Artribune #57

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#57 NOVEMBRE L DICEMBRE 2020

ISSN 2280-8817

ARTRIBUNE MAGAZINE

A che punto è l’alta formazione artistica in Italia? La didattica a distanza quanto ha influito? Una inchiesta per il futuro.

Black Lives Matter ha fatto breccia nei musei d’arte americani? Dati e voci dagli States.

Come si stanno preparando musei e fondazioni alla temuta seconda ondata? La nostra indagine continua.

ARTISTI SI DIVENTA

USA & RAZZISMO

WINTER IS COMING

ANNO X




#57 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Helga Marsala Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso Alessandro Ottenga [project manager] PUBBLICITÀ & MARKETING Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 27 ottobre 2020

COLUMNS 6 L PHOTO ROOM Marta Atzeni Daphné Bengoa

NOVEMBRE L DICEMBRE 2020

23 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Viola Gesmundo 24

L TALK SHOW Santa Nastro

14 L Massimiliano Tonelli Piu dura è, meno ti devi lamentare

Musei e fondazioni (II): come sarà

15 L Claudio Musso C’è un disegno preciso? Stefano Monti Come stritolare la giovine Italia

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16 L Jacopo De Blasio Contro il riconoscimento facciale

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17 L Christian Caliandro Interconnessione: assembramento, confinamento 18 L Aldo Premoli 5 vocaboli da mandare a memoria 19 L Fabio Severino Grandi eventi: perché? Marcello Faletra Un Banksy da cavalletto

la stagione autunno-inverno?

L ART MUSIC Claudia Giraud

ClubToClub e Lunetta 11 sonorizzano l’Alta Langa

L SERIAL VIEWER Santa Nastro

Disenchantment L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli The Hunt 28 L DURALEX Raffaella Pellegrino Se Gio Ponti finisce su una tovaglia 29 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli A.MORE Gallery TOP 10 LOTS Cristina Masturzo 32 L LIBRI Marco Petroni & Marco Enrico Giacomelli

NEWS

36 L GESTIONALIA Irene Sanesi Il futuro della cultura sono nomi collettivi

20 L LA COPERTINA Tatanka Journal Bla Bla ARCHUNTER Marta Atzeni EVA Studio 21 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Kim Roselier 22 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni NECROLOGY

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L OSSERVATORIO NON PROFIT Dario Moalli

Metodo Milano 38 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Latina: razionalismo e contemporaneo 42

L STUDIO VISIT Treti Galaxie mrzb

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STORIES

46 L Maurita Cardone Musei alla prova del razzismo: la risposta degli artisti 54 L Santa Nastro & Marco Enrico Giacomelli Alta formazione artistica. Temi e problemi

ENDING

82 L SHORT NOVEL Alex Urso Nicoz Balboa 84 L RECENSIONI 86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi L’Agenda 2030 e il Punteruolo rosso

IN APERTURA

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copertina di Maurizio Ceccato

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64 Giulia Marani Alessandro Mendini: design e fantasia OPINIONI

GRANDI CLASSICI

70 Stefano Castelli Raffaello tra Brescia e Milano DIETRO LE QUINTE

66 B runo Racine La cultura d’Europa Antonio Natali Il caso dello stadio fiorentino

71 Arianna Testino Le risposte dei musei alla pandemia. La Collezione Peggy Guggenheim

67 Stefano Monti La bufala dell’audience engagement Fabrizio Federici Musei e territorio

72 Santa Nastro 5 indirizzi in Piemonte

FOTOGRAFIA

68 Elena Arzani Tra le stanze di Carlo Mollino

PERCORSI

RECENSIONI

78 Marta Santacatterina Rovigo. Marc Chagall Franco Veremondi Vienna. Gerhard Richter

QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Billie Allen Elena Arzani Marta Atzeni Irene Bagnara Lorenzo Balbi Nicoz Balboa Daphné Bengoa Antonio Bisaccia Alessandro Bollo Maurizio Bongiovanni Leonardo Caffo Christian Caliandro Simona Caraceni Maurita Cardone Stefano Castelli Maurizio Ceccato Roberta D’Adda Jacopo De Blasio Piero Di Terlizzi Francesco Fadani Marcello Faletra Luigi Fassi Nona Faustine Fabrizio Federici Vanessa German Viola Gesmundo Marco Enrico Giacomelli Federica Maria Giallombardo Claudia Giraud Ferruccio Giromini Emanuele Guidi Claudia Löffelholz Desirée Maida Giulia Marani Cristina Masturzo Francesca Mattozzi Dario Moalli Rocco Moliterni Carlotta Montebello Stefano Monti mrzb Claudio Musso Valentina Muzi Bruno Muzzolini

Santa Nastro Antonio Natali Andrea Panizzo (EVA Studio) Raffaella Pellegrino Marco Petroni Giulia Pezzoli Sara Piccinini Alessandra Pioselli Bartolomeo Pietromarchi Francesco Pistoi Luca Poncellini Aldo Premoli Luigi Presicce Bruno Racine Sergio Ricciardone Gianluca Riccio Sergio Risaliti Giulia Ronchi Arianna Rosica Irene Sanesi Marta Santacatterina Gabi Scardi Igiaba Scego Brigitte Schindler Marco Scotini Marco Senaldi Fabio Severino Diego Sileo Valentina Silvestrini Tatanka Journal Francesca Giulia Tavanti Arianna Testino Massimiliano Tonelli Antonello Tolve Treti Galaxie Marco Trevisan Alex Urso Karole P. B. Vail Laura Valente Roberta Vanali Bart van der Heide Angela Vettese Franco Veremondi Nari Ward Tatiana Yasinek


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MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

L'Algeria di Fernand Pouillon ampione dell’edilizia sociale del dopoguerra, Fernand Pouillon (1912-1986) si vantava di poter “costruire più velocemente, meglio e più a buon mercato” di chiunque altro. Così, quando nel 1953 il sindaco di Algeri lo invita a realizzare 1.600 case in un solo anno, l’architetto francese ha l’occasione ideale per dimostrare la sua abilità. Consegnati in tempi record, i monumentali complessi di Diar-es-Saada e Diar el-Mahçoul non solo confermano la sua fama di costruttore, ma segnano anche l’inizio di un legame duraturo con il Paese nordafricano. Fra il 1953 e il 1982 il progettista infatti realizzerà 6.500 unità abitative, uffici, complessi alberghieri e residenze universitarie: uno straordinario corpus di opere che, tuttavia, complici le controverse vicende personali del suo autore – compresi due anni in carcere per falso in bilancio –, cadrà nell’oblio generale. Per riscoprire il periodo algerino di Pouillon, la fotografa e regista Daphné Bengoa, insieme al fotografo Leo Fabrizio e allo storico Pierre Frey, tra il 2018 e il 2019 intraprende una serie di viaggi nel Paese maghrebino. Seguendo un itinerario che da Algeri arriva fino alle estreme coste occidentali, Bengoa si pone in ascolto di chi oggi vive quelle opere: “Migliaia di vite ordinarie, che si appropriano degli spazi, li sviluppano per farne i loro luoghi di vita, lasciano tracce e scrivono la storia dell’architettura nel tempo”. Le maestose costruzioni del maestro francese diventano così teatro dei sogni e delle speranze dell’Algeria di oggi, in bilico tra spinte conservatrici e ideali progressisti, tradizioni e desiderio di emancipazione: “Ancora oggi per una donna bere il caffè in terrazza, camminare o fumare in pubblico è un atto di resistenza: gli edifici, i cortili e i giardini di Pouillon rendono possibile questa lotta”. Il viaggio attraverso l’eredità di Pouillon è presentato in queste pagine nella sua ultima e ancora inedita tappa lungo la costa algerina, dove l’architetto, all’indomani dell’indipendenza, realizza una serie di complessi turistici. Con l’intento di riaprire l’Algeria al mondo e restituire al suo popolo un senso di libertà e di appartenenza, il progettista gioca con le forme dell’architettura, creando fantasiose composizioni in cui la cultura mediterranea e i codici islamici si mischiano con lo stile classico dei dominatori romani. Nel suo racconto per immagini di queste strutture, ora semideserte, Bengoa ripercorre le storie di resistenza dei loro abitanti: “Tutti i miei interlocutori conservano di questi edifici le più dolci memorie della loro infanzia: sono luoghi in cui un’intera generazione ha riscoperto il piacere dello svago e della leggerezza. Simboli di libertà che ora gli algerini stanno cercando di recuperare: a dimostrazione che, nonostante le difficoltà, la vita va avanti”.

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BIO Daphné Bengoa (1981) è una fotografa e regista di origini greche e spagnole. Ha conseguito la laurea triennale in Comunicazione visiva e Fotografia presso la École cantonale d’art di Losanna nel 2004 e un master in Arte e Linguaggi presso la École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi nel 2014. Forte della sua formazione pratica e teorica, ha sviluppato un lavoro di natura documentaristica incentrato sull’uomo, di cui descrive il potere dell’immaginazione e la capacità di azione. La sua opera indaga in particolare l’impatto delle condizioni della vita urbana e dei nuovi modi di vivere e lavorare tanto sull’individuo quanto sulla collettività. Oltre alla sua attività di autrice, è stata assistente per fotografi in Francia e all’estero tra il 2004 e il 2008; agente per artisti tra il 2009 e il 2012; project director per la Balthus Foundation nel 2013. Oggi collabora regolarmente a progetti culturali transdiciplinari come curatrice, redattrice e producer. daphnebengoa.com


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L PHOTO ROOM L Matarès, Algerie, 2018 Seraïdi, Algerie, 2018

Sidi Fredj, Algerie, 2018

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Corne d’Or, Algerie, 2018

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Matarès, Algerie, 2018

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Matarès, Algerie, 2018

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L PHOTO ROOM L Les Andalouses, Algerie, 2018

SUL PROSSIMO NUMERO Napoli fotografata da Sam Gregg

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ESSERE UMANE Le grandi fotografe raccontano il mondo Shadi Ghadirian Jitka Hanzlova Nanna Heitmann Graciela Iturbide Dorothea Lange Annie Leibovitz Paola Mattioli Susan Meiselas Lee Miller Lisette Model Tina Modotti Inge Morath

Zanele Muholi Ruth Orkin Shobha Dayanita Singh Newsha Tavakolian a cura di Walter Guadagnini

MUSEI SAN DOMENICO - FORLÌ dal 28 NOVEMBRE 2020 al 20 FEBBRAIO 2021 apertura: da martedì a domenica dalle ore 9.30 alle ore 19 chiusura: tutti i lunedì e il 25 dicembre | aperture straordinarie: lunedi 28 dicembre e lunedi 4 gennaio 8, 26 dicembre e 6 gennaio dalle 9.30 alle 19 - 24 e 31 dicembre dalle 9.30 alle 13.30 - 1 gennaio 2021 dalle 14.30 alle 19

essereumane.it

MUSEI SAN DOMENICO FORL Ì

con la collaborazione scientifica

con la collaborazione

con la partecipazione

PARTECIPANTI ALLA FONDAZIONE PALAZZO DUCALE

CON IL CONTRIBUTO DI

SPONSOR ISTITUZIONALE DELLA FONDAZIONE PALAZZO DUCALE

SPONSOR ATTIVITÀ DIDATTICHE FONDAZIONE PALAZZO DUCALE

RADIO UFFICIALE

MEDIA PARTNER

hospitality partner

PRODUZIONE E ORGANIZZAZIONE

Harlem, New York, USA, 1950 © Eve Arnold/Magnum Photos

in collaborazione con Monica Fantini e Fabio Lazzari

Two models check their make-up backstage at the Abyssinian Church.

Berenice Abbott Claudia Andujar Diane Arbus Eve Arnold Letizia Battaglia Margaret Bourke-White Silvia Camporesi Cao Fei Lisetta Carmi Carla Cerati Cristina de Middel Gisèle Freund



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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

PIU DURA È, MENO TI DEVI LAMENTARE

iascuno di noi vive nella propria bolla e ne vede solo i limitati confini. Non è una riflessione psicoanalitica, sociale o antropologica. Semmai è una incontrovertibile constatazione tecnica riguardante l’ecosistema dei social: per come sono organizzati gli algoritmi, la nostra presenza viene interconnessa sempre con le stesse persone, un bacino di poche centinaia di utenti. Nella mia bolla ci sono soprattutto personaggi del mondo della cultura e della gastronomia. Due mondi che spesso mi appaiono molto simili e altrettanto spesso parecchio diversi. Mentre scrivo scoccano le 24 ore dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che da lunedì 26 ottobre chiude cinema, teatri e ristoranti. E nella timeline della mia bolla ci sono ristoratori ed esponenti del mondo della cultura che reagiscono in modo diverso. I primi cercano di trovare una soluzione, magari applicando quel pizzico di creatività e di design thinking. I secondi si lamentano e si indignano alzando il sopracciglio per la “grave decisione” della chiusura dei luoghi della cultura. Ora, premesso che il DPCM cui faccio riferimento non sarà l’ultimo e probabilmente quando i lettori leggeranno qui saremo assoggettati a ulteriori restrizioni, forse sarebbe il caso, quali che siano le avversità, di piantarla con la lagna. Che la cultura, lo spettacolo, la scuola sono importanti e sono il fondamento della nostra civiltà è notorio, non serve a nulla ribadirlo ogni giorno dal megafono dei social media. Serve semmai dimostrarlo con i fatti, rispondendo in maniera intelligente, magari furba, senz’altro creativa alle avversità. Avversità, tra l’altro, che dureranno mesi, magari addirittura anni. In un quadro simile c’è una differenza gigantesca tra un settore che cerca colpevoli e capri espiatori e un settore che investe la stessa energia per cercare soluzioni. Bisognerebbe porsi in una condizione estremista, tutti noi che a vario titolo facciamo parte del mondo della cultura: non-lamentarci-mai. Mai. E quando di tanto in tanto riteniamo continente e opportuno esercitare la critica, farlo sempre affiancandola alla proposta. Nell’ambito di questo approccio, l’importanza dell’atmosfera che traspare dai social è fondamentale e dunque ciascuno, anche dotato di poche decine di follower, che contribusca in un senso o nell’altro si prende le proprie responsabilità: d’ora in avanti alimenterai la lagna o alimenterai l’abbrivio costruttivo? Alla pars destruens ci ha pensato già la pandemia, il nostro ruolo è controbilanciare per quanto è nelle nostre forze, concentrandoci esclusivamente sulla pars construens.

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Che la cultura, lo spettacolo, la scuola sono importanti e sono il fondamento della nostra civiltà è notorio, non serve a nulla ribadirlo ogni giorno dal megafono dei social media


CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]

COME STRITOLARE LA GIOVINE ITALIA

C’È UN DISEGNO PRECISO?

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ra le tante iniziative fiorite nel settore artistico contemporaneo durante il lockdown, al di là che fossero più o meno benefiche e, si potrebbe aggiungere, più o meno di qualità, molte erano basate sul disegno. Il motivo forse è semplice: chiusi in casa, con pochi strumenti, l’unica soluzione era quella di tornare a carta e matita. E così, in un largo ventaglio, abbiamo potuto vedere chi è ritornato al diario (tra le tante proposte, anche quelle di Ugo La Pietra e Corrado Levi, stampate poi da Corraini), chi ha preferito affidarsi al foglio sparso senza seguire l’ordine del calendario (qui gli esempi sarebbero troppi, meglio farsi un giro sui profili Instagram), chi, ancora, lo ha fatto (solo) perché chiamato a rispondere a un invito (tra le varie opzioni, forse The Colouring Book di Milano Art Guide è quella che ha avuto più successo mediatico). Ciò che andrebbe posto sotto la lente, superati i criteri di merito e persino quelli di gusto, è che in una situazione critica, Non solo il disegno non è letteralmente di cris(otto)valutabile, e questo si, si è riaffacciato con prepotenza il era chiaro, ma al contrario “segno sulla carta”. andrebbero costituiti Ma questo, di precipercorsi di analisi e so, cosa può significare? approfondimento di questa Vuol dire dunque straordinaria modalità di che la tecnica del "interrogare il visibile". disegno, in particolare quello di piccola scala e realizzato a mano libera, come si sarebbe detto una volta, assumerà una posizione centrale nella lettura delle pratiche artistiche? O che lo sviluppo di questa recentissima tendenza si esprimerà in un rinnovato interesse di artisti, pubblico e, perché no?, mercato, verso forme più oneste, sincere e dirette della ricerca estetica? Oppure che, finalmente, direbbe qualcuno, arriverà il momento di riconsiderare vincoli e separazioni che volevano il disegno come gregario dell’opera, in secondo piano nella produzione e nell’esposizione, sempre un passo indietro? Non è questa la sede per rispondere a tali quesiti, ma di certo porli impone qualche seria considerazione. Se come sosteneva John Berger, “un disegno lo si può spingere solo fino al suo grado estremo”, ogni prova, tentativo, esperimento, progetto, scarabocchio così definito è in grado di contenere vere e proprie dichiarazioni di poetica. Cioè, non solo il disegno non è s(otto)valutabile, e questo era chiaro, ma al contrario andrebbero costituiti percorsi di analisi e approfondimento di questa straordinaria modalità di “interrogare il visibile” che giungano alla più stretta contemporaneità. Del resto, forse dovrebbero essere gli artisti in primis a farsene carico, cercando per queste delicate “anime instabili” canali di diffusione capaci di trasmetterne le potenzialità espressive e concettuali. In fondo l’augurio è quello di ritrovarsi in questa affermazione di Lucio Del Pezzo: “Trovo che l’esiguità dei mezzi e la semplicità dei risultati debbano necessariamente privilegiare la carica dei contenuti e le intenzioni dell’artista”.

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empre più spesso, nel nostro Paese, si assiste a un accumulo di cariche, nomine, ruoli e responsabilità. Questo fenomeno è un sintomo di un meccanismo patologico. La condizione che si viene a creare è infatti paradossale: da un lato abbiamo uomini che hanno numerosissime cariche, tendenzialmente sono “volti noti” e hanno impegni plurimi, dall’università alla politica, dalla libera professione al giornalismo e, nel frattempo, vengono nominati come responsabili di questo o quel comitato, direttivo, o come membri del CdA di questa o quell’azienda pubblica o privata. Dall’altro lato abbiamo schiere di giovani che non riescono a fare ingresso nel mondo del lavoro, e che entrano in un mondo ingessato, in cui le posizioni di vertice sono occupate dai ragazzi ultrasessantenni che spopolano in tv e sui giornali. Tra queste due dimensioni c’è il futuro del nostro Paese e l’esempio è bello che pronto: se i “VIP” dell’accademia o della cultura ricevono costantemente cariche di responsabilità, assumendo che anche per loro la giornata sia di 24 ore, come fanno a rispettare le responsabilità che tali nomine comportano? Semplicemente non possono e quindi, semplicemente, non lo fanno. Siccome i meccanismi sociali si evolvono, così come gli individui, per rispondere agli stimoli del contesto, anche il meccanismo di nomina si è adattato. Il risultato è che le nomine, cariche, ruoli hanno iniziato GLI INCARICHI ad assumere sem DEPUTATO ALLA CAMERA (NON TUTTI!) pre più la funzione DI VITTORIO SINDACO DI SUTRI del “testimonial”. SGARBI Si chiama questo PRESIDENTE DEL CDA o quel VIP a coorDELLA FONDAZIONE CANOVA dinare o a essere ONLUS DI POSSAGNO responsabile di una PRESIDENTE DEL MART determinata attiviDI TRENTO E ROVERETO tà perché la scelta di quella persona PRESIDENTE DELLA consentirà di avere FONDAZIONE FERRARA ARTE “visibilità” o “pote RESPONSABILE PER re” all’interno di LA VALORIZZAZIONE DEI determinati gruppi BENI STORICI E CULTURALI di interesse. DI ANCI Ma chi fa il lavo E… CANDIDATO A ro che dovrebbero SINDACO DI ROMA fare i nominati? Perché ci sarà qualcuno che dovrà lavorare per fare in modo che il testimonial sappia cosa dire nelle occasioni pubbliche o ai tavoli di lobby. E questo qualcuno non potrà che essere un “giovane”, magari preparato e in gamba, a cui però non verrà assegnata alcuna nomina, perché la verità è che anche per ricoprire questo ruolo di testimonial devi avere una certa “esperienza”, esperienza che difficilmente riuscirà ad avere se i VIP vanno in pensione a 90 anni. Questa è una condizione pericolosa perché: 1. non permette ai “giovani” di emergere; 2. non permette ai “VIP” di fare il proprio lavoro, anche perché tutte queste persone sono spesso professionisti preparatissimi ma che non hanno più il tempo di lavorare, 3. non si permette ai giovani di sbagliare e di fare esperienza come “soggetti responsabili”. In pratica, quello che viviamo nella realtà non è né più né meno di quanto osserviamo su Internet. Da un lato abbiamo i “grandi professori” e dall’altro gli “influencer”. Intanto quelli competenti stanno nel mezzo, e il nostro Paese ne paga il prezzo.

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STEFANO MONTI [ economista della cultura ]

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JACOPO DE BLASIO [ storico dell’arte ]

CONTRO IL RICONOSCIMENTO FACCIALE

l 1° ottobre l’artista e hacktivista torinese Paolo Cirio ha annunciato Capture con un comunicato stampa diffuso in Rete. Il progetto consiste nella realizzazione di un database contenente i volti di 4mila agenti di polizia francesi. Le fotografie, scattate in luoghi pubblici, sono state acquisite via web o dagli organi di stampa. Le immagini sono state processate con un software di riconoscimento facciale. L’artista ha successivamente utilizzato i primi piani per realizzare dei poster disseminati per le strade di Parigi. Cirio ha evidenziato come l’opera rifletta su usi e abusi del riconoscimento facciale e dell’intelligenza artificiale, interrogandosi sull’asimmetria dei rapporti di forza. L’intento è soffermarsi sull’effettiva autonomia dei cittadini, agenti inclusi, palesando le criticità insite in un modello sociale alle prese con i continui cambiamenti generati dal processo di digitalizzazione.

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LA CAMPAGNA CONTRO IL RICONOSCIMENTO FACCIALE

L’opera introduce Ban Facial Recognition Europe, la petizione lanciata dall’artista in collaborazione con l’EDRI – European Digital Rights per richiedere ai membri del Parlamento europeo e ai membri della Commissione l’interdizione delle tecnologie di riconoscimento facciale. La campagna pone l’accento sulla natura invasiva dei software di identificazione. In particolar modo, l’artista evidenzia quanto pesi l’assenza di coordinate specifiche e univoche nel trattamento dei dati biometrici. Il volto, sineddoche identitaria dell’individuo, diviene un dispositivo di localizzazione funzionale a un processo di normalizzazione del controllo. Le previsioni comportamentali, così come gli automatismi algoritmici, danno adito a discriminazioni di varia natura, minando il diritto alla dignità e all’uguaglianza. Cirio sottolinea quanto un’attenta regolamentazione potrebbe non essere abbastanza. Il vuoto normativo in cui agiscono questi software rischia di incrementarne la pericolosità sociale. La Convenzione Europea dei Diritti Umani e il GDPR hanno tentato di impedire la sorveglianza biometrica di massa nei luoghi pubblici, ma gli Stati membri hanno ridotto il raggio d’azione delle autorità garanti al punto da impedire l’effettiva attuazione dei provvedimenti. In seguito all’emergenza Covid-19, Herta e Dermalog

Paolo Cirio, Capture, Parigi 2020

hanno iniziato a sviluppare un software, sulla scia della cinese Hanwang Technology Ltd, in grado di identificare un volto anche se coperto dalla mascherina.

IL VOLTO E IL CONTROLLO

L’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale da parte dei corpi di polizia europei è al centro del report pubblicato l’11 dicembre 2019 dall’ong Algorithm Watch, un’organizzazione che analizza gli effetti sociali dei processi decisionali algoritmici. L’ong ha inviato un questionario incentrato sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale e sulla rilevazione dei dati biometrici agli agenti di 25 Stati membri dell’Unione Europea. Dalle risposte si evince come i corpi di polizia di 11 Stati già facciano uso del riconoscimento facciale, mentre altri 8 Paesi ne stanno pianificando l’introduzione. I dati diffusi da Cirio aggiornano i risultati dell’anno precedente, facendo eco al research paper contro la sorveglianza biometrica pubblicato dall’EDRI. A maggio 2020 almeno 15 Stati europei hanno sperimentato l’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale in luoghi pubblici.

L’OPERA DI CIRIO E LA CENSURA

Capture prevede la realizzazione di un’installazione di quindici metri con i volti di 150 poliziotti, sui quali sono apposte sette stampe con sette agenti, non identificati, intenti ad aprire il fuoco sui manifestanti. Tuttavia il 15 ottobre l’opera è stata censurata per l’inaugurazione

della 22esima edizione di Panorama, presso Le Fresnoy-Studio National des Arts Contemporains, nei pressi di Lille. Come riportato da Cirio nella lettera aperta indirizzata alla ministra della cultura francese Roselyne Bachelot, il ministro degli interni Gérald Darmanin ha definito l’installazione “un’insopportabile gogna di donne e uomini che rischiano la propria vita per proteggerci”. Secondo l’artista, la rimozione dell’opera è un atto di censura che mette a repentaglio la libertà d’espressione. L’avvocato Raphaël Kempf scrive: “La richiesta del ministro Gerald Demanin di rimuovere l’opera da un’istituzione francese non è solo un atto di censura, ma anche una dimostrazione di incompetenza, di ingenuità e di incapacità di partecipare a un dibattito, comprendendo i principi alla base della democrazia e della libertà d’espressione. L’aggressiva reazione del ministro non includeva alcun riferimento alla brutalità della polizia francese, ai numerosi tentativi degli agenti di coprire il proprio volto per usare violenza contro i cittadini nell’anonimato […] né rispondeva alla vera ragione del progetto, affrontando l’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale in Francia per mettere in atto una sorveglianza di massa senza controllo pubblico”.

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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

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“Non sono quello che mi è successo, sono quello che ho scelto di essere” (Carl Gustav Jung). n treno da Torino a Bari, 4 ottobre 2020. Gli assembramenti, i raduni, le folle sembrano già adesso scene e immagini e abitudini storiche, relegate a un passato sbiadito che non intrattiene più alcun legame con il presente… Come i primi film, o le fotografie scattate nel secondo dopoguerra. Il mondo “è andato avanti”, e nulla è più come era prima, anche se ci vogliono convincere ostinatamente del contrario: “Tornate, ma tornerete solo per rendervi conto che ciò che con tanti sforzi avete ritrovato, ora non ha più senso” (Paul B. Preciado).

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Errore – fallimento – sbagliare – sperimentare – evolvere – crescere – involvere – devolvere – donare – donare – donarsi – con/dividere – con/vivere – con/pensare – costruire – insieme – da soli – distanziamento – confinamento – società – comunità – solitudine – solipsismo – riflettere – reflection – riflesso – riflessione – sbagliare – distruggere – costruire – pandemia – convivere – coesistere – stare con – stare insieme – stare. LLL Questo periodo rappresenta l’occasione – unica – per liberarsi di ogni condizionamento. Per cogliere la palla al balzo. Per non pensare più in maniera verticale, maschile, egocentrica, egoista, solipsistica. Ma per accogliere, in modo aperto e sperimentale, tutte le idee e le sollecitazioni che vengono dal mondo, dal mondo in sommovimento e in trouble. “Da quando ero nata mi ero convinta che il mondo scorresse su binari molto semplici, una versione leggermente ampliata della nostra comunità. Adesso scoprivo che

a volte persino la comunità poteva sbagliare. Era indubbiamente un problema. Ma lo avrei affrontato solo molti anni dopo” (Jeanette Winterson, Non ci sono solo le arance, Mondadori 1997, p. 34). Tutti i problemi sono interconnessi, collegati tra di loro – così come le soluzioni. Razzismo, patriarcato, paternalismo, sessismo, classismo, elitarismo, disuguaglianza economica: sono tutte anzi declinazioni dello stesso problema, di un unico problema. E non ci può essere un’autentica innovazione politica e sociale che non sia anche artistica e culturale. “La critica radicale della società, nei suoi fenomeni industriali più avanzati, fece emergere un modello di estremismo operativo, basato principalmente sui valori emarginati e poveri. Questi appartenevano per tradizione alle masse, ancora caratterizzate da un altissimo grado di creatività e di spontaneità. Ed è a queste che molti artisti si rivolsero per attingere ispirazione ed energia, con il risultato di far esplodere la ragione quanto la fantasia correnti; sui loro frammenti si sarebbero rivendicati il rovesciamento e la trasformazione poetica della cultura quanto della società” (Germano Celant, Un’arte critica [1983], in Arte dall’Italia, Feltrinelli 1988, p. 101). LLL “The circle closes, as art is bent on imitating life, life imitates art. All snow

showels in hardware stores imitate Duchamp in a museum” (Alla Kaprow, cit. in Valentina Tanni, Memestetica, Nero 2020, p. 125). Se davvero le pratiche concettuali – d’avanguardia cinquant’anni fa – oggi sono divenute di massa, grazie a Internet, ai social media e alla democratizzazione dei mezzi di produzione, allora vuol dire che l’arte d’avanguardia è migrata – si è spostata, di nuovo, da un’altra parte. Vuol dire cioè che il concettualismo e il postconcettualismo sono definitivamente retroguardia; che la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione sono andate avanti, si trovano altrove, e si tratta di riconoscere e comprendere dove, esattamente. Questo “dove” potrebbe intanto essere fatto di sapere tecnico e artigianale, di introspezione, di romanticismo, di attitudine nostalgica, di linguaggio vernacolare, di predisposizione alla relazione umana, al dialogo con il contesto e con il territorio, di rinuncia all’io in favore di un’arte autenticamente democratica, collettiva, comunitaria. “All artists are alike. They dream of doing something that’s more social, more collaborative, and more real than art” (DaGraham, cit. in Valentina Tanni, op. cit., p. 119).

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Bari, 6 ottobre 2020. “Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. / Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / Girerai. Negli stessi quartieri invecchierai, / e in queste stesse case imbiancherai. / Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non / sperare – / Non c’è nave per te, non c’è altra via. / Come hai distrutto la tua vita qui in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta” (Costantino Kavafis, Le poesie, Einaudi 2015, p. 5).

Questo periodo rappresenta l’occasione – unica – per liberarsi di ogni condizionamento. Per cogliere la palla al balzo. Per non pensare più in maniera verticale, maschile, egocentrica, egoista, solipsistica.

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INTERCONNESSIONE: ASSEMBRAMENTO, CONFINAMENTO

“‘Se ti concentri abbastanza a lungo’ mi spiegava, ‘è molto probabile che quanto hai immaginato diventi realtà.’ E si batteva la fronte. ‘È tutto nella nostra mente’” (Jeanette Winterson, op. cit., p. 39).

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ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]

5 VOCABOLI DA MANDARE A MEMORIA

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er chi ha comunque cercato di comunicare a un vasto pubblico, il 2020 è stato l’anno dello streaming in diretta. Ogni forma di spettacolo, dal teatro ai fashion show, ha fatto di necessità virtù, adottandolo come surrogato del live, cercando di sostituire la presenza fisica con l’illusione della partecipazione a uno spettacolo dal vivo. Poiché nessuno si illude che tutto tornerà come prima, che potremo facilmente viaggiare o stare assiepati come un tempo, poiché i guasti psichici di questa realtà li stiamo provando tutti, è utile cominciare a familiarizzare con vocaboli che sono indicativi dell’evoluzione che il maledetto virus ha messo in moto nel mondo dei social. Funzioni che erano state individuate prima della comparsa della pandemia, la cui crescita era stimata in qualche anno, sono esplose in pochi mesi. Meglio conoscerli dunque, sia per utilizzarli al meglio che per meglio difendersene.

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GAMIFICATION Uno degli effetti della permanenza forzata in casa, causata dal lockdown, è stata la maggior quantità di tempo dedicata ai videogiochi. Realtà aumentata o modellazione 3D, sono nuove frontiere che la distribuzione sta sperimentando per fornire più “sevizio” ai propri clienti. Questo media viene ora esplorato per ottenere, attraverso elementi che mettano il divertimento al primo posto, il coinvolgimento diretto dell’utente, ad esempio simulare la prova di un capo di abbigliamento, come accade con Amazon o Prada. O imparare a conoscere l’uso del colore e della luce nell’arte contemporanea, come accade in Prime7, elaborato dal Centre Pompidou.

PHYGITAL Crasi tra ‘phisical’ e ‘digital’, prevede l’esecuzione di un evento contemporaneamente di fronte a un pubblico reale (che in qualche modo diviene pure attore) e a uno molto più vasto e, in realtà, vero destinatario. Evento che sarà trasmesso attraverso i flussi che passano dall’allineamento contemporaneo e il più ampio possibile di Instagram, TikTok, YouTube, un URL privato ma anche Facebook e LinkedIn. Un modo per rendere il pubblico, qualsiasi tipo di pubblico, raggiungibile in ogni luogo geografico possa trovarsi.

REELS

OMNICHANNEL La crisi che stiamo attraversando ha fatto dell’approccio multicanale una questione di sopravvivenza per le aziende: che si tratti di vendita di prodotti del food o del fashion, di libri o di opere d’arte. L’utilizzo di ogni app conosciuta con il lockdown è notevolmente aumentato e i marchi provano a mantenersi rilevanti presso i loro possibili acquirenti esplorando qualsivoglia modo in cui i consumatori possono continuare a essere contattati oltre la loro presenza fisica in uno store. La storiella dell’acquisto emozionale trainato dal luogo fisico in cui avviene pare aver esaurito ogni credibilità.

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È la piattaforma lanciata il 20 agosto da Instagram per contendere lo spazio all’imprevisto successo di TikTok. Reels permette di postare brevi video multi-clip, della durata di 15 secondi, in tutto e per tutto simili a quelli di TikTok, che si è rivelato uno strumento ancora più efficace di Facebook e Instagram per qualsiasi pubblicità di brand desiderosi di agganciare Millennials e GenZ. Reels (USA) è nata dunque per misurarsi proprio sul terreno di TikTok (Cina), non come un giochetto per ragazzini ma come un’arma studiata per una guerra in piena regola.

TENTPOLE Ancora una crasi, stavolta fra ‘tenda’ e ‘centrale’. È l’evento che un brand crea per fare da traino (finanziario e di immagine) ad altri minori, collegati ma non per questo necessariamente contemporanei. Effetto desiderato è quello di creare una connessione più intima tra il brand e la community che si intende agganciare e in-trattenere anche dopo la fine dell’evento centrale.


MARCELLO FALETRA [ saggista ]

GRANDI EVENTI: PERCHÉ?

UN BANKSY DA CAVALLETTO

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on ci posso credere che voi coglioni stiate veramente comprando questa merda”: è l’espressione che Banksy mette in una stampa dal titolo Morons, battuta all’asta per 500 dollari al pezzo nel 2007. “Ogni volta che vendo un lavoro a prezzo ridotto”, osserva ancora Banksy, “c’è qualcuno che lo mette su eBay e fa più soldi di quanti ne abbia fatti io vendendoglielo”. Questa confessione fa capire quanto egli stesso sia vittima dell’aspetto onnivoro del mercato dell’arte. L’azienda di Banksy – la Pest Control Office Ltd – è un moltiplicatore di denaro. Non soltanto per lui, ma anche per gli acquirenti. Le quantità di stampe di Banksy non si contano. Così pure i falsi. E le mostre fatte col suo nome – come quella appena inaugurata a Palermo – quasi sempre sono il frutto di collezionisti che hanno acquistato stampe su eBay o, quando va bene, direttamente dalla sua azienda. Alla mostra fa da cornice il titolo del celebre dipinto di Antonello da Messina, Ritratto di ignoto, che in realtà non è mai stato tale. Infatti, il quadro ritrae Francesco Vitale da Noia, segretario di Ferdinando II nonché orgoglioso antisemita. Ma il mistero seduce. D’altra parte gli intrattenimenti culturali richiedono parole-guida, e la parola ‘ignoto’ si presta bene ad assolvere la sua funzione trainante. E dove c’è ignoto c’è attrazione, fascino, seduzione; ma anche sovraesposizione mediatica (il mito del brand: “è un Banksy!”), regressione storica (il culto del mistero), contraffazione ideologica (l’estetica come avamposto del mercato). Una mostra a insaputa dell’autore, che diventa lo spettacolo differito dell’artista più contraffatto e copiato al mondo. Con la proliferazione di falsi Banksy, neanche la firma garantisce l’autenticità dei feticci esposti. Attorno a questa firma-feticcio ruotano come satellizzati alcuni street artist locali. Per l’occasione hanno realizzato dei piccoli murales, che accompagnano il visitatore lungo il tragitto che si snoda da un luogo all’altro della mostra, un modo per distrarre dal degrado urbano. Ciò che dovrebbe BANKSY A SUA INSAPUTA: fare la politica – la “riquaALCUNE DELLE MOSTRE PIÙ RECENTI lificazione urbanistica” Mosca 2018 Hong Kong – lo si rifila all’arte. Vale 2019/20 ancora oggi la vecchia San Pietroburgo 2018 battuta che recita: “Un Yokohama 2020 Las Vegas quadro di Picasso in una Milano 2019/20 fabbrica non abolirà lo 2018/19 Osaka sfruttamento dell’opera2020/21 io”. Qui lo street artist usa il muro come il pittore tradizionale il suo cavalletto. In fondo, la mostra rispetta il concetto di “quadro”, celebra lo spaLondra 2021 zio chiuso della “cornice”, che sono estranei allo spiLisbona 2019 rito del graffitismo che corre sui muri delle città. Recludendo gli stenPraga cil in una galleria, que2020 sti sono addomesticati, Ferrara perdono la negatività e la 2020 Madrid ribellione da cui traggono Roma 2018/19 2020/21 la loro forza. Diventano Palermo Genova immagini “carine” che 2020/21 2019/20 arredano le pareti dei salotti.

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pesanti e sempre più stringenti limiti all’assembramento – che parolaccia! – fanno riflettere su ruolo, funzioni e opportunità dei grandi eventi. Certamente il concetto di “grande” è soggettivo. Per mesi non si è potuto andare ai musei, poi agli spettacoli, al cinema. È necessario rimanere distanziati dagli “estranei” per ridurre il contagio di questo sfiancante virus. E allora si cercano soluzioni di consumo culturale ammissibili, ma soprattutto sostenibili. Perché fare uno spettacolo per pochi o aprire un luogo (museo, monumento, quel che sia) può non essere possibile sotto il profilo dei costi/ricavi. Molti hanno invocato la solita mano pubblica che dovrebbe pagare per tutti: ci si vada o meno, valga qualcosa o interessi a qualcuno o meno, la collettività si deve accollare il costo Cogliamo da questa crisi dell’offerta. In nome l’occasione di uscirne, della libertà di accesso, su cui si è fatto oltre che più forti, anche un bel convegno di più consapevoli di quel recente, The 2020 che siamo e di quel che Rome Charter: che muoia Sansone con vogliamo. tutti i Filistei. Questo atteggiamento a mio giudizio è un male chissà come curabile che assilla l’operatore culturale. Non me ne voglio occupare in questa sede. Mi interessa invece innescare una riflessione sull’opportunità degli eventi, considerato che adesso non se ne possono fare granché, mentre normalmente sono un format d’intrattenimento usuale e apprezzato. Servono sempre i grandi numeri? Per grandi intendo migliaia, decine o centinaia di migliaia. L’essere umano, soprattutto il genere maschile, ha un po’ la visione aritmetica del mondo, gli piacciono i numeri, le quantità oggettive. Quindi tanti è meglio di pochi, migliaia è più figo di centinaia. Però il mondo sta andando altrove, a prescindere dalle limitazioni, contingenti, anche se non sappiamo per quanto, del Covid-19. Quantità non è meglio di qualità e spesso ne è a detrimento. Alle persone piacciono sempre più servizi e non prodotti, personalizzazioni e non generalizzazioni. Allora – prescindendo adesso dai costi e dalla sostenibilità – perché voler fare sempre e a tutti costi cose grandi? Perché ritenere che se ci si è andati in tanti, troppi, è più riuscito e migliore di qualcosa interessato a pochi? Pochi può essere sinonimo di appropriati, non nel senso di cool, ma anche di veramente interessati. Quante persone partecipano solo perché bisogna esserci, per farsi vedere? Guastando o congestionando chi magari ci va perché ci trova un senso proprio. Sfatiamo anche il tema della sostenibilità: qualcosa per pochi costa oggettivamente meno (sul fronte dei costi variabili) e si rivolge a un pubblico che, in quanto più motivato, magari è più elastico al prezzo, è disposto a pagare di più. Parallelamente, allora sì che ha senso che poi ci siano anche iniziative gratuite – o fortemente calmierate – dal contributo pubblico, dalla collettività, for everyone. Cogliamo da questa crisi l’occasione di uscirne, oltre che più forti, anche più consapevoli di quel che siamo e di quel che vogliamo.

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FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]

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LA COPERTINA Le presidenziali americane 2020 passeranno alla storia come la sfida elettorale più costosa di sempre. Biden e Trump raggiungeranno complessivamente la spesa di 11 miliardi di dollari, di cui 180 milioni nel solo Facebook. Sono investimenti che restituiscono l’immane sforzo di allestire macchine di comunicazione – e del fango – perfette: una propaganda capillare costituita da slogan, pubblicità, tweet, interviste, accessori, fake news, comizi, selfie. Gigantesche costruzioni di parole. Dietro di esse si cela una specifica idea di leader, un’idea spesso più forte delle argomentazioni che la sostengono. Ma questo sforzo – di costruire un’immagine perfetta e distruggere quella dell’avversario – ha il risultato di sgonfiare di significato l’unico momento di reale senso politico: il dibattito. Non esistono argomentazioni, perché non esiste un discorso coerente tra le fazioni, esiste uno scontro frontale fra gli opposti, ed esistono le necessità, quelle percepite dall’elettorato. Il primo confronto face-toface è stato l’emblema di questa vuotezza: lo show, a tratti grottesco, di due figure che non avevano niente da dirci. Al di là delle differenze fra i due leader, il quadro americano ci restituisce un vizio di forma di tutto l’universo politico occidentale. La democrazia è libertà di scelta, e quindi necessità di persuadere quello stesso arbitrio: da ormai un secolo, questo meccanismo plasma la classe politica a immagine e somiglianza dei media che utilizza. Oggi abbiamo leader che non sono più rassicuranti voci radiofoniche, né affascinanti figure televisive, sono personalità social: viscerali, dirompenti, concisi, ma drammaticamente poveri di contenuti. In occasione di ogni tornata elettorale, questo sistema ci costringe a show senza pause, dove la finzione, le narrazioni si accalcano, col risultato di infervorarci o nausearci. Alla fine di ogni spoglio, quello che ci rimane dei candidati, delle loro promesse, bagarre, è soltanto un nuovo presidente e un vacuo Bla-Bla. FRANCESCO FADANI Tatanka Journal è una rivista indipendente che dal 2018 racconta l’attualità attraverso le immagini, la grafica e le illustrazioni, coinvolgendo artisti nazionali e internazionali. Nel 2020 inizia la collaborazione con Artribune, insediandosi sulla superficie della rivista per creare un progetto editoriale parallelo, in grado di innescare delle riflessioni che nell’arco del nuovo anno indagheranno il contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI

tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal

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ARCHUNTER

MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

EVA STUDIO evastudio.co.uk

Tapis Rouge, Port-au-Prince, Haiti. Photo © Gianluca Stefani / Eva Studio

“First life, then spaces, then buildings – the other way around never works”. Presa in prestito all’urbanista Jan Gehl, è questa la frase con cui si presenta EVA – Emergent Vernacular Architecture sul web: un invito a un radicale cambio di prospettiva, per guardare all’architettura come a “qualcosa più di un semplice progetto: un processo che mette al centro le persone, per comprendere i processi emergenti, i metodi vernacolari, le radici storiche e sociali”. Una missione che inizia a Londra nel 2014 quando, con Simone Pagani, Andrea Panizzo (Udine 1977) abbandona una carriera da architetto in studi internazionali per fare la differenza nelle aree più vulnerabili del pianeta. A partire dalla martoriata Haiti, dove lo studio partecipa all’opera di ricostruzione post-sisma 2010 coinvolgendo l’intera comunità. Sulla cima di Carrefour-Feuilles, gli abitanti dello slum costruiscono sotto la guida dei progettisti una piazza-anfiteatro con aree per lo sport e l’incontro, ma anche per la raccolta e distribuzione dell’acqua. Ai piedi dell’insediamento, invece, un’opera di contenimento diviene la colorata quinta per un campo da gioco tanto desiderato. Mentre a Delmas 32 un campus scolastico progettato nel rispetto della flora locale diventa il vibrante centro del quartiere. Luoghi di identità e relazione, le infrastrutture di Port-au-Prince traghettano EVA Studio, a soli due anni dalla fondazione, tra le Firms to Watch dell’Architectural Record e alla candidatura all’AR Emerging Architecture Award. Nel 2018 l’architettura sociale di EVA Studio raggiunge l’epicentro della crisi dei rifugiati. Nella città libanese di Tripoli lo studio dona nuova vita alla derelitta scalinata di Chaarani. Con il supporto di UN Habitat e Solidarités International, gli architetti coinvolgono in un grande progetto collettivo la comunità locale, i rifugiati siriani, gli artigiani di zona e l’artista Alfred Badr. Completata a inizio 2020, Chaarani è oggi una caleidoscopica corte urbana in mattonelle a encausto, impreziosita da un murale e arredata con sedute e agrumi: primo stage di un intervento ad ampia scala con cui EVA Studio, confida Panizzo ad Artribune, “spera di trasformare l’intero quartiere di Qobbe, aumentando la coesione tra le diverse comunità che vi convivono”. Intanto prosegue l’impegno su più fronti: “A Haiti completeremo il prossimo anno Martissant Park: commissionato dalla fondazione FOKAL, sarà il primo parco urbano del Paese. Mentre a Londra”, dove sono stati nominati design consultant del sindaco, “stiamo per iniziare i cantieri di due parchi a Barnet”. Sempre con un occhio vigile sulle emergenze globali: “Abbiamo da poco avviato una research unit dedicata alla crisi dei rifugiati nel Medio Oriente. Il nostro obiettivo”, conclude Panizzo, “è lavorare alla scala di quartiere, costruendo infrastrutture sociali che diano alle comunità spazi sicuri e belli, che rafforzino la coesione e migliorino la qualità della vita di tutti”.


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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

KIM ROSELIER kimroselier.com

USA Simone Leigh sarà la prima donna nera a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia. Nata a Chicago nel 1967 e residente a New York, Leigh è tra gli artisti americani più importanti di oggi: la sua ricerca si serve di diversi media, spaziando tra scultura, installazione, video e performance. icaboston.org FRANCIA La Francia è stata tra i primi Paesi a rivelare l’artista che la rappresenterà alla prossima Biennale: Zineb Sedira. Di recente l’Institut français – che insieme ai Ministri alla Cultura e all’Europa e agli Affari Esteri ha commissionato il Padiglione – ha rivelato i nomi dei curatori del progetto espositivo: si tratta di Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath di artReoriented. institutfrancais.com BELGIO Nato ad Anversa nel 1959 e di base a Città del Messico, Francis Alÿs ha già partecipato alla Biennale: nel 2017 è stato il commissario del Padiglione dell’Iraq. Nel 2022 rappresenterà il Belgio alla Biennale Arti Visive. francisalys.com EMIRATI ARABI UNITI Gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato che sarà l’artista Mohamed Ahmed Ibrahim a rappresentare il Paese alla Biennale di Venezia nel 2022. In controtendenza rispetto al passato, è stato nominato prima l’artista, che ha poi indicato in Maya Allison, direttrice e curatrice della NYU Abu Dhabi Gallery e da anni promotrice delle avanguardie negli Emirati, la curatela del padiglione. Ibrahim partecipò anche alla 53. edizione della Biennale. nationalpavilionuae.org

ERRATA CORRIGE L’illustrazione pubblicata alle pagg. 54-55 di Artribune Magazine #56 è di Walter Larteri e non, come erroneamente indicato, di Sabeth. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

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Kim Roselier per Le Temps, 2018 © Kim Roselier

Negli ultimi anni il progressivo imporsi delle tecniche digitali di rappresentazione ha in modo inevitabile raffreddato la temperatura degli esiti visivi e, di conseguenza, pure l’immaginario correlato. L’immediatezza di un tratto di matita, di una pennellata, persino di un errorino anche non del tutto trascurabile, ha lasciato il campo a effetti più levigati, controllati, lucidi, perfettini in maniere che, per chi guarda, si fanno a volte quasi sconfortanti. Ne ha fatto le spese soprattutto l’immagine narrativa, quella coinvolgente, “sentimentale”. E, ça va sans dire, l’immagine erotica. D’altronde è l’erotismo stesso, a giudicare dalle sue rappresentazioni, che nel frattempo si è fatto meno romantico e più asettico. E chissà quali saranno gli effetti, anche a lungo termine, dei forzati distacchi innescati dal Covid-19 col suo corredo di “dispositivi di protezione individuale”, che purtroppo si rivelano fatidici preservativi comportamentali e affettivi. C’è un figurativo francese, il 34enne parigino Kim Roselier, alternativamente pittore, illustratore e graphic designer, che incarna bene questo conflitto espressivo tra un prima sempre più lontano e un adesso sempre più presente. In genere per l’editoria lavora in digitale, perché giustamente un artista applicato in pratica oggi non può farne a meno, pena restare escluso dal mercato; e tuttavia ha nostalgia delle tecniche tradizionali, con le quali si è formato, e cerca di tornare a praticarle ogni volta che può. Ciò appare evidente più spesso nelle immagini che crea non su diretta commissione ma per puro piacere personale. Le quali sono perlopiù, manco a dirlo, di carattere erotico. Roselier diviene pertanto un possibile emblema della contraddizione che vivono molti artisti contemporanei di sangue caldo. Il sangue freddo resta evidente nella costruzione delle scene: rigore grafico nella composizione, geometrie elegantemente progettate, calibratura importante del bianco di complemento a contrasti cromatici ben ritmati. Invece poi il sangue caldo, che ribolle sottostante, viene a galla nella sensualità curvilinea e nel senso dell’umorismo, ma ancor di più nella stesura del colore, che si spande – a questo punto a sorpresa – sotto pennellate qui di acquerelli e qui di tempere, in modo da far risultare campiture non piattamente scivolose bensì leggermente diseguali e idealmente quasi tattili. Le immagini stuzzicanti di Roselier, anche quando rappresentano accoppiamenti diretti di corpi, non sono però mai troppo esplicite. Calde sì, ma non bollenti. Anzi, l’emotività controllata che sono capaci di esprimere, relativamente rara in un campo che tende volentieri allo hot più che al soft, ha generato un curioso equivoco: Kim viene preso in più di un caso per una donna. Dalla quale evidentemente ci si aspetta un approccio più “beneducato” alla materia comunque scottante. Equivoco curioso, sì, ma anche rivelatore di un diffuso pregiudizio, oggi senz’altro meno valido di ieri.

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PAESI NORDICI Per la prima volta nella storia della Biennale, il Padiglione cambierà il proprio nome, trasformandosi da ‘Nordico’ a ‘Sámi’. Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna sono gli artisti Sámi che rappresenteranno il loro popolo alla Biennale, su commissione dell’OCA – Office for Contemporary Art Norway. oca.no

OPERA SEXY

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BIENNALE DI VENEZIA 2022 Cinque padiglioni nazionali per la Biennale che verrà

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APP.ROPOSITO

SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]

HYPERLOOP VR

Un’occasione per sperimentare le nuove frontiere dell’isolamento, e di come le capacità artistiche o la resistenza personale possano riuscire a tenere un minimo di lucidità durante i mesi che andremo ad affrontare. Credete che stare chiusi in casa per paura del contagio sia un’esperienza claustrofobica? Ecco un vali indg.com/hyperloop-vr-app/ do banco di prova per la vostra capacità free di adattamento, o un mezzo per potervi iOS con visore VR, Vive, Rift togliere il visore e dire “finalmente sono di nuovo a casa!” anche se vivete in una stanza in affitto. Hyperloop è un’app di VR usata per testare non solo il funzionamento ma anche l’esperienza dei viaggiatori che prenderanno l’Hyperloop, la strabiliante invenzione di Helon Musk, per spostarsi attraverso tubi pressurizzati in navicelle che viaggeranno a 1.200 km/h. Questa app permette di testare l’esperienza di un viaggio da Amsterdam a Londra, della durata di mezz’ora, in cui dovrete prendere posto e non fare assolutamente nulla. Anche se in isolamento, garantisce un sollievo incredibile al momento dell’arrivo.

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L SHELTER IN PLACE

La cameretta, l’appartamento, la villa, anche il palazzo o le varie dimore di villeggiatura dopo un certo quantitativo di tempo possono essere stretti come una gabbia per criceti. Shelter in Place propone una casa immaginaria con 15 stanze di giochi o creatività dove trovare un’alternativa agli spazi ormai girati e shelterinplacevr.com rigirati, sia in situazioni di lockdown che free in tempi meno preoccupanti. I giochi Oculus proposti vanno dalla stanza del writer, in cui si ha a disposizione qualunque tipo di bomboletta o di tecnica per disegnare, oppure fare attività fisica, dipingere, suonare la batteria a tutto volume o addestrarsi nel proprio poligono di tiro personale, esplorare labirinti o distrarsi con giocoleria medievale, giocare a ping pong prima di spaccare tutto a partire dalle stoviglie. Unica pecca: all’interno dell’app sarete soli, infatti non è stato ancora introdotto alcun supporto multiutente o social, come nelle chatroom VR che offrono meno potenzialità ma più socialità.

L ZEROPHOBIA

L’isolamento forzato o la riduzione dell’intrattenimento possono essere un momento di crescita personale, o anche la possibilità di esplorare dei limiti e superarli. ZeroPhobia è stata sviluppata all’interno del dipartimento universitario di Twente ad Amsterdam ed è per ora l’unica app con evidenze scientifiche per zerophobia.app dare giovamento a situazioni di disagio € 14,99 legate ad agorafobia e paura delle altez iOS, Android con visore VR ze. È davvero il caso di prendere la palla al balzo per avere un approccio realistico e scientifico, e verificare quanto l’esperienza di isolamento possa far emergere certi sintomi e sconfiggerli nella sicurezza della propria stanza. Per avere un bacino di utenti più vasto, l’app è stata sviluppata solo per mobile, con l’utilizzo di cardboard di ogni tipo.

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Il cammino degli Incas. Grande mostra dell’IILA a Roma su un antico sistema viario delle Ande

CLAUDIA GIRAUD L Una strada di epoca millenaria, che attraversa sei Paesi dell’America Latina. È l’unico caso al mondo di Patrimonio dell’Umanità nato dalla costruzione di una narrazione collettiva: quella di Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perù. Stiamo parlando di Qhapaq Ñan, un antico sistema viario di oltre 30mila chilometri creato dagli Incas, dichiarato Patrimonio UNESCO dal 2014. Ora la sua storia è raccontata per la prima volta in Europa in una grande mostra, inedita per l’Italia, organizzata da IILA – Organizzazione internazionale italo-latino americana presso il MUCIV Museo delle Civiltà di Roma a partire dal 20 novembre. Attraverso panorami mozzafiato, siti archeologici, riti e culture ancestrali, il cammino percorre in lungo e in largo una delle aree geografiche più estreme al mondo, che va dai 6mila metri delle vette delle Ande, passando per aridi deserti e foreste pluviali, fino a raggiungere le coste. Qhapaq Ñan. Il grande cammino delle Ande – questo il titolo della mostra – rappresenta, così, un’occasione unica per conoscerne il territorio sotto vari punti di vista, grazie alla varietà delle tematiche affrontate. “Finalmente a Roma, un viaggio attraverso storia, antropologia, artigianato, archeologia, turismo, arte contemporanea, tutti percorsi di un patrimonio vivo: il Qhapaq Ñan”, conclude Rosa Jijón, curatrice della mostra. iila.org

NECROLOGY QUINO 17 luglio 1932 – 30 settembre 2020 L KENZO TAKADA 27 febbraio 1939 – 4 ottobre 2020 L FRANCO BOLELLI 8 luglio 1950 – 5 ottobre 2020 L ENZO MARI 27 aprile 1932 – 19 ottobre 2020 L LEA VERGINE 5 marzo 1936 – 20 ottobre 2020 L FRANK HORVAT 28 aprile 1928 – 21 ottobre 2020


LABORATORIO ILLUSTRATORI

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VIOLA GESMUNDO viola.gesmundo_illustrations

Viola Gesmundo nasce a Foggia nel 1987 e vive a Torino. Architetta e illustratrice, si avvicina al mondo dell’hip hop e inizia a esprimersi anche attraverso la street art. Interessata a scene di vita quotidiana e al rapporto tra uomo e ambiente, restituisce visioni fondate su una linea di contorno spessa, seppur morbida, entro la quale si dilatano texture e tinte piatte. Il tutto con grande libertà espressiva e compositiva, nell’ottica di una continua sperimentazione.

Quali sono i tuoi illustratori di riferimento? Altan è stato il mio primo fumetto con la Pimpa e tutti gli illustratori di Linus. Frank Asch e Mark Alan Stamaty con l’opera Giallo giallo. Where the wild thinks are di Maurice Sendak e ovviamente Leo Lionni con Piccolo Blu e piccolo giallo. Ultimo libro letto e ultimo film visto. Il libro di Talbott di Chuck Palaniuk. Ultimo film visto, 8mile: è sempre un piacere sentire delle buone colonne sonore hip hop in un film. Cosa c’è di autobiografico nel tuo lavoro? Uso l’illustrazione come terapia per ricordare i miei momenti positivi e ripartire dai momenti negativi per illustrare anche le parti brutte della vita e poi farmi

Cosa sogni di illustrare? Silos giganteschi nella mia città, Foggia. E sogno di tornare a New York per fare un murale enorme. Qual è il tuo concetto di bellezza? La bellezza è una sensazione. La bellezza è in generale per me la cura, la cura per se stessi e per gli altri, voler bene. Si può trovare la bellezza in una vecchia signora che si prende cura di se stessa, in un bel gesto di aiuto verso gli altri, in un bel piatto di pasta o in un’opera d’arte.

© Viola Gesmundo per Artribune Magazine

una gran risata. Quando si tratta di commissioni entra in gioco l’empatia, cerco di immedesimarmi al massimo con il committente, di ascoltare le sue storie, le sue idee, le sue felicità e tristezze, e anche qui disegno per cercare di farlo sorridere. Cosa ti incuriosisce di più della realtà che ti circonda? Mi incuriosiscono le persone di sfondo. Purtroppo a volte anche quando parlo con le persone mi distraggo nell’osservare le persone che sono dietro di loro. Mi piacciono le situazioni che ad altri mettono a disagio. Mi piace molto fare le file, ad esempio alla posta, perché sono giustificata nel non fare niente; in realtà sto disegnando nella mia testa e prendo spunti per la prossima illustrazione. Descrivi il processo creativo di una tua illustrazione. Vivo la giornata, mi guardo intorno, vedo qualcosa, per lo più delle persone, è come se le scannerizzassi e le facessi diventare linee nere. Poi prendo il foglio

Come hai reagito al lockdown? Ho creato. Ho creato cibi nuovi, ho creato relazioni diverse con le persone, ho eliminato le relazioni insalubri e ovviamente ho disegnato con l’istinto. Prendo sempre ispirazione da quello che mi circonda, questa volta ho scavato dentro me stessa e ho tirato fuori 60 consigli per stare bene durante la pandemia. Il titolo è Rimedi da seguire relativamente o meglio come tentare di rimanere sani al tempo del coronavirus e sono usciti sul mio canale Instagram ogni giorno alle 12:30. L’ultimo rimedio è stampato in grandi dimensioni in via Po a Torino all’interno del progetto Spazio Portici – Percorsi Creativi. Poi, non potendo uscire di casa e in astinenza da illustrazioni di grandi dimensioni, ho fatto un murale in cucina, una tigre, segno di forza e di rinascita.

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Qual è la tua formazione? Vengo da Foggia ma vivo a Torino dal 2006. A Foggia ho imparato a disegnare sui muri e mi sono avvicinata all’hip hop in tutte le sue forme ma soprattutto al writing. Ho preso la laurea magistrale in Architettura nel 2014 tra Torino e Parigi. Dopo la laurea ho lavorato un po’ come architetta. Sono andata a vivere a Rotterdam, ho svolto una residenza d’artista presso la Foundation Bad. In Olanda ho lavorato molto come illustratrice e urban artist, ho partecipato a performance e mostre. Dopo un anno sono rientrata a Torino perché avevo vinto il bando Porte ad arte e avrei dovuto fare il mio primo grande murale su un edificio storico.

e una penna nera e, senza pensarci molto, delineo delle immagini. Se si tratta di immagini per il web le passo sulla tavoletta grafica. Se è un murale mi lancio a capofitto sul muro, poi mi allontano e vedo gli errori.

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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

A cosa lavori in questo momento e cosa ti riserva il futuro? Sto lavorando a una serie di illustrazioni che ruotano intorno al tema dell’essere donna e illustrazioni per alcune riviste. Sono diventata mamma da poco, ho interrotto qualche mese con i murales all’esterno e non vedo l’ora di ricominciare: ci sarà un nuovo grande murale pronto per il 2021. Ovviamente continuerò a breve con la mia rubrica su Instagram.

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MUSEI E FONDAZIONI (II): COME SARË LA STAGIONE AUTUNNO-INVERNO? SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

L’emergenza Covid ha cambiato il modo di fare e fruire le mostre: come si sta configurando la stagione 2020/2021? Quali sfide stanno affrontando musei e fondazioni? Cosa può e deve fare la politica per sostenere la cultura? Lo abbiamo chiesto a dieci direttori e presidenti, che si aggiungono agli altri dieci interpellati sul numero #56 di Artribune Magazine.

i progetti futuri, che non saranno facili; penso a Silver Rights di Elena Mazzi, con cui abbiamo vinto l’Italian Council e che ha la produzione in Sud America.

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DIEGO SILEO PAC – MILANO La sfida è rimettere in piedi le risorse economiche danneggiate dalla situazione che stiamo vivendo; recuperare il rapporto con il pubblico, messo a dura prova dall’incertezza e dalla discontinuità dell’offerta, anche investendo in tecnologia che possa semplificare o arricchire la visita; pensare a contenuti e attività per un pubblico non in presenza e nello stesso tempo rafforzare la relazione con un pubblico di prossimità. Credo che il messaggio del mondo della cultura alla politica sia unanime: sostegno. Il periodo è durissimo. Siamo consapevoli del fatto che oggi le priorità siano altre, ma lasciare indietro la cultura potrebbe avere conseguenze irrimediabili.

CARLOTTA MONTEBELLO FONDAZIONE ARNALDO POMODORO MILANO Musei e istituzioni culturali dovranno trovare un nuovo “modus” per promuovere e consentire la partecipazione del pubblico. Le persone hanno voglia di fare, ma al contempo vanno stimolate. Nei mesi del lockdown ci siamo abituati a fruire da lontano, ora occorre trovare una via di mezzo, anche perché la maggior parte dei luoghi dedicati alla cultura non sono sufficientemente grandi per accogliere i numeri di prima. Ma la cultura va promossa, e occorre trovare un modo per farla fruire anche “uscendo” dai luoghi deputati. Vanno coinvolti i quartieri e utilizzati quegli spazi e quelle aree che fino a oggi hanno avuto funzioni diverse. Occorre una rigenerazione, dei modi e degli spazi.

EMANUELE GUIDI AR/GE KUNST – BOLZANO La sfida è convincere la politica che la nostra attività non deve esser valutata “alla biglietteria” e che siamo parte integrante di una visione strutturale per il Paese. Siamo un bene rifugio e le nostre attività hanno una dimensione terapeutica oltre che pedagogica. Mi preoccupa molto la chiusura dello spazio, che annullerebbe qualsiasi possibilità di contatto diretto con le mostre e le attività anche in numeri contingentati. Altra preoccupazione sono

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vicini alle persone, aiutarle a non sentirsi isolate. Questo momento porta con sé, inevitabilmente, le preoccupazioni legate alla programmazione e ai visitatori. Ci sono richieste capacità di flessibilità e adattamento ma, anche se i progetti potrebbero cambiare, la rilevanza e il ruolo del museo non cambieranno. L’obiettivo è cambiare il modo di vivere il museo e far sì che il museo non trasmetta solo messaggi ma che li viva, come esempio di una società aperta e liberale. E la speranza è che la politica ci consideri un partner e non un lusso.

BART VAN DER HEIDE MUSEION – BOLZANO In questo momento la priorità è la salute, ma come museo dobbiamo rimanere

SERGIO RISALITI MUSEO NOVECENTO – FIRENZE Le sfide che ci aspettano sono molte e la maggior parte epocali. Non ci devono intimorire le missioni impossibili. I nostri sono comunque tempi migliori rispetto a quelli vissuti in altre epoche storiche e in altri luoghi del pianeta. Dobbiamo essere autorevoli e convincenti in un periodo in cui sia il sistema pubblico che quello privato sono messi alla prova sui valori fondanti della civiltà umanistica e la resistenza democratica. Ci sono complessi meccanismi ideologici ed economici da smantellare e trasformare per il bene del pianeta e una maggiore equità. Dobbiamo agire guardando a sostenibilità finanziaria e qualità scientifica, al massimo dell’apertura culturale, spingendo l’acceleratore sulla creatività, la brillantezza concettuale, l’anticonformismo. Alla politica chiedo di pensare meno agli spot, impiegandosi piuttosto nella rigenerazione del patto fiduciario tra cittadini e istituzioni.


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MARCO TREVISAN FONDAZIONE ALBERTO PERUZZO – VENEZIA

La sfida principale è ridisegnare le proprie modalità di ingaggio con il pubblico seguendo non solo regolamenti ma anche attitudini che giocoforza il pubblico avrà. Questa pandemia ha modificato il nostro modo di relazionarci con le persone e di stare fisicamente all’interno dello spazio pubblico. Quindi la sfida del museo è ripensare la relazione fisica con i propri visitatori, modificando la programmazione e la struttura degli eventi in conformità a questa nuova percezione dello stare insieme. Un’altra sfida è quella relativa all’utilizzo del digitale, che ha subito un’accelerata durante il lockdown e che adesso va ridefinito e riscritto. L’obiettivo del museo continua a essere quello di portare delle persone all’interno delle sale, ma non si può più ignorare il ruolo del digitale.

La sfida? Rimanere sostenibili, efficienti e innovativi per tutti i tipi di pubblico, pur con risorse contenute. E tornare a valorizzare il rapporto fisico con le opere, a partire dalle collezioni permanenti. Bisogna risvegliare i sensi e gli stimoli sensoriali verso l’opera dopo tanti mesi di tanta distanza digitale che, seppur fondamentale per tenere vive le azioni e la vita del museo, ha generato anche frustrazione. Mi preoccupa la difficoltà di mantenere rapporti stretti e continuativi tra colleghi a livello europeo e globale a causa delle difficoltà a muoversi. E il rischio di chiudersi su progettualità a basso rischio che rinuncino a rilanciare il ruolo delle istituzioni museali quali propositrici di nuovi modelli. Alla politica chiedo una presenza fisicamente diretta e regolare al museo, per comprenderne a fondo il lavoro e il suo impatto in Regione. Trasparenza, curiosità e fiducia reciproca.

La sfida del futuro per i musei è trovare nuove modalità di relazione con i propri visitatori, ma anche con la società: meno rapporti mordi e fuggi, o una tantum, e più relazioni di senso. Questo passa per la consapevolezza del fatto che un museo deve essere percepito come un luogo vivo, inserito nel contesto e nel territorio, con il quale dialoga. Aperto alle forme artistiche in senso ampio, anche al digitale, e luogo di scambio di idee e di incontro, più che spazio statico da depredare. Ad esempio, meglio una membership che un biglietto d’ingresso, ma se si è riusciti a crearne le premesse. Mi preoccupa che la cultura, dopo un inizio di lockdown nel quale è stata considerata da tutti come panacea e supporto, paghi invece lo scotto di una ripartenza dove esistono priorità economiche. Cioè, l’interpretazione del ruolo della cultura e dell’arte come consolatorio, ma non inserito in un contesto reale.

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LUIGI FASSI MAN – NUORO

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LORENZO BALBI MAMBO – BOLOGNA

BRUNO RACINE PALAZZO GRASSI – PUNTA DELLA DOGANA VENEZIA Palazzo Grassi – Punta della Dogana sta lavorando da diversi anni su alcuni binari fondamentali: sviluppare politiche e progetti rivolti all’inclusione, all’apertura verso nuovi pubblici, diversificando la propria proposta. Credo che questa sia diventata una necessità per ogni istituzione contemporanea. Si aggiunge poi il potenziamento dei supporti e degli strumenti digitali, con la produzione di contenuti multimediali ad hoc. L’incontro fisico tra visitatore e opera d’arte rimane il centro dell’attività di un museo, ma il nostro compito è rendere questo contatto un momento di crescita. Per farlo ci si può avvalere di strategie diverse: noi crediamo nella pluridisciplinarità e nella totale accessibilità. La cultura può contribuire a rendere il mondo del futuro meno minaccioso o inquietante, grazie alla capacità che ha di superare le barriere universali e di creare legami.

BARTOLOMEO PIETROMARCHI MAXXI – ROMA Siamo nel pieno di un cambiamento epocale e le questioni urgenti che devono affrontare i musei sono in gran parte le stesse della società: maggiore lentezza a favore della qualità dei contenuti, sostenibilità, accessibilità per tutte le diverse tipologie di pubblico, rivoluzione digitale senza dimenticare l’importanza della realtà e dell’esperienza diretta. Mi preoccupa però il non conoscere la durata di questo stato d’incertezza, che rende ogni progettualità labile. Alla politica chiedo di mettere la cultura ai primi posti nelle scelte che si dovranno fare nell’immediato futuro. Riconoscimento della professionalità e protezione per chi lavora in questo campo, più valore alla ricerca e alla sperimentazione, risorse pubbliche stabili per garantire lo svolgimento delle attività e autonomia nella scelta.

LAURA VALENTE MADRE – NAPOLI La sfida più importante è quella di costruire futuro in tempi complessi. Sostenibile, inclusivo, solidale, fuori dagli schemi. Ecco come sarà il museo del futuro. In pausa da una modernità diventata negli anni troppo moderna: troppa velocità, troppe connessioni, troppo sfruttamento delle poche risorse che abbiamo. Quali linguaggi, in quale modo e verso quale scopo? Sarà un’innovazione di processo e non (solo) tecnologica a vincere la sfida sul futuro e presente dei musei d’arte contemporanea. Alla politica chiedo semplificazione. Con lo snellimento della burocrazia, fermo restando il controllo rigoroso del rispetto delle procedure, saremmo a metà strada per cominciare a risolvere le cose. Per rimettere in moto il comparto concretamente.

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ART MUSIC

CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]

CLUBTOCLUB e LUNETTA11 sonorizzano l'Alta Langa

NUOVI SPAZI A TORINO CLAUDIA GIRAUD

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clubtoclub.it | lunetta11.com

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In questo frangente storico dominato dalla pandemia, con il settore dello spettacolo allo stremo, c’è chi prova a inseguire un sogno portando l’ascolto della musica in una nuova dimensione, arcadica e creativa. È il caso di due torinesi, rappresentanti dell’ala più innovativa della scena musicale del nostro Paese, che hanno unito le forze per realizzare un visionario progetto sonoro a lungo termine, frutto dell’incontro tra artisti e musicisti. Si tratta di Sergio Ricciardone, direttore artistico del festival internazionale di musica e arti Club To Club, che ha dovuto reinventare la sua nuova edizione in programma dal 5 all’8 novembre in C0C (una forma ibrida, in presenza – in varie sedi istituzionali – e in digitale), e Francesco Pistoi alias Pisti, del fu gruppo Motel Connection in orbita Subsonica: ora il dj e producer è fondatore, insieme alla madre Eva Menzio e alla compagna Claudia Zunino, di Lunetta 11, un progetto culturale nato a Mombarcaro, un’antica borgata delle Langhe. “Lunetta 11 è un nuovo progetto di galleria, divisa tra arte moderna e contemporanea, che ha riconvertito un borgo storico in un luogo di incontro tra discipline diverse”, spiega Ricciardone. “Due settimane dopo la fine del festival, diverrà la sede di un workshop che farà da preludio a un soundscape con eventi diffusi sul territorio: nel 2021 avremo la colonna sonora diffusa dell’Alta Langa”. Lunetta 11 – che comprende una piccola galleria d’arte attiva tutto l’anno, con mostre temporanee nelle sue sale, nel bosco e nelle strade del paese – dispone anche di alcuni spazi abitativi, utilizzati come residenza di artisti. È qui che nel weekend del 21 e 22 novembre approderà Club To Club. “C2C e Lunetta 11 sono due specie di animali aditi alla condivisione. Il lavoro in comune moltiplica le forze individuali, come in natura tutte le specie socievoli riportano la vittoria su quelle che non lo sono”, ci raccontano gli ideatori di Lunetta 11. “Un gruppo ristretto di musicisti, artisti, produttori e giornalisti per due giorni si incontrerà a Lunetta. Fantasticheremo sul progetto Lunetta 11 e C2C che prenderà vita e forma nel 2021 con un soundscape in Alta Langa. Un conclave di addetti ai lavori. L’interazione tra musicisti e artisti è sicura”. Cosa ne nascerà è ancora avvolto nel mistero, anche se è plausibile immaginare una nuova produzione curata in ogni dettaglio, dato che Lunetta 11 è anche etichetta discografica. “Di sicuro l’obiettivo sarà quello di creare un manufatto sia visivo che sonoro. Ma, come in ogni conclave, chi entra già papa rimane cardinale. Abbiate pazienza e presto vedrete la fumata bianca”.

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MUSA Con vista sul Santuario della Consolata, apre in pieno centro in un palazzo nobiliare del Settecento un luogo magico e ricco di storia, dedicato a tutte le arti. Saranno qui ospitate in occasione di grandi eventi: a cominciare dall’art week con The Others fino al Torino Film Festival, a fine novembre. URBAN LAB Nuovo allestimento multimediale, ampliato negli spazi della centralissima piazza Palazzo di Città, per la capofila della rete italiana e internazionale degli Urban Center: luoghi che raccontano ai cittadini i processi di trasformazione urbana. urbanlabtorino.it GIORGIO PERSANO La storica Galleria Giorgio Persano, per i suoi 50 anni di attività, cambia sede e torna in centro, all’interno del rinascimentale Palazzo Scaglia di Verrua, uno dei pochi esempi di palazzo cinquecentesco a non essere stato interessato da rimaneggiamenti di epoca barocca. giorgiopersano.org FRANCO NOERO Dopo aver chiuso la sede nella centralissima piazza Carignano, Franco Noero apre uno spazio open air in via Mottalciata, dotato di oltre 1.000 mq di giardino (di cui una porzione coperta da una tettoia) e deposito, situati a 100 metri di distanza, che ospiteranno progetti nella mission della galleria. franconoero.com FEBO & DAFNE Febo & Dafne si sposta nei nuovi locali di via Vanchiglia 16, non lontano da piazza Vittorio Veneto, dove ha sede un’altra veterana della città, In Arco. feboedafne.org HR DOCKS Il nuovo spazio, che nella sigla porta le iniziali dei due fondatori, Hipponion Arte Gallery di Giuseppe Patania e Res Publica – Galleria d’Arte Democratica di Alessandro Cacciola, nasce all’interno del complesso di archeologia industriale dei Docks Dora, dove ha sede un altro luogo dedito all’urban art: Docks 74. hrdocksgallery.com


SERIAL VIEWER DISENCHANTMENT

USA, 2018-ongoing Soggetto: Matt Groening Genere: sitcom, fantastico, avventura Stagioni: 2 | Episodi: 40 Durata: 22’-36’ a episodio

THE HUNT

Dodici sconosciuti si risvegliano imbavagliati in mezzo a un parco. Non si conoscono, non riescono a parlare o gridare, non sanno dove sono né come siano arrivati lì. Disorientati e spaventati, camminano verso una grande cassa in legno al centro di una radura, al suo interno trovano diverse armi e le chiavi dei lucchetti che tengono chiusi i loro bavagli. Dopo essersi liberati a vicenda, distribuiscono le armi e, prima ancora di riuscire a interagire, sentono arrivare i primi spari. Buona parte di loro non trova rifugio e muore immediatamente. Pochi altri, tra cui Crystal, ex soldato delle forze armate, iniziano una rocambolesca fuga per la sopravvivenza. Damon Lindelof (già pluripremiato sceneggiatore di Prometheus e Lost) e Nick Cuse (Maniac) adattano per il grande schermo il racconto del 1924 di Richard Connell La partita più pericolosa, trasformando l’opera letteraria in un survival thriller contemporaneo dal palese sottotesto politico. La trama è semplice: un gruppo di ricchi imprenditori liberal seleziona una dozzina di ultraconservatori per una caccia all’uomo senza via di scampo. Le vittime vengono scelte sulla base dei loro profili social e, in particolare, per la loro adesione a una teoria del complotto chiamata “il gioco della fattoria” (di cui diverranno così protagonisti). Drogati e trasportati in Europa, i prescelti sono liberati all’interno di una grande tenuta, “the Manor”, per essere abbattuti. The Hunt è il ritratto satirico e violento di un mondo confuso in cui realtà e finzione si equivalgono nelle bolle autoreferenziali dei social media, dove verità e menzogna convivono nel marasma indistricabile della Rete. Grazie a una regia ironica e intelligente, il film scorre piacevolmente, puntando il dito verso quella pericolosa tendenza alla polarizzazione del pensiero politico che l’America sta vivendo in questi anni e che minaccia pericolosamente il principio stesso della democrazia. Il riferimento alla combattiva Crystal (una simpatica e brava Betty Gilpin) come “Palla di neve” è un ulteriore indizio: siamo in una nuova ed evoluta versione de La fattoria degli animali di George Orwell. Una distopia dove realtà e verità non sono più condivisibili, dove l’estremismo cresce sul culto della personalità, dove i problemi complessi sono “risolti” con l’odio e la violenza.

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Una principessa, un demone, un elfo entrano in un bar. Serial Viewer questa volta vi porta nel mondo fantastico di una serie animata, Disenchantment, nata dalla matita di Matt Groening, storico e mitologico ideatore di The Simpsons e Futurama. Disenchantment è un po’ la rivincita di Groening. “Costretto” dal successo della sua famiglia americana a portare avanti il cartoon nato nel 1989 fino alla 32esima stagione e invece a chiudere le vicende nel futuro di Philip J. Fry nel 2013 dopo solo sette stagioni, con questa nuova produzione, fruibile su Netflix, l’autore ha potuto dare vita a un nuovo universo, un po’ figlio di questa seconda esperienza. Il terzetto Leela, Fry, Bender di Futurama è qui rispettato con la principessa Tiabeanie, l’elfo Elfo e il demone Luci, protagonisti dell’avventura. Tiabeanie è una principessa all’avanguardia, amata e odiata dal padre Re Zøg, sovrano di Dreamland, il quale deve continuamente avere a che fare con le sue intemperanze, il suo alcoolismo e la voglia di emanciparsi. Cerca di darla in sposa per tessere alleanze, ma Bean (il suo diminutivo) sfugge alle tradizioni e alla torre d’avorio in cui si trova rinchiusa per andare alla scoperta del mondo. Le funzioni della favola, in un racconto fantastico anticonvenzionale, vengono totalmente scardinate: gli aiutanti magici sono appunto un Elfo complessato con un passato difficile, perdutamente innamorato della nostra Bean, e un piccolo demone senza scrupoli che mal consiglia (e qualche volta salva) la protagonista, ma che la fa sempre franca perché lo scambiano costantemente per un gatto. Il tutto in un tessuto narrativo adulto ricco di colpi di scena, tante risate e bei disegni. Da non perdere.

GIULIA PEZZOLI [ registrar ]

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

LIP - LOST IN PROJECTON

USA, 2020 | Regia: Craig Zobel Genere: azione, thriller, horror satirico Sceneggiatura: Nick Cuse, Damon Lindelof Cast: Betty Gilpin, Ike Barinholtz, Emma Roberts, Hilary Swank Durata: 90’

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DURALEX

RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

SE GIO PONTI FINISCE SU UNA TOVAGLIA disegno in quanto “la giustapposizione Il Tribunale di Milano si è recentedi semicerchi colorati che di fatto costitumente pronunciato, in sede cautelare (ordinanza del 13 luglio 2020), sulla legitirebbe la sola idea in sé non è tutelabile”; inoltre, ha chiesto che venisse accertatimità o meno della riproduzione di opere protette da diritto d’autore su prodotti ta la natura di opera di design, tutelabile commerciali, confermando il principio solo in presenza del duplice requisito del secondo cui è sempre necessario il concarattere creativo e del valore artistico. Requisito, quest’ultimo, molto dibattuto senso dell’autore, dei suoi eredi o degli tra gli addetti ai lavori. altri eventuali aventi diritto. Sulla base di tale accertamento cirIl fatto da cui ha avuto origine la vicenda giudiziaria consiste nella riproduzioca la tipologia di opera, il Tribunale ha accolto il ricorso degli eredi dell’artista e ne e commercializzazione, da parte di ha accertato la violazione dei diritti d’auCoin, di una tovaglia denominata Twill recante la (presunta) riproduzione del tore sull’opera figurativa Eclissi da parte disegno Eclissi di Gio Ponti in assenza del di Coin, in quanto le tovaglie presentano consenso degli eredi dell’architetto. Queun’indebita ripresa dell’identico motivo grafico e rappresentativo del disegno. E sti ultimi, per porre fine a tale attività non infatti nelle tovaglie Twill sono presenautorizzata, hanno presentato ricorso cautelare davanti al Tribunale di Milano ti gli elementi creativi di Eclissi, ovvero per chiedere che venisse inibita la prosela rappresentazione dei due semicerchi associati tra loro con diversa coloraziocuzione dell’illecito. La decisione del Tribunale parte da ne, la serialità con cui i singoli elemenun esame in concreto degli elementi che ti sono associati e la sostanziale ripresa caratterizzano il disegno e giunge a condel medesimo motivo grafico e visivo. In Gio Ponti © Viola Gesmundo per Artribune Magazine tale contesto le differenze di colore non siderare tale creazione come opera delle arti figurative e non come opera di design industriale. In partico- conferiscono una effettiva e concreta autonomia rappresentativa lare, il giudicante ha ritenuto che l’opera Eclissi, pubblicata per la al disegno riprodotto sulle tovaglie, anche perché proprio nella prima volta sulla copertina della rivista Domus nel 1957, sia un’o- differenza di colorazione, variamente ripetuta tra i semicerchi, pera figurativa, espressione della corrente artistica dell’astrat- risiede la ricerca grafica e creativa dell’artista. Con tale ordinanza il Tribunale ha inibito l’ulteriore produziotismo geometrico. L’autore ha utilizzato elementi grafici, anche di relativa semplicità (semicerchi), in modo creativo, inserendoli ne e commercializzazione delle tovaglie recanti il disegno in quein una originale sequenza di ripetizioni, con particolari accosta- stione in tutte le sue varianti dimensionali e cromatiche, demanmenti e colorazioni differenti. dando alla eventuale fase di merito la questione della risarcibilità Dall’altra parte, la difesa di Coin ha chiesto – fra le altre – che del danno patrimoniale e di natura morale, legato anche allo svivenisse accertata la mancanza del requisito della creatività del limento del valore dell’opera.

Museo Nivola di Orani: la mostra di Sarah Entwistle, tra storie di emigrazione a NYC e arte tessile

Il mondo naturale di Stefano Boeri e Maria Lai in dialogo alla Stazione dell’Arte di Ulassai

CLAUDIA GIRAUD L Arte, architettura e paesaggio sono da sempre un riferimento per il Museo Nivola di Orani (Nuoro). L’istituzione, al centro di un parco nel cuore della Sardegna, è infatti dedicata all’opera di Costantino Nivola (Orani, 1911 – East Hampton, 1988), il cui lavoro è stato spesso in dialogo con il contesto dell’opera. Lo stesso vale per Sarah Entwistle (Londra, 1979), architetta e artista visiva che fonda la sua ricerca sulla pratica quotidiana del raccogliere oggetti e frammenti di materiali: da alcuni anni questo rito si è concentrato sull’archivio del nonno, Clive Entwistle (1916-1976), architetto come lei e contemporaneo dell’artista sardo, anche lui emigrato a New York. Ora tutto questo è presente al Museo Nivola nella mostra You should remember to do those things done before that have to be done again, a cura di Alfredo Cramerotti. Si tratta della prima personale di Entwistle in una istituzione italiana, dove propone fino al 28 febbraio un corpus di nuovi lavori, tra cui tre pannelli tessuti a mano prodotti da tessitrici locali di Sarule: un intrecciarsi di storie personali (sua, del nonno e di Costantino Nivola) a pratiche materiali condivise. museonivola.it

GIULIA RONCHI L Dal 7 novembre al 21 febbraio 2021, la Stazione dell’Arte di Ulassai ospita la mostra Sii albero, un dialogo tra l’universo creativo dell’architetto Stefano Boeri (Milano, 1956) e quello dell’artista Maria Lai (Ulassai, 1919 – Cardedu, 2013). Un percorso che si compone di tre momenti connessi tra loro e focalizzati sul legame tra uomo e natura: l’esposizione nella nuova project room del museo, l’installazione nel parco e la mostra negli spazi della ex rimessa del treno (il museo, nato nel 2006 per volere di Maria Lai, sorge infatti nell’ex stazione di Jerzu). Tra le opere in mostra, la celebrazione della biodiversità con il prototipo del primo Bosco Verticale costruito a Milano nell’area di Porta Nuova; la poetica del ciclo della vita e della natura, con la scultura di quasi sei metri Fiabe intrecciate. Omaggio a Gramsci (2007) di Lai e la micro-architettura temporanea Radura degli abbracci (2017) di Boeri. Sempre dell’architetto milanese è la riproposizione di Radura della memoria, monumento alla memoria delle vittime del Ponte Morandi di Genova, celebrate anch’esse attraverso quarantatré specie arboree differenti, messaggio di vita e collettività. stazionedellarte.com


TOP 10 LOTS

a.more Milano

Giardino Bompiani

392 9187365 info@a-more.gallery a-more.gallery

Arco della Pace

Peter Doig, Boiler House, 1993. Courtesy of Christie’s Images Ltd 2020

Sono in due: lei è Tatiana Yasinek, l’altro (o l’altra) vuol restare nell’anonimato. Hanno aperto una galleria in una “zona franca” da arte contemporanea, dalle parti dell’Arco della Pace.

Parco Sempione

Proviamo a descrivere in tre righe il nuovo progetto. Il focus principale saranno giovani artisti la cui arte sia molto espressiva, “potente” e “diretta”, che colpisca chi la guarda. Allo stesso tempo ci dedicheremo ad alcuni progetti su artisti consolidati che hanno avuto un posto nella storia dell’arte.

A livello di staff come siete organizzati? La galleria avrà una struttura molto snella e dinamica, aperta a collaborazioni come già stiamo facendo per la selezione di giovani artisti internazionali. L’unica condizione è la condivisione della stessa visione dell’arte contemporanea e della filosofia della galleria. Su quale tipologia di pubblico (e ovviamente di clientela) puntate? Non puntiamo a una tipologia di pubblico predefinita: il piacere che un’opera esposta sia apprezzata e susciti sensazioni è lo stesso sia che si tratti di un collezionista affermato o di un neofita che si avvicina all’arte per la prima volta. Quale rapporto con il territorio e la città avete in mente? Il nostro spazio si trova in una delle zone che riteniamo tra le più belle di Milano ma che non ha mai avuto la presenza di gallerie d’arte contemporanea. Questo può rappresentare una sfida maggiore, ma lo abbiamo fatto con la speranza di dare la possibilità a più persone di avvicinarsi al mondo dell’arte. Un cenno ai vostri spazi espositivi. Come sono e come li avete impostati? La galleria è essenziale, all’interno di un bellissimo palazzo in zona Arco della Pace. Non abbiamo dovuto fare molti lavori perché si predispone benissimo a essere utilizzato come galleria d’arte. Ora qualche anticipazione sulla stagione in corso. Cosa proporrete dopo la mostra inaugurale? Dopo la personale di Reihaneh Hosseini (Tehran, 1988), in corso fino al 14 novembre, abbiamo in programma altre due mostre di giovani artisti: Jacob Brooks (USA, 1994) e Igor Moritz (Lublino, 1996).

Peter Doig, Boiler House, 1993 £ 13,895,500 Christie’s, Post-War and Contemporary Art Evening Sale, Londra

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David Hockney, Portrait Of Sir David Webster, 1971 £ 12,865,000 Christie’s, Post-War and Contemporary Art Evening Sale, Londra

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Banksy, Show Me the Monet, 2005 £ 7,551,600 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra

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Francis Bacon, Study from the Human Body, 1991 £ 5,537,000 Christie’s, Post-War and Contemporary Art Evening Sale, Londra

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Gerhard Richter, Abstraktes Bild, 1991 £ 5,138,700 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra

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Jean-Michel Basquiat, Justcome Suit, 1983 £ 5,081,250 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra

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Pierre Soulages, Peinture 162 x 130 cm, 9 juillet 1961, 1961 € 5,392,500 Christie’s, Paris Avant-garde, Parigi

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Joan Miró, La Caresse d’un oiseau, 1967-83 € 4,700,000 Christie’s, Le jardin secret de Paul Haim

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Chi siete? Cosa avete fatto prima? Il progetto nasce dall’idea di due persone: la prima è Tatiana Yasinek, da più di quindici anni attiva nel mondo dell’arte contemporanea, mentre il secondo preferisce rimanere anonimo.

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CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]

Via Massena 19

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Pablo Picasso, Tête d’homme, 1940 € 4,416,300 Sotheby’s, Modernités, Parigi

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Francis Picabia, Minos, 1929 € 3,956,700 Sotheby’s, Modernités, Parigi

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Adrian Ghenie, Pie Fight Interior, 2012 £ 2,855,800 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction

CAMPIONE DI ANALISI: Sotheby’s, Modernités, Parigi, 21 ottobre 2020 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 21 ottobre 2020 Christie’s, Le jardin secret de Paul Haim, Parigi, 22 ottobre 2020 Christie’s, Paris Avant-garde, Parigi, 22 ottobre 2020 Christie’s, Post-War and Contemporary Art Evening Sale, Londra, 22 ottobre 2020 Christie’s, Thinking Italian Art and Design Evening Sale, Londra, 22 ottobre 2020 I prezzi indicati includono il buyer’s premium e sono espressi nella valuta di aggiudicazione.

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Getulio Alviani, Rodolfo Aricò, Mirko Basaldella, Enrico Castellani, Carlo Ciussi, Gianni Colombo, Paolo Cotani, Dadamaino, Riccardo De Marchi, Bruno Di Bello, Ulrich Egger, Lucio Fontana, Enrico Franzolini, Alberto Garutti, Michael Goldberg, Giorgio Griffa, Alessandra Lazzaris, Carmengloria Morales, Maria Mulas, Graziano Negri, Paolo Patelli, Pino Pinelli, Pope, Federico Rizzi, Thomas Schönauer, Serse, Ketty Tagliatti, Marco Tirelli, Riccardo Toffoletti, Giorgio Valvassori, Claude Viallat, Gilberto Zorio

graphic design: r. duse / obliquestudio

PLURIMA Galleria d’Arte Udine/Milano 1973/2012

18.09’20/10.01’21

Galleria Regionale d’Arte Contemporanea Luigi Spazzapan Palazzo Torriani Via Marziano Ciotti 51 Gradisca d’Isonzo / Gorizia MER–DOM 10–13/15–19

Comune di Gradisca d’Isonzo

www.musei.regione.fvg.it galleria spazzapan

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MARCO ENRICO GIACOMELLI [ vicedirettore ]

POEMI IN PROSA

BERENGO GARDIN SI RACCONTA

Il titolo rimanda naturalmente all’“invenzione” di Baudelaire. Mutatis mutandis, questo primo romanzo di Gabriele Sàssone è un saggio letterario. Più chiaramente: è innanzitutto un’opera ascrivibile al regno della narrativa, e in un secondo tempo è un saggio. La distinzione ha una mera funzione esplicativa, perché le due anime sono talmente intrecciate da essere inestricabili, e qui sta uno dei tanti pregi del libro. Però è bene tenerlo a mente, poiché questa prova d’autore è altresì la traduzione su pagina di un rovello che l’autore del libro e l’autore della recensione affrontano da anni, su questa testata e, da colleghi, nel corso di Critical Writing alla NABA di Milano. Si tratta in quest’ultima sede di comprendere come l’esempio più eccelso di saggistica letteraria in campo artistico, Roberto Longhi, potrebbe essere affiancato da meritevoli esempi di letteratura saggistica. È il compito di un’ecfrasi che si spinge al di là della graziosa descrizione a parole di un’opera d’arte; è il perseguimento di un obiettivo più ambizioso: raccontare una storia letterariamente valida all’interno della quale le arti visive (le opere e il “sistema”) siano affrontate con cognizione di causa. E non è un caso che di romanzi “a sfondo” musicale, cinematografico, teatrale ce ne siano parecchi, mentre l’opacità dell’artworld abbia intaccato anche la letteratura che ha provato a confrontarsi con esso, producendo spesso romanzi ombelicali oppure privi di attinenza con la realtà. Ci voleva il coraggio di metterci dentro la propria esperienza senza recriminazioni ma altresì senza remore; ci voleva la serenità di chiamare in causa la fabbrica anche a Milano, e di testimoniare come non si tratti di una realtà obsoleta; di farlo senza acrimonia, lucidamente, senza tacere la fierezza di una carriera ma neppure la frustrazione per un bilocale in periferia. Dentro tutto questo, dentro un romanzo intimista nel miglior senso del termine, se ad esempio il Grande Vetro di Duchamp non stona – non solo citato, ma descritto, raccontato, analizzato, criticato – allora vuol dire che si sta scrivendo un romanzo che, con tatto, comunica quanto gli stia stretta la scansìa dedicata alla letteratura, ma che, se collocato in quella della critica d’arte, suggerirebbe un trasloco inverso. Riassumendo: Epoca del lavoro culturale interiore. Che è poi il sottotitolo di Uccidi l’unicorno.

“Quando i tedeschi occuparono la città [Roma, N.d.R.], intimarono alla popolazione di portare in questura, insieme alle armi, anche tutti gli apparecchi fotografici. […] Quella volta, invece di consegnarla la presi e andai in giro per la città a scattare fotografie, le prime della mia vita. Pensai che se i tedeschi non volevano che usassimo le macchine fotografiche, queste dovevano avere certamente un grande potere. Era ancora presto ma forse già intuivo il valore di documento e di testimonianza visiva che una fotografia poteva avere. La macchina fotografica sarebbe stata il mezzo che ci avrebbe permesso di non dimenticare e di denunciare. Comprai due o tre rullini e li usai, anche se all’epoca era già proibito fotografare in giro per la città. […] Realizzare quelle immagini fu il mio modo per protestare. Passarono però ancora diversi anni prima di capire che la fotografia sarebbe diventata per me più che un gesto di protesta improvvisato”. Duecento pagine di questo tenore: è l’autobiografia di Gianni Berengo Gardin.

LIBRI PER SAPERE TUTTO

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Da Greensboro a Semarang, passando per Amman ma pure per Milano. Lo specialista in street art Xavier Tapies ha percorso (immaginiamo virtualmente) tutto il globo per raccontare come gli artisti urbani hanno raccontato (e probabilmente racconteranno) la pandemia che tuttora condiziona la nostra vita.

Il tipico studio a imbuto. Si parla di moda. In rapporto all’arte. Restringendo il campo al periodo 1993-2018. Scegliendo quattro esempi: Bernadette Corporation, Susan Cianciolo’s Run Collection, Bless e DIS. Focalizzandosi sulla produzione editoriale (fotografie, claim, advertising ecc.). Illuminante.

Xavier Tapies La Street Art ai tempi del Coronavirus Pagg. 128, € 12 L’ippocampo ippocampoedizioni.it

Jeppe Ugelvig Fashion Work Pagg. 192, € 40 Damiani damianieditore.com

ANTOLOGIA

INTERVISTA 1

INTERVISTA 2

Chi non conoscesse Lea Vergine, grande critica d’arte scomparsa a ottobre, può cominciare da questa antologia: una antologia di scritti dal 1965 al 2007.

Poiché l’arte è questo: un’ombra o un’eco dell’amore, un tentativo di incarnarlo, un tentativo destinato a suscitare spesso solo maceranza dell’anima.

"L’arte non è necessaria. È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po’ felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l’arte, nella vita".

Parole sull’arte il Saggiatore – 2008

L’arte non è faccenda di persone perbene Rizzoli – 2016

Necessario è solo il superfluo Postmedia Books – 2019

Gabriele Sassone – Uccidi l’unicorno Pagg. 220, € 19 il Saggiatore ilsaggiatore.com

LEA VERGINE

Gianni Berengo Gardin – In parole povere Pagg. 208, € 22,90 Contrasto – contrastobooks.com


MARCO PETRONI [ teorico e critico del design ]

Arthur Bloch, l’autore della Legge di Murphy, ha sentenziato: “Scultura è quella roba cui vai a sbattere in un museo quando fai due passi indietro per guardare meglio un quadro”. Basterà recarsi in qualsivoglia museo d’arte moderna per verificarlo: la gran parte dei visitatori considera le sculture d’impiccio. Discorso meno valido in contesti antichi o contemporanei, con rare eccezioni come Antonio Canova. Questo tomo, promosso dalla Cragg Foundation, ha fra i suoi obiettivi la riflessione intorno alla produzione di opere d’arte tridimensionali, dalla scultura all’installazione. I curatori hanno scelto di suddividere l’oggetto in tre di macrotemi: “Oggetti, materiali e processi”, “Modi della figurazione”, “Spazi e luoghi”. In ognuno, una serie di artisti espone il proprio pensiero, in forma d’intervista o statement. Pescando qui e là, con particolare attenzione ai nomi italici, si troverà Marc Quinn in conversazione con Achille Bonito Oliva e un breve ma intenso testo di Francesco Gennari.

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La GenZ ha un’idea eterea della robotica: la assimila, pur in modo impreciso, a una intelligenza artificiale. Sarà dunque istruttivo mostrar loro, ad esempio, l’orso automa secentesco che suona il tamburo, in arrivo da Dresda. È al Mudec di Milano e nel libro-catalogo pubblicato in occasione della mostra.

La storia di Galtrucco inizia nel 1870. Il core business è la produzione di tessuti, in un clima raffinato e sperimentale. Prova ne sia il negozio in Duomo a Milano, disegnato da Guglielmo Ulrich e Melchiorre Bega, con all’interno i pannelli di Fausto Melotti. Un incendio lo distruggerà nel 1973.

AA.VV. Robot. The Human Project Pagg. 208, € 32 24 Ore Cultura 24orecultura.com

Enrico Mannucci (a cura di) Galtrucco. Una storia milanese Pagg. 256, € 60 Rizzoli rizzoli.rizzolilibri.it

Valentina Tanni – Memestetica. Il settembre eterno dell’arte Nero Editions, Roma 2020 Pagg. 252, € 18 neroeditions.com

BODY ART

TRASH

L’ALTRA METÀ...

UN ALTRO TEMPO

"Dunque, corpo mistico. Ma la mistica arriva dal corpo. Essa è prima di tutto un’esperienza fisica, una sorgente di liquidi, di sangue, di umori".

"Il libro può essere letto come una grande metafora della vita e dell’arte stessa [...] esso è, delle scorie e dei rifiuti, storia, melodramma, guida turistica".

Palazzo Reale, Milano, 1980. L’altra metà dell’avanguardia 19101940 ha l’allestimento di Achille Castiglioni. Il capolavoro curatoriale di Lea Vergine.

"Una mostra non si fa solo per guardare e vedere ma anche per sapere". L’ultima grande rassegna impaginata da Lea Vergine, al Mart di Rovereto. Sorprendente.

Body art e storie simili Skira – 2000

Quando i rifiuti diventano arte Skira – 2006

L’altra metà dell’avanguardia Mazzotta – 1980

Un altro tempo il Saggiatore – 2012

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Jon Wood & Julia Kelly (eds.) – Contemporary Sculpture Pagg. 440, € 68 Hatje Cantz – hatjecantz.de

S’intitola Memestetica la riflessione declinata dalla storica dell’arte e curatrice Valentina Tanni. Un’approfondita indagine attorno alle trasformazioni dell’arte del XXI secolo sotto la spinta del web e delle piattaforme social. L’autrice traccia un’ampia prospettiva “da Marcel Duchamp a TikTok” alimentando sentieri e inciampi di riflessione dove i troll e i meme compaiono nelle comunità artistiche per boicottare i processi comunicativi ed estetici. Si genera così uno scenario affascinante e al contempo disturbante segnato da gif animate, ritocchi su Photoshop e pratiche di appropriazione. “Le immagini circolano online in versioni e formati diversi [...] sono oggetto di uso compulsivo: un consumo costante che sembra quasi deteriorarle”, afferma l’autrice. Uno scadimento di valore che travolge in particolare l’universo della fotografia, dove si assiste al formarsi di un ecosistema dominato da un atteggiamento di scetticismo e apatia rispetto ai contenuti che l’immagine incorpora. Attraverso un insieme composito di esempi, Tanni tratteggia i contorni di una fenomenologia dell’arte dove il paradigma della rapidità di fruizione e diffusione segue lo scadimento e l’obsolescenza pressoché istantanea dei fenomeni culturali ed estetici. A restituire una dinamica delle pratiche artistiche al tempo della memestetica è il caso di Jaime Martinez, che mixa le fotografie con gif animate, introducendo un effetto cinematico minimale. “Come dischi scratchati in eterno, le foto animate di Martinez rappresentano una serie di momenti congelati nel tempo, bloccati ma sempre sul punto di ripartire”. Valentina Tanni decreta un superamento delle pratiche della postproduction care a Nicolas Bourriaud. L’appropriazione, la copia, il piluccare ovunque generano nel mondo dell’arte un big bang continuo, nel quale risulta sempre più difficile distinguere l’originale dalla copia. Sempre che la nozione di originalità abbia ancora una qualche rilevanza. I concetti di originalità e creazione svaniscono in un panorama culturale dominato da nuove figure come youtuber e instagrammer che ci stanno “lasciando in eredità un insieme di pratiche e di estetiche che richiamano alla memoria i precetti delle avanguardie storiche, allegramente distorti in una chiave weird/strana/disturbante, selvaggia e disinibita”. Dissezionare oggetti culturali banali e includerli nella Rete attraverso l’ambiguità ironica della piattaforma TikTok o creare meme che bucano la Rete per iniettarsi nell’immaginario collettivo. Sembra essere questo il mood della Memestetica. È l’editing delle micronarrazioni veloci e fluide a popolare l’assenza di narrazioni storiche e ideologiche. Per ora, il mercato dell’arte dominato da meccanismi finanziari sembra immune a queste derive delle estetiche contemporanee, ma in futuro chissà.

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Estetica fragile

L’ARTE IN 3 DIMENSIONI

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PISTOIA 13 NOVEMBRE 2020 14 FEBBRAIO 2021 www.fondazionepistoiamusei.it

con il patrocinio di

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GESTIONALIA

IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

IL FUTURO DELLA CULTURA SONO NOMI COLLETTIVI Se questa pandemia sta insegnandoci qualcosa, è che “tutto non tornerà come prima” e che piuttosto abbiamo bisogno di immaginare il nuovo, l’inedito. Per farlo dobbiamo equipaggiarci e accogliere un approccio complesso, olistico, non riduzionista e controllare non solo la temperatura corporea quanto quella intellettiva e interiore. Con quale forma mentis ci poniamo? E nel nostro baule (termine più evocativo rispetto alla cassetta degli attrezzi del manager) quali strumenti abbiamo a disposizione? Ho provato a immaginarne due, molto tecnici ma anche estremamente visionari e prospettici: la società benefit e le nuove forme di co-progettazione pubblico/privato. Del primo strumento, la società benefit, abbiamo già parlato proprio in questa rubrica: mi limito a ricordarne la valenza strategica, reputazionale e comunicativa; l’alterità rispetto a strumenti sicuramente più conosciuti quali la fondazione ma anche più costosi e probabilmente oggi non sempre attuabili e, il che non guasta, il tax credit del 50% relativo alle spese di costituzione o trasformazione. Diventare, ed essere, imprenditori benefit significa superare la logica del mecenatismo occasionale (quello, per intendersi, delle sponsorizzazioni e delle erogazioni liberali, art bonus in primis) per abbracciare una visione stakeholder oriented e non solo shareholder focused. Vi è poi un altro strumento tutto da sperimentare che possiamo trovare sia nel codice degli appalti. Mi riferisco all’art. 151 comma 3 (forme di partenariato pubblico-privato in ambito culturale) sia nelle varie revisioni dell’art. 48 del Decreto Cura Italia, che possiamo considerare un po’ la madre di tutti i vari decreti successivi in piena pandemia (forme di co-progettazione tra pubblico e privato, con particolare riferimento ai settori sociale e socio-sanitario). Ispirati al principio costituzionale di sussidiarietà, entrambi i riferimenti normativi citati aprono prospettive inedite riguardo ad aspetti che superano la mera gestione, la incompresa valorizzazione, l’onnipresente fruizione e la sempiterna tutela: vi è infatti un’apertura inaspettata (mi riferisco qui all’art 151 comma 3 sopra citato) alla ricerca scientifica e – altra parolina magica – alla semplificazione, in riferimento alle procedure di selezione del partner privato. Come subito noterete, si tratta di poche righe: possiamo immaginare che lo stesso legislatore abbia optato per un percorso di lavoro tutto da scrivere e tracciare; va apprezzato lo sforzo. E soprattutto – amleticamente parlando – i privati (enti, imprese, terzo settore, e chi più ne ha più ne metta) si decidano se sia giunto il tempo di “prender l’armi”, il che tradotto potrebbe essere (o non essere): compiere il primo passo, divenire promotori di sperimentazioni e farsi portatori del coordinamento (quel costo/investimento nascosto, prodromico a qualunque progetto, e troppo spesso negletto o ignorato, non solo nei business plan); coordinamento che difficilmente il pubblico riuscirà a fare (in particolare di questi tempi; qualche sano nostalgico delle province qui direbbe che quello era il loro ruolo, al di là dell’efficacia nella attualizzazione). Parole come partenariato e co-progettazione nascono plurali (ricordate quando a scuola ci insegnavano in analisi grammaticale i nomi collettivi come folla, gregge, mandria, squadra?): perché non solo “tutto non tornerà più come prima”, ma solo “insieme andremo più lontano”. Abbiamo un foglio bianco davanti, per il titolo e lo svolgimento del tema questa volta abbiamo un’occasione unica: li scegliamo noi.

Vandalismo a Berlino: danneggiate 70 opere antiche e moderne della Museuminsel GIULIA RONCHI L Il più vasto attacco contro il patrimonio storico e artistico della Germania dal dopoguerra. Risale al 3 ottobre il danneggiamento di 70 opere di Pergamon Museum, Neues Museum e Alte Nationalgalerie a Berlino, musei con inestimabili collezioni di arte antica e moderna. Ignoti si sono introdotti nelle sale versando un liquido oleoso trasparente e invisibile sulle superfici di oggetti, dipinti, sarcofagi e statue in pietra. La sostanza avrebbe reagito successivamente, lasciando macchie indelebili sul patrimonio storico e artistico. Tra i principali sospettati c’è Attila Hildmann, ex chef vegano estremista di destra che si era scagliato contro il Pergamon Museum, sostenendo che l’altare di Baal al suo interno sia “il trono di Satana” e l’intero complesso il quartier generale dei satanisti di tutto il mondo. Le teorie di Hildmann sono state diffuse tramite il suo canale Telegram, seguito da oltre 100mila persone. A giugno aveva tenuto un comizio sulle scalinate dell’Altes Museum, poi allontanato dalla polizia. Nei giorni successivi la Fondazione Preussischer Kulturbesitz aveva preso le distanze con un enorme striscione contro razzismo, nazionalismo e antisemismo. Non è ancora stato appurato se i fatti siano direttamente collegati all’atto vandalico. Tuttavia, è innegabile come il danno sia stato perpetrato con l’intento di ferire profondamente l’identità di un patrimonio che appartiene a tutti. Nell’era della dis-informazione, il dilagare di complottismo, teorie cospirazioniste, estremismi e violenza trova terreno fertile in canali mediatici senza controllo guidati da fanatici. Prima capiremo l’entità del pericolo e meglio riusciremo a contenerli.

Maurizio Cattelan in Cina. Nel 2021 mostra all’UCCA di Pechino a cura di Francesco Bonami DESIRÉE MAIDA L Inaugurerà nel 2021 all’UCCA Center for Contemporary Art – la principale istituzione indipendente cinese di arte contemporanea con sede a Pechino, che conta inoltre un’altra sede distaccata ad Aranya, località turistica vicina alla capitale cinese, e a Shanghai – la prima retrospettiva mai organizzata in Cina di Maurizio Cattelan (Padova, 1960), tra gli artisti italiani più conosciuti e discussi al mondo. La mostra, curata da Francesco Bonami, “sarà un viaggio nella mente e nella visione dell’artista italiano più noto dell’era moderna”, si legge sul sito web dell’UCCA. “L’arte di Cattelan fa riflettere, è divertente e stimolante, scava nel profondo dell’esperienza umana per mostrare le paure e le emozioni che governano la nostra esistenza. La mostra promette di intrattenere e scioccare il pubblico”. La retrospettiva, che si terrà dal 20 novembre 2021 al 20 febbraio 2022, presenterà oltre 30 opere che ripercorreranno la carriera dell’artista italiano, a partire da Lessico Familiare del 1989 fino ai celebri e controversi lavori che ritraggono John Kennedy, Giovanni Paolo II e Hitler. ucca.org.cn


OSSERVATORIO NON PROFIT MOALLI [ critico d'arte ]

METODO MILANO SI AUTOINTERVISTA

Ma che spazio è questo? Alle volte mi capita di riflettere circa questo luogo non luogo… Tecnicamente è una galleria. Un tunnel di trenta metri che da via Lorenteggio ti porta dentro un’autorimessa. Il tunnel è attivo, e durante il giorno ci passano delle automobili, mentre la sera viene chiuso e le luci si spengono. Inizialmente vedevo questo tunnel come un prolungamento del mio studio di pittura. Oggi è diventato un luogo aperto a possibili dialoghi, un luogo mentale adatto a pensare. Un luogo capace di accogliere differenti approcci all’arte. Un luogo dove si può giocare senza troppe pose.

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a cura di DARIO

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Metodo Milano ha un metodo? Direi il non metodo che potrebbe essere un metodo.

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E adesso che sei in fondo al tunnel, a cosa pensi? Metodo mi fa sempre pensare a una delle Oreadi… ha una bella acustica che viene voglia di cantare. È uno spazio capace di aprire diversi immaginari. Sai, gli artisti che invito a realizzare mostre personali o collettive, li spingo sempre a riflettere sul concetto di tunnel, caverna, luce/buio, paura, bau bau… e anche miao miao. Mi piace quando Metodo diventa una metafora. LLL Quando mi chiedono l’anno di fondazione sorrido sempre. Perché? È troppo istituzionale per Metodo parlare di fondazione. E allora, quando avete fatto la prima mostra? La prima fu fatta il 27 giugno 2019, il titolo era Ever Fallen, si direbbe una bi-personale, con l’artista e chirurgo plastico Andrea Mallouris, fondatore a sua volta di uno spazio non profit a Cipro. Cosa spinge un pittore ad attivare un visual art space? Il caso mi ha portato ad avere questo luogo. Per me è come se fosse una scatola allungata in cui finalmente posso sentirmi Alice. Passo molto tempo in studio a dipingere e l’idea di fare ogni tanto ricreazione con altri artisti lo trovo costruttivo. Non ho velleità curatoriali, mi piace semplicemente ospitare. LLL Vuoi sapere chi c’è dietro Metodo Milano? Se la cosa ti fa felice... Maurizio Bongiovanni con la collaborazione del duo di CH RO MO: Roberto Montani e Chris Rocchegiani. Spero possa crescere il team di Metodo, sarebbe bello avere altre figure che contribuiscono a queste ricreazioni, magari qualcuno che porti un po’ di merende fatte in casa.

Luigi Antonio Presicce, The Birth of the Minotaur, 2019. Performer: Leila Ghiabbi

BIO Metodo Milano è un Unconventional Visual Art Space aperto alla condivisione e sperimentazione delle pratiche artistiche del contemporaneo. Il suo nome prende spunto dalle tecniche costruttive per gallerie in ambito urbano. Lo spazio, un vero tunnel che collega due strade, è situato all’interno di un’autorimessa. Artisti provenienti dal territorio nazionale e internazionale sono invitati a realizzare opere nate in stretto contatto con uno spazio dal forte carattere. L’idea nasce da un’esigenza dell’artista Maurizio Bongiovanni di creare un punto di incontro nella città di Milano. Via Vincenzo Maria Coronelli 8 - MILANO metodomilano.com metodomilano@gmail.com metodo_milano

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COMEL Dal 1968 la Comel lavora e commercia alluminio. Nel febbraio 2012 ha inaugurato uno spazio dedicato all’arte contemporanea in pieno centro, 120 mq in quella che un tempo era la sede storica dell’azienda. Come se non bastasse, promuove annualmente un premio e una retrospettiva di artisti storicizzati. via neghelli 68 spaziocomel.it

ROMBERG Situata al pianterreno della Torre Baccari, la galleria Romberg è stata l’apripista del contemporaneo a Latina: è infatti stata fondata negli Anni Ottanta da Italo Bergantini e da allora ha proposto una inesausta attività espositiva e fieristica. Il prossimo appuntamento sarà con la pittura di Claudio Marini. viale le corbusier 39 romberg.it

MUSEO CAMBELLOTTI Il museo nasce nel 2005, frutto dello storico legame fra Duilio Cambellotti e l’area pontina. La sede è l’ex Opera Balilla, progettata da Oriolo Frezzotti nel 1932. All’interno, un percorso pressoché completo sull’opera dell’artista, tra cui spiccano i cartoni per La Redenzione dell’Agro e la bronzea Fonte della Palude. piazza san marco 1 comune.latina.it

MONTI 8 Ci vuole un bel coraggio ad aprire una galleria d’arte proprio quest’anno. Loro l’hanno fatto il 20 giugno, puntando su giovani artisti internazionali. La prossima mostra, intitolata Hideaway e dedicata alle diverse modalità di descrizione della natura, sarà una tripersonale di Radu Oreian, James Collins e Ludvig Helin. via monti 8 monti8.com

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Latina: razionalismo e contemporaneo a

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Meta di pellegrinaggio per chiunque sia interessato all’architettura razonalista d’epoca fascista, la cittadina laziale sta vivendo un momento di grande attenzione rivolta all’arte contemporanea. Qui vi segnaliamo una mezza dozzina di indirizzi da non mancare, insieme a due puntate fuori porta. PALAZZO DELLE POSTE Capolavoro di Angiolo Mazzoni, risale al 1932, anno di fondazione dell’allora Littoria. Marinetti ne celebrò in particolare le grate metalliche a difesa dalle “zanzare malariche” ma Mussolini, nel 1934, le fece smantellare: mal si conciliavano con la presunta “vittoria” del regime sulla malattia. piazzale dei bonificatori 2 casadellarchitettura.eu

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PIAZZA ROMA Da un lato, la Questura e lo Spazio Enel, ospitati in edifici curvi; dall’altro, i palazzi condominiali dell’INA con i balconi sormontati da archi. Un esempio piuttosto isolato di come l’architettura razionalista si potesse contaminare con i dettami futuristi, dando forma a risultati che non ci si aspetterebbe affatto. piazza roma casadellarchitettura.eu

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MATERIAPRIMA Siamo a Pontinia. Di fronte al Museo dell’Agro Pontino c’è questa “osteria contemporanea” condotta da Fabio Verrelli D’Amico, classe 1984, con un passato al Satiricvm di Latina (altro indirizzo da tenere a mente) e una rapida ascesa nel campo della ristorazione. E il rapporto qualità/prezzo è memorabile. via sardegna 8 materiaprimapontinia.it

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SANT’EUFEMIA Qui siamo invece a Cisterna di Latina, direzione nord. L’azienda agricola Sant’Eufemia merita una sosta, magari lungo il tragitto di ritorno a Roma. Per acquistare prodotti biologici che vanno dai kiwi (polpa gialla o verde, o meglio entrambi) all’olio evo, dalle confetture di kiwi e limoni al vino, biologico anche lui. via roma 97 aziendaagricolasanteufemia.com

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KARL & FABER Fine Art Auctions Amiraplatz 3 · Monaco di Baviera · Germania T +49 89 22 40 00 info@karlandfaber.com

9/10 Dicembre 2020 a Monaco di Baviera: Asta di Arte Moderna e Contemporanea Esposizione: 2–8 Dicembre 2020 (visite su appuntamento) Tra gli artisti in catalogo: Baselitz, Bonfanti, Calderara, Christo, Dorazio, Griffa, Fontana, Francis, Holzer, Kandinsky, Marussig, Merz, Moholy-Nagy, Neshat, Nitsch, Pinelli, Plessi, Severini, Schifano, Schwitters, Kiki Smith, Voigt La nostra esperta in Italia: Dott.ssa Teresa Meucci T +39 333 863 32 55 · tmeucci@karlundfaber.de

Guarda il nostro catalogo on-line karlandfaber.com

LUCIO FONTANA Concetto Spaziale, 1959 Stima: € 140.000/160.000


13.11.2020 HENRY —23.05.2021 MOORE IL DISEGNO DELLO SCULTORE

A cura di Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti

MARINELLA 25.11.2020 —21.01.2021 SENATORE A cura di Paola Ugolini

24.10.2020 McARTHUR —11.02.2021 BINION MODERN ANCIENT BROWN

Direzione artistica Sergio Risaliti A cura di Lorenzo Bruni museonovecento.it


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TRETI GALAXIE [ art project ]

mrzb BARACCA, Lungo Stura, Torino All’inizio, quando siamo venuti a Torino, stavamo facendo dei sopralluoghi lungo il fiume Stura. Ci è venuto abbastanza naturale uscire e andare a vedere gli spazi più esterni, più marginali e periferici, proprio per una questione personale, di cose che ci interessano, di dove ci piace stare. Abbiamo scelto questo posto perché è una terra di nessuno, al di fuori dei tempi e degli spazi della città, ne è in qualche modo un avanzo. Si sente un dolce senso di smarrimento e desolazione, un paesaggio primitivo e brutale e un tempo sospeso dedito all’ozio, alla festa, al rito. Abbiamo costruito uno spazio con ante di armadi. Una cattedrale. Sono armadi regalati che siamo andati a recuperare nelle case. Quasi sempre in camere di nonni, o comunque anziani morti. L’idea è di fare molte cose e veloci. La baracca è soggetta agli agenti atmosferici, al freddo, al caldo, agli insetti, alla sporcizia, all’umidità, agli scippi e ai danneggiamenti. Quando piove si allaga tutto, creando stratificazioni di cose e di storie. Tra cent’anni, quando scaveranno, troveranno anche i resti della nostra baracca. A noi piace l’idea di lasciare che un’opera si degradi, o venga manomessa, è una parte della produzione del lavoro ma anche della sua conservazione. L’atto finale non deve essere l’esposizione. L’opera deve poter mutare e marcire nel tempo.


particolare Courtesy gli artisti

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Stavamo leggendo di culti rurali, cosmogonie agrarie legate alla terra, al pane, al fuoco. Nel letto secco del torrente che delimita l’ex baraccopoli abbiamo eretto quattro streghe con ramaglie lasciate dallo Stura. Poi abbiamo modellato delle facce di pane. In realtà non erano proprio streghe, non avevano sesso. Le abbiamo vestite con stracci e dipinti e abbiamo dato loro fuoco al crepuscolo dell’ultimo giovedì di febbraio. Sono bruciate in pochi minuti. Gli unici spettatori eravamo noi, G. e il suo amico macellaio, che stavano passando per caso e si sono fermati a guardare. Noi all’inizio eravamo un po’ spaventati perché ci avevano raccontato di problemi legati a roghi in questa zona. Non sapevamo bene come l’avrebbero presa gli abitanti. Invece appena le hanno viste ci hanno subito chiesto se avremmo dato loro fuoco, come se lo stessero aspettando, il fuoco. Hanno capito subito cosa stavamo facendo. È stata una cerimonia intima legata a pratiche contadine universali. Un rito di passaggio propiziatorio, un atto sacrificale e di iniziazione allo stesso tempo.

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WEATHERED SHABBY SHABBY BRENCHES: VERNAL FESTIVITY OF THE FOUR CLARI, 2020

IDENTIKIT NOME E COGNOME: merzbau (Andrea Parenti, Désirée Nakouzi De Monte, Filippo Tocchi, Pietro Cortona) ANNO E LUOGO DI NASCITA: 2013, Bologna LUOGO DI RESIDENZA: Torino e Amsterdam ISTITUTO DI FORMAZIONE: nessuno MEDIUM PREFERITO: mixed media ULTIMA MOSTRA PERSONALE: Le Stanze di Mauve in ciò che è conosciuto come il Reame dell’Irreale, a cura di Sergey Kantsedal, Associazione Barriera, Torino 2020 ULTIMA MOSTRA COLLETTIVA: Silent Machines, Columbia Records Pressing Plant, Atene 2020 PROSSIMA MOSTRA IN PROGRAMMA: Butrus, Ex Cimitero della Darola, Trino (VC) 2020

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THE HUNT OF SHUUM, IN A V TIGHT PALE DIMPLE, 2020 legno, farina, acqua, lievito Courtesy gli artisti Shuum è un essere con la faccia di uccello dal corpo allungato. Da questo lavoro è nata una leggenda. Ai bambini zingari che venivano qua ogni giorno abbiamo raccontato che l’avevamo trovato nel fiume, che era un cavalluccio marino. Gli abbiamo raccontato delle storie su questo piccolo mostro e loro ci hanno creduto. Un giorno torniamo dopo essere stati via e troviamo Shuum spiaccicato contro la porta. Loro erano entrati, l’avevano preso, poi si vede che non riuscivano a scavalcare per rimetterlo a posto e l’hanno incastrato in un buco vicino alla porta. Sono venuti a prenderlo e ce lo hanno riportato. Non sappiamo cosa ci abbiano fatto, forse se lo volevano mangiare. Non l’hanno mai confessata questa cosa. Ogni tanto gli tiriamo delle frecciatine, al che iniziano a parlare in rumeno e ridono. È bello immaginare questi bambini con questa bestia strana che se la passano, la portano nelle case dei loro genitori. Noi gli raccontavamo delle storie, dicevamo che volava di notte. Adesso questo oggetto, grazie a loro, ha un’anima.


MAUVE VON GATENER, 2020

Per la mostra a Barriera abbiamo voluto intervenire direttamente sui meccanismi di comunicazione e fruizione, pertanto l’abbiamo pensata come un evento cerimoniale fruibile solo su invito, un evento privato, un raduno occulto. Un teatrino in maschera su cui grava un senso di colpa e di condanna. L’idea nasce dal topos del ballo in maschera e dalla sensazione della morte che stava fuori e noi dentro – una dimensione un po’ boccaccesca. Cerchiamo di porre sempre molta attenzione agli spazi, intesi come organismi, sistemi autonomi con specifiche condizioni ambientali e atmosferiche. Siamo attratti da tutto ciò che ci passa fuori e dentro, ciò che è nell’ombra, come le opere collezionate e stipate nel magazzino di Barriera aperto da Sergey. Le abbiamo esposte come delle presenze fantasma, appese alle pareti come dei defunti che ti scrutano. Noi li vediamo, loro ci vedono. Accostando i nostri lavori ai dipinti della collezione, abbiamo voluto generare una dimensione atemporale, sospesa in una sorta di musealizzazione fittizia.

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mixed media, cm 110x140x70 Associazione Barriera, Torino Courtesy gli artisti

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MUSEI ALLA PROVA DEL RAZZISMO: LA RISPOSTA DEGLI ARTISTI MAURITA CARDONE [ giornalista ]

Vanessa German, Joy Machine #3 – Kick Push – Ring The Alarm – Fly, 2019. Courtesy the artist & Pavel Zoubok Fine Art, New York. Photo Fort Gansevoort, New York

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ARTISTI MONOCROMI

Secondo una ricerca del 2019 condotta dal Williams College, è bianco l’85,4% degli artisti inclusi nelle collezioni dei 18 maggiori musei americani, mentre solo l’1,2% degli artisti esposti in questi musei è identificabile come afroamericano o nero e il 2,8% come latino o ispanico. Davanti alle critiche, i musei stanno provando a mostrarsi cambiati, producendo iniziative che sono una risposta diretta alle accuse. Con risultati alterni. È andata male al Whitney Museum, che a fine agosto ha cancellato la mostra dal titolo Collective Actions, pensata per offrire una panoramica sulla risposta artistica all’emergenza Covid e alle proteste di BLM, ma criticata da alcuni degli artisti inclusi nell’esposizione per l’arbitrarietà e l’unilateralità del processo di selezione e acquisizione delle opere che dovevano andare in mostra. All’annuncio della cancellazione, un gruppo di artisti tra quelli selezionati per l’evento ha inviato al museo una

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ntrando in molti dei più rinomati musei americani, ancora troppo spesso ci si ritrova davanti a una scena familiare: bianca è la rappresentazione del mondo offerta dalle opere in mostra, bianchi gli artisti che quelle opere hanno realizzato, bianchi i curatori che li hanno selezionati. Neri sono invece gli uscieri, i custodi, gli addetti alla biglietteria. A basarsi sull’immagine che della società americana hanno finora offerto i principali musei, gli Stati Uniti appaiono ancora segregati e monolitici. Fuori dalle porte dei musei, tuttavia, la società diventa sempre più articolata e complessa e negli ultimi mesi, esasperata dai tanti episodi di violenza della polizia nei confronti di cittadini di colore, dopo secoli di violenze e discriminazioni, l’America sta provando a cambiare narrativa. Per il movimento Black Lives Matter il sistema culturale americano è parte di un più ampio sistema di marginalizzazione e sfruttamento delle minoranze. Fin dalle prime settimane di proteste lo scorso giugno, da un lato all’altro del Paese, i musei sono stati travolti da un’ondata di contestazioni. Dall’inerzia al razzismo puro e semplice, le accuse sono tante e vanno alle fondamenta di queste istituzioni. Nel tentativo di correre ai ripari, i musei si sono inizialmente affrettati a pubblicare dichiarazioni di solidarietà al movimento, mea culpa e promesse di cambiamento. Ma in una società in cui il 40% della popolazione è di colore e dove si prevede che i bianchi diventeranno una minoranza entro il 2045 (fonte: United States Census Bureau), i dati confermano le accuse e le preoccupazioni del movimento.

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Tornata agli onori della cronaca con l’uccisione di George Floyd, la questione razziale negli Stati Uniti è una realtà che non accenna a risolversi. Anzi. E la rappresentanza nel mondo delle arti visive non è esente da questo squilibrio culturale, che si tratti di ruoli manageriali o di artisti acquistati dai musei. Mentre in Italia la storia è molto diversa, sebbene tutt’altro che appianata. Ne abbiamo parlato con una serie di interlocutori sulle due sponde dell’Oceano Atlantico e abbiamo messo in fila qualche cifra.

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lettera in cui invitava l’istituzione a impegnarsi in un anno di azioni di mobilitazione e introspezione. Scrive il gruppo nella lettera: “Piuttosto che frettolosamente cancellare una mostra le cui mancanze risiedono nella fretta di incapsulare un momento storico ancora in corso, il museo avrebbe potuto prendersi il tempo di ascoltare e rispondere. Una mossa coraggiosa sarebbe stata quella di accostarsi al disagio piuttosto che dimostrare ulteriormente il nostro essere dispensabili per la vostra istituzione, annullando la mostra a poche ore dalla ricezione di critiche online”. Più strutturata sembra l’operazione del New Museum, che ha recentemente annunciato Grief and Grievance: Art and Mourning in America, mostra originariamente concepita dal curatore nigeriano scomparso nel 2019, Okwui Enwezor, e che riunirà trentasette artisti che hanno affrontato i concetti di perdita, lutto e commemorazione in risposta alle violenze della polizia subite dalle comunità nere d’America. Uno degli artisti incluso nella mostra è Nari Ward, autore delle iconiche scritte We The People realizzate con lacci di scarpe. Nel suo lavoro Ward porta avanti un discorso sulla giustizia sociale. “Ogni artista è uno storyteller”, ha spiegato ad Artribune, “e, affinché le storie che racconta parlino anche ad altri, queste devono venire da uno spazio di verità, dalla propria esperienza. Il mio spazio è quello della giustizia sociale, la mia consapevolezza mi porta a parlare di disuguaglianza. Ma una nozione reale di liberazione sarebbe che un artista di colore possa parlare di qualsiasi cosa abbia voglia di parlare e che questo venga validato in quanto sua esperienza”. Per molto tempo queste esperienze non hanno trovato spazio nella narrativa delle grandi istituzioni culturali. Oggi c’è ottimismo, supportato dai fatti: un esempio per tutti è la recente notizia che sarà una donna nera (la prima della storia), Simone Leigh, a rappresentare gli Stati Uniti alla prossima Biennale di Venezia. “Anche i musei si basano su leggi di mercato”, continua Ward, “e il mercato si basa su domanda e offerta. Per molto tempo non c’è stata domanda per le nostre storie, perché la gente non attribuiva valore a quelle narrative. E chi aveva potere decisionale non aveva alcun motivo di attribuire loro un valore. Oggi siamo a un punto in cui quelle stesse persone si rendono conto del fatto che magari ci sono esperienze che loro non conoscono, magari non capiscono nemmeno ciò di cui parlano alcuni artisti di colore, ma riconoscono l’importanza di quelle esperienze all’interno della conversazione”. Che sia una moda passeggera, dettata più dal senso di colpa che da un reale riconoscimento del problema, è un dubbio legittimo. Che si finisca per includere artisti di colore nelle mostre e nelle collezioni

LA CLASSIFICAZIONE “RAZZISTA” DELLA POPOLAZIONE USA Fonte: United States Census Bureau, 1 luglio 2019

WHITE ALONE WHITE76,3% ALONE 76,3%

BLACK OR AFRICAN AMERICAN ALONE

ASIAN ALONE

5,9%

13,4%

TWO OR MORE RACES

2,8%

AMERICAN INDIAN AND ALASKA NATIVE ALONE

NATIVE HAWAIIAN AND OTHER PACIFIC ISLANDER ALONE

1,3%

0,2%

WHITE ALONE, NOT HISPANIC OR LATINO

60,1%

HISPANIC OR LATINO¹ 18,5% 1

Gli ispanici possono essere di qualsiasia razza contemplata, quindi sono inclusi anche nelle categorie specifiche.

RAZZISMO E MASCHILISMO NEI MUSEI USA: GLI ARTISTI Fonte: Diversity of Artists in Major U.S. Museums, ricerca condotta dal Williams College, 2019

Campione di analisi: Detroit Institute of Arts; Metropolitan Museum of Art; Museum of Fine Arts, Boston; National Gallery of Art; Philadelphia Museum of Art; Art Institute of Chicago; Nelson-Atkins Museum of Art; Museum of Art, Rhode Island School of Design; Yale University Art Gallery; Dallas Museum of Art; Denver Art Museum; High Museum of Art; Los Angeles County Museum of Art; Museum of Fine Arts, Houston; Museum of Contemporary Art, Los Angeles; Museum of Modern Art; San Francisco Museum of Modern Art; Whitney Museum of American Art

ASIAN 9%

WHITE

UOMINI

85,4%

87,4%

HISPANIC OR LATINO 2,8% BLACK OR AFRICAN AMERICAN 2,8% OTHER 1,5%

DONNE

12,6%

RAZZISMO E MASCHILISMO NEI MUSEI USA: GLI IMPIEGATI Fonte: Art Museum Staff Demographic Survey, ricerca condotta dalla Andrew Mellon Foundation, 2015 e 2018

Campione di analisi: 332 musei d'arte con sede negli Stati Uniti d'America

59%

61%

41%

39%

2015 2018 GENERE RAZZA

71% 29%

24%

25%

68% 32%

73%

27%

79%

21%

79% 57%

62%

43%

38%

21%

2015 2018

2015 2018

2015 2018

2015 2018

CONSERVAZIONE

CURATELA

DIDATTICA

RUOLI APICALI

90% 76%

75%

89% 88%

84%

80%

16% 12% 2015 2018

20%

74%

89%

88%

72% 28%

2015 2018

11% 10% 2015 2018

donne uomini

white altro

26%

2015 2018

12% 11% 2015 2018


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ART IN PRISON

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Gli Stati Uniti hanno la popolazione carceraria più numerosa al mondo. Una su cinque delle persone che su questo Pianeta vivono in stato di reclusione è detenuta in America. Nel 2018, il 34% della popolazione carceraria maschile totale era rappresentato da neri, il 24% da latini (fonte: U.S. Bureau of Justice Statistics). Secondo dati del Criminal Justice Project della NAACP, all’inizio di quest’anno c’erano 2.620 persone nel braccio della morte. Di loro, 55 sono prigionieri federali, di cui oltre il 57% è composto da afroamericani e latini. Tra questi c’è Billie Allen, uomo nero e artista che da 23 anni si professa innocente senza essere riuscito a farsi ascoltare. Allen è stato arrestato nel 1997, all’età di 19 anni, per una rapina a mano armata in cui perse la vita una guardia giurata e a cui lui sostiene di non aver mai partecipato. Dall’età di 20 anni si trova nel braccio della morte e dalla sua cella, da cui può uscire solo per un’ora al giorno ed entrare in contatto con una sola persona alla volta, lavora incessantemente al suo caso, mettendo insieme prove che, dice, i tribunali non hanno mai voluto esaminare. La sua unica evasione dalla frustrazione e dalla rabbia è l’arte. Lo abbiamo raggiunto via email attraverso la sorella Eve, che gestisce il blog FreeBillieAllen, da cui guida la campagna per chiedere che il governo scagioni il fratello. Alle email Billie Allen ha fatto seguire una lettera “per aprirti una finestra sul mio mondo”, ha scritto nella sua grafia aggraziata.

Allen è un autodidatta e nei suoi dipinti figurativi porta la rappresentazione di quello che l’America e la sua giustizia sono state per lui. “È il dolore che mi insegna a dipingere”, scrive. “Avevo bisogno di uno sfogo e l’ho trovato nel creare ciò che sentivo. A lungo sono stato ignorato e mi sono ritrovato a desiderare di essere ascoltato. Mi sono accorto che, quando producevo arte, le persone si fermavano a chiedermi cosa volessi dire. All’inizio mi ha scioccato: ‘Ma come? Non faccio altro che ripetere queste cose, non mi ascoltate!’. Ma poi ho capito che a volte le mie stesse parole mi ingannano e che non sono in grado di dire a parole quello che so dire con l’arte. Alle radici della mia arte ci sono dolore, frustrazione, disperazione, rabbia, risentimento e pochissimi momenti di felicità”. Ma l’arte non è solo uno sfogo per Allen, bensì un modo concreto per attirare l’attenzione sul suo caso e portare la società a “vedere la sua innocenza”. “Provo a raccontare la mia storia attraverso la mia arte. Voglio che le persone mi vedano per intero. Che si accorgano che sono proprio come loro. Che vedano che ho amato, che ho una famiglia, che ho dovuto creare un mondo al di fuori di quello in cui vivo e che sono innocente! È tutto lì se guardi da vicino. Voglio che la gente veda che non mi limito a dire di essere innocente, ma che vedano che ho le prove del fatto che sono innocente e voglio che la gente voglia lottare per me! Voglio che vedano che il loro governo sta cercando di uccidere un uomo innocente, che merita di vivere e che ha tanto da dare se gliene sarà data la possibilità”. Dopo anni di sospensione delle esecuzioni, l’amministrazione Trump ha cambiato registro: nel luglio 2019 il procuratore generale William Barr ha ordinato la ripresa delle esecuzioni federali, le prime dal 2003. Nel corso del 2020 sono state sette le condanne eseguite dal governo (altrettante quelle eseguite da singoli Stati, tutti nel Sud del Paese) e la prossima è in programma per il 19 novembre. Billie Allen e altri come lui non sanno quando toccherà a loro. Uno studio dell’Università del Michigan stima che almeno il 4% dei condannati nel braccio della morte potrebbero essere innocenti. Che gli Stati Uniti usino l’incarcerazione di massa degli uomini di colore come naturale e programmata evoluzione della schiavitù è un’accusa ricorrente mossa da molti intellettuali di colore, come la regista Ava DuVernay, che ne ha ampiamente parlato nel documentario 13th. La mostra Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration, recentemente inaugurata al MoMA PS1, propone uno sguardo dentro il sistema carcerario attraverso l’arte di chi in quel sistema è rimasto intrappolato. La mostra raccoglie i lavori e le storie di detenuti che, prima di inciampare nel sistema giudiziario o durante la propria esperienza in carcere, hanno trovato nell’arte un modo di espressione. Dolorosa da guardare, mentre si moltiplicano le iniziative di facciata, questa mostra è una ventata di verità.

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Billie Allen, dalla serie America

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più per facciata che sulla base di scelte curatoriali attentamente ponderate, è un rischio, ma Ward non ne sembra troppo preoccupato. “Quello che vediamo oggi non è tokenism”, spiega l’artista, “come quello che c’è stato negli Anni Settanta e Ottanta. Il rischio di una selezione basata esclusivamente sulla razza esiste, ma forse è inevitabile prima di arrivare ad avere un reale spazio di conversazione e capire quali artisti supereranno la prova del tempo”.

USA E ITALIA A CONFRONTO INTERVISTA CON IGIABA SCEGO

PERSONE GIUSTE AL POSTO GIUSTO

Vanessa German si definisce citizen artist e utilizza poesia, performance, fotografia e scultura per esplorare il potere trasformativo e curativo dell’arte. Alcuni dei suoi lavori vogliono aprire una conversazione sulla memoria pubblica e sulla versione della storia raccontata dalla parte del privilegio. Secondo German, il cambiamento è più importante di come ci si arrivi. “I musei non stanno tenendo fede alla propria missione”, ha commentato l’artista ad Artribune, “ed è quindi giusto che facciano i conti con se stessi. Qualunque sia la ragione. Sì, in parte è senso di colpa ed è giusto che ci sia senso di colpa nel guardare al potere che hanno avuto e come ne hanno abusato. Oggi tanti elementi stanno contribuendo al cambiamento che sta avvenendo. Una cosa importante è che ci sono sempre più persone di colore nei ruoli di leadership”. Quello che German sottolinea è un fenomeno che è cresciuto negli ultimi mesi: sempre di più sono i musei che stanno creando ruoli specifici e programmi di diversità e inclusione, assumendo esperti e curatori ad hoc. Rompere i vertici bianchi delle piramidi decisionali è indispensabile perché i musei siano in grado di offrire un’onesta rappresentazione della società. Ma il timore è che si tratti di ruoli largamente simbolici e altamente pubblicizzati, con cui i musei evitano le difficoltà di intraprendere reali processi di revisione interna. Uno studio del 2019 a cura della Andrew W. Mellon Foundation, in collaborazione con l’Association of Art Museum Directors e l’American Alliance of Museums, ha esaminato 332 musei d’arte rivelando che, nel 2018, l’88% delle posizioni di leadership era detenuto da bianchi, così come l’84% dei ruoli curatoriali e l’89% degli impieghi nella conservazione. Lo studio, già condotto nel 2015, ha rilevato significativi miglioramenti con un aumento complessivo del 5% (dal 15 al 20) delle minoranze nei ruoli intellettuali all’interno degli staff dei musei. Tuttavia, a guidare la crescita sono soprattutto gli incarichi all’interno dei dipartimenti di didattica, ruoli tipicamente a bassa retribuzione e alta precarietà, e che sono stati i primi a saltare con le chiusure causate dalla pandemia. La crisi ha in

Giornalista e scrittrice, Igiaba Scego è stata tra le primissime voci italiane a svelare la violenza di stereotipi razziali, più o meno consapevoli, nascosti nella nostra cultura. Le sue origini somale e un passato da ragazza nera in una Roma monoculturale l’hanno portata alla scrittura. Scego non si limita a documentare la realtà ma, nei suoi romanzi, crea mondi e rivendica il diritto all’immaginazione che a lungo l’Occidente ha negato alle popolazioni nere. Lo scorso febbraio l’autrice ha pubblicato per Bompiani il romanzo La linea del colore, la cui protagonista, Lafanu Brown, artista americana con origini africane e nativo-americane, è ispirata a due personaggi realmente esistiti: l’artista Edmonia Lewis e l’ostetrica Sarah Parker Remond, entrambe americane nere che vissero a Roma nella seconda metà dell’Ottocento. Il libro si muove tra un passato in cui l’America è scossa dall’abolizionismo mentre la penisola italiana è attraversata dal Risorgimento, e un presente in cui i popoli nordafricani sono costretti a rischiare la vita per emigrare verso l’Europa. A collegare la narrazione del passato e quella del presente è l’arte. Per scrivere La linea del colore hai fatto molte ricerche su quel periodo e su Edmonia Lewis. Che idea ti sei fatta della vita che faceva un’artista nera nell’Ottocento americano e italiano? Edmonia aveva sofferto molto. Anche lei aveva provato quella paura di perdere il corpo di cui oggi parla Ta-Neishi Coates, come George Floyd che perde il respiro o Breonna Taylor uccisa nel suo letto. Edmonia aveva rischiato la vita, era stata vittima di un pestaggio brutale, forse


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Photo © Simona Filippini

C’è una scena nel tuo libro in cui la curatrice, protagonista della parte della storia ambientata nel presente, incontra un’artista che insiste per essere inclusa in una mostra sui migranti, perché, dice, “sono tutto per me”. Puoi commentarla? È una critica a un certo essere progressisti che fa vedere solo la superficie delle cose. Abbracci delle battaglie solo perché vanno di moda, non ti preoccupi se c’è una rappresentanza degli altri, anzi vuoi essere tu il rappresentante degli oppressi, vuoi rubargli la voce, quando tu non sei oppresso. Ed è una critica a operazioni come quella che hanno fatto alla Biennale di Venezia, dove hanno portato la nave dove sono morte 700 persone e l’hanno trasformata in un oggetto artistico. All’inizio, quando l’ho vista sul Canal Grande, è stato un impatto emotivo forte, poi ho cominciato a odiarla. L’avevano collocata vicino a un bar, quindi c’era questa nave dove realmente erano morte tante persone e accanto c’era gente che beveva tranquillamente. Devastante. C’è una frase nel libro che attribuisci a Lafanu: “Odio quando ci accarezzano la testa come se fossimo scimmiette, ammaestrate a

Poi invece ci sono i simboli che una civiltà sceglie, i monumenti. Il tuo libro parla anche di questo e cita diversi monumenti di epoca coloniale. In America intanto i monumenti del Sud confederato e schiavista vengono abbattuti. Come valuti questo fenomeno e quali le differenze tra il caso italiano e quello americano? Penso ci sia una grossa differenza. In Italia abbiamo dei monumenti che sono dei resti di epoca coloniale e che paradossalmente ci ricordano quella storia: quell’immaginario coloniale negato e rimosso riappare nelle nostre città e ci racconta quel passato. Sono a favore della conservazione di questi monumenti ma anche di una spiegazione. Bisognerebbe portare le scolaresche a vederli, organizzare attività, laboratori, reading. Negli USA è diverso: le statue dei confederati disseminate nel panorama statunitense non sono state fatte nell’Ottocento ma molto più tardi, quando c’era la segregazione, quasi come schiaffo agli afroamericani, in un momento in cui si tendeva a romanticizzare ed edulcorare la schiavitù. Io quelle le chiamo “statue a sfregio”. E ci credo che facciano arrabbiare! In quel caso, penso vadano rimosse, ma va anche pensata (e questo vale anche per l’Italia) una monumentistica riparatrice, perché il rischio è di togliere e lasciare il vuoto. La stele di Axum per esempio è stata restituita all’Etiopia, ma al suo posto non c’è niente. Dall’altro lato della piazza hanno messo un monumento all’11 settembre, quindi a un’altra memoria, ma alla propria memoria scomoda nessuno ha dedicato niente.

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di uno stupro. Questa violenza la porta a voler scappare. Ho capito che in quel periodo le donne avevano più libertà in Italia che negli USA. Era un Paese altro, dove le americane erano libere dai lacciuoli del giudizio altrui. Edmonia qui è riuscita a diventare un’artista, non credo che in America ci sarebbe riuscita. Ed è riuscita anche a portare nel suo lavoro delle tematiche sociali importanti.

In passato ti sei occupata di rappresentazione dell’identità nera e dei corpi neri nella cultura popolare italiana e in particolare nella pubblicità. Questa estate negli USA è stata sotto attacco l’etichetta dei prodotti Aunt Jemima. Da noi nel mirino sono finiti i cioccolatini Moretti. Pensi che sia giusto o necessario rimuovere certe immagini? Per gli afroamericani la schiavitù, seguita poi da segregazione e Jim Crow e, ora, dalle violenze della polizia, è una ferita enorme mai sanata. In quel contesto, qualsiasi tipo di simbolo è di una violenza estrema. Mamy è sformata, asessuata, pensa solo ai figli del padrone, ma è una figura che nasconde lo stupro della donna nera. Per quel che riguarda l’Italia, invece, non si è mai discusso del passato coloniale e così gli afrodiscendenti e i migranti in genere subiscono ancora stereotipi che vengono dal colonialismo. Ricordo tutte quelle pubblicità di quando ero piccola, quella dell’autovelox con la donna nera procace o Cacao meravigliao con le ballerine brasiliane o la Coloreria italiana che trasforma il marito brutto e smunto in un fustone nero: è l’ipersessualizzazione del corpo nero visto come esotico e ignoto. Qui è passato tutto come scherzo, è per ridere, dicono, ma non fa ridere, sono stereotipi orrendi! E poi quelle cose, dalla TV, passavano alla strada.

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sorridere e a fare la riverenza”. Ritieni che, al tempo per Edmonia come per gli artisti neri di oggi, il fatto che il momento storico reclami un’attenzione verso di loro porti con sé il rischio di subire atteggiamenti paternalistici e di venire apprezzati solo in virtù di una percepita eccezionalità? Un artista deve essere giudicato per la sua opera, sempre. L’artista afroamericano ha dimostrato di avere quel diritto all’immaginazione negato per tanto tempo. Più artisti ci sono che riescono a diventare artisti, più il metro è la qualità. Quindi penso che negli Stati Uniti il rischio non ci sia. In altri Paesi, invece, dove oggi si cercano persone che possano incarnare quella rabbia e dove gli afrodiscendenti devono ancora costruirsi un’identità, più che di paternalismo, il rischio è di abuso: prendi perché va di moda e poi butti via. Oggi c’è una corsa al nero perché vende, ma così non si crea una società transculturale. Inoltre bisogna imparare a storicizzare, collegare l’artista di oggi a quello di ieri.

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RYAN MENDOZA

New York (USA) • Napoli 1971 Si divide fra Napoli e Berlino ma l’amore per la città partenopea è innegabile. Ultima testimonianza, il grande progetto dedicato all’attivista afroamericana Rosa Parks, la cui casa è stata ricostruita nel Cortile d’Onore del Palazzo Reale con il sostegno della Fondazione Morra Greco. C’è tempo fino all’Epifania per visitare l’installazione.

TUTTI I COLORI DELL’ARTE ITALIANA Anche in Italia, nonostante una società sempre più multietnica, il mondo dell’arte fatica a fare spazio ad altre culture. Abbiamo selezionato dieci artisti che lavorano in Italia e sono originari di vari luoghi del mondo.

T-YONG CHUNG

Tae-gu (Corea del Sud) • Milano 1977 Arrivato dalla Corea per studiare all’Accademia di Brera, l’artista è poi rimasto a Milano. Lavora soprattutto con la scultura e l’installazione e le sue opere si muovono su un delicato equilibrio tra Oriente e Occidente, tradizione e modernità.

MONIA BEN HAMOUDA Milano 1991 È stata la protagonista dello Studio Visit sul numero #56 di Artribune Magazine. Il suo lavoro tematizza la doppia origine culturale, essendo lei di padre tunisino e madre italiana. Esemplare in questo senso Gymnasius, seni in silicone che si ispirano al martirio di Sant’Agata e che sono decorati da non-testi in arabo.

generale aggravato la situazione, costringendo i musei a forti tagli, le cui prime vittime sono stati gli impiegati nelle posizioni meno pagate e più precarie, mentre chi occupa posizioni di leadership continua a percepire stipendi a cinque e sei zeri. Nel corso dell’estate sono nati diversi gruppi che aggregano dipendenti di colore dei musei e che sui social ne raccontano le esperienze nelle istituzioni culturali del Paese, denunciando quotidiane azioni di discriminazione e marginalizzazione. Sull’account Instagram For the Culture, una coalizione di attuali ed ex dipendenti di colore dei musei e altre istituzioni culturali, uniti per denunciarne il razzismo sistemico, una testimonianza anonima ha riferito di una discrepanza di 15mila dollari nei salari di due curatori, uno bianco e uno nero, dipendenti del Brooklyn Museum, noto per essere uno dei musei più virtuosi, con una lunga storia di programmi inclusivi e attenti alla diversità. Un gap poi verificato e confermato dalla stampa. Molto attivo è Artists for Workers, un gruppo di artisti che utilizzano la creatività per “prendere di mira istituzioni che rifiutano di sostenere i propri lavoratori e comunità”, come si legge sul loro sito Internet.

A giugno, nel mirino è finito il New Museum di New York: gli artisti-attivisti hanno riprodotto la grafica utilizzata dal museo per creare poster e un sito Internet che causticamente ironizzano sulla colpevole inattività del museo e ne denunciano la complicità con il razzismo. Opera dello stesso gruppo è stato il più recente attacco al Guggenheim, sulla cui facciata, la notte prima della riapertura dopo la pandemia, sono stati proiettati slogan che accusavano il museo di sfruttamento e razzismo. Il museo era già stato criticato da un altro gruppo, A Better Guggenheim, che chiede la rimozione dei vertici dell’istituzione, accusati, in una lettera inviata all’istituzione, di alimentare un ambiente di sessismo, razzismo, classismo e abuso. A scatenare le polemiche contro il Guggenheim era stata Chaédria LaBouvier, che nel 2019 era stata la prima donna nera a curare una mostra in quel museo, Basquiat’s “Defacement”: The Untold Story. Già allora la curatrice aveva denunciato meccanismi di marginalizzazione, raccontando che il museo aveva rifiutato di darle credito per il suo lavoro. In un tweet dello scorso giugno la curatrice ha scritto: “Lavorare al Guggenheim con Nancy Spector e la leadership

[del museo] è stata l’esperienza professionale più razzista della mia vita”. La polemica, cresciuta negli scorsi mesi, è risultata in un’indagine commissionata dal museo che, secondo il Guggenheim, non avrebbe trovato prova di discriminazioni su basi razziali nei confronti di LaBouvier. E tuttavia la curatrice capo Nancy Spector, che al museo aveva lavorato per trentaquattro anni, si è dimessa.

OMISSIONI E SOPPRESSIONI

L’assenza di persone di colore ai vertici delle istituzioni culturali alimenta l’incomprensione di fondo. Omissioni, rappresentazioni fuorvianti, carenze nelle versioni della storia raccontate dai musei non fanno che escludere una parte della società americana. Alcuni musei tentano di correggersi, ma non sempre vanno alla radice del problema. Ci ha detto ancora Vanessa German: “I più genuini sono quelli che hanno il coraggio di essere trasparenti sulla supremazia dei bianchi e sulla loro violenza, la violenza deliberata, strategica e intenzionale delle istituzioni. Quando si mettono a nudo e ammettono le loro colpe, allora sappiamo che non stanno collezionando un sacco di artisti neri solo


MUSTAFA SABBAGH

MARIA ROSA JIJON

Italo-senegalese nata a Milano, Diaw porta nel suo lavoro una riflessione sulla percezione dell’essere italiani e africani. Facendo interagire elementi autobiografici e fenomeni sociali, propone un discorso sull’identità femminile e di discendenza africana nell’Occidente contemporaneo. A gennaio ha avuto la sua prima personale milanese alla Galleria Giampaolo Abbondio.

Fotografo e videoartista di origini italo-palestinesi, è nella Penisola dal 1979. Ha studiato allo IUAV di Venezia ed è stato assistente di Richard Avedon a Londra. In veste di docente lo si ritrova alla Fondazione Modena Arti Visive, mentre sue opere sono conservate, fra l’altro, alla Collezione Farnesina e al MAXXI di Roma.

Vive nella capitale dal 2000. La sua è un’arte relazionale e partecipativa che coinvolge le comunità di immigrati, alle cui problematiche dedica anche il suo impegno con gruppi come la rete G2, che riunisce italiani di seconda generazione. Lavora soprattutto con fotografia, audiovisivo e installazione. Ha rappresentato l’Ecuador alla 54. Biennale di Venezia.

Milano 1995

Amman (Giordania) • Ferrara 1961

Quito (Ecuador) • Roma 1968

CARIN GUDDA

Artista di origini albanesi, dagli Anni Novanta vive in Italia, dove però è riuscito a realizzare le prime mostre solo dopo aver ottenuto riconoscimento internazionale, in particolare con la mostra del 2006 al MoMA PS1 di New York. Il suo lavoro si muove tra la perdita e la ricostruzione del sé, aprendo una riflessione sul senso di appartenenza e sul posto che ci viene assegnato dalla società.

Rappresentante di quella schiera di artisti nord-europei che ha trovato nella Liguria un luogo di pace e sperimentazione, Carin Gudda ha una formazione filosofica e una produzione vulcanica, in particolare scultorea, senza lesinare sconfinamenti nella letteratura. Da visitare il suo parco nell’entroterra.

Scutari (Albania) • Milano 1969

Gudensberg (Germania) • Lingueglietta (IM) 1953

CHRYSANTHOS CHRISTODOULOU

MOR TALLA SECK

Ha studiato prima a Lecce e poi a Bologna, per stabilirsi infine nel capoluogo lombardo. Pittore e illustratore di formazione, si è progressivamente spostato sulle tre dimensioni, con installazioni che “espandono” i suoi dipinti. Una lunga intervista con Damiano Gullì la potete leggere su artribune.com.

Originario del Senegal, questo artista porta nelle sue opere l’animismo africano, la magia e la tradizione della sua terra natale. Di recente ha firmato una statua in ferro dedicata al rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara, installata con un’azione di guerrilla art nei Giardini di Porta Venezia a Milano [a sx, photo @cantiere_milano], che ospitano il contestato monumento a Indro Montanelli. Subito rimossa dalla polizia, la statua sarebbe stata la prima opera pubblica in città realizzata da un africano.

per coprire quello che hanno fatto ma stanno facendo pulizia, stanno dicendo: ‘Siamo portatori del nuovo e saremo onesti su chi eravamo e cosa abbiamo fatto e ci impegniamo a non farlo più’”. Al contrario, la paura che nasce dall’incapacità di comprendere la reale natura del problema rischia di risultare in una artificiosa semplificazione del reale, attraverso la censura. Lascia perplessi, per esempio, la decisione dei quattro musei organizzatori, tra cui la Tate di Londra e la National Gallery of Art di Washington, di posticipare al 2024 la retrospettiva dedicata a Philip Guston, perché conteneva alcune rappresentazioni del Ku Klux Klan. I musei hanno motivato la propria scelta spiegando di voler rimandare la mostra “a tempi in cui il potente messaggio di giustizia sociale e razziale al centro del lavoro di Philip Guston potrà essere interpretato in modo più chiaro”. Un gruppo di cento artisti, scrittori e accademici ha sottoscritto una lettera di critica alla decisione dei musei. Musa Mayer, la figlia dell’artista, ha commentato in un comunicato: “Questo dovrebbe essere un momento di resa dei conti, di dialogo. Questi dipinti intersecano il momento in cui ci troviamo oggi. Il

Sono nati diversi gruppi che aggregano dipendenti di colore dei musei e che denunciano quotidiane azioni di discriminazione e marginalizzazione

Larissa (Grecia) • Milano 1984

Mbenguene (Senegal) • Milano 1976

pericolo non è guardare il lavoro di Philip Guston, ma distogliere lo sguardo”. Cambiare punto di vista e aprire gli occhi anche sulle pagine più scomode della propria storia è oggi un dovere morale di chi fa cultura in America. Nona Faustine è una fotografa che ha realizzato una serie di immagini in cui usa il proprio corpo come, nelle sue parole, “monumento temporaneo”, posando nuda davanti a luoghi legati alla storia della schiavitù. In un’altra serie, fotografie di alcuni dei monumenti più simbolici del Paese appaiono spezzate da una linea orizzontale a volte nera, a volte rossa. Ci ha raccontato come il suo lavoro nasca proprio dalla presa di coscienza dell’omissione operata dalla cultura

americana nei confronti della popolazione nera. “C’è una sistematica soppressione della schiavitù e della sua storia e una parte della storia di tanti dei nostri monumenti e simboli viene nascosta. Per esempio i memoriali dei presidenti a Washington D. C.. Persone in schiavitù hanno combattuto e aiutato a vincere la guerra d’Indipendenza contro l’Inghilterra ma di questo non c’è niente nel memoriale di George Washington. Stesso discorso per Lincoln: se non fosse stato per gli schiavi, non avrebbe vinto la guerra civile. Ma nel memoriale non si fa menzione di questo, come parte dell’eredità lasciata da questo grande presidente”. Che la resa dei conti sia reale e il cambiamento duraturo è presto per dirlo: per ora c’è l’ammissione di colpa. Ma quando ci si tappa le orecchie alle voci del passato, si rischia di non riuscire a sentire il presente. Così resta il dubbio che prima e più delle mostre a tema, delle assunzioni ad hoc e delle cancellazioni preventive, i musei avrebbero potuto provare ad aprire le proprie porte e guardare cosa c’è lì fuori, entrare in dialogo con le comunità e i quartieri che dovrebbero servire e costruire con loro un rapporto di comprensione profonda e fiducia reciproca.

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ADRIAN PACI

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BINTA DIAW

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ALTA FORMAZIONE ARTISTICA. TEMI E PROBLEMI SANTA NASTRO [ caporedattrice ] MARCO ENRICO GIACOMELLI [ vicedirettore ]

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a pandemia ha messo in discussione il sistema di istruzione nazionale, chiedendo a docenti, direttori e studenti di riconfigurarsi e applicare nuovi metodi di insegnamento e apprendimento. Ma ha anche posto in primo piano punti di forza e criticità a tutti i livelli. Per quanto riguarda l’Alta Formazione Artistica, ad esempio, negli ultimi anni, anche prima che il Covid-19 sparigliasse profondamente le carte, c’è stata una evoluzione notevole. L’offerta è diventata sempre più specifica e ampia: dai corsi ai master, dalle accademie pubbliche alle istituzioni parificate e private, c’è stata una importante corsa a offrire una formazione di grande qualità, con un ventaglio ampio di proposte e con l’urgenza di aggiornarsi per rispondere alle esigenze di un settore che cambia e che si fa sempre più complesso.

LE ACCADEMIE TORNANO PROTAGONISTE

È tornato il ruolo protagonista delle accademie nella formazione degli artisti, con mostre, progetti e operazioni di scouting che vanno via via crescendo e con un corpo docente che si rinnova e che spesso e volentieri “strappa” alle università coloro che poi curano e fanno le mostre, scrivono i libri e costruiscono progetti. Gli anni di studio diventano così anche opportunità di networking, importanti per il “dopo laurea”. “Il comparto AFAM, nonostante le varie riforme ministeriali che hanno provato in tutti i modi a storpiare la sua natura interna e che forse sono riuscite a devitalizzare il suo aspetto principale, facendolo diventare un mostro con tante teste, resta un baluardo felice per chi ha realmente voglia di apprendere tecniche e materiali”, spiega Antonello Tolve, curatore e docente di Storia dell’Arte presso l’Accademia Albertina di Torino. “Mi riferisco al ramo più strettamente accademico e non coreutico musicale, del migliore artigianato artistico e della migliore industria culturale legata


© Viola Gesmundo per Artribune Magazine

LUCI E OMBRE NELL’ALTA FORMAZIONE

“Credo fortemente che la formazione artistica in Italia sia migliore della sua reputazione”, sostiene Claudia Löffelholz, direttrice della Scuola di alta formazione e del Dipartimento educativo Fondazione Modena Arti Visive. “Le scuole e le accademie svolgono un lavoro fondamentale per le nuove generazioni di artisti: lo confermano l’alta qualità dei lavori nel panorama nazionale e internazionale”. Tra le ombre, che possiamo definire più che altro situazioni cristallizzate che oggi mostrano tutta la propria debolezza c’è quella – e qui si trovano d’accordo molti dei docenti e direttori che abbiamo coinvolto in questo dibattito – che soggiace a una sorta di “peccato originale”. “Sono sotto gli occhi di tutti, credo”, spiega Piero Di Terlizzi, artista e direttore della Accademia di Belle Arti di Foggia. “Una riforma, la legge 508/99, mai decollata, anzi, volutamente lasciata nell’oblio a causa della mancanza di ‘cura’ verso il nostro settore artistico. Un settore in cui regna l’improvvisazione: sono decenni oramai che siamo senza applicabilità della legge di riforma del ‘99, per l’assenza dei

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oggi anche all’ampio reparto del disegno industriale, potenziato in tutta una serie di settori vincenti che vanno dal Graphic Design al Fashion Design, dal Light Design all’Interior Design o anche al Sound Design. Nonostante i grandi sforzi di rimodernamento della propria offerta formativa, l’Alta Formazione resta carente negli spazi che dovrebbero essere più accoglienti, ampi e all’avanguardia, come pure nei materiali di laboratorio, spesso visibilmente obsoleti. Ma questo, lo sappiamo, non è per difetto delle amministrazioni accademiche che cercano di sopravvivere, piuttosto di un’incuria che parte dall’alto, da un progetto ministeriale i cui fondi sono sempre mal distribuiti, massicciamente dirottati – e non vuol essere una polemica ma è lo stato di fatto a dirlo – verso le università”, conclude Tolve.

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Quali sono i pregi e i difetti dell’alta formazione in campo artistico in Italia? Quali le best practice all’estero che si potrebbero adottare? Come sono cambiate le accademie negli ultimi anni a livello didattico? Esiste uno scollamento fra ambito formativo e mondo del lavoro? Gli strumenti didattici vanno adeguati a nuove forme di comunicazione? Come ha impattato il lockdown e la didattica a distanza? Tante, tantissime domande – e non sono nemmeno tutte. Abbiamo ragionato su presente e futuro della didattica insieme a esperti e professionisti del settore.

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decreti autorizzativi della governance, sul reclutamento del personale, su sperimentazione e ricerca... Dovendo parlare dei pregi del sistema, devo riconoscere un grande senso di responsabilità di tutti i colleghi, che hanno rivitalizzato delle istituzioni, con l’impegno ad affrontare un’offerta formativa moderna e al passo con i tempi, accollandosi con enormi sacrifici lo sviluppo di indirizzi per i quali ci sarebbe soprattutto bisogno di un ampliamento degli organici, che invece sono rimasti quelli di quarant’anni fa”. Gli fa eco Alessandra Pioselli, curatrice e direttrice dell’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo: “I problemi dell’alta formazione in Italia derivano dal fatto che la riforma proposta con la legge 508/99 non è mai stata portata a compimento. Lo stato giuridico dei docenti AFAM non è stato equiparato a quello dei docenti universitari, non è stato ancora emanato il decreto sul reclutamento della docenza che supererebbe l’attuale modo fondato sulle graduatorie nazionali, non idoneo per un livello terziario di istruzione, le istituzioni AFAM non hanno accesso ai PRIN – Progetti di Rilevante Interesse Nazionale, manca la regolamentazione sui dottorati. La metà dei docenti delle accademie ha contratti co.co.co, una precarietà problematica. L’equiparazione all’università non è effettiva. La legge del 1999 è superata senza che siano usciti tutti i decreti attuativi. Ciò ha lasciato un vuoto, mentre crescevano nuove esigenze formative e relazioni tra accademie, università e mondo della produzione culturale. Meno burocrazia, più flessibilità nella formulazione dei piani di studio, che devono rispondere a parametri rigidi non in sintonia con l’evoluzione delle pratiche artistiche contemporanee, eliminazione della divisione anacronistica dei corsi in Pittura, Scultura, Decorazione ecc., valutazione delle istituzioni per valorizzare le esperienze significative, risorse per gli edifici e le strutture. In molti Paesi europei le accademie sono a pieno titolo strutture universitarie, non in Italia. Da qui conseguono le criticità. Eppure credo che ci siano potenzialità”. Il problema è anche culturale: la cristallizzazione di cui si parla sopra probabilmente si rispecchia nel mancato riconoscimento generale dell’importanza e del valore dei mestieri creativi. Laddove questi rimangono sempre un gradino più in basso nella percezione collettiva, nonostante la ricchezza e il contributo (anche in termini di tasse) che portano, come può l’istruzione nello stesso ambito ricevere un trattamento differente? “Una risposta veloce potrebbe essere quella che localizza il problema: per cui è chiaro che in un sistema artistico ancora attardato (tanto a livello istituzionale che di cultura accademica e popolare) come quello italiano, la formazione che lo presiede non può che

Se i mestieri creativi rimangono sempre un gradino più in basso nella percezione collettiva, nonostante la ricchezza e il contributo (anche in termini di gettito fiscale) che portano, come può l’istruzione nello stesso ambito ricevere un trattamento adeguato?

essere parte integrante di quello stesso contesto”, spiega Marco Scotini, curatore e direttore della NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, con sedi a Milano e Roma. “Di fatto il sistema AFAM, per quanto possa risultare aggiornato alle riforme del Processo di Bologna, risulta totalmente inadeguato. Ma molte insidie che oggi gravano sul sistema della formazione artistica in generale dipendono anche da quel Processo ( fortemente burocratico e centralizzato) che, come tale, si è applicato su un terreno involuto e impreparato. E dunque non pronto a una lettura critica o a una declinazione interpretativa della normativa promossa dalla riforma. Non ultima insidia è quella della recente trasformazione del sistema dell’arte contemporanea in un apparato governamentale di tipo manageriale (biennali, mostre, musei-brand, fondazioni) impantanato nell’appeal del presente e lontano dal promuovere sperimentazione. Eppure non saremo in grado di far fronte a questo scenario se non con un ricorso a una seria formazione. Ma il problema della cultura attuale mondiale mi pare, non a caso, più quello delle top-ten piuttosto che dell’educazione”. I problemi sono comuni, ma con origini e responsabilità dissimili nel caso delle università. “La legge Gelmini è stata devastante, ha burocratizzato moltissimo e ha tolto libertà d’azione. Ciò detto, non vedo peggioramenti se non dal punto di vista dei finanziamenti. Che non è poco, perché ciò tende a favorire le scuole private, che talvolta, con il luccichio delle loro attrezzature e la pubblicità che riescono a pagarsi, si trasformano in specchietti per le allodole ma dimostrano poi scarsa attenzione agli studenti”, ci spiega Angela Vettese, critica d’arte e direttrice del corso di laurea

magistrale di arti visive e moda presso il Dipartimento di Culture del Progetto dello IUAV di Venezia.

COME È CAMBIATA L’ALTA FORMAZIONE ARTISTICA

Nondimeno l’alta formazione artistica, dicevamo, è cambiata e questa evoluzione è stata repentina, interessando in maniera sostanziale gli ultimi due decenni. Sono appunto cambiati i corsi di studio, ampliando l’offerta dai quattro corsi base delle Accademie di Belle Arti a un bouquet di proposte ampio e variegato, in linea con i tempi, con le esigenze dei territori, con le eccellenze di cui si fanno portatori e con una Italia che pian piano ha riscoperto una vocazione sempre più forte nella fantasia, nell’artigianato e nel cosiddetto made in Italy, rendendo i mestieri creativi sempre più importanti. Si è resa fondamentale una professionalizzazione, inserendo tra le materie di studio laboratori e moduli che preparano i ragazzi al mondo del lavoro. Sono nati scuole, corsi e master che riguardano ambiti specifici, dalla fotografia alla moda, fino alle contaminazioni, sempre più importanti, tra settori. Ma soprattutto sono cambiati gli studenti. “I programmi di alta formazione gestiti seriamente sono per definizione in continuo rinnovamento, pena l’insuccesso, dato che i partecipanti si iscrivono proprio per essere aggiornati”, racconta Gabi Scardi, curatrice, docente all’Università Cattolica di Milano e allo allo IED. “Per quanto riguarda gli studenti, invece, mi pare che sia cambiato il loro stato d’animo, più che i loro obiettivi: soprattutto a partire dalla crisi del 2008, con la contrazione delle possibilità di lavoro, sono sempre più preoccupati, e quindi ansiosi di ottenere risultati a più breve termine possibile. Ho l’impressione che si distinguono leggermente quegli studenti che mirano a un’attività curatoriale propriamente detta: se sono consapevoli della strada che hanno scelto, sono anche tendenzialmente consapevoli del fatto che il percorso sarà più lungo”. È mutato anche il background: se prima la strada verso la formazione artistica era “segnata” dall’adolescenza, oggi la questione assume dei contorni diversi, spiega Di Terlizzi: “Osservo come, in questi anni di crescita, gli studenti sono cambiati, non essendo più unicamente provenienti da scuole per l’istruzione artistica specifica. La richiesta della formazione è sempre più spinta verso il rapporto fra le tecnologie e il mondo del lavoro, sono cambiati offerta formativa e linguaggi della didattica, si sono sempre più rafforzate le esperienze di stage e tirocini in realtà operative e imprenditoriali. Gli obiettivi degli studenti sono legati allo svolgimento laboratoriale sul campo, e noi abbiamo sempre più dedicato risorse nelle produzioni di interesse comuni a molti indirizzi di studio in un incontro interdisciplinare di competenze”.


AFAM: LE POLEMICHE DELL’ESTATE 2020

Le trasformazioni, anche in termini psicologici, sono in corso, e certo la cosiddetta DAD, la didattica online, non mancherà di portarne con sé delle nuove. La situazione in svolgimento ha senz’altro accelerato la necessità per atenei, accademie, scuole pubbliche e private di dotarsi, laddove non presenti in precedenza, di strumenti per lavorare a distanza e per rendere la formazione adeguata agli standard del digitale. Allo stesso tempo si è cominciato a parlare un linguaggio diverso, più vicino a quello degli studenti, per andare loro incontro e per comunicare con loro in un clima di incertezza e instabilità. Via libera dunque ai social network, agli incontri su Zoom con i professionisti, ai progetti online, tutte cose positive che dovrebbero essere portate avanti anche in un regime di normalità (come peraltro molte scuole già facevano). Allo stesso tempo si è potuto così razionalizzare il tema degli spazi e degli spostamenti, una questione che sarà necessario affrontare anche a emergenza finita, dirimente invece nel momento difficile in cui stiamo vivendo per le note e imprescindibili questioni di sicurezza.

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LA DIDATTICA ONLINE

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Accademia di Belle Arti di Brera, Cortile d'Onore, Milano. Photo Cosmo Laera. Courtesy Accademia di Brera

Il 2020 è stato un anno duro anche per il comparto AFAM – Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica: accademie e conservatori, già da anni vessati da paradossi di sistema e problemi burocratici insoluti, hanno subito il colpo di grazia a causa della chiusura forzata e della sospensione delle attività didattiche. Secondo quanto emerso da diversi articoli pubblicati in presa diretta da Artribune, le proteste hanno iniziato a sorgere verso maggio-giugno 2020, quando gli studenti di alcuni atenei si sono resi conto che in seguito a tale interruzione avrebbero visto il proprio anno accademico slittare. I primi sono stati gli studenti delle Belle Arti di Lecce i quali, abbandonati in un totale silenzio istituzionale, hanno denunciato il fatto attraverso un video pubblicato su YouTube. Ad aggravare la situazione è stata la vacanza di ben 40 cattedre all’interno dello stesso istituto, causata dal Decreto legislativo n. 165/2001 già in vigore dal 2019, che aveva abolito i contratti co.co.co. (tra i più comuni all’interno delle accademie) spargendo caos nelle istituzioni. Il malcontento è provenuto anche dall’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove le attività non sono ripartite neanche con la fine del lockdown, in particolare quelle laboratoriali, che necessitano di lezioni in presenza. In questo caso si è susseguito, tra le pagine web di Artribune, un rimbalzo di lettere tra il direttore dell’Accademia, i professori e i rappresentati della Consulta degli studenti. Al di là dei singoli casi, ad affondare il comparto AFAM ci pensavano la burocrazia e la politica già da prima dell’arrivo del Covid-19, con una riforma per equipararlo alle università – in oneri e onori – mai completata. “La legge di riforma del settore, la 508/99, avrebbe dovuto sancire l’equiparazione al modello universitario. Nella sostanza, fattori oggettivi dimostrano che si tratta di un’equiparazione cosmetica”, scriveva per noi Antonio Bisaccia. “Manca quella carta costituzionale che dovrebbe guidare gestione, scelte, organizzazione e sviluppo. Questa situazione ha costruito negli anni una sorta di ‘bolla perpetua’ dalla quale non si esce. Qual è il motivo? Non è chiaro ma, se s’interrogano i politici di turno o i membri dei governi passati e presenti, non si troverà nessuno che non sia d’accordo per risolvere l’ormai storica disparità di trattamento verso l’AFAM. Senza, poi, agire di conseguenza”. La stessa lacuna costituzionale che ha causato difficoltà all’Accademia di Ravenna, che ha avviato un lungo iter burocratico per acquisire autonomia statale, poiché è tra le poche in Italia ancora a essere sotto amministrazione del Comune di appartenenza (andando a infiggere sulla graduatoria dei professori, fortemente svantaggiati e impossibilitati ad accedere alla graduatoria nazionale per un cavillo burocratico, solo per fare un esempio). La mancanza di una regolamentazione strutturata e aggiornata – in un ambito in continua evoluzione come quello artistico – ha portato attriti anche all’Accademia di Brera a Milano, dove alcuni professori del dipartimento di Nuove Tecnologie si sono riuniti per chiedere alla direzione più garanzie, seppur assunti esplicitamente per una cattedra temporanea (su Artribune trovate la lettera di protesta e la risposta del direttore dell’Accademia). Ma il vero immobilismo è dato da un pregiudizio radicato nel pensiero comune, che considera le materie scientifiche più “importanti” di quelle umanistiche già in ambito universitario, figuriamoci quando si parla di arti. “La conferma della continuità trasversale delle false efficienze della burocrazia”, concludeva Bisaccia, “dimostra quanta strada c’è ancora da percorrere per annientare quei pregiudizi sull’arte e gli artisti che persino Gustave Flaubert narrava, nel suo ‘Dizionario dei luoghi comuni’, con malcelata ironia: ‘Artisti: il loro non si può chiamare lavoro’”.

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GIULIA RONCHI

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Il rovescio della medaglia è ovviamente nell’indebolirsi dell’immediatezza del rapporto umano, tra le punte di diamante della formazione artistica, e nel rendere più difficile lo svolgimento delle attività pratiche, soprattutto quando necessari strumenti e apparecchiature non alla portata di tutti. “L’emergenza Covid-19”, spiega Francesca Giulia Tavanti, Programme Leader Arts all’Istituto Marangoni di Firenze, “ha di fatto velocizzato una serie di processi già in atto da alcuni anni; li ha resi evidenti, necessari e imprescindibili, non solo in riferimento ad alcuni settori specifici, ma in relazione alla sopravvivenza fisica e mentale del singolo individuo. La rivoluzione digitale, per esempio, di cui tanto si sta discutendo anche nei settori dell’arte e della moda, è uno di quei processi a cui la pandemia ha permesso una fortissima accelerazione. La fascinazione per le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dal virtuale non è infatti qualcosa di nuovo. Lo scorso lockdown ha, però, imposto a tutti noi una relazione completamente inedita. Il digitale era nelle nostre vite prima del Covid, era nelle nostre case, nei nostri rapporti privati e professionali, aveva già modificato le nostre abitudini, la nostra quotidianità e i nostri comportamenti sociali. Se fino all’anno scorso aveva ancora un carattere accessorio, con la quarantena è diventato qualcosa di assolutamente necessario”.

Dopo l’università i giovani scelgono le vie dei master, nella speranza di avere un accesso preferenziale a strade altrimenti molto più inerpicate.

I 20 MIGLIORI ATENEI AL MONDO NEL CAMPO ARTE & DESIGN

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Stanford – USA stanford.edu

CARNEGIE MELLON UNIVERSITY Pittsburgh – USA cmu.edu

ART CENTER COLLEGE OF DESIGN Pasadena – USA artcenter.edu privata

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ARTE E SISTEMA DELL’ARTE: LA QUESTIONE OCCUPAZIONALE

Sono tantissime le opportunità a livello formativo, ma spesso la percezione è che la risposta in termini occupazionali non sia adeguata o non in grado di soddisfare il bisogno di tutti. Inoltre, che gli anni di studio e il mondo del lavoro viaggino su binari differenti, creando un distacco tra due universi a volte “troppo paralleli”. Ecco perché, molto frequentemente, dopo l’università i giovani scelgono le vie dei master, nella speranza di avere un accesso facilitato e preferenziale a strade altrimenti molto più inerpicate. Tutto questo però caricherebbe gli studenti di una maggiore ansia, che in qualche misura potrebbe essere controproducente, inficiando

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Santa Clarita – USA calarts.edu

STANFORD UNIVERSITY

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CALIFORNIA INSTITUTE OF THE ARTS

PRATT INSTITUTE New York – USA pratt.edu

SAIC – SCHOOL OF THE ART INSTITUTE OF CHICAGO Chicago – USA saic.edu

3

PUBBLICA

PRIVATA

PARSONS SCHOOL OF DESIGN New York – USA newschool.edu/parsons/


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TSINGHUA UNIVERSITY Beijing – Cina tsinghua.edu.cn

THE GLASGOW SCHOOL OF ART Glasgow – UK gsa.ac.uk

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AALTO UNIVERSITY Helsinki – Finlandia aalto.fi

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DESIGN ACADEMY EINDHOVEN Eindhoven – Paesi Bassi designacademy.nl

POLITECNICO DI MILANO Milano – Italia polimi.it

1

ROYAL COLLEGE OF ART

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UNIVERSITY OF THE ARTS LONDON

Londra – UK rca.ac.uk

Londra – UK arts.ac.uk

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TONGJI UNIVERSITY Shanghai – Cina tongji.edu.cn

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MIT – MASSACHUSETTS INSTITUTE OF TECHNOLOGY

THE HONG KONG POLYTECHNIC UNIVERSITY Hung Hom – Hong Kong polyu.edu.hk

GOLDSMITHS COLLEGE Londra – UK gold.ac.uk

RISD – RHODE ISLAND SCHOOL OF DESIGN Providence – USA risd.edu

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RMIT UNIVERSITY

Melbourne – Australia rmit.edu.au

fonte: QS World University Rankings 2020 – Art and Design

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LA SCUOLA DI SANTA ROSA

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Luigi Presicce, Arlecchini del paradiso, 2020. Progetto per Opera Viva Barriera di Milano, Torino 2020

Cade in questi giorni di ottobre il terzo anniversario della nascita della Scuola di Santa Rosa. All’inizio non sapevamo, io e Francesco Lauretta, che questo compleanno sarebbe stato minimamente possibile, o almeno non eravamo in grado di prevederlo. Era un martedì di tre anni fa, e io avevo chiamato Francesco per invitarlo a venire con me a disegnare sul Lungarno Santa Rosa, un po’ come fanno gli americani ricchi che vengono a Firenze a studiare il disegno. Era una mattina di quelle che ti fanno ringraziare Dio per aver scelto di vivere in un posto così bello. Francesco e io siamo qui nella culla del Rinascimento da una decina d’anni, mese più mese meno, e la nostra motivazione è stata dettata da un incontro amoroso che ci ha portati qui e ci siamo rimasti. Certo ci manca il mare, a me quello di Porto Cesareo e a lui quello di Ispica, ma che ci dobbiamo fare? Ormai siamo qui, ed eravamo qui anche quel giorno che non sapevamo neanche che stava iniziando la Scuola di Santa Rosa. Non c’è molto contemporaneo in questa città, anche se a volte ci sono tante cose, ma accadono tutte insieme, nello stesso momento, e quindi non le vedi comunque. Più che disegnare avevamo bisogno di chiacchierare, parlare del più e del meno, di quello che si fa fuori da qui, di quello che si fa qui, dei libri letti e dei quadri fatti. Il disegno era solo un pretesto, ma appena siamo rientrati a casa, quel giorno, una specie di gioia ha iniziato a diffondersi dentro e ci siamo scritti vicendevolmente dichiarando la volontà di rifarlo anche il martedì successivo. Così è stato, e martedì dopo martedì è arrivato l’inverno e dal Lungarno ci siamo spostati nel vicino Bistrot dal nome Santa Rosa. La decisione di chiamare questi incontri Scuola è stata quasi spontanea, sembrava una strana mistura tra la Scuola di Piazza del Popolo a Roma e il Bar Giamaica a Milano. Era tutto molto speciale e ogni martedì non vedevamo l’ora che fosse di nuovo martedì. A un certo punto poi la voce si è sparsa tra gli amici dell’Accademia e i conoscenti del quartiere. I più curiosi di questi hanno iniziato a fare capolino per capire di cosa si trattasse. Dopo un po’ “quelli che disegnano al bar” erano diventati tanti e oltre agli affezionati c’erano e ci sono sempre facce nuove. Il numero dei partecipanti variava da due a una ventina di “studenti” al massimo, che per essere una cosa completamente spontanea è davvero tanto. Venivano anche da Milano, Roma o Bologna solo per un paio d’ore di disegno in compagnia. Era nata la Scuola libera di disegno di Santa Rosa.

Perché era una scuola? In fondo nessuno insegnava niente a nessun altro, eppure eravamo tutti lì a lezione puntuali, seduti ai tavoli del bar a bere caffè, parlare, leggere, disegnare. Nessuno ha mai pagato un centesimo per venire a Santa Rosa e non abbiamo mai imposto nulla, neanche di disegnare. In questi tre anni abbiamo prodotto migliaia di disegni, a matita, con inchiostri, colori di tutti i tipi e fatto milioni di scatti alla gente che veniva a trovarci. Ogni martedì è stato ed è tuttora una festa, la festa dello stare insieme, del condividere un momento di pura spensieratezza, in barba a tutte le meschinerie del piccolo mondo dell’arte. Qualcuno dice che la Scuola di Santa Rosa è sovversiva; sovversiva per la sua semplicità, dico io. Qualcun altro che sia arte sociale; ma non è vero, non ce ne frega nulla dei disgraziati e dei disagiati, noi ci troviamo lì solo per compiere piccoli miracoli su carta, uno schizzo veloce di un passante, la figura di una ragazza che beve un caffè, un cane al guinzaglio, un bambino che gioca, la caricatura di uno di noi. Ai nostri tavolini abbiamo ospitato sia gente che ha fatto la Biennale che la signora anziana di San Frediano, dai bambini ai vagabondi di tutte le razze e religioni, ma questo non fa di noi degli artisti relazionali. Forse tutto questo è solo qualcosa d’altri tempi, che noi perpetriamo traendone gioia. La Scuola con il tempo si è anche spostata da Firenze. Nei vari mesi in cui ho abitato a New York, ho scelto un locale dove invitare i miei amici e non solo a disegnare, il posto si chiama Sel Rrose, è un oyster bar vicino al New Museum. Ci sono capitato per caso con un’amica e mi sono accorto che nel menù c’era un cocktail chiamato Santa Rosa ed è scattata la scintilla. Neanche lì ho chiesto il permesso di invitare gente a disegnare, come in tutti gli altri posti, a Lecce, a Palermo, a Roma, a Milano, a Siracusa, a Ragusa Ibla, a Corigliano Calabro, a Gallipoli. Non abbiamo mai chiesto di poter fare Santa Rosa in nessun posto dove l’abbiamo fatta, bastava consumare, anche un misero caffè, e il nostro tavolo era garantito. Oggi la Scuola viene invitata a festival, eventi, fiere e mostre; da musei, chef e curatori, ma noi ancora ci andiamo con lo stesso spirito che avevamo quel giorno che sembravamo Monet che passa a prendere Renoir in bicicletta per andare a dipingere al mare.

LUIGI PRESICCE


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nuova, audace”, suggerisce Tavanti. “Per questo motivo abbiamo voluto aggiornare tutti i nostri corsi delle aree di arte, fashion design, business e styling, introducendo al loro interno focus didattici che supportino la preparazione di figure professionali idonee al presente e pronte per le sfide del futuro. Tutti i docenti che insegnano in Istituto Marangoni sono dei professionisti e questo ci permette di modificare in tempo reale i contenuti dei nostri corsi in base alle esigenze del mondo esterno. Ovviamente questo periodo ha richiesto, però, una riflessione più profonda e, di conseguenza, un intervento più strutturato”. Sono molte e diversificate le prove che ci riserva il futuro: “Tanti creativi italiani si recano all’estero dopo la formazione per trovare condizioni migliori di lavoro, opportunità, supporti economici; un mondo culturale più consolidato e riconosciuto e di conseguenza un differente sistema di welfare”: è il parere di Claudia Löffelholz. “La grande sfida italiana sta proprio lì: alti costi di vita, poche risorse per la cultura, mancanza di previdenza sociale e del riconoscimento economico del lavoro. Nel percorso di formazione artistica – oltre alla parte teorico-pratica – dovremmo trasmettere un know-how su come funziona il sistema dell’arte e come inserirsi, trovare bandi, residenze e finanziamenti, come preparare application e crearsi network e collaborazioni”.

BEST PRACTICE ALL’ESTERO

Tuttavia la pandemia ha reso più difficili gli spostamenti e influito anche dal punto di vista psicologico su chi immagina o ha immaginato un proprio futuro

all’estero. Sarebbe anche ipotizzabile una possibile inversione di tendenza, con giovani che scelgono di studiare in Italia e un “ritorno di cervelli” fuggiti tempo fa. Uno scenario che potrebbe rivelarsi positivo, a patto di tenere alto il livello della proposta formativa e dei servizi in dotazione alle scuole e i finanziamenti – biblioteche, studi, borse di studio, fondi per le ricerche emergenti, atelier –, tutte cose che da noi sembrerebbero spesso mancare. Ma c’è anche chi, come Marco Scotini, la pensa diversamente: “Vorrei smitizzare quello stereotipo che fa della formazione UK (e in parte americana) il meglio che si possa incontrare in questo ambito. Basta leggersi il capitolo 6 di ‘Realismo Capitalista’ di Mark Fisher per avere un’idea delle condizioni lavorative nel contesto dell’educazione nelle capitali di lingua inglese”. O chi, come Alessandra Pioselli, crede sia difficile esportare modelli da contesti differenti. “Ci sono luci e ombre ovunque. Al fine di costruire la rete Erasmus+, come direttrice ho visitato in questi ultimi anni accademie e università in Spagna, Gran Bretagna, Centro e Nord Europa, Medio Oriente e ho incontrato direttori, professori, studenti. Nel confronto ho capito meglio le nostre potenzialità e il valore del nostro patrimonio. Nessuna best practice può essere importata tale e quale, perché i sistemi sono strutturalmente diversi, diversi tra Sud e Nord Europa, diversa è la società. Più che di singole best practice, però, in Italia ci vorrebbe un cambiamento strutturale del sistema che consenta di dargli slancio. All’estero fare il docente è una scelta riconosciuta, rispettata e pagata. Il docente ha uno status sociale. È un fatto culturale, contrattuale, economico. Questo incentiva le buone prassi”. Le fa eco Bruno Muzzolini, artista e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano: “Servono investimenti economici e sguardi attenti che sappiano ripensare l’alta formazione artistica, sia dal punto didattico sia da quello che concerne un giusto riconoscimento economico e giuridico dei docenti di seconda fascia e dei precari. Non si possono rimandare le trasformazioni che ne facilitino lo sviluppo al passo dei tempi e che contemporaneamente sappiano rivitalizzare l’enorme patrimonio culturale che il nostro Paese ha ereditato”.

L STORIES L ALTA FORMAZIONE L

Le trasformazioni, anche in termini psicologici, sono in corso, e certo la cosiddetta DAD, la didattica online, non mancherà di portarne con sé delle nuove.

NOVEMBRE L DICEMBRE 2020

quel senso di sperimentazione necessario in fase di crescita. Se alla possibilità di sbagliare, a un sano desiderio anche di ribellione, alla rilassatezza del lavoro in studio, si sostituisce la voglia di arrivare e compiacere un settore che ha già le sue regole, il rischio è alto. “Il sistema dell’arte”, spiega Vettese, “è un’ossessione tale che, fosse per me, diminuirei le ambizioni degli studenti per entrarvi e aumenterei il loro desiderio di fare parte di una comunità meno gerarchica, meno regolata, più aperta ai margini. Non credo che sia compito dell’università insegnare a essere scaltri. Innovativi, semmai, anche nel tipo di relazioni che si desiderano con gallerie e collezionismo. È vero, però, che mi ha reso felice trovare i miei studenti a Documenta, a Basilea, alle Biennali, ovunque si realizzasse un evento ‘di sistema’ ma che poteva portarli anche a un aggiornamento”. Come uscire da questa separazione tra due mondi, quando presente? “Lo scollamento dipende da un eccesso di astrattezza dei modelli teorici insegnati, dalla scarsa presenza di materie legate al management in molti corsi di laurea da cui arrivano i futuri operatori della cultura, dalla difficoltà a interpretare in termini di complessità le grandi sfide dei sistemi culturali attuali (complessità intrinseca del prodotto o del processo, dei contesti di riferimento e dei sistemi abilitanti)”, commenta Alessandro Bollo, docente alla 24 Ore Business School e direttore del Polo del 900 di Torino, naturalmente pensando più ai mestieri creativi e meno agli artisti. “Tutto questo potrebbe essere mitigato attraverso una maggiore presenza e contaminazione con chi opera e agisce nelle istituzioni: cattedre a contratto, seminari e laboratori co-progettati assieme alle istituzioni culturali, internship, laboratori on site ecc.”. Il particolare momento storico che stiamo vivendo inoltre rischia di amplificare questo “eccesso di astrattezza” di cui parla Bollo e richiede agli esperti di formazione un maggiore sforzo e una riflessione condivisa, anche con le istituzioni, sul futuro della didattica, delle nuove generazioni, e in fin dei conti del Paese. “L’attuale panorama internazionale e lo scenario futuro che si sta configurando richiedono una visione completamente

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MENDINI/NAPOLI • MOLLINO/REGGIO EMILIA

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IN APERTURA / MENDINI / NAPOLI

Alessandro Mendini: design e fantasia Giulia Marani a mostra Alessandro Mendini: piccole fantasie quotidiane gode di un doppio primato: è la prima retrospettiva che un museo pubblico italiano dedica al poliedrico artista e progettista milanese dopo la sua scomparsa, avvenuta nel febbraio dello scorso anno, ed è la prima mostra di design allestita al Madre di Napoli. Il percorso espositivo, curato da Gianluca Riccio e Arianna Rosica e prodotto dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee della Regione Campania, condensa cinquant’anni di attività creativa ai massimi livelli (dal 1970, anno in cui Mendini assume la direzione della rivista Casabella), scegliendo come chiave di lettura principale il rapporto tra la poetica mendiniana e la cultura artistica d’avanguardia, con l’obiettivo di restituire la vivacità e la curiosità intellettuale di un uomo che in un celebre disegno si era rappresentato come un drago: una creatura composita con il corpo da architetto, la testa da designer, la coda da poeta e così via. Al centro non ci sono, quindi, le icone, i prodotti industriali frutto della collaborazione con le aziende che hanno fatto la storia del made in Italy, ma piuttosto il grande lavoro di ricerca che li precede e che incrocia in più punti il percorso dell’arte contemporanea, dialogando con l’Arte Povera e il Futurismo, raccogliendo gli echi della cultura divisionista e metafisica oppure instaurando un confronto critico con l’estetica della Pop Art.

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PAROLA AI CURATORI

Costruire questo progetto a Napoli, per i curatori, si è imposto da subito come un’evidenza. “L’idea della mostra è nata qui in Campania, due o tre anni fa. Gianluca e io stavamo lavorando con Alessandro a due progetti per il Festival del Paesaggio di Capri”, racconta Arianna Rosica. “Lui ha accettato subito, purtroppo però non c’è stato il tempo di sviluppare il tutto fino in fondo. Dopo la sua scomparsa abbiamo lavorato a stretto contatto con l’Atelier Mendini e con le sue figlie, Fulvia ed Elisa, che ci hanno permesso di accedere all’archivio”. Tra il progettista e la città c’è un legame importante: è qui che Mendini ha lavorato di più e che si è espresso in maniera più piena anche dal punto di vista metodologico. “Con le ‘Stazioni dell’Arte’, per esempio, ha messo in pratica la sua idea di progettazione come dimensione comunitaria”, spiega Gianluca Riccio. “Non un luogo di affermazione egocentrica, quindi, ma un luogo di apertura al contributo di altri

architetti e artisti, in un’idea utopica di collaborazione tra le arti. Nel suo lavoro c’è, poi, una vena che potremmo definire mediterranea, una solarità che si esprime nell’uso del colore e della luce”.

LE SEZIONI DELLA MOSTRA

Il racconto si sviluppa attraverso una sequenza di stanze tematiche che corrispondono ad altrettanti momenti della poetica mendiniana: dal Radical, la sezione più nutrita, nel quale ritroviamo l’esperienza a forte carica utopica e anarchica di Global Tools, con la ricostruzione di un’opera per sua natura effimera come la Sedia di paglia del 1974, e gli Oggetti ad uso spirituale realizzati intorno alla metà degli Anni Settanta, alla Città filosofica, con le installazioni urbane degli Anni Novanta e Zero, passando per Alchimia Futurismo, Mobile Infinito, Proust (con l’iconica poltrona e con tutte le variazioni sul tema successive, fino ai Tre Primitivi del 2018) e Stilemi. “Abbiamo scelto di usare un doppio binario: c’è una linearità temporale che però si interseca quasi da subito con un piano temporalmente sfalsato”, chiarisce ancora Riccio. “Questo riflette quello che era un metodo di Mendini. Progetti realizzati negli Anni Settanta e Ottanta vengono rielaborati e ripresi nel tempo, magari a distanza di anni. C’è una continua idea di ripensamento, un ritornare sulla sua stessa storia per riviverla, magari ribaltando funzioni e obiettivi”.

fino al 1° febbraio

ALESSANDRO MENDINI: PICCOLE FANTASIE QUOTIDIANE a cura di Gianluca Riccio e Arianna Rosica Catalogo Edizioni Madre MADRE Via Settembrini 79 – Napoli info@madrenapoli.it madrenapoli.it sopra: Alessandro Mendini, Busto di donna, 2000. Courtesy Archivio Alessandro Mendini, Milano. Photo © Alberto Ferrero a destra: Alessandro Mendini, Zabro, 1984 . Courtesy Zanotta SPA. Photo © Zanotta SPA


IN APERTURA / MENDINI / NAPOLI

MOSTRE E GIARDINI

Nel 1996 le Scuderie di Palazzo Reale ospitano una sua mostra, Artinmosaico, con quindici piccole costruzioni rivestite di tessere di mosaico Bisazza a rappresentare altrettante forme archetipiche dell’architettura: strada, ponte, muro, chiesa… Tra il 1997 e il 1999 Mendini lavora al restyling della Villa Comunale, uno dei principali giardini storici di Napoli, con l’aggiunta di una cancellata “luminosa” che ingloba i lampioni. Proprio questi ultimi, alti, snelli e decisamente contemporanei, susciteranno una serie di polemiche dando il via a una querelle,

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1931

Il legame con Napoli Mediterranea, caotica, generosamente eclettica, Napoli è la città italiana in cui la mano del milanesissimo Alessandro Mendini è più evidente. Qui, più che altrove, la sua idea di “museo all’aperto” urbano, in cui anche le strade, i mercati e le piazze sono considerati opere d’arte, si concretizza in una serie di interventi che non si riducono a un semplice maquillage estetico ma, al contrario, incidono in profondità sullo spazio pubblico e sulla sua fruizione da parte degli abitanti. Il dialogo tra il progettista e la città – sempre forte e mutualmente proficuo, seppure talvolta turbato da improvvise dissonanze – comincia intorno alla metà degli Anni Novanta.

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anche politica, tra sostenitori della sperimentazione e istanze conservatrici.

LE STAZIONI DELL’ARTE

Nello stesso periodo parte il progetto delle Stazioni dell’Arte, che vede Mendini nel ruolo di coordinatore e si basa su tre principi: le fermate della metropolitana come occasione di riqualificazione urbana ed estetica di interi quartieri, l’eclettismo dei progettisti chiamati a ridisegnarle (si va da Gae Aulenti a Karim Rashid, da Dominique Perrault ad Álvaro Siza ed Eduardo Souto de Moura), l’intima collaborazione delle opere d’arte di artisti internazionali con le architetture che le ospitano. Due stazioni, Salvator Rosa e Materdei, portano la firma dell’Atelier Mendini. La prima sembra suggerire il tema tutto partenopeo del presepe, con il corpo principale che, con le sue arcate, riprende l’andamento di un ponte romano e quasi lo ingloba, la guglia d’acciaio dall’aspetto fiabesco e i palazzi circostanti, arrampicati sulla collina e nobilitati dall’intervento di artisti come Ernesto Tatafiore e Mimmo Paladino. La seconda offre suggestioni acquatiche con i suoi mosaici nei toni del verde e dell’azzurro, un’impressione rafforzata dalla presenza, all’esterno, della grande carpa giapponese protagonista della scultura di Luigi Serafini.

Nasce a Milano

1970 Diventa direttore di Casabella

1972 Comincia a creare gli Oggetti ad uso spirituale

1978 Progetta la Poltrona Proust

1979 Vince il primo Compasso d’Oro

1981 Vince il secondo Compasso d’Oro

1989 Fonda l’Atelier Mendini con il fratello Francesco

1994 Disegna per Alessi il cavatappi Anna G, ispirato alla silhouette dell’amica designer Anna Gili

1999 Ultima il restyling della Villa Comunale di Napoli

2010 Cura per il Triennale Design Museum la mostra Quali cose siamo

2014 Vince il terzo Compasso d’Oro, alla carriera

2019 Muore a Milano a 87 anni


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OPINIONI

La cultura d’Europa

Il caso dello stadio fiorentino

Bruno Racine direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana, Venezia

Antonio Natali storico dell’arte

è una frase che viene citata spesso, attribuita a Jean Monnet, a proposito della costruzione dell’Europa: “Se fosse da rifare, io ripartirei dalla cultura”. Anche se apocrifa, la citazione riflette sia una frustrazione reale, sia un’aspirazione ancora più potente. Ci ripensavo ascoltando un’intervista a Luca Massimo Barbero, curatore e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini di Venezia, a proposito della notevole mostra che il Centre Pompidou Metz dedica a Yves Klein. Piuttosto che insistere sul legame che l’artista ha tessuto con altri protagonisti della scena artistica francese, la mostra pone l’accento sul ruolo che hanno avuto il Giappone e ancor più la città di Milano nel percorso artistico del pittore. Il capoluogo lombardo, infatti, ha rappresentato una delle piattaforme più fertili per l’avanguardia europea negli Anni Sessanta, offrendo così una risposta originale e prolifica alle ricerche che nello stesso periodo avevano avuto origine negli Stati Uniti; che la galleria Apollinaire sia stata a Milano, sotto l’impulso di Pierre Restany, il luogo di nascita dei Nouveaux réalistes è un fatto troppo spesso trascurato se non addirittura ignorato.

a responsabilità d’ogni ritardo e d’ogni dilazione è attribuita in Italia alla burocrazia. Magari poi, quando càpiti di sperimentarne i ceppi, si potrà forse constatare che il disagio dipende, più che dalla burocrazia, da chi la maneggi, dai burocrati cioè (che sono armi nelle mani della politica). La burocrazia è la prima (e sovente l’unica) imputata di qualsiasi deficienza. È un’attitudine che in questi mesi trova un veridico riscontro a Firenze, dove si discute del futuro dello stadio. Si tratta d’una controversia che – com’è noto – vede contrapposto chi vorrebbe modificarlo (se non addirittura demolirlo) per farne uno che sia aggiornato alle necessità attuali (soprattutto economiche), a chi invece vi s’oppone, adducendo la ragione che lo stadio fiorentino, disegnato da Pier Luigi Nervi e tirato su agli esordi degli Anni Trenta del secolo scorso, sia uno degli esempi più alti dell’architettura del Novecento.

C'

UNA CARTOGRAFIA CULTURALE

Abbiamo dunque bisogno di conoscere questa cartografia culturale dell’Europa per prendere atto e coscienza di cosa è esattamente la cultura europea. Non un “melting pot”, ma una rete in perenne evoluzione in cui emergono centri di creazione più o meno longevi e che intrattengono tra loro un dialogo più o meno sostanziale, veri e propri punti di incontro. Le persone della mia generazione ricordano ancora con meraviglia le grandi esposizioni inaugurali del Centre Pompidou di Parigi alla fine degli Anni Settanta volute dal più cosmopolita degli svedesi, Pontus Hultén, e divenute leggendarie: Paris-Berlin, Paris-Moscow o Paris-New York; mostre

che facevano prendere coscienza ai francesi del fatto che, se il ruolo storico di Parigi era fondamentale nella prima metà del XX secolo, nello stesso periodo esisteva anche una geografia della produzione artistica molto più vasta, dinamica e diversificata, che non si sarebbero mai immaginati. Un tale lavoro di decentramento è paradossalmente indispensabile per comprendere, dal punto di vista culturale, il significato dell’espressione “l’unione dell’Europa nelle sue differenze”, che rischierebbe altrimenti di essere solo uno slogan vuoto.

La cultura europea è una rete in evoluzione LA RIFLESSIVITÀ EUROPEA

Il momento di angoscia che stiamo vivendo rispetto al futuro spinge un numero crescente di europei a volersi difendere dietro barriere illusorie. Sarebbe un tema importante da affrontare da parte dei grandi musei europei per riflettere e mettere in luce questa cartografia dalla metà del secolo, sottolineando non solo ciò che è riuscito a imporsi su un panorama internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma anche ciò che è stato ignorato, o ancora ciò che è riuscito a resistere e si è fatto conoscere seppur in un ambito ristretto. Questa necessità di mettere in prospettiva è senza dubbio il segno di un’epoca che vede i propri punti di riferimento confondersi ed è significativo che la Biennale di Venezia, l’anno in cui la pandemia l’ha costretta ad annullare l’edizione 2020 dedicata all’Architettura, abbia scelto di esporre la propria storia attraverso i propri Archivi, dove anche qui emerge un ampliamento della scena artistica mondiale che oltrepassa sempre più il mondo occidentale. La riflessività, che a volte può prendere la forma di una cattiva coscienza, non è forse il marchio di fabbrica dell’Europa?

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In Italia la responsabilità di qualsiasi ritardo è attribuita alla burocrazia LE POLEMICHE E IL DIBATTITO

Non c’è giorno che la stampa non dia conto d’un dibattito (anche aspro nei toni) fra quelli che si battono per la salvaguardia dello stadio di Nervi e quelli che premono per la sua trasformazione. Fra questi ultimi, a far la voce grossa sono i tifosi della Fiorentina, che non vogliono rischiare di sdegnare un ricco imprenditore italo-americano, disposto a investire nella squadra di calcio molto danaro (questo almeno è quanto promette), purché gli si consenta di modificare lo stadio. E però i tifosi sono sempre meno molesti d’alcuni politici (inopinatamente di spicco) che ne cavalcano il malumore per cavarne consensi elettorali. Politici arroganti; che rivelano peraltro una modestissima conoscenza del nostro patrimonio e della legislazione saggia pensata per proteggerlo; e perfino

della Costituzione. Politici disposti a cambiare le regole della tutela pur di secondare interessi particolari. Chi sostiene la salvaguardia dello stadio s’avvantaggerebbe – si sente dire – delle pastoie burocratiche che da sempre tengono al palo l’Italia.

BUROCRAZIA E LEGGI

La burocrazia? Cos’ha a che vedere la burocrazia con le leggi? Giacché sono le leggi (che grazie a Dio l’Italia s’è data), col fondamento etico che le sottende, a imporre una tutela rigorosa dei beni come lo stadio fiorentino, architettura ch’è sui manuali di tutto il mondo. Non ci fossero state le leggi promulgate per custodire i beni comuni, oggi le nostre città sarebbero stravolte dai guasti prodotti dal capitale privato. Soltanto l’ignoranza della storia e una cultura men che approssimativa possono far venire in mente di proporre – com’è successo – interventi sullo stadio che ne preservino però le strutture reputate più emblematiche e innovative; quasi che le celebri scale elicoidali – per esempio – o la svettante torre di Maratona avessero valore in sé e non in relazione al loro contesto; come se lo stadio di Nervi non fosse un’entità omogenea e coerente. Interventi che vengon gabellati per interpolazioni parziali dettate da benefici economici. Un po’ come dire che, se ci fossero vantaggi finanziari ragguardevoli, si potrebbero – a beneficio dei turisti – sostituire i tetti degli Uffizi con terrazze panoramiche a tasca affacciate sul cuore di Firenze. Ma ora il terrore mi viene d’aver dato un’idea a queste menti illuminate.


OPINIONI

La bufala dell’audience engagement

Musei e territorio

Stefano Monti economista della cultura

Fabrizio Federici storico dell'arte

l mondo culturale italiano da un po’ di tempo ha un vero e proprio debole per il lessico cool. Abbiamo iniziato con gli acronimi (MAMbo, MAGA, MADRE) per poi virare verso espressioni sempre più anglofone, come storytelling o audience engagement. Proviamo a mettere un po’ di ordine a partire dalle definizioni.

l rapporto tra musei e territorio è storicamente, in Italia, molto stretto: gli spazi espositivi formano con le chiese, i castelli, il paesaggio quel continuum stratificato e denso di testimonianze che costituisce il tratto saliente del nostro patrimonio artistico e culturale (ancor più di quanto avvenga nel resto d’Europa e all’estremo opposto di quel che accade, naturalmente, alle grandi collezioni americane di arte europea, asiatica, africana, che quasi nessun legame hanno con ciò che le circonda). Tale rapporto si è tuttavia allentato negli ultimi anni in seguito a una serie di tagli e di riforme del sistema della tutela, che hanno portato musei e territorio a procedere su strade diverse, con i primi che sono in genere riusciti a tirare avanti e, anzi, hanno fatto registrare ottime performance, nei pochi casi di grandi istituzioni autonome su cui si è puntato come attrattori turistici; e con il territorio che ha visto naufragare tutela e valorizzazione, a causa della carenza di fondi e della mancanza di personale.

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Per stimolare un coinvolgimento bisogna conoscere l’audience Iniziamo con audience. Termine inglese, derivante dal latino audientia, identifica un insieme di persone che vengono raggiunte da un determinato messaggio tendenzialmente rappresentato da un prodotto culturale: importato dalla lingua inglese nell’ambito televisivo e, per estensione, nel mondo dello spettacolo dal vivo, di recente ha riscontrato un particolare successo anche in altri settori culturali, ad esempio quello museale. Complice di tale successo è stata anche un’altra “parola” tanto apprezzata nel nostro scenario: engagement. A livello internazionale, questo termine è nato nell’ambito del marketing. Glossario Marketing lo definisce come “coinvolgimento, attaccamento emotivo del consumatore nei confronti di una marca che scaturisce da specifiche esperienze da esso vissute nel corso dell’interazione con la marca medesima e con altri consumatori”. Unendo i significati delle due parole, si può intendere con audience engagement una serie di azioni che portano a “coinvolgere” l’audience, in questo caso i visitatori di un museo, al fine di incrementare il “beneficio” da questi percepito durante le interazioni con la struttura museale e con i suoi contenuti.

CONOSCERE IL PUBBLICO DEL MUSEO

Ma come deve essere condotta l’audience engagement? Per stimolare un coinvolgimento è necessario conoscere la propria

audience e dunque avere un universo statistico di riferimento, una serie di rilevazioni che consentano di stabilire, all’interno di un certo “intervallo di confidenza”, chi visita i nostri musei. La maggior parte dei musei italiani, però, non ha un sistema di CRM che permetta di profilare i visitatori. Senza un sistema di rilevazioni, cosa abbiamo, di concreto, sull’audience dei musei? Quando va bene, delle “analisi” condotte da stagisti e/o studenti universitari e in alternanza scuola-lavoro che chiedono, più o meno a caso, informazioni ai visitatori. Il problema è che quelle indagini non permettono di affermare che gli intervistati siano realmente un campione rappresentativo dei visitatori del museo. Dunque per coinvolgere la tua audience devi avere rilevazioni sufficienti a poter definire (entro certi margini di approssimazione) chi abbia visitato il tuo museo.

LE POLITICHE DI COINVOLGIMENTO

Facciamo un altro passo. Non è sostenibile, né consigliabile, attivare una politica di “engagement” verso tutta l’audience potenziale di un museo, perché un’opera può piacere a qualsiasi tipologia di persone a prescindere dal sesso, dal credo religioso, dal livello di reddito e di scolarizzazione. Per fare audience engagement, quindi, bisogna scegliere tra i visitatori del museo quali si possono coinvolgere attivamente. Per poter fare un’azione di audience engagement, inoltre, è necessario stabilire come coinvolgere le persone e perché. Se non conosciamo chi va al museo, non sappiamo decidere il giusto target delle politiche di engagement, né stabilire o monitorare gli esiti di tali pratiche. A meno che non si strutturi una politica di coinvolgimento seria dei visitatori, che parta da un obiettivo concreto, che definisca per quell’obiettivo sia il target che le azioni da condurre e che possa essere misurata nel tempo. Mi pare evidente, tuttavia, che non sia questo lo stato dell’arte.

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L’ESEMPIO DEGLI UFFIZI

Per fortuna c’è chi prova a mantenere vivo il dialogo tra il museo e l’ambiente circostante. Un’istituzione che si dimostra da anni sensibile a queste tematiche sono gli Uffizi: l’ex direttore Antonio Natali ha promosso, in particolare, le mostre del ciclo La città degli Uffizi, che hanno portato in diverse località della Toscana (e non solo) opere delle Gallerie Fiorentine, eventualmente integrate con pezzi provenienti dal territorio, a imbastire percorsi espositivi che mettevano in luce il legame tra quelle opere musealizzate e quelle determinate aree geografiche. Il successore di Natali, Eike Schmidt, ha sollevato forti polemiche (più che altro per l’esempio scelto, la Madonna Rucellai di Duccio), auspicando il ritorno nelle chiese di molte opere d’arte di carattere religioso. Le parole di Schmidt hanno curiosamente riecheggiato quanto sosteneva (e praticava) nella Roma

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dei Barberini il collezionista Francesco Gualdi, che più di una volta si privò di un pezzo sacro in suo possesso e lo sistemò in una basilica romana, “ut esset sanctitate loci venerabilior” (“perché sia degno di maggiore venerazione per la santità del luogo”). L’operazione può avere ancora oggi un senso, in pochi casi in cui si va a ricostituire un contesto di alto valore; ricordando sempre che, se anche l’opera riacquista una dimensione spaziale sacra, il nostro sguardo rimane, nella gran parte dei casi, uno “sguardo museale”, perché laico: al di là della sanctitas loci, l’opera è percepita come admirabilis assai più che come venerabilis.

Tagli e riforme hanno allentato il rapporto fra musei e territorio UN MUSEO DIFFUSO

Lo stesso Schmidt sta portando avanti con determinazione il progetto che va per ora sotto il nome di Uffizi diffusi: una disseminazione del museo su scala regionale che può portare benefici culturali ed economici alle località interessate, e rivitalizzare monumenti splendidi, come la Villa Medicea dell’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino. A patto che le nuove realtà espositive siano organismi vitali, con reali radici nel territorio, e non semplicemente depositi visitabili.


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FOTOGRAFIA / MOLLINO / REGGIO EMILIA

Tra le stanze di Carlo Mollino Elena Arzani ollino/Insides inaugura la stagione autunnale 2020 della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, regalando al pubblico uno scorcio sulla vita intima del poliedrico Carlo Mollino (Torino, 1905-1973). A essere esposte sono le opere pittoriche di Enoc Perez, le fotografie di Brigitte Schindler e dello stesso Mollino, realizzate all’interno dell’abitazione di Torino in via Napione, attuale sede del Museo Casa Mollino. La mostra sembra ispirarsi ai versi di Proust: sono infatti gli oggetti raffigurati, con il loro potere narrativo, a svelare l’architetto, designer e fotografo torinese, e la misteriosa dimora che concepì come una tomba egizia. Una perfetta armonia platonica permea gli spazi, abbracciando ogni dettaglio, luce e ombra comprese. Queste ultime caratterizzano le opere di Perez e Schindler che, utilizzando tecniche differenti, ricreano il perfetto negativo-positivo d’immagine.

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DALLA FOTOGRAFIA ALLA PITTURA E RITORNO

Perez imprime su tela l’essenza solarizzata di Casa Mollino. Nel dettaglio di un quadro, l’opera Tears (1930-32) di Man Ray, omaggia colui che ha fatto di questa tecnica la sua inconfondibile cifra stilistica. L’elemento simbolico dell’occhio, inoltre, invita a ricercare con lo sguardo ulteriori indizi. I quadri ottenuti a partire da foto scattate nel 2019 si inseriscono nel filone di architetture d’interni, di cui la Collezione Maramotti possiede il dittico Casa

Malaparte del 2008. Le fotografie di Schindler, stampate su carta di cotone, hanno un’inedita tattilità, tipica dell’opera pittorica. Risultato di tre anni di lavorazione, propongono una stratificata lettura d’immagine, in cui simbolismo, composizione, prospettiva e luce ricreano un’atmosfera rarefatta. L’osservatore è guidato all’interno di un mondo in cui l’immaginario e il reale sembrano allinearsi sullo stesso piano e catturare l’anima stessa di Mollino. Nei giochi di specchi, tra i pattern dei muri, dietro l’angolo di una parete adornata da quello che Fulvio Ferrari, direttore del museo, chiama “esercito di farfalle”, tutto ci parla di Mollino.

EROS E FEMMINILITÀ

La riflessione filosofica trova la sua completezza armonica nell’elemento femminile, evocato dal design dei complementi e dalle polaroid di Mollino. Fotografie di donne a cui si affiancano oggetti di uso quotidiano che, come nei collage di Schwitters, vengono nobilitati. Analogamente all’artista torinese, Brigitte ha realizzato fotografie che incarnano l’espressione concettuale del “fare foto”, opposta allo “scattare”. Immagini sensuali, in sintonia con l'opera di Mollino, che fanno dell’eros un raffinato gioco di linee, proporzioni ed eleganza. Trasversale nell’opera dei due artisti, l’elemento femminile completa, come nel Tao orientale, l’equilibrio cosmico. Casa Mollino è un microcosmo all’interno del macrocosmo, questa la sintesi degli stratificati “insides” di una dimora che metaforicamente compone e svela l’identità nascosta di uno dei più interessanti personaggi dell’ultimo secolo.

fino al 16 maggio

MOLLINO/INSIDES Catalogo Silvana Editoriale

COLLEZIONE MARAMOTTI Via Fratelli Cervi 66 – Reggio Emilia 0522 382484 collezionemaramotti.org

in alto: Veduta della mostra Mollino/Insides, Collezione Maramotti, Reggio Emilia 2020. Photo Roberto Marossi a sinitra: © Maurizio Ceccato per Grandi Mostre


FOTOGRAFIA / MOLLINO / REGGIO EMILIA

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Mollino e il misticismo. Parola a Sara Piccinini

Senior Coordinator della Collezione Maramotti

MOLLINO E LA FOTOGRAFIA

+ Nel 1949 pubblica Il messaggio dalla camera oscura con 323 riproduzioni fotografiche di 132 autori

MOLLINO E L’ARCHITETTURA

+ 1936-40 Società Ippica Torinese 1946-47 Slittovia al Lago Nero a Sauze d’Oulx 1955 Casa del Sole a Cervinia 1964-72 Palazzo degli Affari a Torino 1965-73 Ristrutturazione del Teatro Regio di Torino

MOLLINO E IL DESIGN

+ 1947 Lampada Cadma 1949 Sedia Gaudí 1950 Tavolo Arabesco 1953 catalogo Zanotta Poltrona Gilda 1955 con Enrico Nardi Bisiluro DaMolNar

Questa mostra nasce dall’ingresso di un’opera di Perez nella collezione permanente in cui per la prima volta è raffigurato un interno. L’artista ha sempre dipinto edifici, vivendoli come ritratti delle persone che li avevano concepiti o come visioni utopistiche del progresso, nel caso di architetture moderniste. Negli Anni Novanta decide di dedicarsi agli interni: ambienti densi di significati. Pertanto, dato che Casa Mollino è stato il primo di questa serie, abbiamo pensato a una mostra che mettesse in dialogo i due artisti. La dimora presenta una serie di significati complessi, ancora allo studio, evinti da egittologi, psicologi, antropologi. Sono letture ipotetiche, tuttavia plausibili, poiché Mollino, che l’ha disegnata, costruita e abitata, non ha lasciato documenti scritti. Questa Wunderkammer può continuare a svelare segreti e corrispondenze per sempre, Mollino aveva una conoscenza sconfinata ed era molto interessato alla cultura classica ed egizia. Mentre lavoravamo a questo progetto insieme a Fulvio Ferrari, direttore del museo, abbiamo intercettato il lavoro di Brigitte Schindler, che è molto intenso e coglie le particolari vibrazioni della casa, quelle

connessioni tra gli oggetti, le luci, gli specchi relativamente riflettenti. La qualità degli scatti è quasi pittorica. Questo dettaglio, opposto al procedimento di Enoc, che parte da fotografie per fare pittura, ci è piaciuto molto. Non conosciamo il fine di Mollino per questa casa. Per il direttore Ferrari, che la studia da oltre vent’anni, si tratta di un luogo costruito in preparazione della vita ultraterrena, non una dimora in cui soggiornare. Contiene simboli di morte e rinascita. Non ultimo, la natura con i suoi elementi è molto presente. Entrando si sente l’acqua del fiume, che scorre accanto, si vedono le farfalle, la carta animalier e le conchiglie. Chiamava le sue modelle larve luminescenti nella notte. Pertanto si crede vi sia una corrispondenza tra queste polaroid di donne, in cui glorifica la bellezza anche con ritocchi, e le farfalle, tratte dalle pagine di un libro Hachette, incorniciate nella boiserie della stanza, dove è posizionato il letto ad arca. Curava nei minimi dettagli i set, mandava a prendere abiti da Parigi. Non ha mai firmato nessuno di questi lavori, oltre a non averli mai mostrati. Probabilmente lui non li riteneva un’operazione artistica, bensì uno studio sulla bellezza.

Brigitte Schindler: fotografare Mollino Non ho mai lavorato in una casa da sola, durante la notte e senza luce, perfino a Capodanno. Sentivo di avere un appuntamento con la mia macchina fotografica, per esplorare uno spazio che non si vede, che impone di dimenticare la logica; dove c’è una console, scopri nuovi significati al di là dell’oggetto apparente. La prospettiva gioca con il cervello e suggerisce nuove letture spostando il piano dei significati, rendendo le stanze talvolta irriconoscibili. Questo era il mio punto di vista, non quello di un architetto, bensì la creazione di un mondo diverso, che esplora il mistero, dietro a ciò che a prima vista è una semplice abitazione. Gli specchi recano le tracce del tempo, affiorano le pennellate

d’argento, particolarità che non avevo mai visto. All’interno di questa casa, immersa nella città, vi è pace e armonia. Mi ispiro ai maestri fotografi della luce. Degli scatti di Mollino mi intriga il gioco per gli occhi, una schiena di donna, ad esempio, affiancata alle linee curve di una sedia. Nei miei scatti, pezzi unici su carta di cotone, ho voluto creare o aggiungere qualcosa con la mia percezione di donna, senza copiare. Ancora oggi vi sono angoli che devo esplorare. Casa Mollino per me è stata questo, la generosità di poter avere tutto il tempo per realizzare un progetto, che è piaciuto. Le foto sono scatti unici, atipici per il mezzo, stampati su carta.


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GRANDI CLASSICI / RAFFAELLO / BRESCIA E MILANO

Raffaello tra Brescia e Milano Stefano Castelli a grandezza di un maestro si vede anche dall’eco della sua opera, soprattutto quando questa dura per secoli. Le due mostre (accompagnate da numerose iniziative collaterali) con cui Brescia e Milano celebrano il cinquecentenario della morte di Raffaello (Urbino, 1483 – Roma, 1520) si concentrano sulle stampe che nei secoli hanno riprodotto e reinterpretato la sua poetica.

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BRESCIA E RAFFAELLO

Al Museo di Santa Giulia, la rassegna bresciana parte dal Cinquecento e giunge all’Ottocento, riunendo più di cento stampe provenienti dai Musei civici. “L’intenzione è sottolineare il legame che Brescia ha con Raffaello, testimoniato in particolare dalla presenza di due dipinti giovanili alla Pinacoteca Tosio Martinengo”, spiega la curatrice Roberta D’Adda. “Tra le opere presenti citerei innanzitutto un prezioso foglio con il ‘Giudizio di Paride’: un’incisione nella quale Marcantonio Raimondi lavora la lastra prima che con il bulino con una pietra pomice – si crea così una sorta di tono di fondo che si è perso dopo le primissime tirature. Una delle cose che colpisce di più i visitatori sono invece i pilastri delle Logge vaticane di Giovanni Volpato: incisioni dalle quali emerge la straordinaria ricchezza ed eleganza delle invenzioni raffaellesche. Una serie che, dice Alessandro Verri in una lettera, ha cambiato il gusto dell’Europa”.

L’EREDITÀ DI RAFFAELLO

Esplorare l’eredità di un maestro significa anche riscontrare i cambiamenti nella percezione del suo stile. Protraendo la sua indagine lungo diversi secoli, la mostra sottolinea come ci siano stati diversi Raffaello a seconda del mutare dello spirito del tempo. “Le prime due sale, ad esempio, ci presentano un Raffaello che noi non conosciamo, con la produzione di bottega di Marcantonio Raimondi che lavorava non a riprodurre grandi affreschi e dipinti, ma disegni. La nostra idea di Raffaello si viene attestando dalla fine del Settecento, legata alle madonne, alle sacre famiglie, ai ritratti... Il soggetto più riprodotto nei vari esemplari in mostra non sono, come potremmo pensare, le Stanze vaticane, ma le scene della Bibbia delle Logge vaticane”.

LA MOSTRA A MILANO

L’altro capitolo della doppia mostra su Raffaello è programmato per fine novembre al Castello Sforzesco di Milano. Curato da Claudio Salsi, ricostruisce l’apporto di Giuseppe Bossi al “mito” di Raffaello, proponendo disegni, stampe e maioliche rinascimentali ispirate all’opera del maestro. “Mentre a Brescia Paolo Tosio acquistava due Raffaello, a Milano Giuseppe Bossi faceva molto per coltivare il mito del pittore”, spiega Roberta D’Adda. “Milano e Brescia erano molto legate, la cultura di Tosio era quella di Bossi e viceversa. In questo anno così difficile abbiamo pensato di unirci almeno nel nostro territorio per riflettere sul fatto che la Lombardia ha – paradossalmente – una tradizione raffaellesca”.

LE ALTRE MOSTRE IN ITALIA fino al 10 gennaio

RAFFAELLO. L’INVENZIONE DEL DIVINO PITTORE a cura di Roberta D’Adda Catalogo Skira MUSEI DI SANTA GIULIA Via Musei 81/b – Brescia bresciamusei.com

PINACOTECA DI BRERA – MILANO Performing Raffaello

fino al 7 febbraio COMPLESSO MUSEALE DI PALAZZO DUCALE – MANTOVA Raffaello trama e ordito. Gli arazzi di Palazzo Ducale a Mantova

fino al 6 gennaio PALAZZO BALDESCHI – PERUGIA Raffaello in Umbria e la sua eredità in Accademia

dal 27 novembre al 7 marzo

GIUSEPPE BOSSI E RAFFAELLO AL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO a cura di Claudio Salsi Catalogo Skira

CASTELLO SFORZESCO Piazza Castello – Milano milanocastello.it in alto: Raffaello Sanzio, Angelo (part.), 1500-01, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

fino al 29 novembre COMPLESSO DI CAPO DI BOVE SULL’APPIA ANTICA – ROMA La lezione di Raffaello. Le antichità romane fino al 30 gennaio ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA – ROMA Raffaello. L’Accademia di San Luca e il mito dell’Urbinate


DIETRO LE QUINTE / COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM / VENEZIA

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Le risposte dei musei alla pandemia Arianna Testino n un autunno che fronteggia l’ombra lunga dell’emergenza sanitaria, abbiamo deciso di dare voce alle istituzioni culturali impegnate nel difficile compito di mantenersi accessibili al pubblico. A inaugurare questa serie di interventi, raccontando il “dietro le quinte” della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia in un’epoca incerta come quella attuale, è la sua direttrice Karole P. B. Vail.

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Quali ripercussioni concrete ha avuto sulla vita del museo l’emergenza sanitaria che stiamo attraversando? Dopo 90 giorni di chiusura, il 2 giugno abbiamo riaperto, cautamente, il sabato e la domenica fino ad arrivare, il 2 settembre, alla riapertura quotidiana, ma solo della collezione permanente. La mostra temporanea rimane chiusa. I costi per la sua riapertura sono troppo alti e il budget del museo non permette di coprirli. Stiamo portando avanti la campagna di raccolta fondi Insieme per la PGC, affinché la Collezione possa tornare a garantire non solo oggi ma in futuro l’apertura quotidiana, il programma di mostre e la gratuità delle attività per il pubblico. È anche grazie ai primi incoraggianti risultati che oggi siamo aperti sei giorni su sette. La strada per raggiungere l’obiettivo è ancora lunga, l’entusiasmo non ci manca, alimentato da gesti come quello di Anish Kapoor, il quale ha realizzato un’opera in edizione limitata che donerà a chi a sua volta sosterrà la campagna. Da direttrice di una delle istituzioni culturali più radicate nel tessuto veneziano, quali strategie sta mettendo in campo per far fronte alle limitazioni imposte dalla pandemia? Fin dalla riapertura abbiamo rispettato la normativa per il contenimento del Covid-19, garantendo una visita in totale sicurezza, con ingressi contingentati. Seguendo questa modalità, la nostra capienza media è ora oltre la metà della media giornaliera pre-Covid. Ci tengo a dire che proprio dalla riflessione sulle limitazioni imposte da questo “nuovo presente” è nato il progetto SuperaMenti, quattro workshop gratuiti che il museo insieme a Swatch Art Peace Hotel propone agli under 25. In questo momento di grandi incertezze, siamo felici di poter instaurare un dialogo con la cosiddetta Generazione Z e poter offrire loro uno strumento per superare i limiti di questa attualità contingente.

Suppongo che la crisi globale abbia messo in discussione anche il futuro palinsesto espositivo della Collezione Peggy Guggenheim. Come si pianifica una mostra al tempo della pandemia? Le perdite dopo la chiusura sono state pesanti. La Collezione Peggy Guggenheim è una fondazione non profit senza scopo di lucro, le cui fonti principali di entrate sono la biglietteria, i Museum Shop e l’affitto degli spazi esterni per eventi privati. Abbiamo dovuto posticipare alla primavera del 2022 la mostra dedicata a Edmondo Bacci mentre siamo felici di poter confermare Surrealismo e magia. La modernità incantata organizzata con il Museum Barberini di Potsdam, a cura di Grazina Subelyte. La mostra si terrà dall’8 maggio al 13 settembre 2021, per poi spostarsi a Potsdam.

Durante il lockdown abbiamo cercato di potenziare al massimo i nostri programmi digital e oggi sempre di più stiamo cercando di investire in questo. Ad aprile abbiamo lanciato il nuovo sito del museo. Per quanto la comunicazione sui nostri canali social fosse già ricca, senz’altro questi ultimi mesi ci hanno portati a potenziarla, creando veri e propri palinsesti giornalieri, che ci permettono di fidelizzare una grandissima parte di pubblico impossibilitata a viaggiare. Ciò naturalmente non significa che per noi non conti la visita reale, che credo sia insostituibile, ma in questo particolare momento di incertezza siamo proiettati sempre di più verso nuove piattaforme digitali che permettano di sviluppare l’e-commerce, così come di ottimizzare l’acquisto dei biglietti online.

Le crisi rappresentano spesso anche una opportunità: crede che questa massima possa valere per la Collezione Peggy Guggenheim guardando al futuro?

Prendendo come punto di osservazione il museo che lei dirige e la città di Venezia, come vede il mondo di domani? E con quale augurio? Venezia è una città meravigliosa, ricca di storia, che tutti desiderano visitare, ma è altrettanto fragile e deve essere rispettata. Il nostro museo ha senz’altro bisogno di visitatori, che siano turisti ma anche residenti. Credo che la città debba trovare un equilibrio in un’offerta che sia sì rivolta ai turisti, ma anche ai suoi abitanti. Si devono creare nuove opportunità di lavoro, potrebbe diventare un hub per la ricerca sul clima, l’ambiente, la sostenibilità, ad esempio. Ci sono molti spazi che potrebbero essere deputati al co-working, come succede in altre città europee.

COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro 701 – Venezia 041 2405411 guggenheim-venice.it in alto: Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Photo Matteo De Fina


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PERCORSI /PIEMONTE

5 indirizzi in Piemonte a cura di Santa Nastro Due giornalisti, un filosofo e un architetto offrono cinque consigli per un itinerario alternativo in Piemonte.

LA MOSTRA

E luce fu è la mostra promossa da Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e Fondazione CRC. Quattro artisti, travolti dalla magnifica ossessione della luce, da sempre spirito guida, schiavitù e delizia nella creazione di un’opera, inseguono il tema, in un percorso intergenerazionale che coinvolge Giacomo Balla, Olafur Eliasson, Lucio Fontana e Renato Leotta. I lavori, inclusi nelle collezioni del Castello ed esposti presso il Complesso Monumentale di San Francesco a Cuneo, sono stati selezionati dalla direttrice Carolyn Christov-Bakargiev e da Marcella Beccaria, con la consulenza curatoriale di Marianna Vecellio per il progetto di Renato Leotta, portando gli spettatori a immergersi in un allestimento ambientale che trae ispirazione dal luogo ospite. La luce segna il movimento nelle opere di Balla – basti pensare a Fuoco d’artificio del 1917, in pieno afflato futurista; la luce è il punto di partenza e arrivo, è la bussola nelle grandi installazioni di Eliasson, che trae linfa dagli smisurati paesaggi e dalle luminescenze delle sue terre di origine, Islanda e Danimarca: non a caso c’è The sun has no money, 2008, dove chiarore e ombre lottano strenuamente per conquistare lo spazio dell’abside. Di Fontana è in mostra l’Ambiente Spaziale del 1967 a luce di Wood, mentre per Renato Leotta è presente Sole, del 201920, realizzato nell’intero ambiente della Chiesa con fari di automobili dismesse che rischiarano il percorso alla scoperta delle architetture.

fino al 14 febbraio E LUCE FU a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN FRANCESCO Via Santa Maria 10 – Cuneo 0171 452711 fondazionecrc.it

TORINO

CUNEO

LA FONTANA DEL TRAFORO DEL FREJUS Piazza Statuto

PARLAPÀ Corso Principe Eugenio 17 011 4365899 parlapa.com TORINO

IL MONUMENTO

Per molto tempo sono passato, con disinteresse giustificato solo dalla fatica di tornare tardi la sera dall’università, davanti a un grande monumento al centro di Piazza Statuto a Torino: la fontana del Traforo del Frejus. Un giorno, per caso, ho alzato lo sguardo. Scoprire qualcosa di più sul monumento è stata una conseguenza naturale data dallo stupore: nato da un’idea del Conte di Veglio, che era presidente dell’Accademia delle Belle Arti, nel 1860 (poi terminata nel 1879), è una immensa piramide costituita da grandi pietre che provengono dal Traforo del Frejus con in cima un maestoso Genio Alato che porta sul capo una stella a cinque punte. Sui vari massi della fontana si trovano invece, bellissime, le statue di alcuni Titani abbattuti dal Genio stesso. Sembrerebbe la classica allegoria della vittoria della Ragione (il Genio

NH COLLECTION Piazza Carlo Emanuele II 15 011 8601611 nh-collection.com

I PARCHI FLUVIALI LUNGO IL PO E LA DORA


PERCORSI / PIEMONTE

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Olafur Eliasson, The sun has no money, 2008. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, in comodato da Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Photo Paolo Pellion

Alato) sulla forza bruta (i Titani) ma in realtà, ed è per questo che adoro questo luogo, le statue dei Titani sono la sofferenza cristallizzata degli uomini che lavorarono alla costruzione del traforo. Il monumento, dunque, è in realtà un memoriale posto in quella che all’epoca era la fine della città: dove il sole scompare e dove iniziano le tenebre secondo l’articolazione mistica della geografia della magia di Torino bianca e di Torino nera. Memoria, morte, magia, misticismo erano sempre stati lì, eppure non li vedevo: i monumenti obbligano a guardarsi intorno. (Leonardo Caffo, filosofo)

IL LUOGO

È una bella giornata di primavera o autunno? Allora è un’ottima occasione per saltare su una bicicletta e andare alla scoperta di una dimensione sorprendente della città, quella che si sviluppa lungo gli argini dei fiumi. Ve la sentite di pedalare per 50 chilometri? Allora partite dai Murazzi di Piazza Vittorio Veneto, il cuore ormai perduto della vita notturna di Torino, rigorosamente a pelo d’acqua. Se viaggiate in direzione sud, passerete dagli antichi fasti del Parco del Valentino ai campi agricoli alla confluenza con il Sangone, accompagnati dai runner e dai canottieri che vogano sul

fiume. Se invece pedalate verso nord, passando sotto il balcone di Casa Mollino, giungerete presto agli ampi spazi del Parco Colletta e del Parco del Meisino, dove ogni anno stormi di uccelli migratori si fermano a riposare sui tronchi d’albero affioranti dall’acqua del fiume alla confluenza con la Stura. A valle della diga di Bertolla c’è un’isola, tre volte più grande del Valentino, totalmente inaccessibile all’uomo: una riserva di wilderness praticamente sconosciuta, un’inaspettata oasi di biodiversità a due passi dal centro e dalla tangenziale. Infine, sulla via del ritorno, non mancate una deviazione lungo le sponde della Dora, verso ovest: attraverserete il nuovo distretto della creatività e raggiungerete un sorprendente parco pubblico ricavato da vecchie strutture industriali di stabilimenti siderurgici. Torino è una città operosa, ma lungo i suoi fiumi la sentirete respirare. (Luca Poncellini, architetto).

MANGIARE

Parlapà in piemontese è un’esclamazione tipo “caspita” o “accidenti”. Ma è anche il nome di un’enoteca con cucina a due passi da Piazza Statuto dove si mangia tra bottiglie di whisky e calvados. Io amo il rognone, non proprio facile da trovare: qui lo fanno trifolato al limone ed è una vera delizia, come le animelle & granelle al marsala o le “grive” monferrine con il fegato nel budello di maiale. I vini sono italiani, i distillati di tutto il mondo e il bello è che non si deve fare un mutuo. (Rocco Moliterni, giornalista)

DORMIRE

In questo edificio, in una delle più belle piazze di Torino, un secolo fa c’era la redazione dell’Ordine Nuovo di Gramsci. Era un palazzo di ringhiera, ora è diventato un hotel a quattro stelle, l’NH Carlina, ma ha conservato il suo fascino discreto. La quiete del cortile ti catapulta lontano dal centro città, così ci vengo volentieri d’estate a leggere i giornali o a sorseggiare un Margarita. Nella lounge ci si può perdere con i lavori tanto di artisti internazionali, come Per Barclay, quanto di geni torinesi, come Carlo Mollino. (Rocco Moliterni, giornalista)


IL DISEGNO DI HENRY MOORE AL MUSEO NOVECENTO DI FIRENZE enry Moore torna a Firenze. A quasi cinquant’anni dalla memorabile mostra al Forte di Belvedere del 1972, che vide protagonista il maestro della scultura inglese, il Museo Novecento gli rende omaggio con Il disegno dello scultore. Henry Moore, mostra curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions, e Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento. L’esposizione, organizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation, dal 13 novembre al 23 maggio vedrà il museo fiorentino ospitare una corposa selezione di disegni, circa settanta, assieme a grafiche, sculture e altri oggetti e un programma video dedicato all’artista, cui si deve una profonda rilettura dell’umanesimo in arte. Le forme naturali – rocce, ciottoli, radici e tronchi –, gli animali, ma anche i teschi e poi la relazione tra lo scultore e la materia, esemplificata dai disegni che ritraggono le mani dell’artista o la sua figura al lavoro nel paesaggio, divengono il fulcro della mostra, che si propone come occasione per entrare nel vivo della genesi concettuale e formale del suo lavoro creativo. Traendo spunto da una rilettura di alcuni temi centrali nella produzione di Moore, l’esposizione intende proporre un approfondimento sul valore del disegno nella sua pratica pressoché quotidiana e sulla sua relazione con la scultura. Secondo Moore, infatti, “l’osservazione della natura è decisiva nella vita dell’artista. Grazie a essa anche lo scultore arricchisce la propria conoscenza della forma, trova nutrimento per la propria ispirazione e mantiene la freschezza di visione, evitando di cristallizzarsi nella ripetizione di formule”. Come una sorta di mostra nella mostra, sarà esposta anche una selezione di piccole sculture presenti in collezioni private fiorentine e non solo, a sancire il legame con il territorio toscano inaugurato con la celebre retrospettiva del ’72 al Forte di Belvedere a cura di Giovanni Carandente.

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LA MOSTRA

Nella sala al piano terra del Museo Novecento viene esposto eccezionalmente un cranio di elefante proveniente dallo studio dell’artista, su cui Moore si è applicato costantemente nel corso degli anni realizzando una serie di incisioni, che sottolineano l’analisi delle forme da punti di vista variati e con soluzioni formali molteplici. Con Il disegno dello scultore. Henry Moore si accende quindi un faro sulla produzione grafica di questo protagonista della scultura

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dal 13 novembre al 23 maggio

IL DISEGNO DELLO SCULTORE. HENRY MOORE

MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze 055 286132 museonovecento.it a cura di Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

contemporanea, che nel corso della sua intensa attività ha avuto modo di confrontarsi non solo con la scultura primitivista ed extraeuropea e con le sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche – su tutte, le esperienze di Brancusi e Picasso –, ma anche con la tradizione della grande arte italiana dei secoli precedenti, in particolare con quella dei maestri rinascimentali attivi a Firenze e in Toscana. La mostra, significativa per


LA VITA DI HENRY MOORE

sopra: Henry Moore al lavoro su una lastra all'acquaforte per l'Elephant Skull album, Perry Green 1970 circa. Photo Errol Jackson. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation a sinistra: Henry Moore, Rock in Landscape, 1982. Photo Nigel Moore, Menor. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

presenza di opere e per il carattere inedito della scelta, frutto di una preparazione scientifica che ha impegnato il museo negli ultimi due anni, rinsalda pertanto il legame di Moore con il territorio, che tuttora ospita opere dell’artista – ad esempio il Guerriero nel Chiostro di Santa Croce, la monumentale scultura in marmo nella vicina Prato – e che ha accolto, oltre all’importante esposizione del 1972, una mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio nel 1987. Va ricordato poi che Firenze ha rappresentato un momento saliente e forse cruciale nella formazione del genio artistico di Moore, giunto in città per la prima volta nel 1925, durante il suo primo viaggio di studio in Italia, realizzato grazie a una borsa di studio messa a disposizione dal Royal College of Art. Fu quella l’occasione per ammirare e osservare le creazioni dei grandi maestri del passato, tra cui Giotto, Donatello, Masaccio e soprattutto Michelangelo. “Lo scopo principale dei miei disegni è di aiutarmi a scolpire. Il disegno è infatti un mezzo per generare idee per la scultura, per estrarre da sé l’idea iniziale, per organizzare le idee e per provare a svilupparle… Mi servo del disegno anche come metodo di studio e osservazione della natura (studi di nudo, di conchiglie, di ossi e altro). Mi accade anche, a volte, di disegnare per il puro piacere di farlo”, ha dichiarato Moore.

I TEMI

Soffermarsi sull’opera grafica dell’artista e sui temi a lui prediletti significa allora entrare nel vivo della genesi della sua arte. Il disegno appare non solo come esercizio preparatorio

Henry Moore (Castleford, Yorkshire, 1898 – Much Hadham, Hertfordshire, 1986) è considerato uno degli scultori più significativi del XX secolo. Nato in una famiglia di minatori e settimo di otto figli, Moore mostra da subito un precoce interesse per la scultura, ma, persuaso dal padre, si forma come insegnante prima di arruolarsi nell’esercito britannico allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nel 1919 entra nella Leeds School of Art, dove completa il biennio di disegno in un anno e diventa l’unico studente del corso di scultura. Dal 1921 al 1924 frequenta il Royal College of Art a Londra, rimanendovi in qualità di insegnante fino al 1931. Nel 1925 compie un viaggio in Italia della durata di sei mesi, visitando Roma, Firenze, Assisi, Pisa, Siena, Padova, Ravenna e Venezia: ha così modo di studiare le opere dei grandi maestri come Giovanni Pisano, Giotto, Masaccio, Michelangelo, Donatello. Numerose commissioni e mostre negli Anni Trenta hanno contribuito ad accrescere la reputazione di Moore, come la sua prima personale del 1928 alla Warren Gallery o la prima commissione pubblica per la sede della London Transport, per la quale realizza un bassorilievo in pietra collocato sopra alla stazione della metropolitana di Londra St. James. Divenuto insegnante al Royal College, incontra Irina Radetsky, una studentessa di pittura che sposa l’anno seguente. I due trasferiscono ad Hampstead la loro casa studio, dove frequentano giovani artisti tra cui Naum Gabo, Barbara Hepworth, László Moholy-Nagy e altre personalità di rilievo dell’avanguardia.

L’ASCESA AL SUCCESSO

Dal 1932 al 1939 Moore dirige il corso di scultura alla Chelsea School of Art, partecipando inoltre a numerose esposizioni, come quella organizzata presso la Mayor Gallery di Londra con il gruppo Unit One, “espressione di uno spirito autenticamente contemporaneo in arte” secondo le parole del pittore Paul Nash; e ancora la Mostra Internazionale Surrealista alle New Burlington Galleries di Londra; Cubismo e Arte Astratta al Museum of Modern Art di New York; la Mostra Internazionale di Arte Astratta allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Nel 1940, in seguito al bombardamento del suo studio, si trasferisce a Much Hadham nell’Hertfordshire, dove trascorre il resto della sua vita. Dagli Anni Quaranta diviene celebre, oltre che come scultore, anche come disegnatore, ritraendo le persone che si rifugiavano nella metropolitana di Londra durante i bombardamenti nella celebre serie Shelter Drawings. Nel 1946 il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima grande retrospettiva e nel 1948 l’artista ottiene il prestigioso Premio Internazionale di Scultura alla Biennale di Venezia. Dagli Anni Cinquanta la sua carriera è caratterizzata dal successo internazionale, consacrata da numerose commissioni in Inghilterra e in giro per il mondo, come la prestigiosa commissione per la sede parigina dell’UNESCO per la quale realizza una Reclining Figure scolpita direttamente nelle cave di Carrara. È del 1951 il documentario Henry Moore prodotto da John Read per la BBC, il primo film mai dedicato a un artista vivente. Nello stesso anno si tiene anche la prima retrospettiva alla Tate di Londra. Nel 1974 inaugura a Toronto l’Henry Moore Centre alla Art Gallery of Ontario, alla quale fa dono di più di duecento opere tra sculture, disegni e grafiche.

LA MOSTRA A FIRENZE DEL 1972

Nel 1972 viene allestita a Firenze, nella suggestiva cornice del Forte Belvedere, la più grande mostra mai dedicata a Henry Moore, in collaborazione con il British Council, inaugurata alla presenza della principessa Margaret. “No better site for showing sculpture in the open-air, in relationship to architecture, & to a town, could be found anywhere in the world, than the Forte di Belvedere, with its impressive environs & its wonderful panoramic views of the city. – Yet its own powerful grandeur and architectural monumentality make it a frightening competitor for any sculpture – and so I know that showing my work here would be a formidable challenge, but one I should accept”, scrive l’artista in una lettera indirizzata a Luciano Bausi, allora sindaco di Firenze. Nella sede fiorentina sono esposte più di duecento opere tra sculture monumentali all’esterno sui bastioni, disegni e opere di bronzo o pietra di piccole dimensioni. La mostra risulta una tappa fondamentale nella cultura di Firenze e ha la funzione di un evento iniziatico. Si può dire che con quell’evento la città prese confidenza con il linguaggio dell’arte moderna e contemporanea.

LA HENRY MOORE FOUNDATION

Nel 1977 l’artista crea la Henry Moore Foundation per amministrare la vendita e l’esposizione delle sue opere, l’anno seguente dona 36 sculture alla Tate Gallery di Londra. Nel 1982 vengono inaugurati la Henry Moore Sculpture Gallery e il Centre for the Study of Sculpture a Leeds e due anni dopo l’artista dona l’intera proprietà di Perry Green alla Fondazione, perché la gestisca in perpetuo incoraggiando le giovani generazioni di artisti e la promozione della scultura nella vita culturale del Paese. L’artista muore il 31 agosto 1986 all’età di 88 anni nella sua casa di Perry Green, dove ha sede oggi la Henry Moore Foundation.

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GLI ALTRI APPUNTAMENTI AL MUSEO NOVECENTO L’intensa stagione in corso al Museo Novecento propone un programma ricco di mostre, eventi e talk dedicati ai grandi maestri dell’arte internazionale e alla promozione di giovani artisti emergenti.

FRANCOLINO, MONTINI, GURRIERI E LAKO Tra gli appuntamenti da non perdere, si segnalano le quattro mostre temporanee aperte al pubblico il 25 settembre. Humus di Andrea Francolino (fino al 17 dicembre), a cura di Sergio Risaliti e Luca Puri, progetto site specific che vede 28 bandiere installate nel loggiato rinascimentale del museo corrispondenti ai 27 Paesi dell’Unione europea e alla bandiera che li raccoglie tutti, la cui disposizione rievoca quella dei rappresentanti dei singoli Paesi all’interno del Parlamento europeo riuniti insieme a decidere sulle sorti del pianeta – una riflessione che ruota attorno a temi come l’emergenza ecologica, la salvaguardia del pianeta e la creazione di un terreno comune tra le nazioni. Incanto di Irene Montini e Rocco Gurrieri (fino al 28 gennaio), a cura di Sergio Risaliti e Luca Puri, una fiaba noir dalle atmosfere oniriche articolata tra film, fotografie e una grande scultura a forma di pianta, tanto miracolosa quanto malefica, perno centrale della narrativa di questa vicenda misteriosa. Suspense di Lori Lako (fino al 23 novembre), a cura di Sergio Risaliti, progetto che parte da un unico lavoro di grandi dimensioni incentrato sulla riflessione attorno al passato recente dell’Albania, Paese natale dell’artista, per trasformarsi in una denuncia globale circa l’impatto dannoso dell’uomo sull’ambiente. Infine Paradigma. Il tavolo dell’architetto: on-line (fino al 28 gennaio), a cura di Laura Andreini, ciclo espositivo con cadenza quadrimestrale che ha visto avvicendarsi i lavori di tanti protagonisti dell’architettura internazionale. Durante il lockdown, il progetto si è trasferito sulle piattaforme digitali del museo e della rivista specializzata Area, coinvolgendo numerosi studi professionali, ai quali è stato chiesto di riflettere sulla dimensione peculiare del lavoro dell’architetto.

MARIO MAFAI Tra gli appuntamenti dedicati ai maestri del Novecento, la monografica intitolata a Mario Mafai (Roma, 1902-1956), pittore romano esponente della “Scuola di via Cavour”, in mostra fino al 25 febbraio. L’esposizione, a cura di Sergio Risaliti e Stefania Rispoli in collaborazione con Stefania Delia Previti e Rebecca Ricci, offre una selezione di opere provenienti dalla collezione permanente del museo che racconta i decenni centrali della carriera del pittore a cavallo del secondo conflitto mondiale e si inserisce nell’ambito del progetto Dall’Aula al Museo, realizzato in collaborazione con il Dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze.

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MCARTHUR BINION Modern Ancient Brown è la prima personale in un’istituzione europea del grande artista afroamericano McArthur Binion, a cura di Lorenzo Bruni e realizzata in collaborazione con la Galleria Massimo De Carlo (fino all’11 febbraio). La mostra presenta una serie di opere realizzate appositamente per il museo, tra disegni, dipinti e una grande pala su tavola intitolata proprio Modern Ancient Brown, che riprende il nome della fondazione istituita da Binion nel 2019 a Detroit per promuovere il lavoro degli artisti black che si dedicano all’interdisciplinarietà tra arti visive e letteratura. Nella sala cinema del museo viene presentato in anteprima mondiale il documentario sull’artista intitolato Stuttering: Standinf: Still (Afterthoughts), realizzato dalla filmmaker Marika Mairova e prodotto per l’edizione di Art Basel 2020 rimandata a causa della pandemia.

LE COLLEZIONI DELLA RAGIONE E IANNACCONE Vissi d’arte. Cento capolavori dalle collezioni Della Ragione e Iannaccone è un eccezionale percorso espositivo con opere da Carrà a Morandi, da Guttuso a Vedova e tanti altri maestri italiani del Novecento in corso al Museo della Città di Livorno (fino al 31 gennaio). La mostra, a cura di Sergio Risaliti, Eva Francioli ed Elena Pontiggia riunisce per la prima volta le opere di due importanti collezioni dedicate all’arte italiana del Novecento: quella di Alberto Della Ragione, custodita al Museo Novecento di Firenze, e quella di Giuseppe Iannaccone, entrambe caratterizzate dalla presenza di opere di artisti italiani realizzate a cavallo tra le due guerre.

MARINELLA SENATORE Ultimo appuntamento di questo autunno l’intervento site-specific che l’artista Marinella Senatore realizzerà il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, nel loggiato rinascimentale del museo. L’artista campana, conosciuta a livello internazionale per le sue spettacolari parate e installazioni luminose, realizzerà Assembly, un wall-painting, sorta di nastro continuo di immagini montate come un collage con le quali esprime le sue idee rispetto alle grandi questioni dei diritti civili e della difesa delle minoranze. L’artista sarà anche protagonista di un talk sul suo lavoro e sulla sua poetica-politica legato al dibattito sulla violenza di genere e sull’arte come strumento per contrastarla.

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

Henry Moore, Tree Trunks I, 1982. Photo Henry Moore Archive. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

dello scultore, concentrato a bloccare l’immaginazione per poi comprendere le forme e il loro sviluppo tridimensionale. Emerge infatti, dalla selezione delle opere, una pratica anche autonoma, poeticamente libera, che sembra indicare con estrema precisione quali siano state fin dalla giovinezza le sue fonti d’ispirazione naturali: “Il profondo interesse che nutro per la figura umana non mi ha impedito di prestare, da sempre, una grande attenzione alle forme naturali, come ossi, conchiglie, sassi e così via”. È ancora lo stesso Moore a dichiarare, inoltre: “La natura fornisce allo scultore un repertorio illimitato di forme e di ritmi (reso ancor più vasto dal telescopio e dal microscopio) che gli permette di arricchire immensamente la propria esperienza della forma… I sassi e le rocce ad esempio mostrano il modo in cui la natura lavora la pietra… nelle rocce, nel loro ritmo nervoso, irregolare e discontinuo, si ha la dimostrazione di come si possa agire sulla pietra spaccandola, tagliandola in modo netto… Gli ossi presentano una sorprendente potenza strutturale unita a una forte tensione formale… Gli alberi (i tronchi d’albero) insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni, rendendo agile la connessione tra le varie parti della struttura… Nelle conchiglie la natura ci offre l’immagine della forma dura e cava (scultura metallica) perfettamente conclusa in se stessa”. A partire da un’indagine sul rapporto di Henry Moore con il dato naturale e con i principi di ritmo e forma a esso sottesi, verrà costruita una narrazione che muove dalla relazione tra l’immagine dell’artista e il paesaggio roccioso, per poi svilupparsi intorno allo studio degli elementi naturali fino ad arrivare alla rappresentazione della forma primordiale. L’attenzione per la forza strutturale


I TEMI DELLA MOSTRA ALBERI

LE MANI DELL’ARTISTA

ROCCE

ANIMALI

che soggiace alle diverse conformazioni della natura, unita all’osservazione dell’anatomia umana e dello spazio circostante, costituisce il fondamento di una ricognizione su alcuni motivi iconografici ricorrenti nella produzione grafica di Moore. Tra questi, si distinguono i paesaggi, le rocce, gli alberi, gli animali, i monoliti e le mani dell’artista. La scelta di questi temi è stata dettata dalla volontà di “scavare” in una zona del lavoro di Henry Moore finora poco indagata e meno nota al grande pubblico italiano, la cui conoscenza è legata soprattutto alle sculture che rappresentano figure sdraiate e ai disegni della Seconda Guerra Mondiale. Collegati da una comune ricerca sulla struttura e sulla forma, i soggetti individuati consentono di rileggere la produzione di Moore rivelando importanti richiami alla tradizione anglosassone, tra pittura romantica di paesaggio (il riferimento è, in particolare, ai disegni dedicati agli eventi atmosferici, a Turner ad esempio) e osservazione più prettamente scientifica (si pensi ai disegni dedicati agli animali tipici di una certa cultura anglosassone).

MOORE A FIRENZE DAL FORTE DI BELVEDERE AL MUSEO NOVECENTO (Sala Cinema)

PAESAGGI

L’UMANESIMO DI MOORE

Era tempo ormai che la città di Firenze, culla dell’umanesimo in arte, tornasse a rendere omaggio a Henry Moore, lo scultore moderno che più di ogni altro ha saputo interpretare e sviluppare la lezione dei grandi maestri del Rinascimento, dando vita a un’esperienza nuova, diversa anche se consequenziale per molti aspetti a quella di Masaccio e Donatello, di Brunelleschi e di Michelangelo. “Un’arte che oggi è ancora più che mai esemplare in quanto al di là di argomentare sul suo astrattismo o meno si avverte sempre la presenza dell’uomo, nel suo rapporto con la storia e la natura, con i suoi tormenti e le sue inquietudini, con i suoi conflitti e le sue riconciliazioni”, ha dichiarato Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento. Un nuovo umanesimo in arte di cui Moore era consapevole: “Disapprovo l’idea secondo

TESCHI E OSSA

ARAZZO

SCULTURE IN BRONZO

cui l’arte contemporanea sarebbe un atto di fuga dalla realtà. Il fatto che l’opera d’arte non abbia come scopo la riproduzione fedele delle sembianze della natura non è motivo sufficiente per ritenere che essa sia uno strumento di evasione dal mondo e dalla vita: al contrario, è proprio attraverso l’arte che è possibile addentrarsi ancor più profondamente nella vita stessa. L’arte non è un sedativo o una droga, né un semplice esercizio di buon gusto, e neppure un abbellimento della realtà con piacevoli combinazioni di forme e di colori; è invece una espressione del significato della vita e un’esortazione a impegnarvisi con sforzi ancora maggiori”. Sono parole di Moore, che valgono come viatico a questa mostra e forse anche a chi voglia ancora trovare nell’arte uno strumento per migliorare il proprio rapporto con la realtà, gli altri e la natura che ci circonda.

LE MANI, LA NATURA, LA FORMA

Il motivo delle mani dell’artista permette infine di approfondire un altro tema caro a Moore. Le mani, infatti, non costituiscono solamente uno strumento indispensabile dell’attività artistica, ma sono a loro volta un soggetto che consente di veicolare un ampio spettro di emozioni, sensazioni, sentimenti. Al motivo della mano viene inoltre ricondotta l’origine della creazione e della costruzione della forma nello spazio. Le mani, oltre allo sguardo, diventano veicolo della connessione profonda tra l’oggetto naturale e la coscienza interiore di esso. Secondo lo scultore, infatti, “la percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma, infatti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità, viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano, e visualizzata mentalmente nella molteplicità dei suoi aspetti”.

Henry Moore, The Artist's Hands, 1982. Photo Sarah Mercer. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

in collaborazione con

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#23

RECENSIONI

fino al 17 gennaio

fino al 14 febbraio

a cura di Claudia Zevi Catalogo Silvana Editoriale

a cura di Hubertus Butin, Lisa Ortner-Kreil Catalogo Hatje Cantz Verlag

MARC CHAGALL. ANCHE LA MIA RUSSIA MI AMERÀ PALAZZO ROVERELLA Via Giuseppe Laurenti 8/10 – ROVIGO 0425 460093 – palazzoroverella.it Non è facile trovare un equilibrio tra divulgazione e ricerca, tra rigore scientifico e capacità di suscitare emozioni. Sono poche le mostre che centrano tale obiettivo e tra queste rarità possiamo includere Marc Chagall. Anche la mia Russia mi amerà. Le esposizioni sul pittore nato a Vitebsk non si contano: è amato sia dagli specialisti sia dagli appassionati d’arte, è in grado di coinvolgere – lui che visse appieno nei contesti delle Avanguardie, accogliendole solo in parte – anche chi è allergico all’arte non figurativa. I dipinti di Chagall ci proiettano infatti in un mondo favolistico, ci sembrano sogni a occhi aperti con i loro personaggi assurdamente colorati – le mucche blu, i cavalli rossi, i violinisti verdi – e con le loro atmosfere surreali. L’IMMAGINARIO DI CHAGALL Questo è proprio uno dei punti di partenza della mostra, che indaga le costanti ed esplicite interferenze tra l’opera di Chagall e la cultura popolare russa (con tutte le sue favole) da un lato, e quella ebraica, più intellettuale, dall’altro. Ecco allora che il preambolo dell’avvincente narrazione mette a fuoco lo shtetl, il villaggio abitato dalla comunità di ebrei dove l’artista vide la luce. Quelle piccole case, gli animali da cortile, i personaggi che paiono sempre viandanti popolano le sue prime tele (disprezzate dalla famiglia, che le usava come zerbini per asciugarsi le scarpe, come racconta il pittore nella sua autobiografia Ma vie, più volte citata in mostra). Molte di queste immagini, come quelle dipinte durante l’esperienza a San Pietroburgo

GERHARD RICHTER: LANDSCHAFT

KUNSTFORUM WIEN Freyung 8 – VIENNA (+43 1) 5373326 – kunstforumwien.at e il soggiorno a Parigi, trovano puntuali corrispondenze in fogli volanti illustrati, diffusissimi in Russia, chiamati lubki e che a Rovigo sono esposti vicino alle opere di Chagall; inoltre un’intera sala accosta queste ultime ad antiche icone – provenienti dalla collezione vicentina di Intesa Sanpaolo – e impressionano i collegamenti visivi e di significato che si instaurano tra le une e le altre. TEMI E PITTURA Ancora originari della cultura tradizionale russa ed ebraica sono i temi ricorrenti nella pittura di Chagall, che vanno a formare le successive sezioni del progetto espositivo, tracciando al contempo le coordinate delle vicende biografiche del pittore: le caprette, la pendola (importante per una casa ebrea, dove i riti sono scanditi al minuto), il gallo che si confonde con l’uccello di fuoco, l’androgino. Il dialogo, incessante, non compromette il piacere della scoperta di minuti particolari, dettagliatissimi se confrontati con la stesura vaporosa della superficie pittorica, le atmosfere fortemente liriche, le figure volanti, e poi una scultura in bronzo con il suo gesso (che sorpresa!), le cromie cupe e i tratti spigolosi dei quadri dipinti negli anni dell’esilio newyorkese, quando Chagall dovette affrontare anche la morte dell’amata moglie Bella, la prima persona che, al rientro dal viaggio in Francia, gli regalò dei fiori.

Marc Chagall, La slitta nella neve, 1944, Parigi, collezione privata © Chagall ® by SIAE 2020

Marta Santacatterina

La mostra Gerhard Richter: Landschaf è una raccolta di circa 140 opere, soprattutto dipinti – ma anche foto, grafiche e libri d’artista – tratti dalla vasta ed eterogenea produzione dell’artista. Gerhard Richter nasce a Dresda nel 1932 e si diploma all’Università di belle arti nel 1956 in un clima di realismo socialista. Nel 1961, in una Germania ormai politicamente scissa tra Est e Ovest, riesce a fuggire dalla sua città stabilendosi a Düsseldorf, e anni dopo a Colonia. LA PITTURA E IL PAESAGGIO Risalgono al 1963 i primi paesaggi in cui Gerhard Richter dipinge soggetti da vecchie foto, definendoli “di seconda mano; immagini da immagini”. Quasi nessun altro tema coinvolgerà l’interesse dell’artista per tale genere, spingendo all’estremo la pratica secondo cui il “suo” paesaggio non debba essere una costruzione oggettiva, ma una realtà mediata da modalità creative e linguistiche, portando il “genere” a offrirsi come meta-pittura. Oltre il colore e le forme, c’è un quid, che progressivamente agisce in maniera destrutturante nel rapporto convenzionale con la realtà naturale. È così nelle tracce residue del rapporto tra passato e presente, o nel grado di offuscamento delle linee e dei contorni, o in certi ribaltamenti speculari, o quando applica pennellate casuali sopra scorci di luoghi o paesaggi. Dispositivi che danno l’impressione ineliminabile dell’incertezza tra vero e falso. Il fascino della pittura di Richter sta nel trovarla intrappolata in questa insuperabile ambiguità. Gerhard Richter, Venedig-Treppe, 1985 © Gerhard Richter 2020

RICHTER E L’ASTRAZIONE In tutte le declinazioni figurali ci si presenta una pittura dell’inganno, un fare che adombra una realtà, anche grazie a titoli referenziali, e poi, più che mostrarsi, l’“oggetto” si nasconde, si offusca. Una strategia che a Richter riesce anche nella pura astrazione, filone pittorico di cui la mostra offre esempi significativi. Qui l’artista stratifica i colori e poi raschia la tela mediante l’uso di grandi spatole, riportando a vista, sotto forma di minuscoli tratti e sfumature, le stesure sottostanti: un gioco tra profondità e superficie del quale l’artista accetta perfino l’esito di una componente casuale. Il dipinto astratto Sankt Gallen (1989), di smisurata dimensione, si profila come paradigma di questa calcolata tecnica informale. Così che questa linea pittorica pare essere lo stadio maturo, e quanto mai coerente, di una grande carriera artistica e intellettuale. Richter, oggi ottantottenne, ha appena annunciato l’addio alla pittura. Qualcuno a lui vicino ha però puntualizzato che, con tutta probabilità, il maestro si riferiva alla pittura di grandi dimensioni. Franco Veremondi


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Informazioni +39 348 1304726 musei.erpac@regione.fvg.it musei.regione.fvg.it


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PODCAST



ALEX URSO [ artista e curatore ]

Di cognome fa come il celebre pugile, e con il fumetto picchia duro! Stiamo parlando di Nicoz Balboa, l’artista romana che trasporta i suoi eventi di vita nel mondo della carta illustrata. L’abbiamo intervistata e ci siamo fatti lasciare una tavola tratta dal suo ultimo volume, Play with Fire: storia di un personaggio in cerca di identità. Cosa vuol dire per te essere fumettista? Sai, non so ancora se mi considero totalmente “fumettista”. Da quando ho 16 anni autoproduco le mie storie, ma anche i miei disegni in altre forme. Sicuramente, grazie al fumetto ho potuto esprimermi e vedere (ma soprattutto capire) la mia vita.

NOVEMBRE L DICEMBRE 2020

Nicoz Balboa

#57

In effetti, a parte disegnare fumetti, fai molto altro: illustrazioni, tatuaggi e un’intensa vita da mamma. Come si coniuga il tutto all’interno del tuo percorso? Non ho tempi morti e spengo raramente il mio cervello davanti a una serie TV o simili. Ho bisogno di vivere e sentire tutto appieno.

A livello tecnico il libro si presenta nella stessa veste del precedente Born to Lose: pagine di diario disegnate “male” in cui svisceri sorrisi, dubbi e insicurezze sulla tua vita. Ancora una volta, insomma, il fumetto, si conferma uno strumento “terapeutico” e di introspezione personale. Non lo considero un diario, anche se il punto di vista è estremamente soggettivo e gli eventi sono scanditi da date. Mentre Born to Lose era semplicemente una selezione dei miei taccuini grafici, Play with Fire nasce da un lavoro di scrittura e riscrittura della mia esperienza personale e di riflessione sull’identità. Era, per me, un argomento troppo grande e intimo per poterlo disegnare direttamente senza fare un lavoro di analisi preparatorio. Ciò non toglie che il diario grafico resta per me pratica giornaliera – pratica che ho iniziato a “trasmettere” anche in corsi bimestrali che tengo su Zoom.

L SHORT NOVEL L

Il tuo ultimo libro si chiama Play with Fire (Oblomov, 2020) ed è un graphic mémoir che racconta le vicende di una donna in cerca della propria identità, innanzitutto sessuale. Me ne parli? Play with Fire è soprattutto la ricerca di se stessi andando per esclusione, eliminando strati su strati di personalità accumulati durante tutta la vita per cercare di nascondere dolori profondi.

Viste le affinità tra le due pubblicazioni, Play with Fire può essere considerato un sequel del precedente? Sia a livello stilistico che tematico non credo che i due libri abbiano molto in comune, ma devo dire che mi piace molto quest’idea. Se provi a immaginare un lettore ideale, chi pensi che potrà trovare conforto sfogliando le pagine di questo volume? Ti confesso che le reazioni a questo libro mi stanno sorprendendo. Se per Born to Lose le persone che si identificavano nella storia erano principalmente “mamme sull’orlo di una crisi di nervi” come me, mi aspettavo che Play with Fire toccasse principalmente persone nello spettro LGBTQ+. E invece mi accorgo che il sentirsi fuori posto può avvenire in tanti contesti e modalità diversi. nicoz_balboa

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#57

Marina Caneve, Entre chien en loup, 2019-20

Chen Zhen, Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song), 2000. Pinault Collection © ADAGP, Paris. Photo Francesco Margaroli

QUI C’È UN MONDO FANTASTICO

CHEN ZHEN

fino all’8 novembre MUSEO DELLA MONTAGNA museomontagna.org

fino al 21 febbraio HANGARBICOCCA pirellihangarbicocca.org

L RECENSIONI L

TORINO

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È un patrimonio straordinario quello conservato dal Centro Documentazione del Museo della Montagna; ma nella sede sul Monte dei Cappuccini si trovano anche: la Biblioteca Nazionale del CAI; i fondi e gli archivi che fanno capo a leggende come Walter Bonatti e Mario Fantin; le Raccolte Iconografiche, la Cineteca e la Videoteca storica. Ora, immaginate un poker di artisti a cui sia dato libero accesso a questo scrigno. Ci vuole l’apertura mentale di conservatori come Veronica Lisino e di curatori come Giangavino Pazzola. E poi ci vogliono gli artisti “giusti”, non a digiuno di montagna ma nemmeno tanto addentro da non riuscire ad alzare lo sguardo per offrire una visione laterale. Tutto questo è riuscito alla perfezione. Laura Pugno prosegue la sua indagine sul paesaggio, indagandone senza ingenuità il rapporto fatale con l’uomo, che si tratti dell’abuso provocato dallo scioglimento di un celebre cioccolato o della fugace empatia che stabiliamo di fronte alle vette, o meglio alle loro riproduzioni. Marina Caneve dispiega le proprie doti di fotografa in una indagine post-mediale dell’idea stereotipata di montagna, scansando la stereotipia uguale e contraria che

sarebbe consistita nel mostrare rifiuti e merenderos. Anche in questo modo si potrebbe interpretare il titolo delle sue stampe, Entre chien et loup, espressione che indica il crepuscolo, una realtà foriera di risvolti inattesi che si rinnova ogni giorno e che dovrebbe stimolare una similare openness nel nostro modo di osservare la montagna e il mondo. Segnavia, iscrizioni, abiti dismessi e abbandonati. Quella di Vittorio Mortarotti è una montagna violata, ma soprattutto non ha nulla di eroico, ha perso – qualora mai l’avesse avuta – quella connotazione di ascesa interiore che in certe interpretazioni si accompagna all’ascesa fisica. È una speleologia più che un’arrampicata. Infine, Davide Tranchina: le sue vette si muovono verso l’astrazione, sono silhouette opache, disegnate da un nero screziato di stelle (potrebbe essere tutt’altro); oppure sono morbide linee sfocate che si muovono dal marrone al giallo chiarissimo: sono profili di montagne lontane, ma soltanto perché allestite al Museo della Montagna.

MARCO ENRICO GIACOMELLI

MILANO

Short-circuits, a cura di Vicente Todolí, riunisce oltre venti installazioni su larga scala, tra le più significative della produzione di Chen Zhen (Shanghai, 1955 – Parigi, 2000). Sono datate tra il 1991 e il 2000: siamo nel pieno dell’era della globalizzazione, un’esperienza che Chen Zhen vive sulla propria pelle, interiorizzando sia il mondo orientale che quello occidentale. Due realtà che si incontrano e scontrano nei cortocircuiti del titolo di questa retrospettiva, in cui il silenzio della cultura buddista è quasi soffocato dal frastuono dello scarto, del surplus prodotto dalla società dei consumi. Emblematico è l’ambiente finale, Jardin-Lavoir: undici letti-culle sono trasformati in vasche in cui scarpe, giocattoli, libri e persino televisori giacciono sotto il pelo dell’acqua, annientati da piccoli getti (un richiamo al giardino zen) che scorrono inesorabilmente. Altra opera emblematica è Fu Dao / Fu Dao, Upside-down Buddah / Arrival at Good Fortune, in cui, dalle fronde di alcuni bambù, spuntano come frutti anomali objet trouvé di ogni tipo, dai quali a loro volta pendono alcune statuette raffiguranti dei Budda a testa in giù. Il cambio di continente, paradigma e paesaggio di cui l’artista

fa esperienza durante i suoi viaggi ha sulla sua percezione un tale impatto da portarlo a coniare il vocabolo “transesperienze”. Ma non si tratta solo del passaggio tra Cina e Francia: Zhen entra in contatto anche con altre culture, tentando di condensare questa babele di linguaggi in un’unica cifra stilistica. Ne è un esempio The Voice of Migrators, in cui da un’enorme sfera di tessuti intrecciati emerge la voce di alcuni migranti intervistati dall’artista. Tra le opere più significative, Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song): una monumentale installazione composta da sedie e letti provenienti da diverse parti del mondo e ricoperti di pelli di vacca. Un’opera “attivata” alla Biennale di Venezia di Harald Szeemann del 1999 da alcuni monaci tibetani e che tornerà a emettere i propri suoni il 5 novembre e il 14 gennaio all’interno del public program della mostra.

GIULIA RONCHI


GREGORIO BOTTA TORINO

Markus Schinwald. Misfits. Installation view at Fondazione Coppola, Vicenza 2020 © Fondazione Coppola

MARKUS SCHINWALD

FEDERICA MARIA GIALLOMBARDO

REN HANG MILANO

VICENZA

fino al 27 febbraio FONDAZIONE COPPOLA fondazionecoppola.org

“Scetticismo e curiosità. E la capacità di sollevare costantemente dei dubbi”. Questa dovrebbe essere l’attitudine dell’artista secondo Markus Schinwald (Salisburgo, 1973), che si muove fra pittura, scultura, video, installazione, architettura e design. Seppur così varia, questa produzione presenta una forte coesione di stili e contenuti, data forse proprio da quell’atteggiamento critico che ne è al contempo il principio ispiratore, la nervatura e il fine ultimo. Schinwald non solo coinvolge l’architettura nell’allestimento – la sede della Fondazione Coppola si trova nel Torrione medievale di Porta Castello – ma la fa entrare nelle opere. La mostra si apre con Marionettes, un gruppo di dodici individui di età indefinita, vestiti con giacche eleganti e manovrati da fili che ne controllano i movimenti ripetitivi. Il movimento produce una partitura visiva e acustica, regolare e imprevedibile insieme. I piani successivi ospitano la produzione pittorica di Schinwald, che acquista ritratti sette-ottocenteschi della buona borghesia europea e li manipola, interviene sulla superficie per sottrazione o addizione. Inserisce protesi e maschere, cancella

porzioni del volto, altera i corpi celandoli o amplificandoli, sfuma rendendo quasi impercettibile il confine fra figura e sfondo. Non si tratta semplicemente di modificare un dipinto ma di conferirgli una seconda vita, di collocarlo in un contesto nuovo nel quale assume proprietà e rimandi che non aveva in origine. Significa espandere la dimensione spazio-temporale dell’opera, trascenderne i confini artistici e culturali. In mostra anche Orient A e Orient B, i due video che Schinwald portò alla Biennale del 2011, in cui performer in ambientazioni stranianti compiono azioni abituali in modo insolito, sfidando il corpo e le sue possibilità plastiche. Il percorso prosegue con i lavori scultorei dell’artista, che smembra tavoli in stile Chippendale e ne riassembla le gambe in pose sensuali, creando un chiaro rimando alla figura femminile e alla censura che mobilia di questo tipo conobbe in epoca vittoriana. La serie dei Monuments chiude la mostra, un corpus di stampe che riprendono antiche incisioni su cui Schinwald interviene rimuovendo le statue e lasciando solo vuoti ma eloquenti piedistalli. IRENE BAGNARA

L RECENSIONI L

fino al 29 novembre FONDAZIONE SOZZANI fondazionesozzani.org

L’arte di Ren Hang (Changchun, 1987 – Beijing, 2017) non è un atto politico: quell’attenzione posta alla gestualità fatta di intrecci di mani, gambe, organi sessuali e labbra rosso sangue attiene al regime del visibile. La sua fotografia non rompe i tabù, non sdogana l’erotismo: li guarda da vicino, ci gioca. I corpi diventano materia scultorea, le composizioni motivi e iconografie ben noti dell’arte occidentale, la sessualità un aspetto formale. Hang suggerisce un modo per ripensare la nudità al di là di ogni riferimento culturale: nessuna dicotomia tra esistente e possibile, visibile e immaginabile, figurazione e politica, la sua fotografia è tutta in superficie. Colpisce, poi, un uso brutale del flash, volto a creare un’atmosfera surreale attorno a quei corpi nudi così innaturali, prossimi all’astrazione.

#57 NOVEMBRE L DICEMBRE 2020

fino al 14 novembre PEOLA SIMONDI peolasimondi.com

Una rassegna dotta e ponderata sulla materia e la fisicità dell’opera d’arte e dell’osservatore che la ammira. Gregorio Botta (Napoli, 1953) riporta in auge con proporzione e deferenza il nostro DNA culturale, con una pratica quasi ascetica, esegetica, consapevole del retaggio della pittura di sacre icone – si vedano i riferimenti a Beato Angelico, il sangue nella cera dei Noli me tangere, ma anche l’uso della foglia d’oro –, della materia che segna le età dell’uomo – accostamenti di piombo, vetro, ferro e alabastro – e del cruciale rapporto tra arte e natura – fuoco, acqua, foglie, erbe e fiori sono elementi custoditi quali misteri impenetrabili.

FRANCESCA MATTOZZI

CORINNA GOSMARO ROMA

fino al 4 dicembre THE GALLERY APART lnx.thegalleryapart.it

In un susseguirsi di quadretti a fondo bianco, stemperati da un groviglio di pigmenti armonicamente sfumati, si stagliano i delicati volatili disegnati da Corinna Gosmaro (Cuneo, 1987). Le “macchie di colore” ricordano paesaggi astratti, fusione tra percezione, cognizione, memoria e stralci emotivi, su grandi filtri industriali. Il concetto di rielaborazione in chiave immaginifica dell’elemento quotidiano torna nei corrimano incastonati alle pareti. La luce riflessa lascia intravedere le impronte di chi li ha maneggiati, una memoria impressa che ne avvalora il gesto. Le posizioni in cui sono posti si fanno metafora di ascesa e discesa del pensiero, attraversando dimensioni spazio-temporali non lineari. Infine, le sculture di corda zoomorfe puntano lo sguardo verso l’evoluzione globale, e non solo quella riferita alla storia culturale della specie umana. VALENTINA MUZI

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Capri vige l’usanza secondo la quale i numeri civici, in ossequio alla tradizione locale, sono in ceramica. I più appassionati se li fanno dipingere a mano, spesso col ritratto della propria dimora e a volte, semplicemente passeggiando, capita di imbattersi in piccoli gioielli. Indimenticabile una piastrella dipinta che raffigura la bianca facciata di una villa “delle due palme”, sormontata appunto dalle famose palme d’ordinanza che, fino a qualche anno fa, facevano bella mostra di sé. Un brutto giorno, però, sull’isola è sbarcato il Punteruolo rosso, il micidiale parassita che porta alla morte molte specie di palme, tra cui quelle della villa – la quale si è trovata così defraudata proprio degli alberi da cui prendeva nome, e ha reso tristemente obsoleto il bel dipinto su ceramica. I più maliziosi, calcolando il numero non indifferente di palme sull’isola e il costo elevato di abbattimento delle piante defunte, hanno anche ipotizzato che il Punteruolo, a Capri, qualcuno ce l’abbia appositamente portato per fare un (non poi tanto) piccolo business; ma, se anche fosse arrivato fin lì per caso, resta il fatto che la presenza in Europa di un parassita originario della Melanesia non è dovuta ad altro che a una rete di scambi commerciali alla cui base c’è, in ogni caso, un puro e semplice obiettivo: fare profitto. Idee simili non possono non venire alla mente osservando la famosa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU, che prefigge a tutti gli Stati del mondo la bellezza di 17 obiettivi da raggiungere entro dieci anni. In una infosfera inquinata da proclami di ogni genere, questi obiettivi sono un esempio di chiarezza, sintesi ed efficacia, a cui sarebbe difficile

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negare il consenso. Infatti, di ogni problema si indica la soluzione: si va dallo “sradicare la povertà in tutte le sue forme” al “porre fine alla fame”, alla garanzia di produzione e consumo “responsabili”. Distinti per colore e con una grafica intuitiva, i 17 “goals” sono talmente ben riusciti da esser diventati anche un gioco da tavolo – forse in alternativa all’ormai “politicamente scorretto” Monopoli. Eppure, è la loro stessa trasparenza che sembra occultare qualcosa. Se ci si pensa un attimo, infatti, l’Agenda dice quali sono i problemi globali e cosa fare per sradicarli, ma omette prudentemente di precisare da dove sono nati. E non occorre essere economisti per capire che, come nel caso del subdolo Punteruolo rosso, alla loro origine non c’è certo il caso, ma una “casella non inclusa” nel gioco – che è esattamente l’obiettivo Zero, il più importante, cioè il Profitto. La “strepitosa assenza” del goal decisivo tradisce la natura ideologica dell’Agenda, il suo carattere di supplemento immaginario. Al punto tale che verrebbe quasi da suggerire un Goal 1bis da anteporre alla lista, e che la annienterebbe del tutto: “Eliminare per sempre la retorica ideologica in tutte le sue forme e ovunque nel mondo”.

L

L'AGENDA 2030 E IL PUNTERUOLO ROSSO testo e fotografia di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L




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