sono circa il 6%.

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ESCH CENTRO PER LA STREET ART

La città, ne sono consapevoli gli organizzatori, deve il suo maggiore fascino alla brutale archeologia industriale: vetro, acciaio e mattoni sono la trama stessa della vita, a Belval. Qui dal 1909 la foresta ha iniziato a scomparire a favore della nuova fabbrica. Dopotutto, questo era il motivo stesso dell’esistenza di Esch. Oggi non restano che due altiforni – anche se solo il cosiddetto “Altoforno A” è visitabile, dato che il B è privo di qualunque struttura accessoria per poterne osservare l’aspetto originale – da cui si riesce a vedere gran parte della città, la nuova sede dell’unico ateneo del Paese, la banca del Canada. Qui si può ascoltare la storia della città dalle guide, che portano i visitatori davanti alla bocca del forno – dove saranno suggestivamente ambientati alcuni spettacoli di danza – e alla terrazza a 80 metri da

in alto: La sede del Kulturfabrik a sinistra: L’area industriale di Belval. Photo © Giulia Giaume

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UNA VALLE NON PIÙ NASCOSTA

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Rock and Roll (anche i nomi delle strade, qui, vogliono attirare ragazze e ragazzi). La capacità di interagire positivamente a livello transnazionale ha inciso fortemente sulla scelta dei giudici: è in fondo questo ciò che si auspica per ottenere una sempre maggiore sinergia continentale, un ambiente miscellaneo al punto da spingere i suoi abitanti a legarsi a una terra, piuttosto che a una bandiera. Certo, il vessillo a Esch è quello dei granduchi lussemburghesi, molto amati dalla popolazione perché “persone semplici”, dicono i cittadini, e in particolare della granduchessa Maria Teresa, fortemente coinvolta nella candidatura avanzata nel 2017.

Grazie al progetto Urban Art Esch di Kufa, organizzato dal centro culturale Kulturfabrik e dalla città, Eschsur-Alzette ha più di cinquanta opere di arte urbana su edifici e beni pubblici. Alcune sono visibili dalle arterie principali della città – un esempio è il progetto legato alle “anime” dell’Alzette, il fiume che passa, interrato, sotto il centro storico per via del grande inquinamento industriale del secolo scorso – mentre altri vanno scoperti sotto gli archi della ferrovia o sui muri delle scuole. Questi murales spaziano dai disegni degli artisti-celebrity, come Libero Emancipated Art del popolarissimo Sumo, che celebra le origini squat del centro culturale, alle dichiarazioni sociopolitiche, come le critiche alla speculazione fiscale a discapito delle politiche locali nel cuore del Kulturfabrik; raccontano le diverse anime della città, come quello della giovane donna che legge dell’artista lorenese Mantra, segno del legame della città con la letteratura, senza dimenticare l’opera sulla stazione degli autobus Boa Mistura con il motto “Vers la terre des pourquoi” (“Verso la terra dei perché”). La maggior parte delle opere è proprio all’interno dell’ex mattatoio Kulturfabrik e realizzata tra il 2014 e il 2018: al bar, Franco ha creato strani personaggi dei cartoni animati in bianco e nero, nella sala principale Eric Mangen ha usato spray, gessetti, colle e vernice per il suo Ipso Facto, raccogliendo i “nasconditi in bella vista”, “resta fuori dalla legge” e “motti cosmopoetico”, ma è del collettivo artistico Dott Porka l’opera street più interessante: lo stencil di un uomo con occhiali scuri, trench e valigetta, con le parole “Love Banks, Hate Common People”. E poi ancora uno dei primissimi murales, i triangoli colorati di Cheko’s Art, fondatore di Street Art Southern Italy, con il volto dell’attore e cantante lussemburghese Thierry van Werveke, e l’omaggio allo scrittore di fantascienza polacco Stanislav Lem del graphic designer Sepe e dell’architetto Chazme, una critica che colpisce sia il capitalismo sia i regimi totalitari. Ma la città intera si è prestata volentieri a queste opere, affettuosamente chiamate “frescos” (“affreschi”) dal team del Kulturfabrik e dai cittadini che, anche in assenza di una effettiva tradizione culturale, vedono nella street art un personale Rinascimento. Si affrontano così anche temi sociali di primo piano, come la fenice dell’artista valenciana Julieta XLF sul centro di riabilitazione dalla tossicodipendenza FixerStuff o le quattro persone di diversa etnia che cucinano dell’opera di Helen Bur, Vivere insieme.

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KAUNAS E NOVI SAD: LE COMPAGNE PER QUESTO 2022 Insieme a Esch, sono le città di Kaunas, in Lituania, e di Novi Sad, in Serbia, ad aver vinto il titolo di quest’anno. La prima, cittadina nel cuore della repubblica baltica e luogo di nascita di Fluxus – il movimento artistico creato da George Maciunas –, si è posta come obiettivo (a dirlo sono gli stessi organizzatori, video-collegati con l’inaugurazione di Esch) quello di “svegliare la città che dorme e non attrae”. La narrazione vuole portare gli abitanti fuori dalla comfort zone, dicono: per questo Kaunas – Capitale europea della cultura 2022 prevede oltre 1.000 eventi, con più di 40 festival, 60 mostre – con nomi come William Kentridge, Marina Abramović, Yoko Ono, Robert Wilson e Mirga Gražinytė-Tyla –, 250 spettacoli di arti performative (di cui più di 50 sono anteprime) e circa 250 concerti. A dodici anni dall’ultima vittoria lituana del titolo di Capitale europea della cultura, la città e il distretto di Kaunas si preparano ad avvicinare quante più persone possibile alla cultura stessa. Il progetto vuole essere educativo, ma anche sociale: la narrazione The Mythical Beast of Kaunas si svilupperà in una grande trilogia mitica composta da Confusion, Confluence e Contract, incorporando le idee di personalità storiche della città come Maciunas ed Emmanuel Lévinas e coinvolgendo artisti locali e internazionali. Anche la serba Novi Sad – situata a nord della capitale Belgrado, non distante dal confine con la Croazia – spera in una pedana di maggiore notorietà per la città, proponendo il rinnovamento delle strutture culturali urbane e dell’area circostante e creando occasioni di vetrina internazionale per gli artisti locali. Novi Sad vanta a sua volta il recupero di strutture ex industriali come la stazione culturale di Svilara, ma anche di edifici storici di pregio, come la fortezza di Petrovaradin e il castello di Egység. Il programma è dedicato simbolicamente ai quattro ponti della città – Love Bridge, Freedom Bridge, Hope Bridge e Rainbow Bridge –, che permettono ai visitatori di

terra: l’acciaio è stato il pilastro dell’economia del Lussemburgo fino agli Anni Sessanta compresi, che è anche lo stesso periodo in cui le sei torri originali sono state sostituite da tre più performanti. Il terzo altoforno – il C – non è che un reperto di archeologia industriale, ne restano le fondamenta brutaliste che ospiteranno concerti e performance (inclusa quella di Cecilia Bengolea). La capacità trasformativa dello stabilimento era tale da consumare completamente le risorse locali e portare a una massiccia importazione dal Sud America, soprattutto dal Brasile. Nella centrale il ferro veniva trasformato, il metallo fuso portato fuori dagli altiforni per essere processato in una più ampia centrale: tutto era gestito dalla Arbed, la compagnia lussemburghese nata nel 1911 e che sarebbe diventata, molti scorpori e fusioni più tardi, l’Arcelor Mittal. Questo nome non può che far sorgere una domanda, soprattutto in noi italiani: come fa oggi la città ad avere un rapporto così pacifico con le sue vecchie strutture? “La decontaminazione è stata possibile in molte aree, non tutte”, dice a mezza voce la guida, incrinando l’amore di Belval e di Esch per l’imponente struttura, origine della

KAUNAS

Vilnius

NOVI SAD Belgrado

comprendere il contesto sociale della città, la sua eredità e creatività contemporanea e allo stesso tempo di dare maggiore visibilità a eventi (come il famoso festival musicale estivo) e persone. I due archi narrativi lungo cui si snoda la programmazione, Kaleidoscopic Culture e Doček, celebrano il multiculturalismo della città – anche in questo caso, un fattore vincente per il titolo europeo – e la riattivazione di spazi culturali da mettere a disposizione della popolazione, con un occhio per l’eredità della celebrazione una volta conclusa.

ricchezza dell’area. “Alcuni sono ancora inaccessibili o inabitabili”. Oggi le fornaci sono elettriche, nello stabilimento alla fine dell’avenue du Rock and Roll, e gli operai sono un centinaio: niente di quello che viene processato è più estratto e tutto è recuperato dagli “scraps”, i rifiuti metallici. Anche per questo il vecchio centro minerario della valle di Fond De Gras, una verdissima riserva boschiva, è diventato un’attrazione turistica industriale. Il Minett Park, uno dei percorsi didattico-turistici di una regione mineraria che vanta più di venti siti estrattivi, è oggi un gioiello museale in via di sempre maggiore recupero. Qui i vecchi treni minerari mostrano gli avanzamenti tecnologici che hanno posto il Paese “sulla mappa”, ma anche la vita dei minatori del tempo: questi erano pagati a peso della roccia ferrosa estratta, con il risultato che tantissimo lavoro restava non pagato – come lo spostamento di persone e materiali, il posizionamento in sicurezza della roccia ecc. –, cosa che è cambiata solo negli Anni Trenta. Un problema che ci riguarda da vicino: quelli a essere sfruttati mentre cercavano fortuna erano proprio gli italiani (insieme a portoghesi, tedeschi e polacchi). Sono conservati nel Minett Park – a margine


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VECCHI EDIFICI E NUOVE FUNZIONI

Ma torniamo alla nostra fornace. Chiusa a partire dagli Anni Novanta, con un’ultima stagione produttiva nel 1997, la città ha iniziato a spopolarsi: tutti sono fuggiti per cercare lavoro, il Sud del Paese chiedeva più che mai attenzione. Il piccolo Stato si apre all’esterno, arrivano le banche, all’inizio degli Anni Zero arriva una sede universitaria. Per i 43mila abitanti di Esch, però, i centri dello sviluppo saranno sempre di più quelli culturali: la menzionata Rockhall di Belval, che ospiterà un concerto open air dei Black Eyed Peas il prossimo giugno; il Batiment 4 della vecchia acciaieria, che diventerà un luogo di incontro e sperimentazione collettiva come da progetto di recupero dell’Opera Nazionale della granduchessa; la

Bridderhouse, un tempo il primo ospedale del territorio, ora destinata a diventare residenza d’artista e centro culturale; la Konschthal, il centro esposizioni che fungerà da epicentro della cultura della regione; il Teatro, con la nuova direttrice Carol Laurent; il Teatro per soli bambini e ragazzi creato dal vecchio cinema Ariston; infine, il Museo della Resistenza della Seconda Guerra Mondiale, creato negli Anni Sessanta e in fase di grande ampliamento come museo dei diritti umani e dell’immigrazione. Gli interventi sono tanti e destinati a durare e arricchire permanentemente la vita della città. Tanti anche gli investimenti: per il futuro di Esch sono stati messi in campo 130 milioni di euro, 35 solo per acquisire e restaurare i palazzi – una cifra considerevole, vista l’assenza di sponsor ufficiali: si tratta di soldi raccolti dall’amministrazione – ma gli organizzatori non sono preoccupati: “Il ritorno degli investimenti è stato calcolato come quattro volte maggiore dei soldi spesi, perché teniamo conto degli effetti a lungo termine”, dice il presidente di Esch2022 Georges Mischo. Gli investimenti, spiegano tutti i membri del team, hanno dovuto superare una serie di requisiti. Il primo è quello della sostenibilità: per questo tutti i nuovi edifici,

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Le strutture sostenibili per la Capitale della cultura. Photo © Emile Hengen

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del quale sono sorti, in un piccolo spiazzo tra le conifere, un polo informazioni e un ristorante – due treni originali turistici, una locomotiva che diventerà un mini-albergo di lusso, una stazione ferroviaria per il trasporto del ferro (in condizioni perfette, con tanto di orari dei treni affissi al muro) e una centrale elettrica completamente restaurata, che ospiterà mostre e piccoli concerti.

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LE CAPITALI DELLA CULTURA L’iniziativa della Capitale europea della cultura – nata nel 1985 su suggerimento degli allora ministri della Cultura della Grecia, Melina Merkourī, e della Francia, Jack Lang – va a designare una (o più) città del continente perché esponga la propria storia e presenti un piano di sviluppo culturale. Più di quaranta città hanno già avuto la loro occasione. Sono premiati i progetti che vantano una forte dimensione comunitaria, che prevedano una rigenerazione del tessuto urbano e sociale. Ecco le città che negli ultimi dieci anni – consideriamo insieme il 2020 e il 2021, dal momento che per motivi sanitari nell’ultimo anno non è stato nominato alcun vincitore e le capitali scelte per il 2020 hanno avuto la possibilità di prolungare il titolo di qualche mese – hanno ottenuto l’ambito titolo rilanciando la propria visibilità a livello internazionale. 1 2020/2021: Rijeka (Croazia), Galway (Irlanda) 2 2019: Matera (Italia), Plovdiv (Bulgaria) 3 2018 Leeuwarden (Paesi Bassi), La Valletta (Malta) 4 2017: Aarhus (Danimarca), Pafo (Cipro) 5 2016: San Sebastián (Spagna), Breslavia (Polonia) 6 2015: Mons (Belgio), Plzen (Repubblica Ceca) 7 2014: Umeao (Svezia), Riga (Lettonia) 8 2013: Marsiglia (Francia), Kosice (Slovacchia) 9 2012: Guimarães (Portogallo), Maribor (Slovenia) 10 2011: Turku (Finlandia), Tallinn (Estonia) 11 2010: Essen (Germania), Pécs (Ungheria), Istanbul (Turchia)

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REMIX: UN NOME UN PROGRAMMA

26 febbraio

REMIX

Cerimonia di apertura del programma

5-6 marzo

FIRE FESTIVAL

A Käerjeng le sculture vengono create e bruciate

18-20 marzo

SALON DES SAVEURS

Tutta la gastronomia della regione

Date da definire

CECILIA BENGOLEA

Performance fra arte e danza

BLOOM

Progetto del gruppo francese KompleXKapharnaüm

ESCAPE ROOM SDG 12

Progetto sul consumo sostenibile

DEIMANTAS NARKEVIČIUS

Mostra personale dell’artista lituano alla Konschthal

SINESTESIA

Il trio jazz Reis-Demuth-Wiltgen con il videoartista Emile V. Schlesser

WHERE IS THE COOL

Festival al centro per le arti indipendenti Kulturfabrik

SL’ESCH

Commedia musicale sulla storia della città

Legenda [inaugurazione] [arte] [performing arts] [gastronomia] [tecnologia] [musica] [ecologia]

è una prima preoccupazione per Esch, che deve dimostrare all’Europa intera la sua entrata in scena come interlocutore. Saranno 310 le performance, 141 i concerti, 137 le mostre, 32 i festival – dalla musica alla letteratura all’arte, fino all’antichissimo Festival del fuoco – e 360 i workshop: è questo il cuore del programma, qui si proporranno incontri che, attraverso la tecnologia, offrano visioni e soluzioni alternative per il futuro. Grazie a open call locali si troveranno le nuove voci della valle e del Lussemburgo, che verranno spinte e promosse a livello internazionale grazie agli eventi, il cui scopo sarà anche quello di portare talenti esterni all’interno del Paese.

Tutta la mobilità aggiuntiva prevista per la celebrazione sarà a energia pulita, promuovendo un turismo lento. Remix ha anche comportato il coinvolgimento di associazioni, aziende e della comunità intera: sono centinaia i volontari – i cosiddetti remixer – che parteciperanno al palinsesto, creandolo da zero e sviluppando le skill organizzative e gestionali che tanto piacciono all’Europa. “La comune preoccupazione è quella di coinvolgere le persone, dato che il programma stesso si basa sulla partecipazione attiva”, spiegano i rappresentanti di Esch2022, definendo il progetto con il motto (molto Anni Novanta) “delle persone e per le persone”. “Siamo convinti che questo sia l’unico modo per promuovere senso di appartenenza, e quindi sviluppo sostenibile. Vogliamo che gli abitanti della regione facciano parte del programma, offrendo loro un’opportunità unica per contribuire a plasmare il futuro”.

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L STORIES L CAPITALI DELLA CULTURA L

Tanto piccoli i centri, tanto grande il progetto: in cantiere ci sono 2mila eventi. Con l’aiuto di FRESCH, associazione nata per implementare una strategia culturale nella città, Esch ha sviluppato una fitta pianificazione che attraversa tutte le tematiche di maggiore importanza per la promozione dell’area. “Il programma”, racconta Françoise Poos, direttrice del palinsesto culturale di Esch2022, “è stato sviluppato negli ultimi due anni per passare da una società industriale a una società della cultura e della conoscenza. Vogliamo discutere le nozioni di identità nell’era digitale, la diversità come valore culturale chiave europeo e la comprensione reciproca”. Sotto il titolo Remix Culture, in apertura il 26 febbraio, sono stati sviluppati quattro sottotemi, che vanno a individuarne gli obiettivi chiave: Remix Europe pone al centro i valori fondamentali dell’Europa proponendone una visione rinnovata e moderna, superando il discusso concetto di confine politico e distruggendone gli stereotipi. “Vogliamo essere una nuova Bauhaus”, racconta Poos. Sotto il titolo di Remix Nature trovano spazio di ampliamento e dialogo i valori della sostenibilità ambientale, della compenetrazione positiva tra naturale e digitale e tra naturale e produttivo, in profonda connessione con il paesaggio: i trail per camminare e andare in bici, scoprendo il paesaggio e la (burrosissima) cucina locale sono al centro di una riscoperta gentile del territorio. Remix Yourself vuole essere un incentivo a sviluppare nuove prospettive sulla vita quotidiana, consentendo ai cittadini di rafforzare il senso di un’identità comune nel rispetto delle esperienze individuali. Qui si rimetteranno in discussione con panel, spettacoli teatrali e mostre fotografiche le fondamenta stesse della società, dalla struttura delle città – che devono diventare pienamente accessibili alle persone disabili – alla valorizzazione del pensiero creativo fin dalla giovanissima età. La quarta sottocategoria, Remix Art, offre l’opportunità di soffermarsi a considerare la creazione artistica e le scoperte culturali, creandone là dove ce ne sono poche: un concetto strano, per l’Italia, quello di trovarsi nel primo Rinascimento del Paese, ma una responsabilità elettrizzante per i lussemburghesi. Questa nascita, più che rinascita culturale, è altresì densa di responsabilità: l’accessibilità fisica e sociale dell’arte

I PRINCIPALI EVENTI DI ESCH2022

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modulari e prefabbricati, avranno nuova vita una volta concluso l’anno di gloria – una lezione che noi abbiamo imparato con l’Expo del 2015 – accompagnandosi a una serie di buone pratiche per il riciclo di strutture e competenze, senza dimenticare che tutta la mobilità aggiuntiva prevista per la celebrazione sarà a energia pulita, promuovendo un turismo lento ed evitando l’effetto boomerang nella piccola regione.

SPERANZE PER IL FUTURO

Il progetto Capitale europea della cultura Esch2022 vuole fornire accesso all’arte e alla cultura per un vasto pubblico e gettare le basi per un futuro sostenibile, ben oltre l’anno 2022. Un esempio illustre guida gli organizzatori dell’evento e le alte cariche dello Stato: la prima Capitale europea della cultura del Paese, ottenuta meno di trent’anni fa. “Il volano della vittoria della capitale nel 1995”, raccontano gli organizzatori, “è stato fortissimo: sappiamo cosa significa far valere questa occasione”: la spinta che ha posto la città di Lussemburgo sulla mappa può ripetersi, dicono speranzosi. Non si può dire lo stesso della vittoria, sempre di Luxembourg City, del 2007: un’opportunità sprecata diventata un monito più che mai attuale sull’opportunità di far tesoro delle occasioni (e dei fondi) europei.

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IL METAVERSO NON ESISTE VALENTINA TANNI [ scrittrice e docente ]


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I

n un’intervista rilasciata lo scorso dicembre a Kara Swisher del New York Times, lo scrittore americano di fantascienza Neal Stephenson – che il termine ‘metaverso’ l’ha coniato nel suo romanzo Snow Crash – dichiara di non capire cosa ci sia di realmente innovativo nei progetti annunciati con tanto clamore da Mark Zuckerberg a fine ottobre. “L’idea di fare riunioni virtuali dove ognuno è rappresentato da un avatar. L’idea di giocare a un gioco da tavolo con qualcuno che è virtualmente dall’altra parte del tavolo, ma in realtà è molto lontano. È roba vecchia. È difficile per me capire cosa sostengono di fare di nuovo, a parte forse implementare queste vecchie idee su una scala più ampia, per un pubblico più vasto”. La posizione di Stephenson rappresenta bene quella della sua generazione e, più in generale, l’impressione di chi è abbastanza grande da aver già assistito ad almeno un paio di ondate di hype incentrate sui “mondi virtuali”. È successo tra gli Anni Ottanta e Novanta con l’arrivo sul mercato dei primi rudimentali visori VR; poi negli Anni Zero, con nuovi device, una sperimentazione più intensa nel settore dei videogiochi e la messa online di piattaforme come Active Worlds e Second Life. E infine nel 2021, in piena era pandemica, con i progetti di grandi aziende come Facebook/Meta, Microsoft, Epic Games, Niantic, Nvidia, Decentraland.

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Metaverso è la buzzword del momento. Tutti la usano, ma sul suo significato si discute animatamente. Questo perché, nonostante l’hype, si tratta di un progetto in larga parte irrealizzato, un’idea messa sul mercato molto prima della sua attualizzazione. Ma la battaglia per la conquista del futuro è già in corso.

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© Chiara Zarmati per Artribune Magazine

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L’ETERNO RITORNO DEI MONDI VIRTUALI

Ma cos’è il metaverso? E perché si investe tanto nella sua costruzione? Nonostante il termine sia arrivato sulla stampa generalista solo lo scorso anno, perlopiù in conseguenza del cambio di nome di Facebook, nel mondo della tecnologia se ne parla da molto più tempo. Tim Sweeney, CEO di Epic Games, società che produce videogiochi popolarissimi come Fortnite (da molti ritenuto l’oggetto reale più vicino all’idea di metaverso), nel 2016 dichiarava al magazine Venture Beat: “Il metaverso è una di quelle idee che la gente ha respinto per molto tempo, perché esperienze come Second Life non sono decollate su larga scala. Sistemi molto semplici come Facebook invece sono decollati, anche se già all’epoca avevamo la grafica 3D. Così ce ne siamo dimenticati, per circa 15 anni. Quando la VR è tornata e abbiamo iniziato a vedere le potenzialità di sistemi come il motion capture in tempo reale, è diventato chiaro che eravamo a pochi anni di distanza dall’essere in grado di catturare il movimento e le emozioni umane e trasmetterli in un’esperienza interattiva in un modo che è molto vicino alla realtà”. Secondo Sweeney, e molti altri come lui, il metaverso non sarà semplicemente “un” mondo virtuale, ma la nuova versione di Internet. Una versione immersiva tridimensionale e convincente.

Idealmente, questo nuovo ambiente dovrebbe essere caratterizzato da un alto grado di interoperabilità. UN AMBIENTE 3D PERSISTENTE

Matthew Ball, venture capitalist americano che sul suo sito ha pubblicato una serie di estesi approfondimenti sul tema – il Metaverse Primer –, lo descrive come una grande rete digitale composta da tanti ambienti 3D persistenti, renderizzati in tempo reale e abitati da un numero infinito di utenti. All’interno di questa rete è possibile avere “un senso della propria presenza individuale” grazie alla persistenza e continuità dei dati accumulati: dati sulla propria identità, la propria storia, le proprie interazioni, il possesso degli oggetti. All’interno del metaverso si potrà socializzare, creare contenuti, guardare film, giocare, lavorare, vendere e comprare. Idealmente, questo nuovo ambiente dovrebbe essere caratterizzato da un alto grado di interoperabilità: il che significa che tutte le aziende che contribuiscono alla sua costruzione dovranno mettersi d’accordo e adottare protocolli compatibili. In questo

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UN FUTURO CHE RITORNA INTERVISTA A MARCO CADIOLI Marco Cadioli (Milano, 1960) è un artista che riflette sui risvolti culturali ed estetici delle nuove tecnologie sin dagli Anni Novanta. Le sue opere hanno esplorato i linguaggi della rete, il rapporto tra reale e virtuale e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale. Nei primi Anni Zero è stato uno dei protagonisti della scena artistica su Second Life. Sei stato uno dei pionieri dell’esplorazione dei mondi virtuali online, soprattutto ai tempi di Second Life. Cosa pensi del “ritorno” di attenzione nei confronti di questo genere di piattaforme? I riflettori sui mondi virtuali si sono accesi a ottobre 2021 con il rebranding di Facebook in Meta e l’annuncio di Zuckerberg di grandi investimenti nello sviluppo di un proprio metaverso, Horizon Worlds. Microsoft si sta muovendo nella stessa direzione, con la piattaforma Microsoft Mesh, e anche Nvidia ha in sviluppo il suo metaverso, Omniverse. Non si tratta più di una singola esperienza sperimentale come quella di Second Life, ma dello sviluppo contemporaneo di diverse piattaforme che si affiancano ad alcune già esistenti. Cosa è cambiato da allora? Gli annunci che vengono fatti prefigurano qualcosa di completamente nuovo, ma in realtà molte di queste idee sono già state esplorate negli anni, all’interno di videogame e piattaforme 3D. Come definiresti il concetto attuale di metaverso? Un insieme di mondi virtuali 3D

condivisi e immersivi, che comprende moltissime piattaforme, alcune delle quali sono già presenti da anni, come Decentraland, The Sandbox, Roblox. Il discorso è oggi spesso legato alle blockchain e alle criptovalute: ogni metaverso ha un proprio token per gli acquisti di beni digitali. Ci sono molti altri mondi emergenti, legati anch’essi al mondo cripto, come RedFox (RFOX), Alien Worlds (TLM), Star Atlas (ATLAS), Ufo Gaming (UFO), The Nemesis, in un panorama in continua evoluzione dove blockchain, finanza, NFT e gaming si sovrappongono e mescolano. Qual è il rapporto fra questi mondi e la rete? La rete è in costante evoluzione e, come si è passati dal modello della prima Internet al modello del Web 2.0, con la nascita di servizi e piattaforme social, ora si sta progressivamente passando al Web 3.0. Non mi piacciono queste definizioni numeriche e nemmeno penso a salti netti nell’evoluzione, ma è per definire dei macro periodi nella storia della rete. Ora stiamo assistendo alla convergenza di tecnologie come realtà aumentata, realtà virtuale, blockchain, criptovalute, NFT, che promettono nuovi modi di vivere la rete, con nuove piattaforme affiancate a quelle presenti. È una fase iniziale, confusa e, al di là dei proclami delle Big Tech, merita di essere osservata. Noti qualche differenza sostanziale tra gli ambienti che frequentavi quindici anni fa e quelli attuali? Entrando negli attuali mondi virtuali non si trovano idee particolarmente nuove.

Marco Cadioli, Folla all'ingresso di Decentraland a ottobre 2021, 2021


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C’è una tendenza ripetitiva alla ricostruzione della realtà, dei suoi spazi e delle sue dinamiche. Al momento ci sono davvero pochissime persone online e ci si trova a vagare in grandi spazi vuoti. Second Life invece com’era? Nel 2005 era un mondo esotico, un’isola incontaminata e utopica, mentre l’attuale sviluppo parte già dichiaratamente legato al business, alle criptovalute, ad ambienti spesso pensati e sviluppati dalle Big Tech. È importante che il metaverso resti invece il più aperto possibile, lontano dal modello di iper ambienti centralizzati e gestiti da pochi, come sono stati i social. Gli avatar sono cambiati? Non si può dare una risposta univoca perché in ogni ambiente sono disegnati in modo diverso. Si passa da avatar cartoonish ad avatar pixelati stile Minecraft, a tentativi di mappare il proprio volto reale su quello dell’avatar. Si sperimentano soluzioni ibride, come associare un box con la webcam live sopra il proprio avatar, quindi ci si incontra come avatar ma si parla come in una videocall. Resta aperto il problema di come muoversi con un unico avatar tra i vari mondi, ed è un problema che riguarda in realtà ogni altro bene digitale. Tecnicamente si parla di interoperabilità, e sarà un problema reale, quello di muoversi e trasportare le proprie cose da un mondo all’altro. In che modo, secondo te, questi mondi possono ospitare e favorire progetti artistici?

Dobbiamo porci domande semplici e di base, del tipo: funziona meglio vedere le opere in un sito tradizionale o in una galleria virtuale? È più efficace seguire un dibattito in streaming o incontrarsi in una stanza con il proprio avatar e una webcam accesa e camminare insieme tra le opere di cui si parla? La contrapposizione non è tra realtà e virtualità. Dobbiamo sperimentare tra le possibili forme che assume il virtuale, scegliendo quelle più adatte.

E gli artisti cosa fanno? Non vedo ancora una community di artisti che si aggrega per sperimentare nello specifico le potenzialità di questi ambienti, come è stato già all’inizio del XXI secolo con le primissime esperienze dei Neen, e poi in Second Life con gruppi come Second Front, o le esperienze nella Gallery A sull’isola di Odyssey, dove attorno al 2007 c’erano regolarmente mostre ed eventi e in cui sono nate le Synthetic Perfomances di Eva e Franco Mattes, per citarne una.

Hai visto qualcosa di interessante negli ultimi mesi? In Decentraland, ad esempio, da giugno 2021 Sotheby’s ha aperto una sede copia della sua sede fisica e a novembre ha organizzato l’asta di due lavori di Banksy. Sempre in Decentraland c’è stata la mostra Digital Embodiment di Marjan Moghaddam curata da Filippo Lorenzin e Serena Tabacchi, tra i fondatori del MOCDA, Museum Of Contemporary Digital Art. E ancora la mostra Travel Diary curata da Sonia Belfiore per la piattaforma newyorkese Snark.art, inaugurata con otto artisti italiani a marzo 2021 e tuttora visitabile nella Oval Gallery in Decentraland. In generale siamo nella fase dove fa ancora notizia in sé la mostra organizzata nel metaverso. Penso vada riannodata una storia di anni di esperienze diffuse sulla curatela di mostre online e la ricerca di forme espositive e collaborative nel web, dove la diffusione di spazi 3D di adesso costituisca uno sviluppo in continuità piuttosto che una news da bruciare in fretta.

Ti è venuta voglia di sperimentare di nuovo con i mondi virtuali? Sì, Marco Manray, il mio avatar di sempre, è già presente in alcuni di questi mondi e sta continuando a documentare cosa succede. In qualche modo il progetto di raccontare la nascita del metaverso, iniziato nel 2005 quando sono entrato per la prima volta in Second Life, è tornato attuale proprio per evidenziare una linea di sviluppo, una storia del metaverso che esiste. Mi incuriosisce ad esempio come sono state scelte alcune metafore in questi mondi emergenti. All’ingresso di Decentraland c’è un grosso gorgo nel quale tuffarsi per entrare. Durante i giorni di boom seguiti all’annuncio di Zuckerberg sono stato a girare un video alle persone che entravano per la prima volta nel metaverso, metaforicamente gettandosi nel gorgo, e mi sembra simbolico del momento attuale. Ho in programma una personale in febbraio a SMDOT/Contemporary Art a Udine, dove affiancherò lavori nuovi e lavori di quindici anni fa, intitolata Back to the Metaverse. È un futuro che ritorna.

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Marco Cadioli, The Whirlpool, 2022

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modo, avatar, oggetti digitali e dati sarebbero leggibili ovunque e “trasportabili” da un mondo all’altro. Infine, questa visione del Web 3.0 si intreccia profondamente con il mondo delle criptovalute e della blockchain in generale, che dovrebbe rivestire un ruolo importante nell’assetto economico, favorendo la decentralizzazione.

IL SOGNO DELLA FRONTIERA

Questa corsa alla costruzione del metaverso, che per tanti sembra nient’altro che un déjà-vu, dimostra sostanzialmente due cose: l’incredibile persistenza di un sogno umano (la generazione di mondi) e la necessità dell’industria tecnologica di inseguire sempre nuove “frontiere”. Per quanto riguarda il primo fattore, si tratta di un’evidenza difficile da negare: dagli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei al Sensorama di Morton Heilig, passando per i panorami ottocenteschi, i trompe l’oeil barocchi, l’Artificial Reality di Myron Krueger e La Spada di Damocle di Ivan Sutherland, la costruzione di spazi illusori, capaci di ingannare i sensi, è stata una costante nella storia umana. Un sogno, quello del worldbuilding, che non accenna a spegnersi, alimentato da tanta letteratura e cinema di fantascienza, sempre in bilico tra magia e terrore. La possibilità di creare mondi artificiali perfettamente credibili riporta infatti sul tavolo l’ipotesi della teoria della simulazione, con la sua domanda inquietante: la realtà in cui viviamo è a sua volta una simulazione al computer, magari gestita da intelligenze aliene superiori (come accade nella saga di Matrix)?

La costruzione di spazi illusori, capaci di ingannare i sensi, è stata una costante nella storia umana. Il secondo aspetto da considerare riguarda il fatto che la macchina tecno-capitalista ha costantemente bisogno di miti, narrazioni e nuovi territori da conquistare. In breve, ha bisogno di “inseguire il futuro”: questo le permette di attrarre capitali e di ammaliare utenti e investitori in cerca della Next Big Thing.

IL METAVERSO NON ESISTE

Quello che va chiarito, a questo punto, è che il metaverso ancora non esiste. Ciononostante, tantissime aziende nel mondo lo stanno già vendendo. La cosa che attualmente gli somiglia di più sono i videogiochi online, piattaforme che da molti anni sperimentano con successo la costruzione di mondi virtuali persistenti, abitabili, dotati di una propria economia e di un’affezionata popolazione. Una popolazione ogni giorno più

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QUEL CONFINE MAGICO TRA FISICO E VIRTUALE INTERVISTA AD AURIEA HARVEY

Una scultura di Auriea Harvey

Auriea Harvey (Indianapolis, 1971) è un’artista americana che vive a Roma dal 2019. Pioniera della Net Art, ha fondato insieme a Michaël Samyn lo studio Tale of Tales, con cui ha creato per molti anni videogiochi ed esperienze interattive. Da alcuni anni produce simulazioni e sculture che collegano lo spazio fisico e quello digitale utilizzando la grafica, la stampa 3D e la realtà mista. Negli ultimi due anni abbiamo assistito a un grande ritorno di interesse per i mondi virtuali. La nuova ondata è incentrata sulla parola “metaverso”, termine utilizzato da aziende e sviluppatori per descrivere una specie di nuova versione di Internet, immersiva e incentrata sulle realtà estese. Qual è la tua opinione su questa idea del metaverso? Negli scorsi decenni ci sono state numerose esperienze di questo tipo. Penso a Second Life, ma anche, prima ancora, ad Alpha World. Poi c’è il mondo dei videogame, che è quello in cui ho trascorso tredici anni della mia vita, costruendo universi alternativi per i giocatori. Credo che, per controbilanciare l’hype, ci sia bisogno di un momento di riflessione. Questo aiuterebbe i designer a costruire esperienze migliori per le persone. Ad esempio, al momento mi sembra manchi

l’immaginazione. Il metaverso come lo si descrive oggi mi sembra la ricreazione di cose già esistenti. E viene da chiedersi: perché? Quale pensi sia il ruolo del gaming e dell’intrattenimento digitale nella costruzione del metaverso? I videogame designer utilizzano un approccio artistico e la fiction per creare una situazione inedita. Questo manca completamente in luoghi come Second Life: se dai alle persone gli strumenti per costruire cose brutte, finiranno per costruire un mondo altrettanto brutto. La maggior parte dei videogame invece ruota attorno all’idea di spingere le persone a costruire qualcosa di fantastico, all’interno di un mondo che è stato immaginato e “scritto”. Jaron Lanier, che è considerato uno dei padri della realtà virtuale, diceva che la cosa migliore della VR consiste nel fatto che, quando spegni il visore e torni al mondo fisico, sei in grado di apprezzarlo di più. La trovo un’idea interessante. Quando progettavamo videogame dicevamo sempre che l’obiettivo era quello di realizzare giochi che potenziassero la vita, non che la rimpiazzassero. Un’altra questione cruciale che riguarda il metaverso è


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quella dei protocolli. Non possiamo aspettarci che il metaverso di Facebook semplicemente accada, dovranno mettere a punto dei nuovi protocolli; l’accesso a questi protocolli sarà importantissimo. La speranza, naturalmente, è che siano protocolli aperti e non gestiti da una sola corporation.

Qual è la tua esperienza con gli NFT? Finora è stata positiva, ma è una tecnologia ancora in fase di sviluppo e può prendere tante direzioni. È come la parabola dei sei uomini ciechi e l’elefante: ognuno tocca una parte diversa dell’elefante e si fa un’idea diversa sull’aspetto dell’animale. Per quanto mi riguarda è stato un modo per far accettare, nell’immaginario collettivo, l’idea che gli oggetti digitali abbiano un valore intrinseco. È una cosa che già accadeva nei videogiochi, ma non era davvero considerata un’opzione per altri tipi di output creativi. Per me, che ho prodotto arte digitale per tutta la vita, si tratta di un territorio interessante e inesplorato, che vale la pena di sperimentare.

nettamente più visibile. Non c’è più bisogno di conformarsi sempre a un’idea di opera d’arte museale: ci sono tanti livelli di produzione e apprezzamento dell’arte. Non avvertivo così tanta energia nel mondo della new media art dai tempi del Web 1.0, onestamente. Allo stesso tempo, se abbiamo imparato qualcosa dal passato, dovremmo essere preoccupati di molte cose per il futuro: soprattutto per quanto riguarda il potere eccessivo che le corporation potranno avere. Mi piaceva pensare al mondo cripto come qualcosa che avrebbe affossato le corporation, ma ora so che si tratta di una visione ingenua; dobbiamo gestire il problema degli interessi delle grandi aziende a livello politico, ora più di prima.

Il mondo dell’arte come sta reagendo? Stiamo assistendo a una moltiplicazione dei “mondi dell’arte”. Non ce n’è mai stato uno solo, ma ora l’esistenza di tanti mondi diversi che convivono è

Da un punto di vista artistico, hai visto qualcosa di nuovo succedere nei mondi virtuali? O magari c’è qualcosa che ti piacerebbe sperimentare nel futuro in questo contesto?

Finora non ho visto niente che possa essere considerato davvero nuovo, a parte la connessione con la blockchain. La verità è che i videogiochi sono sempre stati un passo avanti. L’idea di esplorare e sfumare i confini tra il fisico e il virtuale mi sembra l’area di sperimentazione più interessante. Durante le nostre giornate scivoliamo continuamente dentro e fuori dal mondo digitale, abitiamo a cavallo tra le due dimensioni. È anche quello che faccio con le mie sculture: porto nel mondo fisico oggetti originariamente virtuali e, allo stesso tempo, sposto i nostri corpi negli ambienti sintetici. Artisticamente parlando, sono interessata a rendere le persone più consapevoli di dove questo confine tra fisico e virtuale si dissolve, e di come possa essere bello e intenso, quasi un’esperienza religiosa. Non sono un’attivista, lavoro con le emozioni e con lo spettacolo, mi interessa quello che succede dentro le persone. Ed è qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare, anche nel mondo degli NFT: la parte umana.

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Il Metaverso di Neal Stephenson era una distopia. Pensi che stia succedendo una cosa simile, che sia una strategia di fuga da un mondo al collasso? La pandemia – ma anche il global warming – ha probabilmente svolto un ruolo importante in questo senso. Una cosa che ho imparato facendo videogiochi è che l’80% del gioco si svolge nella testa delle persone. Il ruolo del designer, il più delle volte, è quello di guidare l’immaginazione delle persone in una direzione o nell’altra. Penso che la costruzione del metaverso diventerà soprattutto una battaglia per la conquista delle menti. In questo senso, quel che dice Jaron Lanier è molto importante: vogliamo cambiare la mente delle persone in modo che passino più tempo nei mondi virtuali oppure vogliamo aiutarle a comprendere meglio il mondo fuori? Ma la domanda vera è: le persone adotteranno questa tecnologia come è successo con Internet? Per Internet la chiave per l’espansione sono stati i telefoni cellulari. Ora le aziende stanno cercando di capire quale device svolgerà lo stesso ruolo per il metaverso.

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IL METAVERSO AL CINEMA E SUI LIBRI

a cura di CHRISTIAN CALIANDRO

1963

PHILIP K. DICK The Game-Players of Titan The Zap Gun

1966

PHILIP K. DICK We Can Remember It For You Wholesale

1981

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VERNOR VINGE True Names

1982

STEVEN LISBERGER Tron

1984

WILLIAM GIBSON Neuromancer

vasta, che percepisce la propria presenza – anche senza gli avatar iperrealistici sognati da Tim Sweeney – e costruisce esperienze e ricordi all’interno di questi mondi insieme alla propria comunità di riferimento. Ma il metaverso inteso come ambiente onnicomprensivo, renderizzato interamente in tempo reale su larga scala e aperto a tutti, è poco più di un’idea. Un’idea complessa, costosa e molto probabilmente insostenibile da un punto di vista energetico.

LA BATTAGLIA PER IL FUTURO

L’aspetto inquietante, nella narrazione mainstream che circonda il metaverso, riguarda la tendenza a idealizzare questo ipotetico mondo artificiale: un luogo dove tutto è possibile, ogni cosa è personalizzabile e tutto è... Migliore del mondo reale. D’altra parte, Snow Crash era un romanzo distopico e il suo protagonista scappava nel Metaverso per dimenticare una realtà devastata. “Hiro non è affatto lì dove si trova”, scriveva Stephenson nel 1992, “bensì in un universo generato dal computer che la macchina sta disegnando sui suoi occhialoni e pompando negli auricolari. Nel gergo del settore, questo luogo immaginario viene chiamato Metaverso. Hiro trascorre molto tempo nel Metaverso. Lo aiuta a dimenticare la vita di merda del D-Posit”. Lo stesso romanzo non mancava di avvisarci che, anche se il Metaverso è progettato per farci sentire un po’ meno depressi, anche lì ci sono ricchi e poveri, servi e padroni, sfruttatori e sfruttati,

L’aspetto inquietante, nella narrazione mainstream che circonda il metaverso, riguarda la tendenza a idealizzare questo ipotetico mondo artificiale. Nella discussione tra apocalittici e integrati, che puntualmente si riproduce nei momenti di avanzamento tecnologico, c’è chi vede nel progetto-metaverso la possibilità di aggiustare un’Internet ormai “rotta” – priva di libertà e soggetta al monopolio delle Big Tech – instaurando protocolli più aperti e partecipativi; e chi nel medesimo futuro vede solo un incremento del controllo e dello sfruttamento. La domanda da porsi quindi diventa: se la costruzione di un nuovo mondo è davvero in corso, cosa vogliamo portarci dentro? Quali idee, quali valori, quali sistemi di governance? La battaglia per il mondo-dentro, insomma, va combattuta prima qui, nel mondo-fuori.

1986

WILLIAM GIBSON Burning Chrome

MARKETPLACE IN 3D IL METAVERSO SECONDO SOTHEBY’S

1990

Sotheby’s Metaverse è la piattaforma digitale lanciata il 18 ottobre 2021 per ospitare il nuovo marketplace proprietario della casa d’aste dedicato alla vendita di NFT. In risposta al crescente interesse globale per gli asset d’arte basati sulla blockchain, lo spazio virtuale di Sotheby’s offre ai collezionisti tradizionali e digitali una selezione di Non Fungible Token curata dagli specialist di Sotheby’s. La prima asta di lancio della piattaforma è stata Natively Digital 1.2: The Collectors, con 53 opere provenienti da 19 cripto collezionisti di alto calibro, come VerticalCrypto Art, Pablo Rodriguez-Fraile, Pranksy, 888, j1mmy.eth, Seedphrase, WhaleShark, il dj e produttore Steve Aoki, l’ereditiera Paris Hilton e persino Time Magazine. Il lotto comprendeva opere di Dmitri Cherniak, Hackatao, Hideki Tsukamoto, 0xDEAFBEEF, Erick SnowFro, XCopy, Bored Ape Yacht Club of Yuga Labs, Larva Labs, Kevin Abosch, WhIsBe, Brendan Dawes, Serwah Attfuah. Altre due sessioni sono andate in scena lo scorso dicembre: Chromie Squiggle: MINT IT! e Hackatao: Queens+Kings. I potenziali acquirenti sono invitati a creare un profilo personale e ricevono un avatar unico creato dall’artista digitale e crypto designer Pak, protagonista lo scorso aprile di The Fungible, l’asta di debutto di Sotheby’s nel mondo degli NFT. Le forme accettate di pagamento? Comprendono sia la valuta cripto che tradizionale. Riguardo ai contenuti: non sarà solo l’arte contemporanea al centro dei cataloghi digital. Il progetto mira infatti a espandere nel tempo le aree di interesse negli ambiti del lusso, della moda, dello sport, della musica, dell’intrattenimento, della scienza e della tecnologia, in un presidio a tutto tondo per i crypto lovers del mondo e una scommessa sulla permanenza degli NFT.

PAUL VERHOEVEN Total Recall

1992

NEAL STEPHENSON Snow Crash

1992

BRETT LEONARD The Lawnmower Man

1999

ANDY & LARRY WACHOWSKI Matrix

2003

VERNOR VINGE The Cookie Monster

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quartieri di lusso e zone malfamate, vestiti costosi ed economici. E che al suo interno anche il crimine, la disuguaglianza e lo sfruttamento sono persistenti.

CRISTINA MASTURZO metaverse.sothebys.com


IL METAVERSO È GIÀ QUI: È UN VIDEOGIOCO

#64 GENNAIO L FEBBRAIO 2022

Internet oggi è dominato dalle piattaforme, giardini chiusi che curiamo ogni giorno. Creare il cosiddetto metaverso vorrebbe dire costruire passaggi tra questi giardini, un’operazione che necessiterebbe il coordinamento tra grandi aziende attualmente in concorrenza tra loro. Oppure vorrebbe dire ampliare gli odierni horti conclusi digitali, magari tramite acquisizioni, in modo da creare ecosistemi sempre più complessi e integrati. Questa soluzione è in linea con il sogno delle società digitali di espandersi in ogni ambito della nostra vita e a volte ha incontrato resistenze da parte degli organi antitrust. È anche il futuro immaginato nel romanzo Ready Player One di Ernest Cline, portato al cinema da Steven Spielberg, dove un’unica compagnia di videogiochi controlla l’intero mondo digitale in cui le persone trascorrono la maggior parte del proprio tempo. L’idea di metaverso che viene proposta da società come Facebook/Meta richiama una concezione di Internet come cyberspazio, uno spazio 3D interconnesso da vivere attraverso una rappresentazione di se stessi detta avatar. Si tratta di una visione in gran parte estranea al nostro modo di pensare il web ma familiare a tanta vecchia fantascienza (il termine ‘metaverso’ viene dal romanzo cyberpunk Snow Crash di Neal Stephenson) come al mondo dei videogiochi. Questi ultimi, in fondo, ci stanno già offrendo la possibilità di vivere e convivere in spazi virtuali attraverso avatar, e di utilizzare complessi ecosistemi digitali e commerciali. Se davvero esisterà un metaverso unificato, dunque, saranno le compagnie videoludiche quelle con la maggior possibilità di realizzarlo. Prendiamo Steam di Valve, una delle principali piattaforme di distribuzione digitale di videogiochi. Su Steam possiamo comprare un videogioco, seguirne gli aggiornamenti, parlarne con lo studio di sviluppo e discuterne nei forum, possiamo leggere le guide create dall’utenza e, mentre giochiamo (magari in realtà virtuale, usando il visore e la tecnologia sviluppati da Valve

stessa), possiamo invitare i nostri amici a unirsi a noi e chiacchierare con loro usando la chat della piattaforma. Finita la partita, possiamo vendere, per denaro reale, gli oggetti sbloccati nel gioco oppure scambiarli, sempre su Steam. È anche il caso di Roblox, piattaforma che già permette di esplorare, creare e monetizzare molteplici esperienze giocose usando un avatar unico, personalizzabile con accessori acquistabili con denaro reale. In Roblox, che viene abitato ogni giorno da 50 milioni di utenti, ha anche investito Tencent, ovvero la principale compagnia videoludica al mondo, che, tramite anni di acquisizioni e sviluppo di studi e servizi, possiede forse le basi più solide per la costruzione di un possibile metaverso. Tencent è per esempio in parte proprietaria di Epic Games, che gestisce sia il set di strumenti Unreal Engine, con cui vengono realizzati molti videogiochi (ma anche gli ambienti della serie Disney The Mandalorian) sia il celebre Fortnite, sempre più interessato a diventare una galassia di spazi digitali da creare e condividere con altre persone. Il confronto con i videogiochi spiega anche la difficoltà di pensare invece un metaverso non monopolistico, che permetta di muoverci senza soluzione di continuità tra piattaforme-giardino diverse. Il cappello di marca indossato dal nostro avatar, magari con proprietà registrata come NFT su blockchain, dovrebbe poter diventare un certo modello 3D nella piattaforma in realtà virtuale su cui partecipiamo alle riunioni di lavoro, poi un altro modello 3D nell’ultimo videogioco sparatutto, poi uno sprite 2D nella nostra immagine di profilo di Twitter e così via. Un incubo per ogni sviluppatore, un’enorme e improbabile opera di adattamento e comunicazione tra tecnologie diverse per cui ogni compagnia dovrebbe rendere compatibili acquisti fatti altrove. A meno di immaginare un’unica tecnologia capace di gestire tutte le piattaforme, cioè un altro monopolio.

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Fortnite di Epic Games per Ariana Grande (immagine via Twitter)

MATTEO LUPETTI

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DALLE CAVERNE DIPINTE AGLI NFT. STORIA DI UN’IDEA Lo Spirito dell’Animazione, l’Animato ha creato tutto questo! E non è una cosa recente: si tratta di un processo partito nelle caverne, quando l’uomo si incontrava per la prima volta con la propria ombra proiettata dal fuoco. La nostra ombra in movimento, insieme con l’ombra di tutto il resto, animali e natura, è diventata segno sulla parete-pittura. Il fuoco è diventato per noi un proiettore, l’hardware. La nostra immaginazione era il suo primo software, magari addirittura il primissimo Sistema Operativo, e l’Animato il primo meme, un concetto con vita propria che agisce, costruisce e crea, usando come media noi umani. Processando il Mondo insieme con l’Animato, è nato il concetto della Casa: la caverna stessa, dipinta, alterata. La Grande Casa, la Maloca, come viene chiamata in Amazzonia. Il Metaverso non è altro che questo. Mentre abitiamo la superficie della Terra – guidati dallo Spirito dell’Animazione – continuiamo a creare luoghi che non c’entrano con il reale, ma che poi, utilizzando il reale come modello di simulazione, cominciano a far parte della realtà. Poiché tutto questo è una faccenda di meme – cioè di Logos –, sono stati gli scrittori i primi a essere posseduti, per poi diventare degli “influencer”. Neal Stephenson ci ha influenzato e abbiamo iniziato a costruire il metaverso partendo dalle sue descrizioni, espresse nel libro Snow Crash. Ma non è stato lui l’unico influencer: ricordi presi dai libri di William Gibson hanno incrociato quelli di Philip K. Dick e molti altri ancora. Nell’arte, il metaverso è arrivato nel 1998, quando la galleria Postmasters ha aperto il suo nuovo spazio a Chelsea con una mia personale-manifesto. In quell’occasione, presentavo pitture di cavi dipinte con olio su tela, ma anche avatar delle stesse pitture appese nei muri virtuali del mio studio fluttuante a Chelsea in Active Worlds, un metaverso per arte e architettura che avevo fondato insieme con l’architetto e artista Andreas Angelidakis. Con Andreas abbiamo continuato a costruire mondi nel metaverso fino al 2001, quando li abbiamo persi tutti in un incidente di automobile computerizzato. Di tutti quei chilometri virtuali sono rimaste solo poche schermate: le immagini che ho usato per dipingere i miei murales-resti-di-metaverso nello stand della Galleria Bonomo alla fiera Arte in Nuvola di Roma e nella mostra da Eric Hussenot a Parigi. Ho inventato una

tecnica di affresco da “schermo liquido” per dipingerli, versando del sapone sopra i pigmenti di colore; con un po’ di acqua, questa pittura miracolosa svanisce. La mia mostra alla Galerie Hussenot cambiava ogni giorno: le pitture venivano spostate, a volte ritoccate, gli affreschi ridipinti di continuo. Avatar e slogan – come Outsideoftheinternetthereisnoglory – apparivano e poi sparivano. Davanti al pubblico, alla fine della mostra, in collaborazione col curatore Jérôme Sans e con Anika Meier, curatrice tedesca specializzata in NFT, è partita in galleria la produzione di una serie di “NFT Relazionali”. MILTOS MANETAS

Miltos Manetas. Floating Studio. Exhibition view at Galerie Hussenot, Parigi 2022


IL METAVERSO COME SPAZIO ESPOSITIVO

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sviluppo verticale, i suoi moduli cubitali sospesi nell’aria e le linee di luce fucsia che percorrono pareti, soffitti e pavimenti, l’edificio costruito da Voxel Architects raccoglie la lezione di tanta architettura museale postmoderna: espone soprattutto se stesso. Per quanto ingigantite a riempire l’intera altezza della parete, le opere di Beeple, incorniciate e corredate di una fascia nera che ospita la didascalia e il QRcode del lavoro, appaiono più come dei poster che delle opere da museo. Se visitate il B.20 Monument su Cryptovoxels, non tralasciate di dedicare un po’ di attenzione a uno dei 321 spazi attualmente segnalati sulla mappa come “gallerie”: superate le difficoltà della navigazione e la fastidiosa sensazione di abitare una discarica digitale vuota di presenze umane, a stupirvi sarà la bizzarra combinazione di spazi colorati, dinamici e impossibili nella realtà con l’assoluta banalità delle forme del display: poster giganteschi incollati a parete, rastrelliere e pannelli di cartonvoxel. Una sensazione analoga si percepisce attraversando gli spazi espositivi di Decentraland o le “parcel” di Somnium Space, isolate su cubi sospesi nel vuoto. Qui ha aperto la sua sede il Museum of Crypto Art (MoCA), la collezione “pubblica” creata e diretta dal collezionista Colborn Bell: un’architettura aperta in cui una selezione di lavori del museo è texturizzata su pannelli sospesi di varie dimensioni, appiccicata a soffitto o a pavimento. Cliccando sulle opere si apre un pannello informativo con didascalia, prezzo corrente, link a OpenSea. Le opere del MoCA non sono in vendita, ma visitando lo spazio di un collezionista che ha dichiarato in più occasioni di considerare l’arte uno strumento per la diffusione e la promozione delle criptovalute, non dovremmo stupirci che il prezzo di vendita faccia parte del display. Se il futuro del metaverso come spazio espositivo e luogo di socialità è nelle mani delle comunità che gli daranno forma, blocco dopo blocco, il suo presente è il riflesso dei gusti, delle competenze, delle necessità e delle ambizioni di quelle che lo stanno plasmando qui e ora. Il risultato è una vetrina 3D per merci prevalentemente bidimensionali, progettata da vetrinisti per cui l’arte è uno dei tanti asset proposti sul mercato, e abitata da creatori che l’assuefazione agli spazi angusti dei marketplace NFT ha privato (se mai ne hanno avuta una) di qualsiasi idea di specificità delle opere, degli spazi e delle modalità di presentazione.

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“Own the Metaverse Renaissance” è lo slogan del B.20 Token, il fondo di investimento lanciato nel gennaio 2021 da Metapurse. Investire nel fondo vuol dire diventare co-proprietari di un pacchetto che include venti opere di Beeple (acquistate a dicembre 2020 per 2.2 milioni di dollari) e tre appezzamenti di “terra virtuale”, dislocati nei metaversi di Decentraland, Cryptovoxels e Somnium Space, su cui sono collocati anche tre “musei”, chiamati B.20 Monument. Quotato 1.5 euro al lancio, il B.20 è schizzato a un massimo di 20 euro il 10 marzo 2021, quando Metapurse ha acquistato l’opera Everydays di Beeple per 69 milioni di dollari, per poi crollare – da metà maggio – a un prezzo che oscilla tra il valore di partenza e gli attuali sessanta centesimi a token. Ma non è tanto di investimenti che vogliamo parlare qui, quanto del legame inscindibile che esiste tra gli NFT e la versione attuale del metaverso, che ovviamente condiziona il modo in cui l’arte vi si manifesta. Questo legame si regge su due colonne portanti: da un lato, l’NFT è il fondamento dell’economia interna della maggior parte dei metaversi; dall’altro, i metaversi sono, per i collezionisti di NFT, il luogo primario in cui fare sfoggio della propria collezione. Come è ormai noto, la funzione di un NFT (Non Fungible Token) è quella di certificare una proprietà digitale, e di rendere trasparente su una blockchain il valore della proprietà e lo storico delle transazioni. Uno dei suoi principali vantaggi è l’interoperabilità, ossia la possibilità di portare le proprietà digitali da un marketplace a un altro, e da uno spazio virtuale a un altro. Prima di contagiare il mondo dell’arte, tuttavia, è in quello dei videogame che l’idea di proprietà digitale si è manifestata e consolidata: terra virtuale, spazi e accessori 3D, skin, capi d’abbigliamento e altri oggetti indossabili per avatar costituiscono la stragrande maggioranza degli NFT disponibili sui marketplace interni ai singoli metaversi e sui mercati aperti come OpenSea. È in quest’ottica che i metaversi diventano i luoghi principali di socializzazione, di promozione e di presentazione delle collezioni d’arte registrata su blockchain: lo spazio in cui una collezione può manifestarsi in forme monumentali, raccogliere un’audience, fare da sfondo a un party. Un investitore puro si accontenterebbe di tenere le proprietà nel suo portafogli; un collezionista tradizionale di installarle nel proprio spazio privato, mostrarle in uno spazio fisico, farle circolare sui social media. Musei, gallerie e mostre negli spazi virtuali dei metaversi sono invece la manifestazione di un collezionismo “gamificato” e di una nozione estesa di proprietà digitale, ma allo stesso tempo veicolano una nozione impoverita di arte, ridotta a due funzioni primarie: ostentazione di possesso (o promozione di una merce, nel caso delle mostre e delle gallerie commerciali) e decorazione parietale. A queste due funzioni, musei come il B.20 Monument ne associano una terza: la promozione di un fondo di investimento. Con i suoi tre piani di

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DOMENICO QUARANTA domenicoquaranta.com

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È SBARCATA SU TIKTOK ED È A CACCIA DI IDEE

scrivici!


MEDIOEVO/PISTOIA • BURRI E GIACOMELLI/ROMA

27 BENOZZO GOZZOLI/FIRENZE • CANOVA/ROVERETO


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IN APERTURA / MEDIOEVO / PISTOIA

Il Medioevo rivive a Pistoia Marta Santacatterina

C

orreva l’anno 1140: il vescovo Atto, con lo scopo di ricomporre i conflitti che ne minavano l’autorità, riuscì a portare a Pistoia una preziosa reliquia di San Giacomo, l’apostolo che diede poi il nome al celebre “Cammino” di pellegrinaggio che si conclude nella grandiosa basilica di Santiago di Compostela. L’arrivo del sacro frammento, nonché la consacrazione di un primo altare dedicato al santo nella Cattedrale di San Zeno, è narrato nel Liber de legenda sancti Jacobi, un manoscritto del 1240-50 conservato nell’Archivio di Stato di Pistoia, a testimonianza dell’eccezionalità dell’evento che in effetti proiettò la città in una dimensione europea, inserendola nella frequentatissima rete delle strade di pellegrinaggio italiane e comportando una crescita di notorietà, di traffici e scambi economici. Non solo: la presenza della venerata reliquia consacrò il ruolo di Pistoia come protagonista nel panorama delle arti e della cultura italiane di quei secoli, nonostante la “spietata concorrenza” delle vicine sorelle, ben più potenti: Firenze e Pisa.

TRACCE DI MEDIOEVO A PISTOIA

La lontana acquisizione rappresenta ora il punto di partenza della mostra Medioevo a Pistoia. Crocevia di artisti fra Romanico e Gotico che, dopo tanti decenni da una precedente esposizione del 1950, si pone lo scopo di “presentare un quadro critico della storia delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo”, dichiara la neonominata direttrice di Pistoia Musei, Monica Preti, rompendo così un lungo silenzio a cui forse ha contribuito la mancanza di un artista pistoiese Doc che fungesse da gloria cittadina. Le opere sono ospitate su due piani dell’Antico Palazzo dei Vescovi, edificio già attestato nel 1091 e che ancora conserva una cappella affrescata a inizio Trecento con storie di San Nicola e degli Apostoli; in secoli più recenti il palazzo subì una sorte travagliata fino all’acquisizione della locale Cassa di Risparmio nel 1973 che lo inaugurò come sede museale, mentre risale agli ultimi anni un intervento di valorizzazione conclusosi, almeno in gran parte, proprio in occasione dell’apertura della mostra. Alla sezione principale si affianca quella al Museo Civico dove, tra le altre cose, al piano terra si conserva una splendida Maestà che risponde a una tradizione tipicamente toscana di affrescare con una pittura monumentale i palazzi comunali, affidando così i cittadini alla protezione mariana. La mostra inoltre non può essere compresa senza percorrere il ben conservato centro storico medievale di Pistoia – peraltro assai poco turistico, quindi ancora molto autentico – e senza entrare nelle

principali chiese da cui provengono molte delle opere esposte e dove si possono sgranare gli occhi davanti alle pitture, ai rilievi e ai pulpiti riccamente scolpiti che vi si conservano.

OPERE E ARTISTI

Nel palazzo episcopale l’allestimento si pone l’obiettivo di restituire quello che i tre curatori (Angelo Tartuferi ed Enrica Neri Lusanna per la pittura e Ada Labriola per la miniatura) hanno definito come “il concerto delle arti”: le sessantotto opere di scultura, pittura, illustrazione libraria e oreficeria – alcune delle quali restaurate per l’occasione – vengono infatti messe sullo stesso piano e intonano un dialogo tra loro e con i contesti da cui provengono. Sullo sfondo sta un capolavoro identitario: l’altare argenteo dedicato a San Jacopo. Conservato nell’adiacente Cattedrale di San Zeno, il grandioso manufatto ha visto una genesi lunga e complessa, iniziata nel 1287 e terminata nel 1456, secolo quest’ultimo in cui fu chiamato a lavorarci anche un giovanissimo Filippo Brunelleschi, che realizzò due busti di profeti. Nelle sale della mostra, a richiamare l’abilità dei maestri orafi che parteciparono all’impresa, vi sono alcuni preziosi oggetti liturgici come un calice di Pace di Valentino (1270 circa) e una croce astile di Andrea di Jacopo d’Ognabene. La prima opera che si incontra è tuttavia una formella intagliata dal pisano Taglia di Guglielmo, proveniente dal pulpito non più esistente della cattedrale: magnifici rilievi vegetali sono arricchiti da quattro teste e da un fondo a geometrie bianche e nere, proprio quelle cromie tipiche dei paramenti esterni a fasce delle chiese. La scultura coeva locale è ben rappresentata da altri lavori dallo stesso artista e di altri scultori, fino a giungere alle opere di Nicola Pisano e di Giovanni Pisano, che è presente con due crocefissi e con un sorprendente Angelo che ostende la testa di San Giovanni Battista. Un’opera dall’iconografia assai rara, forse di ispirazione nordeuropea e che collega immediatamente la mostra al vicino battistero, dedicato proprio al santo di cui il serafico angelo regge un enorme testone, barbuto e ovviamente sofferente vista la macabra decapitazione.

PITTURA E CODICI MINIATI

Quanto alla pittura, prevalgono inevitabilmente i fondi oro, anche se si rimane ammirati davanti a un affresco con San Michele arcangelo che pesa un’anima, strappato da una chiesa genovese e di mano di un artista pistoiese, Manfredino di Alberto. Con gli


IN APERTURA / MEDIOEVO / PISTOIA

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I LUOGHI DELLA SCULTURA PISTOIESE

Chiesa di Sant’Andrea Pulpito di Giovanni Pisano, 1298-1301 Architrave di Gruamonte e Adeodato con il Viaggio dei re Magi, 1166

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Chiesa di San Bartolomeo in Pantano

Corso Anton io G

Architrave di Gruamonte con Gesù che dà i comandamenti agli apostoli o l’Incredulità di Tommaso, 1167 Pulpito di Guido da Como, metà del XIII secolo

Piazza Duomo

Battistero di San Giovanni in corte Lunetta con Madonna con bambino e santi Giovanni Battista e Pietro di Tommaso e Nino Pisano 1301-1361. Fonte battesimale datato 1226 e firmato da Lanfranco da Como

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Museo Civico

Cattedrale di San Zeno Altare di San Jacopo, 1287-1456

Antico Palazzo dei Vescovi Chiesa di San Pier Maggiore L’architrave del portale di centro è forse opera dell’officina di Guido da Como, che vi raffigurò Gesù che porge le chiavi a San Pietro, circondato dalla Vergine e dagli apostoli.

Chiesa di San Giovanni Fuoricivitas Architrave di Gruamonte con l’Ultima cena, 1166 Pulpito di Fra Guglielmo da Pisa, 1270

Corso

incarnati verdastri, le pieghe rigide dei pannelli, le lumeggiature che sembrano incise, manifesta ancora modelli bizantini, aggiornati però sulla lezione di Cimabue. Più numerose in mostra le testimonianze del XIV secolo, a cominciare dalle tavole dipinte dal Maestro del 1310, figura probabilmente autoctona e capostipite della pittura trecentesca a Pistoia. Pochi anni prima della metà del secolo ecco comparire sulla scena locale il più noto Pietro Lorenzetti e Taddeo Gaddi, cui fu commissionata una grandiosa pala d’altare per la chiesa di San Giovanni Fuoricivitas. Ma pure in periodo tardogotico, già in pieno Quattrocento, a Pistoia giunsero maestranze di alto spessore: ne sono esempi le tavole del Maestro della Cappella Bracciolini – a sancire il definitivo passaggio di Pistoia nell’orbita politica di Firenze –, mentre le scuole locali “parlano” un linguaggio originale ed espressivo con Antonio Vite. Il concerto delle arti non potrebbe risuonare senza i codici miniati: pitture “in piccolo”,

Silvano Fedi

riservate allo sguardo di pochi religiosi e realizzate negli scriptoria da abili maestri. L’Archivio Capitolare di Pistoia custodisce il nucleo quasi integro della biblioteca di San Zeno, da cui provengono molti volumi esposti, tutti da osservare con attenzione per lasciarsi trasportare in un’arte che non si limita solo all’immagine, ma coinvolge anche la mise en page di testo e decorazione (oggi la definiremmo “grafica”) e in cui si trovano rimandi sia alle pitture di grande formato sia ai modelli e agli stili tipici dell’illustrazione libraria di altre città, come Bologna. Ecco allora che l’intento del progetto, esplicitato nel sottotitolo, si delinea chiaramente: in quegli anni Pistoia fu davvero crocevia di artisti giunti dalle aree limitrofe per lasciare capolavori che ancora oggi narrano una storia ricca e complessa, pari a quella delle altre città che proprio nei secoli del Medioevo costruirono la loro identità municipale. Un’identità che, a ben vedere, è ancora la spina dorsale di un territorio che molti secoli dopo divenne nazione, l’Italia.

fino all’8 maggio 2022

MEDIOEVO A PISTOIA Crocevia di artisti fra romanico e gotico a cura di Angelo Tartuferi, Enrica Neri Lusanna, Ada Labriola Catalogo Mandragora ANTICO PALAZZO DEI VESCOVI E MUSEO CIVICO Piazza del Duomo 3 Piazza del Duomo 1 – Pistoia pistoiamusei.it

Giovanni Pisano e collaboratore, Angelo che ostende la testa di san Giovanni Battista, legno di noce intagliato dipinto e dorato, fine XIII-inizio XIV secolo. Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi (proprietà Chiesa cattedrale)


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OPINIONI

La copertina di

Opere che (non) tornano a casa

FERNANDO COBELO

Fabrizio Federici storico dell'arte

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uando un capolavoro espatriato passa all’asta, da più parti si levano voci che chiedono il rientro dell’opera in Italia. Il più delle volte gli appelli restano inascoltati: i ricconi nostrani, che potrebbero fare una bellissima figura, magari donando o prestando poi l’opera, da veri mecenati, a una raccolta pubblica, non mettono mano al portafogli; lo Stato, che non ha o dice di non avere le cifre necessarie, si tira indietro. Senza scomodare l’episodio del Salvator Mundi attribuito a Leonardo (un caso a parte, per il prezzo di vendita iperbolico), possiamo ricordare la riscoperta Donna Olimpia Maidalchini di Diego Velázquez, venduta per poco più di due milioni e mezzo di euro nell’estate del 2019, e il più recente caso dell’affascinante (ma discusso) Parmigianino raffigurante Saturno e Filira, che un anonimo acquirente si è assicurato per l’abbordabile cifra di 587.770 euro. Fernando Cobelo (Venezuela, 1988) è un illustratore che lavora con linee pulite, definite, essenziali, infantili anche. Crea opere che parlano di un universo pieno di sogni surrealisti e incubi molto reali, con un’espressione ingenua e semplice, nella quale risulta facile ritrovare frammenti di noi stessi. Illustrazioni che stuzzicano i nostri pensieri, muovono i nostri sentimenti e ci trasportano in un mondo di affascinanti incontri personali. Questo approccio emozionale gli ha permesso di lavorare con clienti come il New York Times, Le Nazioni Unite, Google, Penguin / Random House, il Washington Post, il Wall Street Journal, TED, Walt Disney Studios, Corriere della Sera, UNICEF, Vanity Fair, Lavazza, Zanichelli, Montblanc, Barilla, WIRED, Lonely Planet, Camera Nazionale della Moda Italiana, WeTransfer, Samsung e Swatch. Inoltre, i suoi lavori sono stati riconosciuti da Society of Illustrators di New York, Autori di Immagini, Association of Illustrators del Regno Unito, American Illustration e altre importanti istituzioni legate al mondo dell’illustrazione. Nell’ambito formativo, Fernando ha insegnato e tenuto diverse attività didattiche in alcune università e istituti italiani quali IED, LUISS e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e altre scuole e atenei internazionali in Messico, India, Russia, Cina, Venezuela, Bulgaria e Turchia. fernandocobelo.com

Quando un capolavoro espatriato passa all’asta, in molti ne chiedono il ritorno in Italia ASTE E RITORNI?

Gennaio del 2022 si preannuncia ricco da questo punto di vista: il 27 vanno all’asta da Sotheby’s, a New York, tra le altre gemme, un Vir Dolorum attribuito a Botticelli, uno splendido ritratto di Andrea del Sarto e una Maddalena distesa e leggente in cui va forse riconosciuto l’originale di Correggio, noto sinora attraverso copie e derivazioni. Ciascuno di questi dipinti parte da una stima di diversi milioni di dollari. Più contenuta (né d’altra parte siamo agli stessi livelli di qualità) è la valutazione per un’opera comunque di grande interesse, il monumento sepolcrale di Anna Colonna Barberini, realizzato in bronzo dorato e marmo nero poco dopo il 1658 da Gabriele Renzi. Sarebbe bello se la scultura potesse tornare in Italia:

magari a Palazzo Barberini, dove la bronzea Anna ha soggiornato per alcuni anni alla fine dell’Ottocento, dopo che la chiesa che accoglieva il monumento era stata demolita, e dove l’effigie sepolcrale potrebbe trovare posto nella sala dedicata alla famiglia Barberini da poco inaugurata.

LA COLLEZIONE CYBO MALASPINA

Per un’opera che potrebbe tornare, altre potrebbero lasciare l’illustre dimora. Due dipinti di Salvator Rosa lo hanno già fatto, nell’ambito dell’intelligente iniziativa del Ministero della Cultura 100 opere tornano a casa, e sono state portate a Matera. Altre opere della Galleria Nazionale non esposte, che sarebbe bello ‘rimpatriare’ per un certo periodo, sono alcuni dipinti della collezione Cybo Malaspina, già custoditi nel Palazzo Ducale di Massa, trasferiti a Roma negli Anni Venti del Settecento e pervenuti allo Stato, dai Torlonia, nel 1892. Spicca in questo nucleo di opere il Ritratto di Leone X con due cardinali da Raffaello, dipinto da Giuliano Bugiardini nel 1520, con una notevole variante: si fa fuori il cardinale Luigi de’ Rossi e al suo posto si inserisce il ritratto del committente del dipinto, Innocenzo Cybo, anch’egli porporato nipote di papa Medici. L’effigie starebbe proprio bene nella reggia cybea di Massa, e la prospettiva del suo rientro potrebbe anzi rappresentare uno stimolo fondamentale a far sì che lo splendido palazzo sia finalmente liberato, almeno in parte, dagli uffici e venga destinato a usi culturali.


OPINIONI

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Tre artisti storici e la video-arte

Istituiamo la Biennale dell’arte vivente

Antonio Natali storico dell’arte

Stefano Monti economista della cultura

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ogliono essere, queste righe, un invito a guardare, come fossero esibiti in una mostra, i tre video coi “ritratti” di Buffalmacco, Rosso Fiorentino e Pontormo girati con la regia di Federico Tiezzi, ideatore del progetto. Sembianze di mostra ha difatti l’allestimento ordinato dall’Accademia di Firenze, con tre schermi posti in differenti locali dell’edificio: tutti luoghi di transito per i tanti studenti che in quelle stanze s’educano all’arte nelle sue varie tecniche, con l’insegnamento della storia dell’arte a tenerle unite. E proprio di quest’insegnamento è parte l’esposizione dei tre video, dove il missaggio di parole e immagini accorda tradizione e attualità, in una sintonia ch’è buon viatico per chi in quelle stanze s’addestri. Tre ritratti che sono monologhi desunti dalle Vite di Giorgio Vasari, riscritti da Fabrizio Sinisi con mano a tal segno sicura da non lasciar trapelare varianti e ingerenze; come se i tre attori chiamati a impersonare quegli artefici grandi recitassero senza deflessioni le pagine del biografo aretino, solo volgendone i verbi alla prima persona singolare. Di Giovanni Frangi sono i costumi e le scene: quel poco che basta a secondare liricamente gli assunti critici sottesi alla rilettura di Federico Tiezzi; che, pur nella consonanza col testo di Vasari, calca la mano o per converso l’alleggerisce conforme alle sue personali convinzioni critiche riguardo ai tre artisti.

BUFFALMACCO, ROSSO FIORENTINO E PONTORMO

La titolazione dell’impresa è chiarissima: “progetto di video-arte e teatro”: descrizione esplicita di quanto si debba attendere lo spettatore: un video e, insieme, teatro. Abbinamento toccante per uno della mia generazione che abbia conosciuto i lavori di Tiezzi e Sandro Lombardi fin dai tempi in cui la loro Compagnia si chiamava “Il Carrozzone” e poi “Magazzini criminali”. “Video-arte e teatro” s’insinuano nella memoria, accavallando visioni disparate di

spettacoli allestiti negli Anni Settanta e Ottanta. Lavori indimenticabili, che si guardavano come un dipinto pop, un happening o un’installazione: da Vedute di Porto Said a Crollo nervoso a Genet a Tangeri. Messinscene che sbalordivano con la luce azzurrina di neon e con le lamelle di veneziane, inclinate a filtrare una realtà metafisica, velata da paraventi effimeri. Era, anche quello, “teatro e video-arte”. Video, giacché l’effetto era cinematografico; teatro, perché teatro era; ancorché di meno parole, e anzi talora calato nell’afasia; ma tuttavia teatro. Ora però la parola torna nei soliloqui di Giovanni Grazzini, Roberto Latini e Sandro Lombardi, interpreti dei tre pittori: Buffalmacco (artista grande, noto ai più per le sue burle, crudeli talvolta, tramandate da Boccaccio), Rosso Fiorentino (voce fiera e spregiudicata della “maniera moderna”) e infine Pontormo (lui pure lirico protagonista della medesima “maniera”, turbato nella vita da ossessioni e fobie).

I tre attori che impersonano gli artisti recitano le pagine del Vasari STORIA DELL’ARTE E TEATRO

Sandro Lombardi, affascinante maschera di teatro, magistralmente incarna Jacopo, sia negli affanni per gli affreschi di San Lorenzo, sia nella serenità dei mesi passati alla Certosa al tempo della peste del 1523. È nell’isolamento di quel romitorio, in quella quiete, in quel silenzio che Jacopo si gode finalmente un poco di vita. E il volto di Sandro si distende, lo sguardo si vela di commozione e la voce s’addolcisce mentre tesse l’elogio della solitudine: alla grazia della creazione ci s’accosta solo rimanendo in disparte, “lontano dal commercio degli uomini. Fuori dal chiasso del tempo”.

È

recente l’istituzione di un percorso espositivo internazionale, Cantica 21, che ha visto la collaborazione del Ministero della Cultura e del Ministero per gli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sviluppato con l’obiettivo di sostenere la produzione di artisti emergenti (o già affermati) esponendone le opere negli Istituti Italiani di Cultura all’estero. Una iniziativa che risale a qualche anno fa è la proposta provocatoria di Vittorio Sgarbi di includere, all’interno del Padiglione Italia della Biennale di Venezia, l’intera produzione italiana. Ancora meno recente, infine, un’altra iniziativa (Gemine Muse) realizzata dal GAI – Giovani Artisti Italiani, nella quale giovani artisti dialogavano, mediante propri lavori, con opere presenti nei musei delle numerose città che aderivano al progetto.

UN’OPPORTUNITÀ PER GLI ARTISTI EMERGENTI

Coniugando le aspirazioni di queste iniziative, si potrebbe delineare un progetto nuovo che, partendo da quanto realizzato, definisca un inedito appuntamento dedicato alla nostra produzione artistica. Una strada possibile sarebbe la creazione di un appuntamento biennale dedicato ad artisti emergenti o pre-emergenti che si distribuisca sull’intero territorio nazionale, guidato da un soggetto (sia esso pubblico, privato, o, si spera, una partnership tra tali soggetti) che coordini a livello centrale tutte le esposizioni locali, ciascuna delle quali affidata a team di professionisti del mondo dell’arte. A ciascun Comune partecipante verrebbe affidato un team composto da curatori, museografi, tecnici e un team di comunicazione e creazione di servizi aggiuntivi (visite guidate), che, coordinando le proprie attività a livello nazionale, possano realizzare una mostra selezionando gli artisti che, a livello centrale, propongono le proprie candidature. Ovvio che un evento di queste dimensioni richieda quantomeno una durata annuale, così

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da consentire ai cittadini di qualsiasi territorio del nostro Paese di fruire una mostra d’arte nelle istituzioni a loro più vicine: il proprio Comune, i Comuni limitrofi, ecc. Piccoli musei, piccoli Comuni, giovani curatori, giovani artisti. Uno scenario completo e variegato dell’arte in Italia: non necessariamente “contemporanea” ma sicuramente “vivente”.

PRODUZIONE E CULTURA

Chiaramente una struttura di questo tipo non può autosostenersi attraverso gli introiti dei biglietti, ma può intercettare molte opportunità di finanziamento, sia di tipo pubblico, sia, e soprattutto, di soggetti privati coinvolti nel mercato dell’arte. Da tale evento, infatti, emergerebbero in modo chiaro network di professionisti (curatori, grafici, ecc.) e rapporti virtuosi tra artisti e gallerie d’arte, che troverebbero così una sorta di catalogo generale da cui scegliere gli artisti su cui investire negli anni successivi.

Il nostro mercato dell’arte ha bisogno di uno shock Una così vasta produzione consentirebbe, inoltre, di creare nuovi modelli di coinvolgimento della cittadinanza: la presenza di artisti emergenti e pre-emergenti consentirebbe di adottare iniziative di comunicazione e promozione meno istituzionalizzate e il coinvolgimento di tanti Comuni ben si coniuga con l’attenzione ai territori minori che attualmente conosce un periodo di grande favore. L’Italia non è così grande da rendere impossibile un’attività di questo tipo e la nostra produzione artistica vivente non potrebbe che trarre benefici da un tale progetto. Perché il nostro mercato dell’arte, per quanto molti lo difendano con forza, ha forse bisogno di uno shock che modifichi gli assetti in atto: una iniziativa di questo tipo, se ben sviluppata e ben gestita, avrebbe tutte le carte in regola per introdurre novità nell’ambito della produzione e fruizione culturale.


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FOTOGRAFIA / BURRI E GIACOMELLI / ROMA

Burri e Giacomelli: storia di un’amicizia

Angela Madesani

I

l rapporto analizzato dalla mostra allestita nello Spazio Extra MAXXI non è un legame creato a tavolino dalla critica, bensì la storia di un rapporto sviluppato nel corso degli anni, fatto di lettere, scambi, incontri e mostre. Il primo incontro fra Mario Giacomelli (Senigallia, 1915-2000) e Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995) risale al 1966 e già nel 1968 va in scena la prima mostra a Città di Castello con otto immagini del fotografo dedicate al pittore. Galeotto è Nemo Sarteanesi, pittore, intellettuale e amico di Burri, che, a Senigallia, conosce Giacomelli, giovane e intelligente tipografo con la passione per la fotografia e la pittura. Mette così in contatto i due. Burri, tra l’altro, era un appassionato ma riservatissimo fotografo. Il terreno era fertile.

I PUNTI DI CONTATTO FRA BURRI E GIACOMELLI

La condivisione più evidente si può scorgere in una serie come Presa di coscienza sulla natura, che riunisce i paesaggi di tipo astratto del fotografo marchigiano. Ma il legame tra loro non è di carattere iconografico, o meglio lo è solo in senso parziale. È, la loro, un’affinità esistenziale, ideale, di visioni comuni del circostante. Giacomelli scriveva:

I DUE ARTISTI IN BREVE Alberto Burri, medico di formazione, inizia a dipingere durante la Seconda Guerra Mondiale, in un campo di prigionia americano. Dapprima usa elementi naturali – ben visibili nei Neri, nei Gobbi, nelle Muffe, nei Sacchi, nelle Combustioni – per poi passare a elementi artificiali, come nelle Plastiche degli Anni Sessanta. Del decennio successivo sono le grandi superfici screpolate, chiamate Cretti, e i Cellotex. Nel 1985 inizia a lavorare al Grande Cretto di cemento bianco, che ricopre le macerie di Gibellina in Sicilia, distrutta dal terremoto. Mario Giacomelli intraprende la sua attività di fotografo negli Anni Cinquanta. La sua produzione più significativa è quasi tutta in bianco e nero, con forti contrasti tonali, come attestano i paesaggi dal sapore astratto esposti in mostra. Tra le sue opere più conosciute le serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1955-56), realizzata all’ospizio di Senigallia, Scanno (1957-59), i Pretini (196263), incentrata sulla vita dei giovani seminaristi della sua città, e La buona terra, un’analisi poetica dedicata al mondo contadino.

“La natura è lo specchio entro cui mi rifletto. Perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla tristezza che ho dentro”. Parole che paiono quanto mai attuali e che trovano una corrispondenza con il Burri che si rifugiava in montagna, nel silenzio del territorio tifernate, alla ricerca di un senso del proprio vivere e operare. Quest’ultimo scriveva a Giacomelli: “Il posto è bello e comodo. Prenda la macchina, la fotografica, e venga su, faremo una bella chiacchierata. Si metta d’accordo con Nemo Sarteanesi che l’accompagnerà”. Primo a leggere l’intensità di questo rapporto, nel catalogo della mostra del 1983, è stato Carlo Arturo Quintavalle. Spiega in quell’occasione le modalità operative di Giacomelli, che dopo aver individuato il terreno adatto a fotografare, il più delle volte interviene su di esso con l’aratro per creare solchi e segni, così da offrire un bilanciamento delle tonalità. Nessuna lettura naturalistica, la sua è una volontà di appiattimento della veduta, ridotta a luogo di contrasti formali, di complesse relazioni tonali che, in tal senso, avvicinano le sue opere a quelle di Burri. Scrive lo studioso: “Hanno una comune matrice nella tradizione ‘astratta’ e sono dunque loro a rappresentare lo spazio in modo simbolico, sono loro a scegliere volutamente il non colore, Burri quello dei sacchi e poi il nero dei cretti e Giacomelli quello tutto simbolico dei contrasti violenti dei neri e dei bianchi”.


FOTOGRAFIA / BURRI E GIACOMELLI / ROMA Burri inizia a lavorare alle Combustioni

Burri lavora ai Cretti

Alberto Burri nasce a Città di Castello

1915

1925

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Burri muore a Nizza

ANNI ‘50

ANNI ‘60 1963

Mario Giacomelli nasce a Senigallia

Nel lavoro di entrambi si coglie un senso di paura e di morte, entrambi danno vita a una sorta di Land Art che entra nel profondo della terra. I due sono attratti dalle pratiche contadine, dalle ferite, in una tensione continua verso una dimensione infinita. Le mani dei lavoratori, devastate dalla fatica, rinsecchite dal sole e dal contatto con la materia, possono trovare un punto di arrivo nei Cretti di Burri o nei solchi dei paesaggi di Giacomelli, in cui l’uomo è protagonista, in relazione a un contesto non così facile da comprendere. Vi è una sorta di indomabilità, che entrambi hanno cercato di penetrare e di capire attraverso il proprio linguaggio artistico. “La natura dà più risposte di quante siano le nostre domande”, una delle riflessioni nate dai loro incontri durante i quali si parlava di donne, di vino, di terra, più che di arte. In mostra sono esposte parecchie opere grafiche di Burri, tra cui Cretti, 1971 e Combustioni, 1965, che dialogano con le fotografie di Giacomelli, in particolare quelle delle serie Metamorfosi della Terra, Presa di coscienza sulla natura e Storie di Terra. fino al 6 febbraio 2022

GIACOMELLI | BURRI Fotografia e immaginario materico a cura di Marco Pierini e Alessandro Sarteanesi Catalogo Magonza editore SPAZIO EXTRA MAXXI Via Guido Reni 4A – Roma maxxi.art

a sinistra: Alberto Burri, Combustione 3, dalla serie Combustioni, 1965, acquaforte e acquatinta, 48,5 x 37,5 cm © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, by SIAE 2021. Photo Alessandro Sarteanesi a destra: Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura “Omaggio ad Alberto Burri”, 1976-83, stampa vintage ai sali d’argento, 30,2 x 40,3 cm. Archivio Mario Giacomelli © Archivio Mario Giacomelli © Rita e Simone Giacomelli

1966

fra Burri e Giacomelli

1968

ANNI ‘70

1983

1995

2000

Seconda mostra di Giacomelli a Città di Castello

Nemo Sarteanesi conosce Mario Giacomelli a Senigallia

Giacomelli inizia a lavorare a Presa di coscienza sulla natura

IL VALORE DEL CONTESTO

primo incontro

Prima mostra di Giacomelli a Città di Castello

Giacomelli muore a Senigallia

INTERVISTA A KATIUSCIA BIONDI GIACOMELLI La nipote del fotografo, direttrice dell’archivio intitolato a suo nonno, tra i promotori della mostra, ricostruisce l’intenso legame tra Giacomelli e Burri. Qual è l’origine dell’amicizia tra i due? Negli Anni Cinquanta a Senigallia c’era un importante punto di incontro, la bottega del corniciaio Mario Angelini, dal quale si servivano sia Giacomelli che Sarteanesi. Il negozio ospitava dibattiti serali tra artisti locali, in cui si discuteva animatamente sull’Astrattismo e sull’Informale. Giacomelli, che oltre a fotografare dipingeva, amava il lavoro di Burri. Dopo i primi contatti epistolari dal 1963, nel 1966 Burri e Giacomelli si incontrano di persona, e nel 1983 la Fondazione Burri dedica, in via eccezionale, una mostra fotografica a Giacomelli, che sancisce il loro rapporto di amicizia. Il mondo dell’Informale affascinava intimamente Giacomelli, sia nella propria espressione artistica, sia nello studio, nelle letture. Aveva una bella biblioteca? Direi di sì, ci sono parecchi libri di poesia. In tal senso Giuseppe Cavalli era stato il suo primo mentore. Molti volumi di fotografia, di arte, di grafica, diversi sulla pittura informale, che Giacomelli amava, attratto dalla materia, nella sua vivida essenzialità. Quali sono a tuo parere i punti di contatto tra Burri e Giacomelli? Entrambi erano uomini profondamente solitari, ma nel corso degli anni i due si scambiarono diverse visite, perché tra loro c’era una forte empatia. Quando mio nonno mi parlava del suo rapporto con Burri, faceva sempre riferimento alle loro passeggiate, immersi nel paesaggio. Così come si legge nella lettera di Burri, quando invita per la prima volta Giacomelli da lui, suggerendogli di portare la macchina fotografica perché c’è una grande

natura ad aspettarlo. Sentivano allo stesso modo la natura e la materia. Loro se ne stavano lì, a contemplare il paesaggio, e i segni lasciati dal contadino perlopiù inconsapevole sulla terra. Per entrambi l’infinito, la bellezza scaturivano dai fenomeni più umili. Nel lavoro di entrambi pare di potere rintracciare il senso del dolore e della ferita. Forse l’esperienza della guerra, partecipata nel caso di Burri e vissuta da giovanissimo spettatore nel caso di Giacomelli, aveva lasciato a entrambi segni, bruciature, cicatrici. L’aggrovigliamento materico delle Plastiche, dei Cellotex di Burri può essere paragonato all’azione violenta degli acidi nel lavoro del fotografo in camera oscura, per cui il bianco mangiato e il nero chiuso trasformano il reale in materia, una materia che non si coglie semplicemente con la vista, che definisce, limita, separa, ma con l’anima, che è aperta alla metamorfosi. Il nero chiuso lascia intuire il brulicare della materia al suo interno, il bianco mangiato fa risaltare la figura nera. Anche nei suoi appunti sui provini di stampa c’è sempre un riferimento alla materia, che deve permanere pure quando i neri si chiudono. Giacomelli diceva che, nelle sue foto di paesaggio, i neri chiusi sono buchi dove cadono i suoi problemi, che lui continua a fotografare, come in un rituale purificatore. La materia fotografica è vibrazione, sofferenza, ma anche il suo opposto, vita, consapevolezza di esistere hic et nunc.


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GRANDI CLASSICI / BENOZZO GOZZOLI / FIRENZE

L’omaggio di Firenze a Benozzo Gozzoli Niccolò Lucarelli

A

seicento anni (più uno) dalla scomparsa, Firenze rende omaggio a Benozzo di Lese di Sandro, più noto come Benozzo Gozzoli (San Colombano, 1420 – Pistoia, 1497). La mostra allestita a Palazzo Medici Riccardi descrive uno degli artisti tra i più innovativi della sua epoca. Fu nella ricca e raffinata Firenze medicea, all’epoca retta da Cosimo il Vecchio, che Benozzo mosse i primi passi a fianco del Beato Angelico, affrescando le celle del dormitorio del Convento di San Marco, per poi seguirlo a Orvieto per la Cappella di San Brizio nel Duomo, e a Roma per la Cappella Niccolina nel Palazzo Apostolico in Vaticano. In mezzo, Benozzo ebbe anche occasione di collaborare con Lorenzo Ghiberti alla realizzazione della Porta del Paradiso, destinata al Battistero. Pur essendo stato attivo anche in Umbria, a Roma e in varie zone della Toscana, la mostra si concentra principalmente sul suo legame con Firenze.

LA CAPPELLA DEI MAGI

Cuore pulsante della mostra è la Cappella dei Magi, prezioso scrigno racchiuso al piano nobile di Palazzo Medici Riccardi, progettata da Michelozzo di Bartolomeo, che si attenne alla lezione di Filippo Brunelleschi, riprendendo la planimetria della Sagrestia di San Lorenzo. Al momento di commissionare gli affreschi, la scelta della famiglia Medici cadde su Benozzo, in quanto Filippo Lippi stava già lavorando al Duomo di Prato, Piero della Francesca si divideva tra Roma e Arezzo, mentre Alesso Baldovinetti era ritenuto vicino alla rivale famiglia dei Pazzi. Questi affreschi rappresentano il suo capolavoro, strutturato sul tema del viaggio intrapreso per rendere omaggio al Messia, e colpiscono l’opulenza e l’esotismo dei dignitari bizantini, i quali altro non sono che ritratti della stessa famiglia Medici: Cosimo, i figli Piero e Giovanni, i nipoti Lorenzo e Giuliano. Un’allegoria del potere temporale che, ben saldo sulla Terra, rende omaggio a quello spirituale, immortalato nella tavola d’altare con la Natività. Nella ricchezza delle vesti si apprezza l’interesse per la decorazione minuziosa e per il lusso fastoso delle dorature, che probabilmente l’artista assorbì nell’osservare fin da bambino il padre farsettaio all’opera con stoffe preziose. Successive modifiche alla struttura della Cappella hanno in parte cancellato alcune scene affrescate e alterato il gioco di luce delle primitive finestre, ma l’imponenza e la suggestività del lavoro di Benozzo sono giunte intatte fino a noi.

fino al 10 marzo 2022

BENOZZO GOZZOLI E LA CAPPELLA DEI MAGI a cura di Serena Nocentini e Valentina Zucchi Catalogo Sillabe PALAZZO MEDICI RICCARDI Via Camillo Cavour 3 – Firenze palazzomediciriccardi.it

Benozzo Gozzoli, Madonna con il Bambino e angeli, 1430-40 circa. National Gallery, Londra

UN ARTISTA RAFFINATO

A corredo degli splendidi affreschi della Cappella, le sale espongono una piccola selezione di disegni, la tavoletta della Madonna con il Bambino e angeli, in prestito dalla National Gallery di Londra, e la Pala della Sapienza Nuova proveniente dalla Galleria Nazionale dell’Umbria. Di Benozzo la critica più attenta ha sempre apprezzato quel suo poetico sguardo sul mondo che si palesa nella composizione raffinata, nella ricercatezza delle finiture, nelle ariose proporzioni geometriche e nelle decorazioni che raggiungono il gusto fiabesco, in particolare se osserviamo gli squarci di giardini fioriti o gli effetti di luce che irradiano di poesia le scene immortalate, e che gli affreschi della Cappella esprimono in maniera ancora più scenografica. I disegni riportano l’idea per soggetti poi sviluppati negli affreschi della Cappella, mentre un’installazione multimediale immersiva permette di apprezzare il ciclo fin nei suoi minimi particolari.


GRANDI CLASSICI / IL NOVECENTO / ALESSANDRIA

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Alessandria terra di artisti

Arianna Testino

I

l ‘Dizionario degli artisti alessandrini tra ‘800 e ‘900’ segnala che ben trentadue di loro esposero alla Biennale di Venezia dal 1895 al 1964. Considerando la Promotrice di Torino, la Triennale di Milano e la Quadriennale di Roma, il numero cresce in modo esponenziale. Una concentrazione che si è verificata in un territorio certamente ricco di storia e cultura, ma privo di un’Accademia alle Belle Arti. Da questa constatazione è nato il proposito di dare vita a questa mostra. Una storia di artisti, dai più celebri come Giulio Monteverde, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Angelo Morbelli, Leonardo Bistolfi e Carlo Carrà ad artisti meno noti, ma altrettanto interessanti e da conoscere, come Duilio Remondino, futurista internazionalista della prima ora. La singolarità delle loro ricerche emerge nel confronto proposto da un allestimento che rievoca le varie fasi della storia dell’arte del secolo scorso, immaginando le opere stesse appese sulle pareti delle case dell’epoca. La sala centrale presenta venticinque paesaggi di altrettanti autori, a partire da Carlo Carrà, in un confronto che mette in luce i diversi modi di interpretare la natura, le differenti prospettive della visione, dall’intensità del segno alla corposità della materia impiegata”.

I TALENTI DI ALESSANDRIA

Con queste parole Maria Luisa Caffarelli e Rino Tacchella, curatori della mostra allestita

presso il Palazzo del Monferrato di Alessandria, sintetizzano peculiarità e obiettivi di una rassegna che individua il proprio fulcro nel territorio alessandrino, insospettabile fucina di talenti destinati a occupare una posizione di rilievo nel panorama creativo novecentesco. Le opere provenienti dalle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria e della Camera di Commercio di Alessandria-Asti, oltre a quelle custodite in raccolte private, avvolgono il filo della “storia di artisti” evocata dal titolo, tratteggiando i limiti di una geografia a impronta locale che sconfina ben presto fino al 13 marzo 2022

ALESSANDRIA. IL NOVECENTO. DA PELLIZZA A CARRÀ UNA STORIA DI ARTISTI a cura di Maria Luisa Caffarelli e Rino Tacchella Catalogo Line.Lab PALAZZO DEL MONFERRATO Via San Lorenzo 21 – Alessandria palazzomonferrato.it

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Dintorni di Volpedo, 1905-06, olio su tela. Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, particolare

nei grandi centri urbani – Torino, Milano, Roma –, collettori di energie e fermenti e destinazioni scelte da molti degli artisti esposti. Eppure la base di partenza resta il territorio di Alessandria e della sua provincia, culla di pittori saliti alla ribalta nazionale come Pellizza da Volpedo, Morbelli e Carrà, ma anche di una compagine meno nota – formata da Vito Boggeri, Angelo Barabino, Pietro Morando – e decisamente da studiare per la freschezza di un approccio che trova nell’interiorità e in certe atmosfere intimiste la sua nota di merito.

DALL’ARTE ALL’ARCHITETTURA

Terra densa di suggestioni paesaggistiche e naturali, l’Alessandrino diventa il trampolino di lancio per carriere nate nel solco di un “genius loci” – come lo identifica la curatrice Caffarelli fra le pagine del saggio in catalogo – fertile e carico di spunti. Quegli stessi spunti hanno alimentato la riflessione progettuale di autori quali Marcello Piacentini, Ignazio Gardella, Paolo Portoghesi, attivi sul territorio nell’arco del secolo scorso e presenti in mostra grazie a rimandi fotografici e multimediali che a loro volta richiamano il discorso sugli artisti e i movimenti a cui hanno preso parte. Una mostra non tematica, dunque, percorsa da quell’“audacia curatoriale” menzionata da Caffarelli nel descrivere uno sguardo sulla provincia lontano dal cliché della riscoperta a tutti i costi, ma supportato da un solido impianto storico-geografico.


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DIETRO LE QUINTE / CANOVA / ROVERETO

Canova e il contemporaneo a Rovereto LA MOSTRA A BOLOGNA

Giulia Giaume

C

orpi. Il secondo piano del Mart di Rovereto è invaso da corpi. Ancora prima di entrare, un meraviglioso Roberto Bolle accoglie come un’ala di gabbiano – i muscoli perfetti e lucenti – i visitatori. Non si vede, ma questa è una mostra dedicata ad Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822): o meglio, alla purezza del marmo e del gesso di Canova, e a quel peccato che lo scultore neoclassico cela a malapena dietro un velo d’innocenza. Questo è il punto di partenza per un dialogo con una serie di opere otto-novecentesche, in apparenza di una fisicità più brutale ma segretamente dolci, in mostra al Mart. A fianco della Ninfa dormiente, della Maddalena penitente e del calco in gesso delle Tre Grazie ci sono gli abbracci omoerotici di Robert Mapplethorpe, i dipinti psichedelici di Paolo Marton, le sfocate riprese illecite di Miroslav Tichy, la Psiche tatuata di Fabio Viale, le fotografie materiche di Carla Cerati: sono oltre duecento le opere, in quella che il co-curatore Denis Isaia chiama la “tana dell’antiquario”. Come di consueto compaiono opere dalla collezione privata del presidente del Mart e ideatore della mostra Vittorio Sgarbi: è il caso di Filippo Dobrilla, qui

fino al 18 aprile 2022

CANOVA Tra innocenza e peccato A cura di Beatrice Avanzi e Denis Isaia Catalogo Sagep Editori MART Corso Bettini 43 – Rovereto mart.it

in alto: Fabio Viale, Amore e Psiche, 2021. Courtesy l’artista nalla pagina a fianco a sinistra: Antonio Canova, Venere italica, 1811, Museo Gypsotheca Antonio Canova, Possagno (TV) a destra: Helmut Newton, Big Nude III, Parigi, 1980. Copyright Helmut Newton Foundation

In occasione del bicentenario dalla morte di Canova c’è un’altra grande retrospettiva nel Nord Italia: la mostra Antonio Canova e Bologna. Alle origini della Pinacoteca, aperta fino al 20 febbraio 2022 nel Salone degli Incamminati della Pinacoteca Nazionale di Bologna. L’esposizione, curata da Alessio Costarelli, celebra il rapporto tra il maestro e la città – con le sue istituzioni e i suoi artisti – e in particolare con la Pinacoteca. Sono in pochi a sapere che l’artista contribuì grandemente al recupero del patrimonio felsineo, spendendosi personalmente in operazioni diplomatiche con la Francia per far rientrare un gran numero di opere trafugate durante i ratti napoleonici. Il genio neoclassico diventa qui un interlocutore di primo piano, di cui è ricostruito l’operato grazie a ricchi materiali d’archivio – i manoscritti raggiungono la dignità e preziosità dei marmi, ai fini del trionfo della cultura italiana e bolognese tra XVIII e XIX secolo –, anche grazie al contributo dell’Accademia di Belle Arti petroniana e dei Musei Civici di Bassano del Grappa. Se nella sezione dedicata alle relazioni tra Canova e la città (a partire dal primo viaggio nel 1779) spicca la Madonna col Bambino e santi di Annibale Carracci, nell’area dedicata al rapporto tra il maestro e l’Accademia c’è la sua Maddalena penitente, appena restaurata dagli studenti della Scuola interna all’Accademia; a questa seguono opere di Parmigianino, Perugino e Giacomo Cavedone, e una ricostruzione della prima, grande mostra realizzata nella chiesa dello Spirito Santo per esporre le diciotto opere recuperate dai saccheggi. Tutta l’esposizione, voluta dalla direttrice della Pinacoteca Maria Luisa Pacelli, va proprio a rievocare la storica mostra del 1816, ricreando la gioia del riappropriarsi del proprio patrimonio, celebrando Canova e la città di Bologna allo stesso tempo. L’augurio è che la Pinacoteca torni a stringere un rapporto di alleanza e affetto con la “dotta”, mostrando quanto siano profondamente intrecciate le loro radici.


DIETRO LE QUINTE / CANOVA / ROVERETO

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a fianco del video di Jeff Koons con Cicciolina, e Dino Pedriali, con le sue delicate e sfrontate foto di nudo maschile.

UN CANOVA VERO E VIVO

“‘Tra innocenza e peccato’ fa riferimento all’incontro tra l’ideale di bellezza dell’arte classica e la sensualità nascosta di Canova: mettere in luce questo aspetto è uno dei pregi della mostra”, spiega la co-curatrice Beatrice Avanzi. “Questa lettura restituisce un Canova vero e vivo, allusivo e ‘al limite’, come era percepito al suo tempo. E dire che Roberto Longhi, che amava Caravaggio, lo definì ‘nato morto’! Questa mostra va a rileggere l’opera di Canova, accostandola alla grande critica della sua epoca, dalle citazioni di Flaubert, che provava il ‘desiderio di baciare l’ascella di Psiche’, a quelle di Foscolo, che vedeva nella Venere Italica ‘non una dea ma una bellissima donna’”. La mostra, che molto deve ai quattordici prestiti della Gypsotheca di Possagno, coinvolge sia gli artisti che hanno cercato lo stesso ideale di purezza sia coloro che lo hanno (apparentemente) negato: “Pensavamo di chiamare l’ultima sezione ‘Tradire Canova’, ma dopo l’avanguardia la bellezza si trova anche nei corpi e nelle figure che sfiorano il grottesco”, raccontano i curatori. La bellezza delle figure proposte da Jan Saudek e Joel-Peter Witkin, donne nane o senza alcuni arti o transessuali, non sembrerà però affatto violenta agli spettatori che superino una visione abilista e post-colonialista, e aprano la propria mente a quella spiritualità che è comune a tutti i corpi.

DA CANOVA A IRVING PENN

Vittorio Sgarbi – anche presidente della Fondazione Canova – ha ricordato come questa rassegna vada a realizzare il suo obiettivo per il Mart: “La mia aspirazione era renderlo un museo di arte non moderna e contemporanea ma un museo di arte e basta, rendendola tutta popolare”. Canova, qui anche “inventore del design” grazie ai modelli in gesso replicabili, pone le fondamenta della percezione generale del corpo, sostiene Sgarbi, dal meraviglioso libro sulle persone travestite di Lisetta Carmi ai carnosi scatti di Irving Penn, “un Canova diventato fotografia”. Una mostra importante anche per Rovereto: “Mutuando l’espressione ‘essere all’ora del paese’”, ha detto il sindaco Francesco Valduga, “questa mostra è all’ora della città: parte da Canova e da quel periodo che ha permesso a Rovereto di individuare la sua vocazione, diventando quella che è oggi”.

IL CONFRONTO: LA VENERE ITALICA E LE AMAZZONI DI NEWTON Dei molti dialoghi-scontri tra Canova e i suoi (più o meno ortodossi) discepoli, uno cattura facilmente l’attenzione: quello tra la Venere Italica e i titanici ritratti di Helmut Newton. Al centro della mostra e ben visibile dall’ingresso, la statua di gesso del 1811 sembra incastrarsi goffamente in una teoria di donne, linde e allineate come in una parata militare. Queste amazzoni – completamente nude, se si eccettuano i vertiginosi stiletti ai piedi – si stagliano orgogliose e sfrontate proprio dove la Venere sembra ritrarsi, pudica. “Canova e Helmut Newton”, racconta Vittorio Sgarbi, “appartengono sicuramente a mondi estranei: uno legato all’innocenza, l’altro al peccato, persino alla minaccia. Eppure, venendo al Mart, si percepisce proprio grazie a questi scambi come Canova continui a vivere: anche se l’artista apparentemente più algido e chiuso ha una visione che appartiene all’antico – si potrebbe dire che il filo che collega Fidia a Canova si interrompa dopo la morte di quest’ultimo –, c’è un

mondo di interpretazioni delle sue opere che indicano la pulsione del desiderio, e i sensi, che sono le stesse nelle sensuali donne di Newton”. Il bianco e nero intrinseco al classicismo canoviano diventa nel fotografo novecentesco una speculare dichiarazione d’intenti: alla sobrietà della statua si sostituisce la potenza degli scatti, alla femminilità umile, quasi umida, del primo soggetto, risponde una forza androgina e insieme splendidamente muliebre. La capigliatura ingentilita dai nastri della Venere, che quasi accovacciata copre con un drappo il suo morbido corpo, non riesce a occultare lo sporgere di una criniera alle sue spalle: è la testa della giunonica figura di Big Nude III, realizzata a Parigi nel 1980, che flette i muscoli senza vergogna né umiltà. Come a mostrare lo spirito indomito dentro i corpi delicati delle dive canoviane, questo apparente contrasto è un abbraccio che include le diverse anime delle donne, rivendicando per loro il diritto di essere tutto e il contrario di tutto.


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RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

In terra di Sicilia, tra le sponde del Mediterraneo e i lapilli dell’Etna, è stato realizzato un orto botanico sui generis. Si tratta di Radicepura, un museo-giardino open air, declinato alla progettualità per giovani paesaggisti e professionisti internazionali. In grado di fare dialogare arte e turismo green, Radicepura è molto altro: oltre al concorso biennale per la realizzazione di giardini d’artista, è un progetto di recupero di terreni abbandonati, una banca semi e una scuola di botanica. La Sicilia ha una tradizione antica di coltivazione di piante, di giardini storici e di vivaismo. La fertile terra vulcanica, il sole e l’influsso del mare sono elementi fondamentali per la riuscita di queste attività. CHE COS’È RADICEPURA Esempio di lungimiranza ed eccellenza tutto italiano, Radicepura è un progetto ideato e sostenuto dai Vivai Faro, a Giarre, in provincia di Catania. L’azienda vivaistica, che è attiva con una serie di altre iniziative diversificate (resort Donna Carmela per ospitalità di eccellenza; viticultura sulle pendici dell’Etna; produzione di olio EVO), è stata fondata dalla famiglia Faro, originaria di Acireale. La visita al parco inizia dalla casa baronale sede della Fondazione, che organizza anche mostre d’arte. Si prosegue attraverso palmeti e cactacee di straordinaria bellezza. Nell’orto botanico si coltivano centinaia di esemplari di piante mediterranee monumentali, definite le “piante madre”, dal cui seme vengono riprodotte tutte le altre piante. Questo dà la possibilità di avere una banca semi di alta qualità, senza patogeni, con certificazioni controllate e integrate. RADICEPURA GARDEN FESTIVAL A queste iniziative si aggiunge Radicepura Garden Festival, promotore di un messaggio sul futuro del verde pubblico, che ha portato designer e artisti da tutto il mondo a partecipare con i propri progetti. A seguito del bando internazionale, alcune delle proposte vengono realizzate e restano in maniera permanente nel parco. Tra i vari giardini artistici si possono osservare Anamorphose, ideato da François Abélanet, un intrigante gioco ottico per un’oasi della biodiversità mediterranea; Home Ground, progetto del paesaggista Antonio Perazzi, con alberi da frutto, vasche d’acqua come pagine di libri e sedute ondulate in pietra lavica; Layers, firmato dal noto garden designer inglese Andy Sturgeon, che accoglie una vegetazione rigogliosa in dialogo con strutture color pastello; Il sogno di Empedocle, bellissima opera-scultura di Emilio Isgrò. Una curiosità: nell’aia davanti agli antichi edifici in tufo, sede di Radicepura, è stata girata la scena del ritorno in Sicilia nel leggendario film Il Padrino di Francis Ford Coppola. Claudia Zanfi

GIARRE RADICEPURA

François Abélanet, Anamorhpose Photo Claudia Zanfi

“Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza. Dal ’76 pubblico su alcune riviste. Disegno poco e controvoglia. Mio padre, anche lui svogliatissimo, è il più notevole acquerellista ch’io conosca. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Morirò il sei gennaio 1984”. Mi vengono in mente queste parole pronunciate da Andrea Pazienza nel 1981, mentre osservo le sue tre magnifiche tavole in una saletta di Palazzo Dogana a Foggia, convincendomi che nei musei delle apparenti periferie lo stupore che si avverte è sempre il più estraniante e durevole. È un luogo di stratificazioni la Galleria d’arte moderna della città: nata sotto l’egida della Provincia, oggi è parte integrante del Polo biblio-museale di Foggia diretto da Gabriella Berardi. JOSEPH BEUYS NELLA PINACOTECA DI FOGGIA Inaugurato nel maggio 2003, il percorso espositivo, allestito in alcune sale del piano terra del palazzotto settecentesco, custodisce opere di proprietà della Provincia oggi incluse in un più ampio processo di valorizzazione del patrimonio a opera del Polo biblio-museale regionale coordinato da Luigi De Luca. La vocazione di questo luogo è duplice: da un lato c’è l’impegno verso la ricerca sugli artisti foggiani che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno lavorato intensamente sul fronte della pittura e della scultura; dall’altro c’è il desiderio più recente di confrontarsi con la lezione di Joseph Beuys. L’artista raggiunse Foggia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando prestava servizio militare nell’aviazione, e rimase legato alla città anche negli ultimi anni della sua vita, come dimostrano alcuni suoi multipli. La sezione su Beuys presenta immagini e un libro d’artista pubblicato da Lucrezia De Domizio Durini per documentare uno dei suoi tanti progetti italiani nati proprio a Bolognano dai Durini. L’augurio è che la pinacoteca possa un giorno accogliere una sezione permanente di documentazione dedicata al rapporto tra Beuys e l’Italia, e in particolar modo con la Puglia, visto che proprio un artista-collezionista salentino, Corrado Lorenzo, negli Anni Settanta produsse alcuni multipli di Beuys pubblicati anche nel suo catalogo generale della grafica. GLI ARTISTI DI PALAZZO DOGANA “L’obiettivo principale della collezione”, precisa Gabriella Berardi, “è quello di fornire un quadro d’insieme dell’attività artistica in Capitanata tra il XIX e il XX secolo, attraverso l’esposizione di opere di autori come Domenico Caldara, Alfredo Petrucci, per arrivare a Dario Damato, Giovanni Albanese, Gerardo Gerardi e Pazienza. Una sala è dedicata all’italo-tedesco Alfredo Bortoluzzi, che visse i suoi ultimi anni sul Gargano, mentre più recentemente è stato allestito uno spazio espositivo per documentare la presenza di Joseph Beuys a Foggia e sul Gargano. Un’altra parentesi internazionale è quella costituita dalle sale che ospitano i colombiani Fernando Botero e Cesare Siviglia”. Lorenzo Madaro

FOGGIA PALAZZO DOGANA

Piazza XX settembre 22 0881 791111


RUBRICHE

I LIBRI

Per la stragrande maggioranza delle persone, il nome di Piet Mondrian (Amersfoort, 1872 – New York, 1944) è legato a una precisa pittura astratta, fatta di colori stesi in maniera flat, contenuti in quadrati e rettangoli bordati di nero e riempiti da campiture monocrome bianche, grigie, rosse, blu e gialle. Si potrebbe dire: l’astrazione ai suoi minimi termini. LA POETICA DI MONDRIAN Chissà perché, a produzioni artistiche di questo genere associamo quasi sempre connotazioni scientifiche. E invece, grazie alla pubblicazione curata da Elena Pontiggia, scopriamo che la poetica dell’artista olandese scaturiva da concezioni antroposofiche e tradizionaliste che erano e sono al capo opposto del metodo scientifico. E per di più, questa sua teoria “non sempre è chiara e priva di contraddizioni”, come scrive Elena Pontiggia introducendo la raccolta di Scritti teorici. Il neoplasticismo e una nuova immagine della società. Ancora: lo stile della sua scrittura è tutt’altro che limpido e rigoroso. E dire che la tesi è di una semplicità disarmante, ed è quella che pochi anni dopo ritroveremo in ogni scritto di René Guénon: “Il nuovo non è altro che una manifestazione differente della verità universale, la quale è immutabile”, scrive infatti Mondrian sul primo numero della rivista De Stijl nel 1918. Questo squalifica l’interesse per l’opera di Piet Mondrian? Ovviamente no. Anzi, non squalifica nemmeno l’interesse per la sua poetica e le sue teorie, in quanto forniscono un quadro più aderente alla realtà, in particolare relativamente alla presunzione che le avanguardie storiche fossero tutte improntate al progressismo. In questo senso, una conoscenza anche solo abbozzata del Surrealismo dovrebbe essere sufficiente, con le sue bislacche teorie sulla scrittura automatica e la fantasiosa interpretazione dell’inconscio. LA MOSTRA A MILANO Una finestra privilegiata attraverso la quale osservare l’operato di Mondrian e del gruppo De Stijl è offerta dalla mostra intitolata Dalla figurazione all’astrazione, visitabile fino al 27 marzo al MUDEC di Milano. Realizzata in collaborazione con il Kunstmuseum Den Haag e ideata da Benno Tempel, consente di comprenderne la produzione grazie a un lavoro contestuale raffinato: si parte da una sezione dedicata alla Scuola dell’Aia, poi si offrono al visitatore le opere di Mondrian prima e dopo il 1908 – crinale in cui l’artista si avvicina alla teosofia e abbandona progressivamente il paesaggio naturalistico – e infine con il Design De Stijl (il cui nome più noto è, almeno al momento, Gerrit Rietveld). Strumento utilissimo in questo viaggio è il catalogo della mostra, che, oltre a riprodurre le opere esposte a Milano, si apre e si chiude con i saggi rispettivamente di Tempel e di Domitilla Dardi. Per chi ancora non fosse soddisfatto, c’è una terza pubblicazione, a carattere critico-biografico, a firma di Elena Pontiggia. Marco Enrico Giacomelli

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ASTE E MERCATO

MONDRIAN UNO E TRINO

PIET MONDRIAN Scritti teorici a cura di Elena Pontiggia Libri Scheiwiller, Milano 2021 Pagg. 142, € 18,90 ISBN 9788876446863 BENNO TEMPEL (a cura di) Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione 24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 144, € 32 ISBN 9788866485780 ELENA PONTIGGIA Piet Mondrian. Una vita per l’arte 24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 64, € 12,90 ISBN 9788866485766 24orecultura.com/libri/

Di rimbalzo alla crisi aperta dalla pandemia le grandi cifre tornano nelle cronache delle aste e, accanto agli artisti blue chip, anche storie poco percorse, o nient’affatto raccontate, trovano anse inedite di riconoscimento critico e nuovi posizionamenti di mercato. È il caso, ad esempio, dell’attenzione riservata di recente alla pattuglia del Realismo magico, protagonista a Palazzo Reale, a Milano, della mostra Realismo magico. Uno stile italiano, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli (fino al 27 febbraio 2022). E in particolare a Cagnaccio di San Pietro (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa, Desenzano del Garda, 1897 – Venezia, 1946), come testimonia – spostandoci sul versante del mercato – l’ottima accoglienza riservata al suo Nudo in riva al mare / La rosa del mare, uno dei lotti più attesi nel catalogo raccolto a Milano da Il Ponte Casa d’Aste per la sessione di fine novembre dedicata all’Arte Moderna e Contemporanea. Datato 1935, il dipinto arrivava con una stima pre-asta tra € 60.000 – 80.000, agilmente e rapidamente scavalcata fino all’aggiudicazione per € 162.500. A sancire il fascino intatto e l’incanto di una via all’immagine in equilibrio inquieto tra adesione oggettiva al dato reale e trasfigurazione allegorica. LA STORIA DI CAGNACCIO DI SAN PIETRO Artista schivo e anticonformista in una società irreggimentata, Cagnaccio di San Pietro fu apprezzato più dagli artisti che non dalla critica del tempo, che poco lo comprese. Di lui scriveva Claudia Gian Ferrari, tra i principali artefici del suo rilancio, e che pure aveva esposto proprio questo olio su tavola: “La visione iperrealistica di Cagnaccio di San Pietro è forse la più apparentabile agli schemi linguistici della Nuova Oggettività tedesca”. E in effetti è lui appunto il più oggettivo dei realisti magici, nella precisione del segno e nella definizione dei volumi, nella vicinanza a una realtà quotidiana, eppure alterata. In una nuova resa dell’immagine “algida, tersa, […] talmente realistica da rivelarsi inevitabilmente inquietante e straniante” (Gabriella Belli e Valerio Terraroli), indagata da questa particolare declinazione dell’arte italiana tra le due guerre, tra il 1920 e il 1935, che tanti punti di tangenza ebbe con la Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività tedesca, e, per la condivisione di artisti come Achille Funi, Mario Sironi, Ubaldo Oppi, con il Novecento Italiano di Margherita Sarfatti. L’INQUIETUDINE DEL NOVECENTO Dopo un periodo di oblio, e sulla scia delle importanti mostre veneziane dedicate a Cagnaccio di San Pietro dal Museo Correr prima (1991) e dalla Ca’ Pesaro poi (2015), è arrivato dunque il momento di tornare a guardare, attraverso processi di valorizzazione storico-critica ed economica, una intera temperie che operò sulla sublimazione della realtà, su una mimesis sotterraneamente percorsa dall’inquietudine di un secolo pronto a precipitare. Cristina Masturzo

IL PONTE CASA D’ASTE CAGNACCIO DI SAN PIETRO

Cagnaccio di San Pietro, Nudo in riva al mare / La rosa del mare, 1935, olio su tavola, 104,5 x 82 cm. Courtesy Il Ponte Casa d’Aste, Milano


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A L E S S A N D R I A

IL NOVECENTO

da Pellizza a Carrà una storia di artisti

11.12.2021 - 13.03.2022 Una mostra promossa da

AL ES S AN DRIA | PAL AZ Z O M O N FERRATO VIA S AN LO RENZ O 2 1 WWW.PAL AZ Z O M O N FERRATO .IT Enti patrocinatori

Città di Acqui Terme

ORARIO: SAB-DOM 10-13 | 16-19 I N G RESSO GRATU ITO M ISU RE ANTI COVI D19 OBBLI GATORI E



ALEX URSO [ artista e curatore ]

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el “best of ” dello scorso dicembre lo abbiamo scelto come miglior fumettista del 2021. Merito del suo graphic novel Fiordilatte, un soft-thriller psicologico sull’ossessione erotica e la dipendenza affettiva. Ecco a voi Miguel Vila. Cosa significa per te essere fumettista? È una buona occasione per raccontare qualcosa di nuovo. E con “nuovo” intendo rappresentare la realtà che conosciamo ma con la differenza della selettività: io, come autore, scelgo cosa raccontare e come raccontarlo, e il risultato finale potrebbe non essere qualcosa che il lettore si aspetta di vedere.

GENNAIO L FEBBRAIO 2022

Miguel Vila

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Sei nato a Padova nel 1993. Mi aiuti a presentarti a chi non ti conosce? Sono nato a Padova ma sono di origini argentine. Ho prima frequentato il triennio di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, per poi passare al corso di Fumetto a Bologna. Lì ho conosciuto i ragazzi di Canicola e subito dopo il diploma abbiamo cominciato a lavorare assieme.

Entrambe le storie sono ambientate nella periferia veneta. È qui che prendono forma le vicende di personaggi grotteschi. Cosa ti interessa raccontare? Per come la vedo io, la provincia di oggi è la città del domani: cresce a dismisura e un giorno prenderà lei stessa il posto di megalopoli. A dire la verità, quella veneta è ancora molto debole e contenuta, eppure già si afferma come un territorio molto particolare. Ciò che mi interessa è raccontare un’identità geografica più nuova che attuale. Non importa se bella o brutta.

L SHORT NOVEL L

Il tuo esordio risale allo scorso anno, con Padovaland. Da poche settimane sei di nuovo in libreria con Fiordilatte. A che punto sei del tuo percorso? L’ho appena iniziato. Non mi vedo per niente all’apice del mio lavoro, soprattutto perché sento di dover raccontare ancora molto.

Il tuo sguardo su ognuno di questi soggetti è implacabile. Metti in evidenza i loro (i nostri?) difetti fisici e caratteriali. Che rapporto hai con i tuoi personaggi? Mi sono sempre ispirato ai comportamenti che racchiudono il peggio della nostra specie. La mia intenzione non è quella di ritrarre soggetti cattivi e sadici, ma persone normali che agiscono in modo cattivo e sadico. Credo sia il modo migliore di descrivere ciò che siamo davvero, nessuno escluso. A livello narrativo, come nasce una tua tavola? A ogni tavola affido una gabbia che possa incarnare al meglio la “metrica” di ciascuna scena. Ciò che faccio è sostanzialmente scegliere in quali punti bloccare o intensificare la distribuzione delle vignette, in modo che il flusso narrativo non risulti troppo dispersivo per il lettore e che al contempo gli descriva più dettagli possibili su quella data scena. E la tavola disegnata per Artribune da cosa nasce? Ho colto il foglio bianco come una specie di sfida: non mi interessava cosa avrei raccontato (che di per sé è una banale festa): l’importante era farlo con una griglia che non avevo mai provato prima. miguelvila93

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L IN FONDO IN FONDO L

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è davvero di che stupirsi. Non tanto dell’ennesima beffa che va a segnare punto nel caotico mondo dell’arte contemporanea – quella che ha visto il repentino manifestarsi e poi dissolversi di quattro (quattro!) profili Instagram di sedicenti collezionisti d’arte contemporanea, presi per buoni da curatori, staff di fiere e giornalisti, e poi rivelatisi dei fake. C’è da stupirsi, piuttosto, che, nel profluvio di commenti che hanno fatto seguito alla scoperta del tiro mancino (parliamo del 9 gennaio 2022, non più tardi di 72 ore dal momento in cui sto scrivendo), nessuno abbia seriamente riflettuto sulla matrice stessa della beffa, resa possibile dal più popolare dei social, nonché quello più “artistico”, cioè Instagram. Pare insomma che nessuno si sia preso la briga non solo di attivare un minimo di verifica dei dati, ma neanche di fare un po’ di sana filologia. Instagram, lo dice il nome, è un termine composto che deriva da instant-photo, ossia istantanea, ma anche da telegram, telegramma. Gli artisti che su Instagram postano le loro foto o le immagini dei loro lavori, anche i più grandi, come Cindy Sherman, ben sanno che sul sito si possono mettere tante belle immagini, ma si dimenticano che queste immagini, poi, viaggiano, proprio come accadeva alle notizie grazie al telegrafo. Il percorso che fanno, una volta “postate”, non è più nelle mani del mittente, e men che meno va docilmente a casa di un preciso destinatario: anzi, può anche ritornare alle spalle di chi l’ha lanciato, proprio come un boomerang. Non è certo un caso che una delle prime colossali beffe mediali – quella descritta da Alexandre Dumas nel Conte di Montecristo, il cui eroe Edmond Dantès corrompe un telegrafista e gli fa trasmettere una fake news capace di rovinare economicamente i suoi nemici – porti la data del 1844, anno del brevetto del telegrafo Morse. E forse non è un caso nemmeno il fatto che Samuel Morse, prima di diventare ricco con la sua invenzione, fosse un giovane e spiantato pittore in cerca di celebrità: senza dubbio, la sua opera migliore non fu il patetico Ercole morente, ma lo strumento di comunicazione in grado di cambiare per sempre lo spazio e il tempo umani, aprendo così le porte alla rivoluzione mediale dei giorni nostri. In verità, è la struttura tecnologica stessa dei mezzi di comunicazione a trascinarsi dietro come un’ombra la possibilità che essi vengano impiegati beffardamente. E le beffe hanno spesso un che di artistico: se la “beffa di Verona” (perché così toccherà da ora in poi denominarla) è stata possibile grazie a un uso spregiudicato della potenza sociale dei new media, occorre anche riconoscere in essa un indiscutibile talento. Il secondo fatto strano, quindi, è che nessuno abbia citato la madre di tutte le beffe artistiche – cioè i falsi artisti invitati da un

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Come avevano fatto alla loro epoca John Cage o Fabio Mauri con la televisione, hanno saputo realizzare un’opera d’arte mediale all’altezza del nostro tempo. falso Oliviero Toscani, che vennero presi per autentici ed esposti alla Biennale di Tirana, organizzata nella capitale albanese da Flash Art nel 2001. Eppure le assonanze sono davvero tante. Per cominciare, a vent’anni esatti da quell’episodio, anche in questo caso ritorna il numero quattro: quattro gli artisti “creati” da quel genio delle beffe che è stato (ed è ancora!) Marco Lavagetto – un terrorista islamico, un pedofilo, una pittrice nigeriana e un migrante – a cui corrispondono i quattro fake collectors – un viticoltore di Verona (perfetto, sede di ArtVerona), una manager di un’azienda di moda (tocco glamour), un imprenditore di base a Zurigo (la Svizzera “fa” subito collezionismo) e un ereditiere con palazzo avito a Palermo (che fa sempre Manifesta). Notare come combaciano perfettamente i profili sia pur a rovescio: non solo tre uomini e una donna, ma al disoccupato fa riscontro il manager, al terrorista il viticoltore e al pedofilo...

l’ereditiere. Ma non finisce qui: così come Lavagetto era riuscito a inserirsi surrettiziamente nel sistema dell’arte mettendo a nudo il nervo scoperto della sua esclusività, facendo invece “includere” degli emarginati potenzialmente pericolosi, allo stesso modo gli anonimi organizzatori della beffa di Verona sono riusciti a cogliere in fallo curatori e critici in una inedita vulnerabilità, la spasmodica ricerca del collezionista emergente, giovane e soprattutto instagrammable. Entrambi hanno saputo fare uso della comunicazione mediale avanzata (la tecnologia delle email nel 2001, Instagram e i social media oggi) come di una magnifica trappola, preparata dagli stessi improvvidi che pensano impunemente di servirsi di questi mezzi, dimenticandosi di esservi a propria volta asserviti. Ma, soprattutto, entrambi – così come avevano fatto alla loro epoca John Cage o Fabio Mauri con la televisione – hanno saputo realizzare un’opera d’arte mediale all’altezza del nostro tempo.

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IL FALSO é UN MOMENTO... DEL FALSO testo e screenshot di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L




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