Cortés e il mondo nuovo

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Le civiltà precolombiane

La Nache triste di Hernàn Cortés

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an mano che gli spagnoli avanzavano, l’imperatore azteco si faceva un’idea più chiara su

■ quegli uomini dalla barba folw ■■Bm ta che si spostavano sul dorso di cervi senza corna e che utilizzavano tubi me­ tallici dai quali fuoriuscivano tuoni letali. Montecuhzoma Xocoyotzin, Montezuma II, era venuto a conoscenza degli scontri sostenuti dalle tribù mesoamericane, sottoposte agli ordini della capitale azteca, contro i visitatori europei. Dai primi mesi del 1519, Hernàn Cortés (14851547) si trovava nell’America centrale continentale, dove Diego Velàzquez de Cuéllar, primo governato­ re dell’isola di Cuba, gli aveva affidato l’incarico di intraprendere una spedizione per trovare il tanto agognato oro che, nonostante le leggende sui ricchi giacimenti, si continuava a cercare invano. Gli spa­ gnoli, sulla terraferma e perfettamente equipaggiati, dopo aver trascorso diverse settimane a guadagnar­ si l’amicizia e a ottenere l’appoggio delle comunità sottomesse agli aztechi, tra cui quelle tlaxcalteca, chalca e otomi, tutte a dir poco contrarie alla sotto­ missione a Montezuma e al pagamento di tributi, si avvicinarono a Tenochtitlàn. Alla luce delle crescen­ ti preoccupazioni che avevano travolto Montezuma,


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L’incredibile eterogeneità dei popoli

nativi americani si rifletteva anche nelle loro rispettive e altrettanto svariate

lingue. Gli spagnoli, che cercavano di farsi capire a gesti, spesso traevano conclusioni erronee

che portavano a malintesi di ogni genere. In tali

circostanze, due personaggi della spedizione guidata da Cortés furono utilissimi.

Il primo fu il sacerdote Jerónimo de Aguilar, che era stato catturato durante la spedizione

infruttuosa di Juan de Valdivia nel 1511 e che aveva trascorso otto anni con i maya, arrivando a

conoscere bene la loro lingua. Fu però una schiava la figura cruciale nelle negoziazioni tra Cortés e Montezuma:

La Malinche, anche chiamata Malintzin e

battezzata con il nome spagnolo Marina che, oltre alla lingua maya, conosceva il nahuatl, la sua

lingua materna, e quella azteca. Si era unita agli spagnoli non proprio di sua

spontanea volontà, dato che fu loro consegnata in offerta dagli indigeni chontal, timorosi di

altre rappresaglie. Dopo che ebbe imparato il

castigliano dai suoi carcerieri, l’efficacia e la maestria di Malinque, in qualità di interprete, furono evidenti lungo il tragitto per Tenochtitlàn

e durante i mesi in cui gli spagnoli e i loro alleati rimasero nella capitale azteca.

◄ La Malinche traduce a Hernan Cortés la lingua degli aztechi utilizzata nel Codice Lienzo de Tlaxcala (XVI secolo).

dovute alle notizie per niente confortanti dell’avan­ zata degli stranieri nei suoi domini, l’imperatore aveva cercato di ingraziarseli con doni consegnati dai suoi emissari, tra cui cerano, con grande gioia degli spagnoli, massicci oggetti d’oro. Nonostante Montezuma si rifiutasse di conoscere personalmen­ te quegli uomini pallidi e barbuti, Cortés insistette a portare avanti la sua missione e si diresse verso il cuore del potere azteco. Il primo contatto tra lo spagnolo e il capo azte­ co a Tenochtitlàn, dove risiedeva quest’ultimo, fu caratterizzato da un clima di rispetto reciproco che poteva sembrare apparentemente amichevo­ le. Cortés e i suoi furono ospitati nel palazzo di Axayàcatl. Durante la permanenza a Tenochtitlàn, gli spagnoli rimasero sopresi sia dal livello avan­ zato della società e della cultura azteche, sia dalle strane usanze di quel popolo, soprattutto dai riti cruenti che celebrava nelle occasioni speciali. I mesi passavano e Cortés, desideroso di ri­ prendere la conquista dell’America centrale con­ tinentale, doveva trovare un pretesto per poter realizzare il piano che da tempo stava architet­ tando: fare prigioniero Montezuma. La morte per mano degli aztechi di sette spagnoli che proteg­ gevano una tribù subordinata a Montezuma fu la scusa perfetta per incastrarlo. E così fecero. Con grande stupore, gli abitanti della città videro l’im­ peratore mentre veniva condotto al palazzo di Axayàcatl, che lo inghiottì assieme a coloro che lo avevano catturato. La reazione non si fece attendere. Cacamatzin e Cuitlàhuac, rispettivamente nipote e fratello dell’imperatore azteco, stavano organizzando da tempo una rivolta contro gli spagnoli, a cui man mano aderiva un sempre maggior numero di per­ sonaggi di spicco amerindi. Il massacro di un gran numero di nobili perpetrato dagli spagnoli presso il tempio principale della capitale non fece altro

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Le civiltà precolombiane

che inasprire la tensione tra questi e i loro alleati indigeni, da una parte, e gli aztechi e i loro alleati dall’altra. Gli abitanti di Tenochtitlàn, infervorati e sempre più ostili nei confronti di Montezuma, ritenuto colpevole di non adottare nessun provve­ dimento per difendere il proprio popolo, appoggia­ rono la fazione ribelle e assediarono il palazzo in cui alloggiavano i loro nemici. Più di mille soldati spagnoli, con un centinaio di cavalli, abbondante artiglieria e migliaia di alleati indios, sembravano pochi per affrontare i nemici, pervasi dalla volon­ tà di eliminare gli invasori pallidi e i loro sosteni­ tori. L’inaspettata morte di Montezuma e la presa di potere della ribellione da parte di Cuitlàhuac segnarono l’inizio della sconfitta spagnola. Il 30 giugno del 1520, dopo una settimana di assedio del palazzo, le cui pareti sembravano dive­ nire sempre più soffocanti con il passare delle ore, gli spagnoli spaventati decisero che preferivano morire sul campo anziché reclusi e affamati. Vole­ vano scappare dalla città nel cuore della notte, ma sapevano che attraversare i canali che circonda­ vano la capitale azteca sarebbe stata un’ardua im­ presa. Fortunatamente, avevano trascorso in città abbastanza tempo per sapere che i ponti di legno che di giorno consentivano il passaggio di notte erano chiusi. Dunque, escogitarono di costruire un ponte mobile di legno che avrebbe permesso loro di attraversare i canali e riuscire a scappare. Nel più assoluto silenzio, dopo essere fuggiti dal­ la fortezza, avanzarono verso ovest per le strade addormentate di Tenochtitlàn, che era avvolta da una fitta nebbia. Riuscirono ad attraversare il pri­ mo degli otto canali che bisognava superare per uscire vivi dalla città. Tuttavia, erano molto nume­ rosi e carichi di armi e gioielli, nonché accompa­ gnati da un centinaio di cavalli. Sfortunatamente per loro, durante la traversata del secondo canale un abitante della città avvertì la presenza del nu­

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▲ Copia del XIX secolo di un ritratto di Hernan Cortés del pittore messicano José Salomé Pina. Museo del Prado, Madrid.

meroso gruppo in fuga. La catastrofe era alle por­ te. Gli aztechi, pieni di rabbia e con un’insaziabile sete di vendetta, li raggiunsero ben presto e gli si scagliarono contro con pietre, frecce e spade che avevano sottratto loro tempo addietro. Cortés e i suoi si ritrovarono circondati, senza poter utiliz­ zare il ponte che avevano costruito, rimasto inca­ strato nel secondo canale. Il piano era fallito molto prima di quanto il capitano avesse temuto. Con sua grande costernazione, a una distanza così ravvici­ nata, le armi da fuoco erano inutili, in un’epoca in cui era necessario munirsi di pazienza tra una ca­ rica e l’altra. Preso dalla disperazione, lo spagnolo decise di guadare i canali che dovevano ancora at­ traversare riempiendoli di sacchi, cavalli morti e persino dei corpi dei caduti in battaglia. A stento e con l’eco delle grida e dei gemiti dei combattenti di sottofondo, riuscì a lasciare Tenochtitlàn. Soltanto un terzo degli spagnoli che ore prima erano fug­ giti dalla reclusione, assieme a un esiguo numero di indios alleati e a qualche animale da soma, ma


La Noche triste di Hernàn Cortés

▲ Rovine delia città di Cempoala, la prima ad aver stabilito un’alleanza militare con le truppe castigliane contro Montezuma.

▲ Montezuma osserva il passaggio di una cometa. Particolare del Codice Duràn (metà del XVI secolo), dove si narra che la cometa venne interpretata dal tlatoani (re in lingua nahuatl) come un segnale e che, dopo molte consultazioni, Montezuma ottenne la risposta: la cometa simboleggiava la fine di Tenochtitlàn.

senza artiglieria, né oro né gioielli, e tantomeno cibo o acqua, riuscì a raggiungere la campagna aperta. Poco dopo entrarono a Tacuba, dove trova­ rono protezione. Ormai salvo, ma assai provato dagli eventi, Cor­ tés crollò e scoppiò in un pianto pieno di amarezza, vergogna e paura. Per questo motivo, quella notte viene ricordata da alcuni come la Noche triste (notte triste), mentre per altri costituisce un momento da celebrare e ricordare a lungo con orgoglio. A pochi chilometri dallo stremato Cortés, il nuovo impe­ ratore azteco Cuitlàhuac assisteva al sacrificio dei prigionieri. Come in ogni conflitto, le pene degli sconfitti si contrappongono alle gioie dei vincitori, giubilo che sarebbe svanito l’anno successivo, dato che durante l’estate Tenochtitlàn fu piegata da Cor­ tés, senza alcuna possibilità di salvezza, grazie all’a­ iuto imprescindibile dei suoi alleati indigeni. -*■

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Mappa di Tenochtitlan

La diffusione della cosiddetta Mappa di Norimberga (1524) sorprese enormemente la popolazione

europea del XVI secolo. I suoi contributi narrativi, cartografici, storici ed estetici rendono questa pianta di Tenochtitlan, la più antica conservata di Città del

Messico, un documento unico.


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