mtDNA e dinamiche di popolazione nella Sardegna sud-occidentale

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ DI S CIENZE M ATEMATICHE F ISICHE E N ATURALI ___________________________

CORSO

L A U R E A I N B I OL O GI A S PE R I M E N T A L E E A P PL I C A T A Dipartimento di Zoologia e Genetica Evoluzionistica

DI

mtDNA E DINAMICHE DI POPOLAZIONE NELLA SARDEGNA SUD-OCCIDENTALE

Relatore: PROF. PAOLO FRANCALACCI

Correlatore: DOTT.SSA DARIA SANNA

Tesi di Laurea di: SILVIA FENU

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


INDICE 1.

2.

LA FILOGEOGRAFIA

1

1.1.

2

1.1.1. Marcatori genetici a trasmissione unilineare

3

1.2.

4

I mitocondri

1.2.1. Struttura dei mitocondri

5

1.2.2. Il DNA mitocondriale

6

1.2.3. Replicazione e trascrizione del mtDNA

8

1.2.4. Omoplasmia ed eteroplasmia

10

1.2.5. Tasso di mutazione del mtDNA

10

1.2.6. mtDNA in filogeografia

12

ORIGINE DELL’UOMO MODERNO

13

2.1.

3.

Marcatori genetici

Prove molecolari a sostegno della teoria “Out of

Africa”

16

2.1.1. Variabilità dei mtDNA nel mondo

20

2.1.2. Variabilità europea dei mtDNA

21

LA SARDEGNA

23

3.1.

La peculiarità biologica della popolazione sarda

23

3.2.

Preistoria e storia della Sardegna

24

3.2.1. Paleolitico e Neolitico

24

3.2.2. Età del rame (2.700 – 1.800 a.C.)

26

3.2.3. Periodo nuragico (1.500 – 800 a.C.)

26

3.2.4. Fenici, Cartaginesi (X sec. a.C. – 238 a.C.) e

4.

Romani (238 a.C. – 456 d.C.)

28

3.2.5. La Sardegna Medievale e Giudicale

28

3.3.

Storia della Sardegna su base genetica

31

3.4.

Subregioni e paesi di interesse per questa tesi

33

SCOPO DELLA TESI

38


5.

MATERIALI E METODI

39

5.1.

Metodi di campionamento

39

5.2.

Analisi del mtDNA

41

6.

RISULTATI

49

7.

CONCLUSIONI

54

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

56


INTRODUZIONE 1. LA FILOGEOGRAFIA La filogeografia si occupa dello studio della distribuzione geografica delle linee genetiche che sono presenti nelle popolazioni all’interno di una specie o in gruppi di specie filogeneticamente vicine. Il termine “filogeografia”,

coniato

nel

1987,

deriva

infatti

dalla

fusione

di

“filogenetica”, cioè la genealogia dei geni, e “geografia”. L’analisi filogeografica indica che ogni specie ha la propria storia e l’attuale distribuzione geografica degli organismi viventi dipende sia da parametri storici che ambientali (De Candolle, 1820). La presenza di una specie in un determinato ambiente, è conseguenza di differenti fattori quali il rapporto che quella specie sviluppa con altre specie e con l’ambiente stesso in cui essa vive. Quindi si può affermare che sussiste uno stretto legame che unisce la variabilità genetica alla capacità di adattamento. In particolare, la distribuzione geografica della variabilità genetica nelle specie dipende da come le popolazioni hanno risposto ai cambiamenti climatici (primi fra tutti i cicli glaciali). Inoltre, le dimensioni della popolazione, la capacità di dispersione della specie, il tipo di rifugio, i livelli di flusso genico tra popolazioni e il tasso di ricolonizzazione sono tutti importanti fattori che hanno contribuito a determinare la struttura genetica delle popolazioni. La classificazione degli organismi in base alle specie è il risultato della ricostruzione filogenetica della loro storia evolutiva, un’analisi che oggi viene condotta principalmente a livello molecolare e si basa sul confronto delle sequenze nucleotidiche e/o amminoacidiche. I diversi tipi di dati molecolari rappresentano infatti una sorta di documento storico, che contiene in sé le tracce dei passi fondamentali dell’evoluzione di un gene.

1


1.1. Marcatori genetici Strumento fondamentale per l’analisi genetica sono i marcatori genetici. I marcatori genetici possono essere morfologici (basati sulla variabilità espressa a livello fenotipico), biochimici o molecolari. Prima dell’avvento della PCR, i primi marcatori genetici utilizzati, i marcatori “classici”, sono stati i polimorfismi emogruppali, emo- e sieroproteici e dell’HLA. Ci si basava perciò sull’uso di anticorpi per riconoscere le diverse proteine presenti nel plasma, sugli eritrociti e nei tessuti, mediante analisi biochimiche. Grazie allo sviluppo delle tecniche di biologia molecolare, in particolare all’invenzione della PCR, è oggi possibile sfruttare direttamente l’RNA e il DNA come indicatori della presenza di una proteina o del gene stesso. I marcatori molecolari si basano sulla rilevazione di polimorfismi nella sequenza nucleotidica del DNA, differenze dovute ad inserzioni, delezioni, traslocazioni, duplicazioni, mutazioni puntiformi, ecc. Si possono poi usare delle sonde specifiche per andare a determinare la presenza o l’assenza di pezzi di cromosomi. Si distinguono quindi due principali classi di marcatori molecolari: quelli basati su ibridazione di tipo Southern (Southern Blot Hybridization, SBH) e quelli basati sulla Reazione a Catena della Polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR). Alla prima classe appartengono gli RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorfism), cioè i polimorfismi di lunghezza di frammenti di DNA prodotti per taglio con enzimi di restrizione; e i VNTR (Variable Number of Tandem Repeat) anche detti minisatelliti, che contengono un numero di sequenze ripetute in tandem, cioè una di seguito all’altra, il cui numero varia a seconda dell’allele. Alla seconda classe di marcatori molecolari, quelli basati sulla PCR, fanno parte i marcatori multi-locus e quelli singolo-locus, tra cui i più noti sono STR (Short Tandem Repeat), chiamati anche microsatelliti, SNP (Single Nucleotide Polymorphism), SSR (Simple Sequence Repeat).

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1.1.1. Marcatori genetici a trasmissione unilineare Di particolare interesse, una classe di marcatori di più recente scoperta: quella dei marcatori unilineari, cioè ad esclusiva trasmissione paterna o materna. L’analisi di marcatori genetici a trasmissione unilineare presenta notevoli vantaggi nello studio delle forze evolutive che hanno interessato le popolazioni umane. Infatti l’assenza di ricombinazione e l’evoluzione per coalescenza consentono di ricostruire e seguire diacronicamente le diverse linee filogenetiche che si sono evolute in una particolare popolazione. Nelle cellule umane, la maggior parte dei geni (∼25.000) si trova confinata all’interno del nucleo in duplice copia per cellula ed è trasmessa in parti uguali dai genitori secondo le leggi di Mendel. Gli studi sull’evoluzione umana si sono però concentrati su due porzioni di DNA particolari, quelle appunto a trasmissione unilineare: il DNA mitocondriale (mtDNA) ed il cromosoma Y. Questi vengono trasmessi rispettivamente dalla madre ai figli di entrambi i sessi e dal padre ai soli figli di sesso maschile. Il cromosoma Y (Figura 1) è tra i cromosomi più piccoli del nostro genoma (circa 60 Mb) ed è uno dei due cromosomi che determina il sesso nella maggior parte dei mammiferi, uomo compreso. È aploide ed è trasmesso esclusivamente da padre a figlio. Non è in

grado

di

ricombinarsi

con

il

cromosoma X, tranne che per piccole Figura 1: Cromosoma Y umano

parti

pseudoautosomiche

ai

telomeri

(circa il 5% dell’intera lunghezza del cromosoma), per la maggior parte della sua lunghezza, nota come “nonrecombining portion of the Y” (NRY) non subisce ricombinazione, essendo presente nel maschio in condizione di emizigosi, ossia in singola copia per cellula.

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Anche il DNA mitocondriale non ricombina, infatti lo zigote eredita per intero quello della madre, poiché il mitocondrio dello spermatozoo, al momento della fusione con la cellula uovo, viene perso. La sola fonte di variabilità di questi due marcatori a trasmissione unilineare è costituita dalle mutazioni. Uno specifico pattern di mutazioni su una regione non ricombinante, sia di mtDNA che del cromosoma Y, è chiamata “aplotipo”, e una famiglia di aplotipi caratterizzata dalla condivisione di una mutazione ereditata da un antenato comune è detta “aplogruppo”. Studiando le variazioni tra i diversi aplogruppi di mtDNA o di cromosoma Y, è possibile risalire rispettivamente all’antenata materna e all’antenato paterno ancestrale, tracciando così delle linee genealogiche che collegano antenati comuni.

1.2. I mitocondri I mitocondri (Figura 2) sono organuli cellulari presenti nel citoplasma di tutte le cellule di organismi eucarioti a metabolismo aerobio. Essi svolgono una funzione molto importante: sono la sede della respirazione cellulare. I mitocondri sono molto dinamici, dotati di Figura 2: Mitocondrio

rapidi

movimenti

trasformazioni,

e

possono

di

rapide

cambiare

numero, forma e dimensione all’interno della cellula durante il suo sviluppo, il ciclo cellulare e in relazione a stimoli esterni: passano rapidamente dalla forma granulare a quella filamentosa nonché a quella bastoncellare, possono allungarsi e restringersi, accorciarsi e rigonfiarsi, mostrando una notevole contrattilità. I meccanismi di fusione e fissione dei mitocondri non sono ancora completamente

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chiari, ma si sa che sono eventi estremamente rapidi e frequenti. Alcuni ipotizzano che oltre alla complementazione intermitocondriale (scambio di mtDNA tra mitocondri) questo meccanismo possa servire per convogliare energia e calcio alle diverse aree della cellula. Le dimensioni dei mitocondri sono simili a quelle di un batterio (0,5 – 1,0 µm). L’ipotesi più accreditata sulla loro origine è quella endosimbiontica, secondo la quale i mitocondri, così come pure i cloroplasti, si sarebbero originati, circa 2 miliardi di anni fa, da procarioti liberi, che avrebbero invaso delle cellule eucariotiche primitive, instaurando delle relazioni di mutuo beneficio (simbiosi). Col tempo, le attività enzimatiche del batterio sarebbero state usate a vantaggio della cellula ospite ed alla fine, questa sarebbe diventata dipendente dall’attività del batterio. Quasi tutti i circa 1.500 geni codificati dal genoma batterico si sono in seguito integrati nel genoma nucleare lasciando nel DNA mitocondriale solo i geni codificanti per 2 rRNA e 22 tRNA, necessari per la sintesi proteica mitocondriale, e 13 polipeptidi che costituiscono parte dei complessi proteici della fosforilazione ossidativa. I mitocondri rappresentano quindi la centrale energetica della cellula: immagazzinano sotto forma di ATP l’energia liberata nel corso delle reazioni metaboliche, successivamente resa disponibile per le attività cellulari, infatti contengono gli enzimi necessari alla maggior parte delle reazioni ossidative che producono energia. Tra questi enzimi troviamo la piruvato deidrogenasi, gli enzimi per il trasporto degli elettroni e per la fosforilazione ossidativa, quelli del ciclo dell’acido citrico e gli enzimi che ossidano gli acidi grassi.

1.2.1. Struttura dei mitocondri I mitocondri sono costituiti da una membrana esterna e una membrana interna, ripiegata in creste o tubuli al fine di aumentarne la superficie, sulla quale hanno luogo gli stadi terminali dell’ossidazione. La membrana interna contiene diverse proteine necessarie alle reazioni ossidative della

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catena respiratoria, il complesso dell’ATP-sintetasi che produce ATP e le proteine di trasporto che regolano il passaggio dei metaboliti. Tra la membrana esterna e quella interna si trova lo spazio intermembrana, che ospita parecchi enzimi che sfruttano l’ATP per fosforilare altri nucleotidi.

Figura 3: Struttura interna del mitocondrio

Lo spazio racchiuso dalla membrana interna (Figura 3) contiene la matrice: una soluzione concentrata di molti enzimi diversi. Gli enzimi sono divisi nei vari compartimenti in un ordine ben preciso, in modo da garantire l’esatta sequenza delle reazioni biochimiche che essi catalizzano. Inoltre la matrice contiene parecchi esemplari di mtDNA, ribosomi mitocondriali, tRNA ed enzimi necessari all’espressione dei geni mitocondriali.

1.2.2. Il DNA mitocondriale Le funzioni delle cellule eucariote sono definite dal DNA nucleare, tuttavia i mitocondri hanno un proprio DNA. Il DNA mitocondriale (mtDNA) è un cromosoma circolare superavvolto a doppia elica, privo di istoni, e quindi non organizzato in nucleosomi. È localizzato vicino alle creste mitocondriali, alle quali è sovente adeso. Le dimensioni del cromosoma variano da organismo a organismo, ma sono

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costanti all’interno delle specie. È interessante osservare che i cromosomi mitocondriali degli animali superiori sono decisamente più piccoli di quelli dei funghi o dei vegetali. Il cromosoma mitocondriale del pollo (Gallus sinae) è costituito da 16.775 coppie di basi, mentre quello di Drosophila melanogaster è circa 18.000 bp, quello di Neurospora crassa è di circa 60.000 bp e quello di lievito di circa 75.000 bp. I genomi mitocondriali delle piante sono ancora più grandi e sono compresi tra 250.000 e 2 milioni di bp (80÷800 µm), a seconda delle specie. Il genoma mitocondriale del mais (Zea mays) è pari a circa 600.000 bp (200 µm). Nonostante le differenti dimensioni, i mitocondri di tutti gli organismi contengono la stessa quantità di DNA che codifica per prodotti funzionali mitocondriali. Quindi, nonostante la disparità nelle dimensioni del genoma, l’unica differenza tra mitocondri animali, vegetali e degli altri organismi risiede nel fatto che quasi tutto il genoma dei mitocondri animali è codificante, mentre il genoma mitocondriale di funghi e piante, oltre al DNA codificante, contiene una gran quantità di DNA che non codifica per alcun prodotto genico. Nell'uomo il DNA mitocondriale (Figura 4) consta di 16.569 paia di basi e 37 geni, coinvolti nella produzione di proteine necessarie alla respirazione cellulare. Ogni mitocondrio nell'uomo porta circa dieci copie del genoma mitocondriale associate in regioni nucleoidi multiple. Comunque molte proteine presenti nei mitocondri sono codificate dal DNA nucleare: si ritiene che alcune di esse, anche se non molte, facessero parte in origine del mtDNA, e durante l'evoluzione siano state trasferite nel nucleo. Nella maggior parte degli animali, le due eliche dell’mtDNA hanno una densità diversa poiché le diverse basi non sono distribuite nello stesso modo nelle due eliche, e sono state chiamate catena H e catena L, a seconda del loro coefficiente di sedimentazione. La catena H (heavy, pesante) ha una prevalenza di basi puriniche A e G, di peso molecolare maggiore, mentre la catena L (light, leggera) contiene più basi

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pirimidiniche T e C. La catena H è distaccata dalla catena L per la presenza tra le due di un tratto di RNA quiescente. I filamenti H ed L sono entrambi codificanti ed in alcuni punti i geni sono addirittura sovrapposti. A partire dalla regione del D-loop si origina un trascritto unico che codifica 2 rRNA, 12S e 16S, 22 tRNA e 13 peptidi. Dalla catena L sono codificati 8 tRNA ed una proteina del complesso I (ND6). Il trascritto della catena H codifica i 2 rRNA, 14 tRNA e 12 peptidi, che vanno a costituire 2 subunità del complesso V (ATPsintetasi), 6 fanno invece parte del complesso I (NADH deidrogenasi), uno del complesso III (cytocromo-B) e 3 del complesso IV (cytocromo C-ossidasi).

Figura 4: Struttura del mtDNA umano

1.2.3. Replicazione e trascrizione dell’mtDNA La replicazione del DNA mitocondriale è semiconservativa, avviene ad opera di DNA polimerasi specifiche del mitocondrio e non comprende meccanismi di correzione bozze. Il processo di replicazione del DNA mitocondriale avviene durante tutto il ciclo cellulare, senza nessuna 8


preferenza per la fase S (come invece avviene per il DNA nucleare). Per la replicazione dell’mtDNA è stato proposto il modello dello spostamento dell’ansa, loop displacement o D-loop. Il D-loop si estende per 1.122 paia di basi, corrispondenti a meno del 10% dell’intero mtDNA, ed è compreso tra le sequenze del tRNAPRO ed il tRNAPHE. Questa regione è di grande importanza perché contiene dei siti fondamentali per la regolazione della trascrizione dell’intero DNA mitocondriale. Nel D-loop infatti si trovano: l’origine della replicazione del filamento H, le origini della trascrizione dei segmenti L ed H, due siti leganti i fattori di trascrizione, tre blocchi di sequenze conservate associate all’inizio della replicazione e le sequenze associate alla terminazione del segmento del D-loop. La trascrizione del DNA mitocondriale rispecchia l’organizzazione peculiare, compatta e funzionalmente economica dei geni. Contrariamente a quanto avviene nel nucleo, i geni mitocondriali sono trascritti in maniera policistronica a partire da promotori che si trovano nella regione di controllo. Nel modello a D-loop, la sintesi di una nuova elica H incomincia in un punto di origine (OH) e forma una struttura ad ansa a forma di lettera D, visibile al microscopio elettronico. La replicazione della catena H avviene in direzione oraria ad opera della polimerasi gamma, una polimerasi mitocondriale, determinando la separazione delle catene H ed L dalla molecola madre. Dopo che la nuova elica H si è allungata di circa 2/3, prosegue la sua sintesi, e inizia la sintesi della nuova elica L in un secondo punto d’origine (OL). L’estensione della nuova catena L procede in direzione opposta a quella della catena H, in senso antiorario. L’intera molecola di mtDNA impiega circa 2 ore ad essere replicata e solo al termine del processo si ha il distacco dei due filamenti neoformati e l’origine della nuova molecola. La replicazione e la trascrizione dell’mtDNA sono due fenomeni strettamente associati, innanzitutto per la vicinanza spaziale tra i punti di inizio di entrambi i processi, poi per la necessità, almeno nel caso della

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catena H, di avere un primer di RNA per iniziare la replicazione. Inoltre esiste anche una curiosa somiglianza tra i due processi che prevedono entrambi la presenza di un punto di terminazione in grado di produrre catene troncate prematuramente. Questo fenomeno per la replicazione produce grandi quantità di DNA 7S al termine del D-loop, mentre per la trascrizione vengono prodotti i due rRNA di cui c’è molto più bisogno rispetto agli altri mRNA.

1.2.4. Omoplasmia ed eteroplasmia Di norma, le molecole di mtDNA di un individuo, sono tutte identiche tra loro. Questa condizione è definita “omoplasmia”. Nel caso in cui si dovessero verificare delle mutazioni del mtDNA, e quindi la loro trasmissione alle cellule figlie, si parla di “eteroplasmia”: eteroplasmia intercellulare quando coesistono diversi tipi di mtDNA all’interno di uno stesso individuo, ma in cellule diverse; eteroplasmia intracellulare quando i diversi mtDNA si localizzano all’interno della stessa cellula.

1.2.5. Tasso di mutazione dell’mtDNA Il DNA mitocondriale ha un elevato tasso di mutazione, fino a 10-20 volte maggiore di quello del DNA nucleare (Wallace et al, 1987). La causa principale di ciò è da ricercarsi nel fatto che nel DNA mitocondriale sono assenti i meccanismi riparativi, tipici invece del nDNA. Inoltre, all’interno del mitocondrio si verifica un elevato flusso di radicali dell’ossigeno che danneggiano facilmente il mtDNA, che non è protetto dalle proteine istoniche. Anche il fatto che il DNA mitocondriale abbia cicli di replicazione molto più numerosi rispetto a quello nucleare e non limitati a specifiche fasi del ciclo cellulare, giustifica il generarsi di un più alto numero di errori. L’elevata frequenza di mutazione di un gene mitocondriale rispetto ad un gene nucleare, risulta di notevole utilità negli studi evolutivi relativi all’origine della nostra specie. Infatti, le differenze che si osservano tra gli

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mtDNA di specie diverse, altro non sono che mutazioni accumulatesi dal momento della divergenza delle due specie. L’evoluzione è un processo inevitabilmente divergente ed il numero di mutazioni che si accumulano nel tempo è direttamente proporzionale al tempo stesso intercorso dalla divergenza delle sequenze in analisi (Zuckerkandl e Pauling 1965). In accordo con questo principio è stato proposta un’ipotesi chiamata “dell’orologio molecolare”, secondo cui i geni e i prodotti genici evolvono con tassi che sono approssimativamente costanti nel tempo e lungo le differenti linee evolutive. Perciò, se la divergenza genetica si accumula in modo regolare nel tempo, è possibile risalire almeno in maniera approssimativa ai tempi di divergenza tra diverse specie. Inizialmente ci si basò su di un orologio molecolare proteico, dal momento che negli anni ’60 i dati sul DNA erano ancora molto esigui, ma sin da subito fu chiaro che proteine diverse evolvono con tassi diversi, perciò questo metodo di studio fu abbandonato. A partire dagli anni ’80 si utilizzarono quindi gli allozimi come marcatori molecolari per studi di genetica di popolazione e filogenesi e contemporaneamente, lo sviluppo delle tecniche molecolari che ha permesso il sequenziamento genico, ha portato all’applicazione dell’orologio molecolare anche al DNA. Il tasso di divergenza medio per i primati è stato stimato di 2-4% per sequenza per milione di anni (Brown et al. 1979; Cann et al. 1993). Bisogna comunque essere molto cauti nell’utilizzare questo metodo perché per poterlo applicare correttamente bisogna tener conto della differenza di tasso di mutazione anche all’interno dello stesso mtDNA, ad esempio il D-loop evolve con un tasso superiore fino a 10 volte rispetto al resto del filamento ed il suo tasso di sostituzione nucleotidica è stato stimato dell’8,4% per milioni di anni (Greenberg et al. 1983, Horai e Hayasaka, 1990, Vigilant et al. 1989) mentre nelle altre regioni il tasso è di 0,19-3,2% per milioni di anni (Wallace et al. 1987, Wallace e Torroni 1992).

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1.2.6. mtDNA in filogeografia Studi filogeografici effettuati con marcatori uniparentali, quali il DNA mitocondriale e il cromosoma Y, sono fondamentali per cercare di stabilire una relazione tra la struttura genetica di una popolazione e la sua distribuzione geografica attuale che è il risultato dei vari processi migratori avvenuti nel corso della storia. Lo studio della filogeografia nacque dall’osservazione che le linee di DNA mitocondriale nelle popolazioni naturali, spesso mostrano distinte orientazioni geografiche. Da qui l’interesse di trovare una relazione tra la distribuzione delle popolazioni nelle diverse aree del mondo e le loro differenze a livello genetico. La filogeografia ha connessioni non solo con la genetica, ma anche con la storia naturale, la biologia della popolazione, la paleontologia, la geografia storica e l’analisi della speciazione. Per questo, per effettuare un’analisi filogeografica adeguata, bisogna avere un’immagine il più possibile chiara di tutti questi aspetti riguardanti la specie in esame.

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2. ORIGINE DELL’UOMO MODERNO Negli ultimi trent'anni il dibattito sull’origine dell’uomo anatomicamente moderno (u.a.m.) ha visto contrapporsi di diverse correnti di pensiero: quella riferibile al modello dell’evoluzine multiregionale (Multi-regional Model) o teoria del candelabro, secondo cui l’Homo sapiens emerge parallelamente in Africa, Europa e Asia e l’ipotesi dell’”out of Africa” o dell’arca di Noè, secondo cui l’uomo moderno è emerso unicamente dall’Africa e ha sostituito, per migrazione,

le

altre

specie

(Figura 6). Secondo la teoria multiregionale le popolazioni anatomicamente moderne si sarebbero evolute in Africa,

Asia

ed

Europa

in

sostanziale continuità con le forme più arcaiche del genere Homo

delle

geografiche. ipotizza

Figura 5: Evoluzione della specie umana

rispettive Questa

dunque

aree teoria

un'origine

molto antica dell'H. sapiens, intorno a 1 milione di anni fa. I sostenitori della teoria multiregionale, a sostegno della loro tesi, pongono enfasi su elementi di "continuità regionale" nei resti scheletrici delle popolazioni arcaiche e moderne di una determinata area; tali indizi in effetti sussistono (particolarmente se si guarda all'Estremo Oriente), ma i ricercatori che si basano sul modello alternativo dell'origine africana recente vedono in questi stessi dettagli anatomici di pretesa continuità regionale soltanto il retaggio di morfologie arcaiche ampiamente distribuite nell'umanità del Paleolitico inferiore. La prima corrente di pensiero che diede origine al modello multiregionale, si sviluppò a partire dal 1946, quando il paleoantropologo tedesco Franz Weidenreich propose un modello gradualista e progressionista che

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prevedeva il passaggio simultaneo di alcune popolazioni ominini attraverso tre grandi fasi (la fase erectus, la fase Neanderthal e la fase sapiens) divise fin dall’inizio nei diversi continenti. Secondo questo modello “a candelabro”, in Europa, in Africa, in Asia e in Australia, l’umanità avrebbe attraversato, separatamente e in parallelo, le stesse fasi lineari di progresso evolutivo. Quindi la trasformazione in Homo sapiens, sarebbe avvenuta in tutta

Figura 6: Modelli "Out of Africa" e Multiregionale a confronto

l’area di distribuzione dell’Homo erectus con evoluzioni parallele fino ad oggi. In ogni continente si posso quindi ritrovare delle linee di continuità regionale: le popolazioni europee discenderebbero direttamente dall’uomo di Neanderthal (Homo sapiens neanderthalensis), le popolazioni dell’Asia dall’Uomo di Pechino, le popolazioni indonesiane ed australiane dall’Uomo di Giava. Sempre secondo l’ipotesi multiregionale, l’antenato comune sarebbe da riconoscersi quindi nell’Homo ergaster, che sarebbe uscito dall’Africa un milione e mezzo di anni fa per colonizzare tutti gli altri continenti del Vecchio Mondo. Dall’altro lato troviamo invece i sostenitori del modello dell’evoluzione africana recente o Out of Africa Model.

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L’origine africana dell’Homo sapiens è il modello paleoantropologico dominante tra le teorie che tendono a descrivere l’origine e le prime migrazioni dell’uomo anatomicamente moderno. Questa teoria si contrappone a quella multiregionale innanzitutto per la collocazione temporale dell’origine di Homo sapiens: se prima la si collocava intorno a un milione e mezzo di anni fa, questa nuova teoria sposta l’evento cladogenetico che ha dato origine all’uomo moderno in un periodo molto più recente. Alcuni tra i più autorevoli esponenti di questa corrente come Howells (1976) e Stringer ed Andrews (1988) sostengono che la nostra specie sia nata circa 200.000 anni fa e che lì sia rimasta per altri 100.000 anni. Solo dopo questo periodo si sarebbe diffusa fuori dall’Africa per colonizzare gli altri continenti del Vecchi Mondo dove, con tempi e modalità differenti da regione a regione, avrebbe soppiantato le forme di Homo erectus e di Neanderthal ivi distribuite da molto tempo prima. Il concetto fondamentale che distingue le due teorie sull’origine dell’uomo anatomicamente moderno sarebbe quindi la continuità – o l’assenza di questa - fra le popolazioni attuali del vecchio continente e le forme antiche derivanti da Homo erectus. Negli ultimi tempi, sempre più dati a favore dell’Out of Africa hanno messo in crisi l’ipotesi multiregionale, ma d’altra parte sono stati trovati punti deboli anche in questo modello. Si cerca innanzitutto una spiegazione plausibile sulla scomparsa delle specie presenti precedentemente nelle aree poi occupate da Homo sapiens. Questi gruppi di ominidi avrebbero dovuto avere un tasso di estinzione particolarmente alto per potersi estinguere così velocemente da un ambiente a cui si erano adattati da molto tempo. L’ipotesi più attendibile è che lo stesso Homo sapiens abbia in qualche modo provocato l’estinzione degli altri taxa del genere, probabilmente grazie ad uno sviluppo maggiore delle capacità cognitive e ad un’organizzazione sociale più complessa che gli avrebbe permesso di prevalere ecologicamente sugli altri ominidi. Un’altra teoria propone un “assorbimento” delle popolazioni di erectus e di neanderthal da parte di quelle di sapiens, attraverso incroci tra le specie

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che avrebbero determinato la scomparsa del patrimonio genetico (e quindi anche delle caratteristiche fenotipiche) delle prime. Un’altra tesi ancora più recente (2007), sostiene invece che l’origine dell’uomo anatomicamente moderno, non sia avvenuta nemmeno in Africa, bensì in Eurasia (Out of Eurasia). Questa nuova corrente è sostenuta da un gruppo di ricerca coordinato da studiosi del Centro Nacional de Investigaciòn sobre la Evoluciòn Humana (Cenieh) di Burgos, in Spagna, in collaborazione con un docente di paleoantropologia dell’università La Sapienza di Roma, Giorgio Manzi. Manzi ha rilevato caratteristiche anatomiche, in particolare della dentatura, di circa 3000 reperti appartenenti alle specie di Homo habilis, Homo erectus, Homo neanderthalensis e a Homo sapiens, che documentano l’evoluzione dei nostri antenati in un arco temporale che va da 2 milioni di anni fa fino a quasi ai giorni nostri. Questi si sommano ad altri reperti di un cranio di 800.000 anni fa rinvenuto a Ceprano, nel Lazio, che mostra caratteristiche che fanno pensare ad un antenato comune sia all’uomo di Neanderthal, poi affermatosi nel nostro continente, sia alla linea filogenetica da cui ha avuto origine in Africa Homo sapiens.

2.1. Prove molecolari a sostegno della teoria “Out of Africa” A favore dell’ipotesi dell’origine africana recente, esistono numerosi reperti paleontologici, supportati dai dati dell’analisi mitocondriale. Attraverso l’analisi di restrizione condotta grazie all’uso di numerose endonucleasi, sono stati individuati nell’Homo sapiens numerosi siti polimorfici che hanno condotto alla formulazione di alcuni principi fondamentali (Jonshon et al. 1983): 1. Le mutazioni del DNA mitocondriale sono state accumulate in maniera sequenziale durante l’irradiazione delle linee materne; 2. La variabilità del mtDNA è fortemente correlata con l’origine etnica e geografica dei campioni, perché mutazioni nuove si sono 16


verificate concomitantemente alla migrazione di linee femminili in nuove regioni geografiche; 3. Tutti gli mtDNA oggi esistenti derivano da un unico mtDNA ancestrale; 4. L’albero filogenetico ricostruito grazie allo studio degli mtDNA, mostra che la specie umana è molto giovane. Si sarebbe originata in Africa 200.000 anni fa e avrebbe dato origine alle diverse etnie degli altri continenti solo 100.000 anni fa. Considerando costante il tasso di mutazione del mtDNA, si può ritenere che l’origine di queste diverse etnie sia proprio l’Africa, in cui si ritrova anche la più elevata diversità genetica. Lo studio per ora più influente è quello di Cann et al (1987), basato sul DNA mitocondriale di 147 individui provenienti da tutto il mondo (Africa nera, Asia, Europa, Australia, Nuova Guinea). Questi corrispondono

a

133

tipi

di

mtDNA (o linee evolutive) che si pensa derivino, per una serie di mutazioni,

da

un

solo

tipo

ancestrale (Figura 7). Questi autori hanno costruito un albero raggruppa

genealogico i

tipi

di

che mtDNA

osservati in base al grado di parentela evolutiva. E’ risultato un albero filogenetico con due rami principali,

uno

esclusivamente

comprendente africani

Figura 7: Albero filogenetico dei mtDNA

sub-

sahariani, e l’altro alcuni africani e il resto dell’umanità.

17


Il ragionamento più parsimonioso porrebbe quindi la radice dei due rami in Africa, indicando in questo continente l’origine del primo tipo di mtDNA dal quale sarebbero derivate le linee moderne studiate. Questo DNA mitocondriale apparterrebbe alla cosiddetta “Eva africana”, cioè l’ipotetica donna antenata comune, che avrebbe trasmesso il suo mtDNA a tutte le popolazioni che da lei hanno avuto origine. L’Eva mitocondriale sarebbe vissuta quindi in Africa circa 200.000 anni fa. Tutti gli altri mtDNA contemporanei a quello dell’Eva, si sarebbero estinti per varie ragioni come la deriva genetica e la mancanza di progenie. Osservando l’albero filogenetico ricavato da questi studi, possiamo notare che dei due rami principali che si originano direttamente dall’antenato comune, uno presenta unicamente individui provenienti dall’Africa subsahariana. Un’altra

osservazione

fondamentale

che

possiamo

fare

sempre

dall’osservazione dell’albero filogenetico è che il campione africano presenta una più ampia varietà di aplotipi di mtDNA, cioè una maggiore divergenza intrapopolazionistica, indice di una più lunga permanenza in uno stesso ambiente e quindi una più antica origine di quella specie in quel luogo rispetto ad un altro, che dà il tempo all’accumularsi di un maggior numero di mutazioni. Questo studio di Cann venne successivamente confermato da lavori di altri gruppi di ricerca come quello di Vigilant et al. (1991) eseguito sulla sequenza del D-loop del mtDNA di 120 individui africani provenienti da 6 diverse regioni. È stato quindi elaborato un albero filogenetico seguendo il metodo della massima parsimonia – basato sulla scelta del percorso più breve che collega i vari punti, ovvero il numero minimo di passaggi evolutivi tra un tipo e l’altro – in cui i 14 rami più lunghi conducono esclusivamente al mtDNA di individui africani, mentre il quindicesimo ramo comprende sia Africani che non Africani, i quali si trovano su diramazioni minori di questo ultimo ramo. Altri studi ancora successivi a questi (Horai e Hayasaka, 1990), conducono sempre alle stesse conclusioni e le linee di discendenza

18


mitocondriali di individui di popolazioni africane e non, riconducono sempre all’Africa (Figura 8). Calcolando il tasso di divergenza, ossia il numero di mutazioni tra due linee, tramite l’analisi delle mutazioni verificatesi tra due linee presenti in una popolazione rispetto all’antenato comune ad entrambe, si può risalire alla collocazione temporale del mtDNA ancestrale.

Figura 8: Diffusione dei differenti aplogruppi di mtDNA secondo il modello dell'Out of Africa

Secondo alcuni autori, la datazione dell’Eva ancestrale, sarebbe da posticipare addirittura di 200.000 anni e da far risalire quindi a circa 400.000 anni fa.

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2.1.1. Variabilità dei mtDNA nel mondo La linea mitocondriale ancestrale si è evoluta dando origine a numerosi motivi mitocondriali a tal punto che è possibile stabilire una forte connessione tra aplogruppi mitocondriali ed aree geografiche di origine, ovvero tra linee mitocondriali e migrazioni passate dell’uomo. Cinque grandi raggruppamenti comprendono tutta la variabilità mitocondriale umana: Africa sub-sahariana, Eurasia occidentale, Eurasia orientale, nativi americani ed australo-melanesiani (Figura 9).

Figura 9: Distribuzione mondiale degli aplogruppi di mtDNA

I macroaplogruppi sono tre: L, M ed N. L’aplogruppo L rappresenta l’aplogruppo ancestrale da cui si originarono L0 ed L1. Da quest’ultimo si osserva una grande diversificazione aplotipica. L’aplogruppo L3 si evolve in M ed N (circa 80.000 – 90.000 anni fa). M racchiude la prima migrazione umana fuori dall’Africa, che raggiungerà le coste meridionali dell’Asia. La presenza di questo aplogruppo si riscontra

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nelle popolazioni dell’Africa orientale, dell’Asia e delle Americhe, fino alla Melanesia. In Europa invece è assente. L’altro grande aplogruppo, N, potrebbe rappresentare un’altra grande migrazione al di fuori dal continente africano, con una direzione rivolta a Nord. L’aplogruppo N diverge quasi immediatamente per dare origine all’aplogruppo R. Questo consiste a sua volta di due sottoaplogruppi definiti in base alla loro distribuzione geografica: uno si trova nell’Asia sudorientale e in Oceania, l’altro comprende quasi tutte le popolazioni europee (circa 60.000 – 65.000 anni fa).

2.1.2. Variabilità europea dei mtDNA Per quanto riguarda l’Europa, recenti studi rivelano che tutti gli Europei condividono essenzialmente lo stesso set di aplogruppi, così come gli abitanti del vicino Oriente, e che tali aplogruppi sono assenti nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia dell’est. Queste osservazioni confermano che gli Europei e gli abitanti del vicino Est condividono una recente origine comune. Dalla filogenesi dell’intero mtDNA, possiamo notare che la variazione di quello europeo è diminuita in termini di numero di linee indipendenti, a confronto della variazione riscontrata in Asia meridionale. La maggior parte delle linee europee hanno origine da sole tre diramazioni dell’aplogruppo R (R0, JT e U) in aggiunta a tre diramazioni minori dell’aplogruppo N (N1, N2 e X) (Figura 11). La variazione negli aplogruppi di DNA mitocondriale europeo può essere datata intorno a 40.000 – 50.000 anni fa. Ulteriori studi rilevarono che più dei tre quarti dell’attuale mtDNA europeo, molto probabilmente, ebbe origine da indigeni mesolitici o dagli antenati paleolitici. L’analisi di un ramo minore del mtDNA europeo, l’aplogruppo V e lo studio della sua distribuzione geografica, mise in evidenza che l’espansione della popolazione del paleolitico verso l’Europa del sud, nella tarda glaciazione, potrebbe aver avuto un sostanziale impatto nel ripopolamento del continente.

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L’evidenza dell’importanza del rifugio glaciale Franco-Cantabrico è stata stabilita dal sezionamento degli aplogruppi H e U5 nei loro sottoaplogruppi. L’aplogruppo H è il più comune in tutta l’Europa (40-50%). La stima del periodo e della distribuzione geografica dei gruppi H1, H3, V e U5b sostengono un ripopolamento della maggior parte dell’Europa occidentale e settentrionale dal rifugio della zona sud-occidentale nel tardo Paleolitico.

Figura 10: Filogenesi del mtDNA e distribuzione dei principali aplogruppi (in azzurro gli aplogruppi europei)

Sembra che nel tardo Paleolitico, tutti i maggiori aplogruppi mitocondriali europei, quali U, JT ed R0, fossero già presenti e molti presentavano già i loro sottoaplogruppi. La successiva immigrazione, avvenuta a partire dal Neolitico, sembra aver portato alcuni sottoaplogruppi di più recente origine, tra cui J1b1, J2a, T1a e forse alcuni rari come R1, R2 e N1a.

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3. LA SARDEGNA 3.1. Peculiarità biologica della popolazione sarda Gli studi sulle relazioni biologiche tra i Sardi e le altre popolazioni dimostrano che la popolazione della Sardegna presenta un quadro biologico peculiare che la differenzia nettamente dalle popolazioni del continente europeo e circum-mediterranee (Vona, 1995; Memmì et al., 1998; Lampis et al., 2000; Ghiani e Vona, 2002; Vona et al., 2002; Francalacci et al., 2003; Quintana-Murci et al., 2003). Per questa ragione, la Sardegna rappresenta per i genetisti, un’area di studio di particolare interesse. Cavalli-Sforza et al. (1994) sostengono che la specificità biologica dei Sardi sia una conseguenza della deriva genetica e che l’apporto di geni da parte dei Neolitici sia stato limitato e forse con apporto di nuova deriva (Cavalli-Sforza et al., 1994). Altri Autori (Chiarelli, 2003; Francalacci et al., 2003; Rootsi et al., 2004) ipotizzano che la peculiare elevata incidenza della mutazione M26 del cromosoma Y nei Sardi sarebbero una conseguenza dell’effetto del fondatore nell’espansione dalla popolazione ancestrale dopo l’ultimo Massimo Glaciale (Last Glacial Maximum). Secondo Memmì et al. (1998) la popolazione sarda e quella corsa presenterebbero, nell’ambito delle popolazioni mediterranee, una forte similitudine nella struttura biologica dovuta all’origine da una popolazione ancestrale comune; mentre le differenze genetiche riscontrabili tra le due popolazioni risalirebbero non al Neolitico ma all’azione di successivi e relativamente recenti effetti collo di bottiglia (bottleneck) sulle due popolazioni. Una ipotesi simile è sostenuta da Latini et al. (2003) in base alle frequenze degli aplotipi del cluster β -globinico. Infine da notare che Falchi et al. (2004) e Piras et al. (2005) oltre ad aver ipotizzato la comune origine dei Sardi e dei Corsi, in base ai propri risultati ed a quanto riportato da vari Autori (Varesi et al., 2000; Vona et al., 2002; Vona et al., 2003), sostengono inoltre che le differenze riscontrabili tra le 23


due popolazioni siano una conseguenza dell’azione di svariati fenomeni che producono la deriva genetica: la bassa densità demografica, le epidemie che possono aver causato un effetto bottleneck ed i lunghi periodi di isolamento che hanno caratterizzato diversi centri sia corsi sia sardi.

3.2. Preistoria e storia della Sardegna 3.2.1. Paleolitico e Neolitico L’uomo giunse in Sardegna nel Paleolitico, circa 15.000 anni fa, come attestano delle pietre scheggiate e lavorate, ritrovate nel rio Altana, nei pressi di Perfugas (SS). Nella Grotta Corbeddu, presso Oliena (NU), sono state rinvenute tracce della presenza dell’uomo paleolitico risalenti a 23.000 anni fa. Nel Neolitico antico (6.000 – 4.000 a.C.) gli uomini affinarono l’arte di lavorazione litica, perfezionandosi fino ad ottenere manufatti più rifiniti ed agevoli. Negli anni ’70, vicino a Sirri (CI), venne alla luce un importantissimo sito, grazie alla scoperta del

quale

abbiamo

potuto capire meglio il sistema di vita di un clan di cacciatori. Essi

utilizzavano

costruzione

di

armi

per

la

e

altri

oggetti, oltre che l’osso e le

Figura 11: Le vie dell'ossidiana

conghiglie (in particolare per le collane), l’ossidiana. La presenza di questo materiale fu un elemento fondamentale che richiamava nell’isola i popoli che ne facevano uso (Figura 11). Questa grande risorsa naturale, durante questo periodo, era costituita dai giacimenti di selce e di ossidiana, rinvenibili in grandi quantità nelle cave del Monte Arci.

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Da sottolineare poi gli scambi di prodotti in metalli quali rame, stagno e poi bronzo, i cui commerci seguivano rotte che collegavano la Sardegna alle terre più lontane del Mediterraneo (Figura 12). Numerosi altri reperti del Neolitico sono stati ritrovati all’interno della “Grotta del pipistrello” (sa Ucca de su tintirriolu) presso Mara (SS). In questo sito son stati riportati alla luce, da Renato Loria e David H. Trump, nel 1971

reperti

che

sono

testimonianza

della

prima

cultura in Sardegna ad aver utilizzato le cavità naturali come sepolcri. Figura 12: Le rotte del commercio del rame

Le

popolazioni

che

svilupparono questa cultura, la cultura di Bonu Ighinu, praticavano l’agricoltura e preferivano abitare vicino alle coste, infatti, sempre a partire da questo periodo, in Sardegna si cominciarono a costruire i villaggi lungo le coste e nei pressi degli stagni. Negli anni ’70, a Cuccuru S’Arriu, presso Cabras (OR) fu infatti rinvenuta una serie di tombe ipogeiche (scavate nella terra) all’interno delle quali erano conservati scheletri e diversi altri reperti attribuiti alla cultura neolitica di Bonu Ighinu (4.000 – 3.400 a.C.). da sottolineare che questi insediamenti si trovavano non lontano dai giacimenti di ossidiana. Ulteriori tracce dell’uomo neolitico furono ritrovate nella Grotta di San Michele, nei pressi di Ozieri (SS) ed allo stesso periodo (3.400 – 2.700 a.C.) è fatta risalire la costruzione del monumento, simile ad una ziggurat mesopotamica, di Monte d’Accoddì (SS), unico nel suo genere in Sardegna. Durante la cultura di Ozieri inizia la costruzione delle Domus de Janas (case delle fate), ovvero tombe scavate nella roccia o nella terra con una o più camere funerarie. Altre costruzioni di questo genere si possono osservare a Villa Sant’Antonio (OR) nella necropoli di Genna Salixi, ad

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Alghero (SS) nella necropoli di Anghelo Ruju, a Villaperuccio (CI) nella necropoli di Montessu. Sempre nel periodo di Ozieri si iniziarono ad edificare i Dolmen (dol = tavola; men = pietra), i menhir, di provenienza celtica, e strutture templari.

3.2.2. Età del rame (2.700 – 1.800 a.C.) La prima cultura che segue quella di Ozieri è quella di Abealzu – Filigosa, che prende il nome da due necropoli vicine rispettivamente ad Osilo (SS) e Macomer (NU). Questa cultura dura circa 200 anni (2.700 – 2.500 a.C.) ed è considerata la prima dell’età del rame a causa di una decadenza nell’arte della ceramica ed una prima esigenza di difesa nei villaggi, quindi apparizioni di oggetti in questo metallo. Agli inizi del ‘900, nella collina di Monte Claro a Cagliari (ora parco al centro della città), vennero alla luce dei reperti che furono attribuiti ad una nuova cultura dell’età del rame. Emerge in questo periodo una presa di distanza dal mare ed una fortificazione dei centri abitati, probabilmente per paura dei pericoli provenienti dall’esterno. Iniziano quindi ad apparire i primi villaggi nella zona pianeggiante del Campidano. Nel periodo tra il 2.000 ed il 1.800 a.C., un popolo, proveniente dalla Penisola iberica, si diffuse, per cause ignote, in tutta Europa, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “zingaro della preistoria”; la tipica forma della sua ceramica a campana rovesciata (beaker) lo fece identificare come “popolo del vaso campaniforme”. I Campaniformi giunsero anche in Sardegna, dove sono stati attribuiti loro 37 siti.

3.2.3. Periodo nuragico (1.500 – 800 a.C.) All’alba dell’Età del Bronzo, in Sardegna fiorì una grande civiltà, chiamata nuragica, dai simboli che la rappresentavano: i nuraghi (Figura 13), grandi opere megalitiche, il cui numero modificò l’aspetto del paesaggio isolano, che tutt’oggi è caratteristico grazie alla presenza imponente in tutto il territorio di queste costruzioni.

26


La civiltà nuragica mosse i primi passi con la cultura di Bonnannaro (SS), considerata un vero e proprio ponte con le civiltà neolitiche maggiori, come quelle di Ozieri e di Bonu Ighinu e quelle eneolitiche (del rame) di Monte Claro e Campaniforme.

Figura 13: Nuraghe

Molti parlano di apporti culturali di popoli esterni all’isola, che avrebbero avviato

la

cultura

nuragica,

ma,

nonostante queste teorie, si considera questa

cultura,

propriamente acquisizioni

un

sardo, culturali

fenomeno nato dei

dalle periodi

precedenti, infatti si ipotizza che le costruzioni l’evoluzione

nuragiche di

antiche

fossero capanne

inizialmente con la sola base in pietra ed il resto in pali di legno e frasche,

Figura 14: Complesso nuragico di Barumini

successivamente sostituite interamente da pietre. I nuraghi, da semplici capanne e torri, divennero sempre più complessi, fino a diventare veri e propri castelli, dimore dei sovrani, adatti a proteggere i villaggi costruiti accanto ad essi (Figura 14).

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3.2.4. Fenici, Cartaginesi (X sec. a.C. – 238 a.C.) e Romani (238 a.C. – 456 d.C.) I Fenici, originari dell’attuale Libano, essendo un popolo di mercanti ed esperti navigatori, passarono da una costa all’altra a colonizzare l’intera area mediterranea, a partire dall’Africa settentrionale, alla Spagna, alla Francia, per poi giungere, passando per la Corsica, anche in Sardegna. Gli scali principali che i Fenici stabilirono nell’isola furono Tharros (Cabras), Sulci (Sant’Antioco), Bithia (Domus de Maria), Nora (Pula) e Caralis (Cagliari), oltre a scali minori come Bosa, Othoca (Santa Giusta) e Neapolis (Guspini). Nel VI sec a.C. i Fenici tentarono di ampliare i loro scali, conquistando una fascia di terra a ridosso di questi per poter insinuarsi nell’entroterra, ma questo tentativo di espansione non fu tollerato dalle popolazioni nuragiche, che attaccarono gli invasori e le loro fortezze. A causa di questo evento, i Fenici in difficoltà furono costretti a chiamare in loro soccorso i loro alleati cartaginesi, i quali sbarcarono nell’isola nel 509 a.C. Per la prima volta nella sua storia, la Sardegna fu conquistata da una potenza straniera, che però non riuscì mai a penetrare nella zona centrale, che si oppose fermamente all’invasore. Sconfitti i grandi rivali punici, i Romani si sostituirono ad essi in Sardegna (238 a.C.) non con intento di limitarsi a creare dei soli empori commerciali lungo le coste o di esercitare il loro diretto dominio sulle grandi città costiere, ma di essere padroni assoluti dell'Isola. La penetrazione avvenne sì, ma fu lentissima e si protrasse per molti secoli e durò quasi fino alla caduta dell'Impero. I Sardi ribelli vennero massacrati a decine di migliaia e altrettanti furono condotti schiavi a Roma. Solo la zona della Barbaria, odierna Barbagia, resistette ancora per molto tempo all’invasione.

3.2.5. La Sardegna Medievale e Giudicale Nel 476 d.C. cadde ufficialmente l’impero romano d’Occidente, in seguito alle sempre più frequenti e devastanti invasioni barbariche. Quello vandalico fu nell’isola un dominio breve, non superando gli ottanta anni e 28


forse restò sempre circoscritto soltanto alle città costiere ed alle campagne più prossime. La presenza vandalica finì presto perché anche la Sardegna rientrava nel gran disegno di riconquista dell’impero d’occidente concepito da Giustiniano, pertanto nel 534 entrò a far parte del vasto impero bizantino, con la breve interruzione causata nel 552 dagli Ostrogoti. Successivamente volta

degli

fu

Arabi,

la che,

approfittando di gravi crisi dinastiche

e

politico-

religiose che travagliavano Bisanzio,

poterono

scorrazzare indisturbati per almeno

tre

secoli

attraverso il Mediterraneo occidentale, attaccando e depredando le coste. Entro tale contesto, la Sardegna diveniva un obiettivo facile ed

importante a

della

sua

causa

posizione

centrale.

Durante

le

invasioni

arabe,

la

Sardegna,

sempre

più

isolata dovette

da

Bisanzio,

necessariamente

rendersi economicamente Figura 15: I Giudicati della Sardegna

autonoma. La gravità della situazione e la distanza

del governo bizantino portarono, tra l'851 e l'864, i luogotenenti che governavano le quattro Partes in cui l’isola era suddivisa, ad organizzarsi autonomamente, anche per fronteggiare la presenza nei mari di un grave

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pericolo come quello rappresentato dalle flotte saracene. Ciascuno di loro si nominò Judex: nascevano così i re giudici dei quattro Giudicati: Cagliari o Pluminos, Arborea, Torres o Logudoro e Gallura (Figura 15). Queste istituzioni possono essere considerate una delle più originali tra le forme di governo medioevali. Tutta l’età giudicale fu un periodo d’indipendenza e di grande prestigio per l’isola. Da segnalare poi la presenza in questo periodo delle Repubbliche marinare di Pisa e Genova, chiamate dai giudici a sostegno dei popoli costieri contro le scorrerie saracene. La Sardegna venne liberata dai musulmani,

ma

le

due

repubbliche

marinare

si

resero

conto

dell'importanza della regione dal punto di vista strategico, politico e commerciale: quindi iniziarono una fitta rete di rapporti commerciali con i Giudicati. Giunsero così in Sardegna manufatti artigianali, spezie, tessuti, ferro e frutta provenienti dal continente, e partirono navi cariche d'orzo, grano, sale, minerali, corallo, bestiame e suoi derivati. Anche in Sardegna si diffusero la borghesia mercantile e nacquero i primi liberi comuni, come la città di Sassari. La dominazione Pisano-Genovese, portò nuova vita all'economia e diede la possibilità alla Sardegna di uscire dal suo isolamento. Pisa e Genova però iniziarono ad interferire ben presto con la politica dei singoli Giudicati, entrarono in conflitto fra loro e spesso la Sardegna fu teatro dei loro scontri. L'ingerenza politica pisana e genovese sui re giudici durò dall'XI al XIV secolo,

trasformandosi

lentamente

prima

in

protettorato,

poi

in

dominazione. La crisi delle istituzioni giudicali era ormai entrata nella fase finale. Nel 1479 la Sardegna diventa di dominazione spagnola, sotto il regno di Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. A questa si succede la dominazione sabauda nel Settecento e finalmente la nascita nel 1720 del Regno di Sardegna e la sua trasformazione in Regno d’Italia il 17 marzo del 1861, che diventò Repubblica italiana con il referendum del 1946. Da questo complicato quadro storico, che vede il succedersi nel territorio sardo di numerosi popoli invasori ed il susseguirsi di tante culture,

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saremmo portati a pensare che i Sardi attuali siano il risultato di una mescolanza di vari patrimoni genetici provenienti da ogni parte del Mediterraneo. Invece, si osserva in tutta l’isola, una straordinaria omogeneità genetica, che ci porta a ritenere che tali dominazioni siano state esclusivamente di carattere politico e culturale (Sanna et al., 2010), con rari incroci tra le genti sarde e quelle esterne.

3.3. Storia della Sardegna su base genetica Gli abitanti della Sardegna sono stati da sempre oggetto di studio da parte della genetica di popolazione per via delle loro particolari caratteristiche. I Sardi, infatti, se confrontati con le popolazioni di tutto il mondo fanno chiaramente parte del cluster europeo, ma si differenziano abbastanza nettamente dalle popolazioni italiane ed europee geograficamente a loro più vicine. Il ripopolamento post-glaciale dell'Europa occidentale ha rappresentato un momento chiave nell'evoluzione del patrimonio genetico degli Europei moderni. Tra le aree di rifugio individuate, quella italiana è stata a lungo considerata di importanza secondaria nel processo di ripopolamento umano, almeno fino a pochi anni fa. Lo studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale, guidato dal professor Antonio Torroni (Dipartimento di Genetica e Microbiologia) dell'Università di Pavia, ha individuato per la prima volta le tracce genetiche di un evento di espansione umana originatasi nel rifugio italiano. Lo studio, incentrato sull’aplogruppo mitocondriale U5b3, ha rivelato che questa linea femminile ebbe origine nell'area di rifugio italiana all'inizio dell'Olocene da dove, in seguito, si diffuse lungo le coste del Mediterraneo, principalmente verso la vicina Provenza,

precisamente

nel

rifugio

Franco-Cantabrico

(Francia

Meridionale). Da qui, circa 7.000-9.000 anni fa, un sotto-clade di questo aplogruppo, si spostò in Sardegna, verosimilmente in associazione con l’attività di commercio dell’ossidiana (abbondante nel Neolitico nella zona del Monte Arci), che appunto seguiva la rotta tra queste due regioni, e lasciò un’impronta distintiva nella popolazione isolana. Questo dato

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ottenuto dallo studio dei marcatori femminili, trova pieno riscontro con quello dei marcatori maschili, ricalcando la distribuzione dell’aplogruppo M26 del cromosoma Y. Questi elementi sottolineano un caso particolare in Europa di effetto fondatore, confermato da entrambe le linee parentali. L’aplogruppo mitocondriale U5, un sottogruppo dell’ aplogruppo U, è uno dei più antichi presenti in Europa ed include circa l’11% della popolazione europea.

Figura 16: Dettaglio dell'albero filogenetico dell'aplogruppo U5b3 nel contesto dell'aplogruppo U5

Nel tempo, questo si è differenziato in due branche: U5a ed U5b. U5b si è poi ulteriormente diversificato in U5b1 ed U5b2. Nel 2006, una terza ramificazione di questo aplogruppo (U5b3) è stata ritrovata solamente in Sardegna. La Sardegna infatti rimase disconnessa dalla terraferma anche quando il livello del mare era più basso, durante l’ultimo massimo glaciale (LGM), 20.000 anni fa, e probabilmente è stata l’ultima grande isola del Mediterraneo ad essere stata abitata dall’uomo moderno. L’aplogruppo U5b3 (Figura 16) si può considerare peculiare della Sardegna, in quanto risulta, dagli studi condotti, che nel Vicino Oriente è pressoché assente, così come in Nord Africa, e in Europa la sua frequenza raggiunge solo l’1%, quindi è un aplogruppo raro, escludendo naturalmente la Sardegna, in cui la presenza di U5b3 è stimata del 3,8%.

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L’aplogruppo che è presente in maggior percentuale in Sardegna è comunque l’H, condiviso da quasi il 10% della popolazione, seguito dall’aplogruppo V, in accordo con i dati relativi all’intera penisola italiana.

3.4. Subregioni e paesi di interesse per questa tesi. Nel lavoro da me preso in esame, sono stati analizzati campioni provenienti da una specifica zona della Sardegna: la parte SudOccidentale. La Sardegna è geograficamente suddivisa in subregioni amministrative tradizionali, chiamate, nell’epoca giudicale, curatorie, ovvero “parti”. Ogni curatoria era composta da diverse decine di villaggi ed era tanto più estesa, quanto meno popolata e viceversa. La ripartizione in curatorie giudicali, ricalca largamente la suddivisione in 30 subregioni della Sardegna comunemente accettata al giorno d'oggi. I comuni presi in considerazione durante lo studio sono 7: Cabras, Guspini, Arbus, Villacidro, San Gavino Monreale, Sant’Antioco e Carloforte. Nel complesso, questi paesi appartengono alle subregioni del Campidano di Oristano, Campidano di Sanluri e Sulcis-Iglesiente (Figura 17) , nel dettaglio:

CABRAS

Campidano di Oristano (Campidano maggiore o di Cabras)

SAN GAVINO MONREALE

Campidano di Sanluri (Monreale)

VILLACIDRO

Alto Iglesiente o Guspinese

ARBUS

Alto Iglesiente o Guspinese

GUSPINI

Alto Iglesiente o Guspinese

SANT’ANTIOCO

Alto Sulcis o “Meurreddìa de susu”

CARLOFORTE

Alto Sulcis o “Meurreddìa de susu”

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Figura 17: Subregioni della Sardegna

Due sono i Campidani principali: Cagliari

quello e

quello

di di

Arborea, questi hanno in comune il fatto di essere elevati di pochi metri sul livello del mare, con cui terminano da una parte. Si tratta di una regione piuttosto povera, nonostante le terre fertili, l’industria ruota attorno all’agricoltura, soprattutto dei cereali. Il Campidano di Arborea si suddivide a sua volta in tre dipartimenti: il Campidano Maggiore, il Campidano Milis e il Campidano Simàgis. È nel Campidano Maggiore che si colloca il paese di Cabras, anticamente Capras.

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Si legge dai testi dell’800 di Angius: “Cabras giace in esposizione a tutti i venti, sopra un piano in gran parte sabbioso, appoggiata alla sponda orientale del lago di Pontis, comunemente detto Mare-de-pontis, a un miglio dal mare, atre dalla foce del Tirso verso tramontana, e pure a circa tre miglia da Oristano”, per la sua posizione, gran parte degli uomini vive della pesca, sia di stagno che, soprattutto, di mare, abbondante di svariate specie di pesce. Nel 1834 si contano 900 famiglie e 3556 abitanti in tutto. Il comune di Carloforte ha una storia alquanto particolare. L’isola di San Pietro rimase disabitata fino “all’ottavo lustro del secolo XVIII” fino a quando era solo luogo di agguato per i barbari. È nel 1737 che gli abitanti di Tabarca (nell’Africa del Nord), chiesero a Carlo Emanuele di poter emigrare in una delle piccole isole del suo regno. Questi destinò loro proprio l’isoletta di San Pietro, nominandone Duca il marchese Della Guardia D. Bernardino Genoves, a patto che accogliesse Agostino Tagliafico, un signore genovese, con la sua famiglia e alcune persone dipendenti, stabilitesi già da tempo a Tabarca. Nel maggio del 1738 giunsero quindi nell’isola più di 400 coloni tabarchini, tutti originari e dipendenti della Liguria. Questi erano in gran parte marinai e commercianti. Un’ulteriore ondata di colonizzazione si ebbe cinque anni dopo l’istituzione della colonia, quando i Barbari attaccarono Tabarca e ridussero i suoi abitanti in schiavitù. Il re Carlo Emanuele, commosso, consegnò 120 schiavi maomettani in cambio dei tabarchini, che andarono ad incrementare la popolazione di Carloforte. Nel 1834 si enumerano 2935 anime. Sant’Antioco (anticamente Sulci) è una delle maggiori città che fiorì al tempo dei Fenici, poi la sua prosperità continuò sotto i Cartaginesi ed infine sotto i Romani. Venne ripopolata a distanza di un centinaio d’anni perché la gente era restia a stabilirvisi a causa delle frequenti invasioni barbariche. Nel 1849, la popolazione ammonta a 2900 persone.

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Scrive Angius: “I popolani di s.Antioco sono nella massima parte sulcitani d’origine, a’ quali si sono aggiunti di giorno in giorno alcuni sardi delle altre provincie e pochi stranieri” e poi “Non sono in uso presso gli antiochesi le pubbliche ricreazioni ne’ giorni festivi, la danza e il canto; il che può nascer da questo che i primi popolatori non vennero da comuni, dove fossero in consuetudine quei sollazzi; ma da famiglie disperse nell’isola nella prossima regione della Sardegna”. Sempre da questi testi, si hanno testimonianze di contatti commerciali tra Sant’Antioco ed altri paesi: “Gli antiochesi vendono a’ carolini – abitanti di Carloforte – ed a’ genovesi gran quantità di prodotti agrari […]” San Gavino di Monreale, grosso comune della Sardegna, si trovava alla frontiera tra il regno di Arborea e quello di Plumino (o Cagliari), per questo motivo in questo territorio si verificarono scontri tra questi due regni e tra arboresi ed aragonesi, a discapito del paese. I Sangavinesi vivevano principalmente di agricoltura e pastorizia e avevano contatti commerciali per lo più con gli altri centri della zona come Sardara, Sellori (Sanluri) e Samassi, ai quali vendevano la legna per i forni e i focolari. Il numero degli abitanti nel XIX secolo oscillava di parecchio a causa di angherie di invasori, di vessazioni feudali, di epidemie, emigrazioni ed immigrazioni di famiglie estere. Nel 1837 la popolazione contava 2672 anime. Il paese di Cidro (oggi Villacidro) era già nell’800 un grande centro di più di 6000 abitanti. Per quanto riguarda i contatti con l’esterno, oltre al mercato di grano, orzo e merci varie che si teneva quotidianamente nella piazza, richiamando genti da dipartimenti lontani, Angius scrive: “Estraesi da Villacidro su cavalli e carri l’acquavite, che si smercia in tutte le ville della parte meridionale e nella capitale. Più di 200 uomini escono a questo negozio, e restano circa quattro mesi girando, né ritornano che nell’agosto”.

36


Arbus, nel XIX secolo, villaggio della provincia d’Iglesias, distretto di Guspini è “distante a marcia di cavallo da Gùspini mezz’ora […] da Cagliari ore 12”, nonostante ciò si effettuava il commercio di granaglie e bestiame fino alla lontana capitale. La parte occidentale del vastissimo territorio di Arbus (396 miglia quadrate) è bagnata dal mare che va dal territorio di Fluminimaggiore fino al golfo di Oristano, quindi quasi confinante col comune di Cabras. Guspini, nel 1839 conta 3808 abitanti. Scrive Angius “I guspinesi sono gente

economa,

ed

evitano

le

occasioni

di

dover

spendere.

Fortunatamente, che sono in un canto, dove rari passano e domandano ospizio.” Comunque i commercianti di questo paese raggiungevano spesso Cagliari, dove smerciavano i loro prodotti ricavandone lauti guadagni. Vicino al paese, sulle sponde del mar morto di Marceddì, si trovano le spoglie dell’antica città romana di Neapolis. La regione un tempo occupata dai Neapoliti, si estendeva “a levante almeno sino a Sardara, mentre, verso il meriggio possiamo allargarla sino alla valle del Sibiri, in là della quale abitava la tribù Sulcitana. Plinio rassegana i neapoliti tra le maggiori e più illustri tribù della Sardegna”.

37


4. SCOPO DELLA TESI Questo lavoro si pone l’obiettivo di analizzare, mediante l’utilizzo di un marcatore a trasmissione uniparentale materna ampiamente diffuso in studi di natura popolazionistica, quale è il mtDNA, le dinamiche di popolazione in senso diacronico che hanno interessato la zona del SudOvest della Sardegna (Alto e Medio Campidano e Sulcis-Iglesiente). Verrà valutato se e in quale misura, si siano verificate negli ultimi due secoli circa, variazioni genetiche dovute a dinamiche microevoluzionistiche, come la deriva genetica o il flusso genico tra le diverse aree. Lo studio è stato

effettuato

mettendo

a

confronto

due

diversi

metodi

di

campionamento: il metodo Random ed il metodo basato sulle Breeding Units, che verranno spiegati in seguito. Le notizie storiche al momento disponibili, suggeriscono che ci potrebbero essere contaminazioni di mtDNA esterno specialmente per quanto riguarda le popolazioni dei paesi costieri, che, proprio per la loro posizione geografica, hanno avuto nel tempo più contatti con altri popoli sia per le attività commerciali, sia perché, essendo più esposti, sono stati più facilmente mira di popoli invasori. Ci si aspetta perciò che dalle analisi dei mtDNA di Cabras e di Carloforte in particolare, emerga un contributo esterno e quindi un’introgressione con altre popolazioni.

38


5. MATERIALI E METODI 5.1. Metodi di campionamento I metodi di campionamento utilizzati durante questo lavoro sono stati due: il metodo Random ed il metodo basato sulle Breeding Units (MBU). Il metodo Random prevede una selezione casuale degli individui da campionare, prestando attenzione solamente al loro cognome, che dev’essere tipico sardo e di origine non polifiletica e al fatto che tra i soggetti non devono intercorrere rapporti di parentela da almeno due generazioni (non devono avere i nonni in comune). Il secondo metodo, quello basato sulle Breeding Units (MBU), sceglie i campioni in base a più rigorose regole: gli individui devono far parte di un gruppo interfecondo che condivida un pool genico comune; il criterio che si adotta per la selezione del cognome è il medesimo usato nel metodo Random e gli individui non devono essere imparentati tra loro da almeno cinque generazioni. Inoltre, sono stati scelti soggetti i cui antenati fossero presenti in quel determinato territorio almeno dal XVII secolo. I due metodi forniscono quindi una rappresentanza dello stato genetico attuale della popolazione (metodo Random) e di quello corrispondente al diciannovesimo secolo (MBU). L’utilizzo di questi due strumenti fornirà la possibilità di comprendere se e come le frequenze geniche siano cambiate nel corso degli ultimi secoli nelle aree considerate. Per effettuare questa selezione, si è fatto riferimento ai registri conservati negli archivi vescovili: i Quinque libri. Questi sono raccolte nelle quali, nel periodo del regno di Sardegna, i parroci di ogni comunità annotavano i cinque atti fondamentali dell’esistenza di ciascun residente: il battesimo, la cresima, il matrimonio, 39


lo stato delle anime (la composizione del nucleo familiare dei cui componenti a cominciare dal capofamiglia, venivano registrati il nome, il grado di parentela e il mestiere), infine la morte ed eventualmente il testamento. Questi testi sono un documento fondamentale per la ricostruzione degli alberi genealogici e per avere uno spaccato della popolazione di tutti i singoli comuni sardi a partire dal 1600, fino all’istituzione del servizio civile, nel 1865 quando cessò la compilazione di questi documenti. Si è così ricostruito l’assetto genico dei luoghi studiati risalente al 1800, evitando ogni fenomeno di consanguineità tra individui ed escludendo i flussi genici esogeni successivi al ‘600. Rispettando queste regole basate sulle MBU, sono stati prelevati campioni di sangue da 85 individui sani non imparentati, rispettivamente 35 soggetti di Cabras e 50 soggetti dei restanti paesi del Sulcis-Iglesiente, nel dettaglio 10 di Arbus, 10 di Guspini, 10 di Sant’Antioco, 10 di San Gavino M.le e 10 di Villacidro. Per quanto riguarda invece il confronto con il metodo Random, i campioni analizzati sono stati 71, sempre provenienti da individui non imparentati tra loro ed originari della stessa area: 48 soggetti di Cabras (e dei territori limitrofe fino a 50 km) e 23 soggetti dell’area del Sulcis-Iglesiente (1 di Arbus, 1 di Guspini, 4 di Sant’Antioco, 11 di San Gavino M.le e 6 di Villacidro). Il campione di Carloforte i cui abitanti hanno origine ligure, è stato utilizzato con successo durante l’elaborazione dei dati come outgroup allo scopo di valutare se le frequenze sarde, pur comprese all’interno della variabilità europea, si differenziassero da essa per la presenza di peculiarità tipiche dell’isola. Per semplicità, i soggetti sono stati raggruppati in base alla loro provenienza, in due principali aree: la zona più a Nord, del Campidano Maggiore, comprendente quindi Cabras, e la zona a Sud, comprendente il Sulcis-Iglesiente ed il Medio Campidano (che include quindi i restanti 6 comuni presi in esame).

40


5.2. Analisi del mtDNA L’analisi della variabilità del DNA mitocondriale è stata condotta su campioni di DNA estratto da sangue forniti dal gruppo di ricerca del Prof. Marcello Siniscalco. Si è svolta innanzitutto l’analisi di sequenza della regione del D-loop I del mtDNA, quindi mediante software specifici si è proceduto alla tipizzazione degli individui che sono poi stati attribuiti a diversi aplogruppi di appartenenza. Per una piccola parte di campioni non è stato sufficiente il solo sequenziamento del D-loop I, quindi si è dovuto procedere alla digestione con gli enzimi di restrizione della regione codificante. L’analisi genetica si è svolta secondo le seguenti tappe: 1. Amplificazione mediante PCR; 2. Elettroforesi su gel di agarosio al 2%; 3. Purificazione enzimatica; 4. Sequenziamento della regione non codificante (HVS-I) mediante l’ausilio di un centro esterno (Macrogen Korea); 5. Taglio con enzimi di restrizione della regione codificante; 6. Elettroforesi su gel di agarosio al 3%; 7. Elaborazione dati.

1. Amplificazione mediante PCR La Polymerase Chain Reaction (PCR) o reazione di amplificazione a catena è una tecnica che permette di amplificare una specifica sequenza di DNA milioni di volte in poche ore. La tecnica è stata inventata nel 1983 da Kary Mullis che ricevette per questo il premio Nobel per la chimica 10 anni dopo. In una cellula che sta per dividersi, la replicazione del DNA implica una serie di reazioni mediate da enzimi specifici, che portano alla formazione di una copia fedele dell’intero genoma. Uno dei passaggi essenziali di questo processo è la formazione di un innesco (primer) per l’attacco

41


dell’enzima DNA polimerasi, la quale poi produce il nuovo filamento di DNA, complementare a quello preesistente. La sintesi consiste nel concatenamento dei nucleotidi a partire da precursori liberi. La PCR consiste nella ripetizione in provetta di questi passaggi per numerosi cicli, fino ad ottenere una consistente quantità di materiale da poter analizzare più agevolmente. Le reazioni di amplificazione sono state condotte utilizzando i primers 5′ - L15996 e 3′ - H16401, che amplificano l’HVS-I di Homo sapiens.

Primer Forward

L15996

5’- CCACCATTAGCACCCAAAGC- 3’

Primer Reverse

H16401

5’- TGATTTCACGGAGCATGGTG- 3’

Nel corso del lavoro è stata usata la Taq polimerasi Platinum, con il seguente protocollo: DNA

4ng/µl

5

µl

Buffer

10x

5

µl

dNTPs

10mM

1

µl

For

10µM

2,5

µl

Rev

10µM

2,5

µl

MgCl2

50mM

2

µl

0,3

µl

Taq Platinum

31,7 µl

H2O

42


La miscela di reazione conteneva 0,3 µl di Taq polimerasi (Platinum Taq, Invitrogen®), 5 µl di Buffer 10x, 2 µl di MgCl2 , 2,5 µl di ciascun primer, L e H, 1 µl di dNTPs, 31,7 µl di acqua Milli Q sterile e 5 µl di DNA, per ottenere 50 µl di volume finale. Protocollo del Thermal Cycler:

Temp.

94°

94°

55°

72°

72°

Dur.

1′

30′′

30′′

30′′

10′

Numero cicli= 35 Vf= 50 µl

Il profilo di amplificazione prevedeva 1 ciclo di 1 minuto a 94° C (hot start); 35 cicli rispettivamente da 30′′ a 94° C (denaturazione), 30′′ a 55° C (annealing), 30′′ a 72° C (estensione); infine un ciclo di di estensione finale di 7 minuti a 72° C. Alla fine del processo si ottengono 2n copie di DNA (oltre un miliardo), dove n è il numero dei cicli.

2. Elettroforesi su gel di agarosio 2% I prodotti di PCR sono stati analizzati mediante gel di agarosio al 2% colorato con bromuro d’etidio (EtBr). L’agarosio è un polimero di carboidrati estratto dalle alghe. Esso, se fuso e gelificato, forma una matrice, la cui porosità dipende dalla concentrazione dell’ agarosio stesso. Grazie a queste proprietà del polimero, l’utilizzo di questa tecnica consente di separare i frammenti di DNA in base al loro peso molecolare e quindi alla loro dimensione. Il principio di base dell’elettroforesi è quello di un setaccio molecolare (gel di agarosio al 2%) attraverso il quale viene 43


generata una differenza di potenziale che permette ai frammenti di DNA, carichi negativamente per i residui di fosfato, di migrare verso il polo positivo. Più i frammenti sono grandi e pesanti e più lentamente migrano attraverso le maglie, quindi alla fine di una corsa elettroforetica i frammenti più piccoli si troveranno nella parte finale del gel, mentre i frammenti più grossi saranno localizzati in vicinanza dei pozzetti di caricamento. Il gel viene immerso in un tampone TBE (Tris-Borato-EDTA) allo 0,5%, all’interno della cella elettroforetica. Il caricamento si effettua in immersione, per cui è stato necessario miscelare 8µl di DNA amplificato con 2 o 3 µl di Blu di Bromofenolo (BBF), questi ultimi permettono alla mix di precipitare sul fondo del pozzetto. L’uso di un ladder, una miscela di frammenti di peso noto, caricato nel primo pozzetto di ogni fila, ci consente, attraverso un confronto, di avere informazioni sulle dimensioni dei nostri amplificati. La corsa elettroforetica viene effettuata a 90 volt, per circa mezz’ora. Al termine di questa, gli amplificati vengono visualizzati al transilluminatore UV.

3. Purificazione enzimatica La purificazione dei campioni si effettua, prima del sequenziamento, per eliminare eventuali impurità presenti nell’amplificato. Si possono infatti trovare primers, un eccesso di dNTPs ed enzimi. Il protocollo utilizzato è il seguente: Exo-SAP (Exo: Esonucleasi E.coli; SAP: Shrimp Alkaline Phosphatase), il primo scinde i legami tra le basi azotate, il secondo i legami tra i gruppi fosfato e gli zuccheri. La miscela utilizzata consisteva in: DNA

5µl

Exo-Sap (USP)

2 µl

Vf = 7 µl

44


Oppure:

DNA

13 µl

Buffer

2 µl

Exo (fermentas)

1 µl

Sap (fermentas)

4 µl Vf = 20 µl

La reazione, mediante termociclatore, prevedeva 15’ minuti a 37° C (optimum di entrambi gli enzimi), e 15’ minuti a 80° C (denaturazione degli enzimi). Temperatura

37°C

80°C

Durata

15′

15′

4. Sequenziamento della regione non codificante (HVS-I) Le sequenze ottenute sono state allineate usando uno specifico programma, BIOEDIT, allo scopo di individuare i patterns di mutazioni specifici che consentissero una sicura attribuzione del campione ai differenti aplogruppi mitocondriali. Dove non è stato possibile individuare il clade di appartenenza mediante la sola analisi di sequenza del HVS-I si è proceduto con l’analisi di restrizione della porzione codificante.

5. Taglio con enzimi di restrizione della regione codificante Gli enzimi di restrizione sono delle endonucleasi di origine batterica che riconoscono corte sequenze nucleotidiche specifiche costituite da 4-6 nucleotidi e tagliano il DNA all’interno o in prossimità della sequenza in 45


questione. Quindi molecole di DNA che subiranno gli stessi tagli enzimatici, si potranno ritenere appartenenti ad uno stesso gruppo in quanto ragionevolmente simili nella loro sequenza. I primer e le endonucleasi di restrizione utilizzati per analizzare la regione codificante sono riportati nella tabella seguente:

Clade

Sequenze dei primers

Siti polimorfici

Enzima

H

L: aagcaatatgaaatgatctgc H: gcgtaggtttggtctag

-7025

Nla III

V

L: gagcttaaacccccttattt H: gtattgattggtagtattggttatggttca

-4577

Alu I

U

L: ctcaaccccgacatcattacc H: attacttttatttggagttgcaccaagatt

+12308

Hinf I

Il DNA mitocondriale una volta digerito dagli enzimi è frammentato

in

diversi

pezzi (Figura 18) che sono poi

messi

in

evidenza

dall’elettroforesi. Il guadagno o la perdita di un

sito

equivale

di a

restrizione una

singola

sostituzione nucleotidica. Per effettuare l’analisi di Figura 18: Aplogruppi di mtDNA umano e siti di restrizione

restrizione si è proceduto

di diversi enzimi

amplificando le porzioni del

46


mtDNA codificante di nostro interesse, con l’utilizzo dei

primer

corrispondenti. I frammenti di DNA amplificati sono stati poi digeriti mediante le endonucleasi di restrizione specifiche. Protocollo della digestione: DNA

20 µl

H2O

6,3 µl

Buffer

3 µl

enzima

0,4 µl

BSA

0,3 µl Vf = 30 µl T = *“X C°” x 3 h

*X C°= Temperatura ottimale per i diversi enzimi.

6. Elettroforesi su gel di agarosio al 3% Dopo la digestione con gli enzimi di restrizione, i frammenti ottenuti sono stati visualizzati per fluorescenza al trans illuminatore a raggi UV dopo separazione su gel di agarosio al 3%.

7. Elaborazione dati I dati ottenuti sperimentalmente, sono in seguito stati elaborati con diversi software, oltre al precedentemente citato programma BioEdit 7.0.5.2 (Hall,1999) , utilizzato per allineare le sequenze. Per caratterizzare le variazioni genetiche tra i siti campionati, le stime sul numero di siti polimorfici (S), il numero di aplotipi (h), la diversità di nucleotidi (Pi) e la diversità tra aplotipi (Hd) è stato utilizzato il software DnaSP 4.10 (Rozas e Rozas, 1999).

47


L’Analisi delle Coordinate Principali (PCoA) è stata effettuata sulla matrice delle differenze tra coppie di DNA, utilizzando il software Genalex 6.3 (Peakall e Smouse, 2006). È stato applicato il metodo basato sulla matrice di covarianza con la normalizzazione dei dati. Al fine di valutare il verificarsi di strutturazione genetica significativa tra i campioni, è stata eseguita analisi della varianza molecolare (AMOVA) sulla matrice di distanze di coppie di DNA tra aplotipi, utilizzando il pacchetto Arlequin 3.1 (Excoffier et al., 2005). Inoltre, differenze genetiche tra coppie di campioni sono state stimate da valori di coppie ΦST, calcolati dalla matrice delle differenze tra coppie di aplotipi del DNA. Il significato di componenti di varianza e la statistica F sono stati valutati da un test di permutazione casuale (10.000 repliche). Infine è stato disegnato uno schema (network) per ognuno dei sistemi di campionamento, utilizzando il software Network 4.2.0.1.

48


6. RISULTATI L’analisi della sequenza nucleotidica dell’HVS-I, combinata con l’analisi degli RFLP (Polimorfismi da Lunghezza dei Frammenti di Restrizione) ha permesso la classificazione dei campioni raccolti con entrambi i metodi (MBU e Random) in 9 principali aplogruppi, che diventano 11 se si considerano separatamente i 2 sottoaplogruppi K e U5b3. (Tabella 1)

1

Aplogruppo

Cab-B

Cab-R

S Igl-B

S Igl-R

V

2.9

6.3

10.0

4.4

H tot

37.1

29

50.0

56.5

T tot

17.1

14.6

6.0

21.7

J tot

5.7

16.7

14.0

8.7

U1 (x U5b3, K)

17.1

16.7

8.0

8.7

U5b3

5.7

8.3

10.0

-

K

2.9

-

-

-

I

11.4

-

-

-

W

-

4.2

-

-

X

-

4.2

-

-

M tot

-

-

2.0

-

Questo aplogruppo non include i sottoaplogruppi U5b3 e KTabella 1 – Distribuzione degli aplogruppi di mtDNA ottenuti utilizzando i due metodi di campionamento (i valori sono espressi in frequenze di distribuzione relative) Cab: Cabras; S Igl: Sulcis-Iglesiente; B: metodo MBU; R: metodo Random

49


L’aplogruppo H, che include le sequenze CRS (Cambridge Reference Sequence o sequenza di Anderson, 1981) è il più comune, come ci si aspettava, considerando le sue frequenze nell’intero territorio europeo. L’aplogruppo U5b3 è considerato specifico della Sardegna (Fraumene et al., 2006; Pala et al., 2009) ed è stato ritrovato a Cabras con entrambi i metodi di campionamento e nel Sulcis-Iglesiente solo con il metodo MBU. I valori di diversità genetica, calcolati dall’analisi di sequenza della regione HVS-I, sono risultati simili in tutte le regioni e tutte le strategie di campionamento prese in considerazione, mostrando un elevato livello di variabilità. (Tabella 2) S

h

Hd

Pi

Cab-B

38

22

0.946

0.019

Cab-R

45

37

0.976

0.021

S Igl-B

55

32

0.937

0.018

S Igl-R

35

16

0.913

0.018

Tabella 2 – Stime di diversità genetica iall’interno dei campioni analizzati. S: numero di siti polimorfici; h: numero di aplotipi; Hd: variabilità aplotipica; Pi: diversità nucleotidica. Per le altre sigle v. Tabella 1

È stato individuato un totale di 82 differenti aplotipi e i risultati rilevati da entrambi i metodi mostrano distribuzioni delle frequenze relative comparabili tra loro. Le sequenze nucleotidiche della regione di controllo sono state combinate con i dati degli RFLP della regione codificante per ottenere un’unica matrice di dati per le analisi seguenti. Le prime due coordinate delle PCoA, che rappresentano il 62,39% della variabilità totale, identificano 2 gruppi principali che, comunque, non

50


risultano distribuiti secondo l’area di origine, né secondo il metodo di campionamento (Figura 19).

Figura 19: Distribuzione degli aplotipi secondo l'analisi PCoA

In accordo, l’analisi della varianza molecolare (AMOVA) non indica significative differenze genetiche tra i campioni (ΦST = 0,0096; p > 0,05) . È stata calcolata una varianza approssimativa tra i campioni del 99,04%. Questi risultati sono stati confermati dai confronti a coppie tra i campioni, che non mostrano alcuna differenza genetica significativa (Tabella 3).

Cab-B

Cab-R

S Igl-B

S Igl-R

Cab-B

-

0.4150

0.0940

0.2286

Cab-R

-0.0003

-

0.1552

0.1082

S Igl-B

0.0150

0.0087

-

0.2020

S Igl-R

0.0096

0.0181

0.0098

-

Tabella 3 – Valori di ΦST e di p per i gruppi analizzati. I codici delle popolazioni sono riportati nella leggenda della Tabella 1. Il livello di significatività dei valori è p ≤ 0.05. Sotto la diagonale i valori di Φ ST, sopra i valori di p.

51


L’analisi del network infine mostra simili relazioni filogenetiche tra gli aplogruppi, senza mettere in evidenza una distinzione geografica quando vengono comparati i due metodi di campionamento (Figura 20)

Figura 20: Networks ottenuti dalla combinazione dei dati della regione di controllo e della regione codificante, per il metodo MBU e Random

Nell’immagine 20, gli spot rappresentano le diverse sequenze geniche, che corrispondono quindi ai differenti aplogruppi, e la grandezza dello spot è proporzionale al numero di individui che condivide la medesima sequenza. Nel riquadro A sono riportati i rapporti filogenetici che intercorrono tra gli aplogruppi rilevati tramite il metodo MBU. Ognuno dei 9 aplogruppi è rappresentato con un colore diverso. Nel riquadro C, nello stesso network, gli spot rappresentanti i diversi aplogruppi sono colorati in funzione dell’appartenenza geografica degli individui (Cabras o Sulcis-Iglesiente). Il riquadro B mostra i rapporti filogenetici che legano gli aplogruppi risultanti dal metodo di campionamento Random, distinti tra loro dai diversi

52


colori. Nel riquadro D, si nota la stessa grafica, ma con la distinzione geografica evidenziata da due colori differenti. I riquadri che raffigurano i rapporti filogenetici del metodo Random (B e D), mostrano un network più complesso, per il fatto che i campioni analizzati sono più numerosi rispetto a quelli utilizzati nell’altro metodo. Osservando i riquadri C e D, che evidenziano l’appartenenza geografica, si può notare che non ci sono aplogruppi maggiormente rappresentati in alcune aree piuttosto che in altre, quindi non vi è strutturazione del network su base geografica.

53


7.

CONCLUSIONI

Il lavoro conferma un’elevata variabilità della popolazione sarda, che si inserisce perfettamente nel contesto europeo, mantenendo però una sua particolarità genetica. Tale peculiarità può essere spiegata alla luce dei fenomeni di ripopolamento europeo che hanno fatto seguito all’ultima glaciazione a partire dai tre grandi rifugi glaciali (quello franco-cantabrico, quello alpino e quello balcanico) (Pala et al. 2009). Verosimilmente, in Sardegna arrivò nel Mesolitico un cospicuo gruppo di uomini, costituito da una variegata rappresentanza degli aplogruppi europei, confermata dal fatto che tutt’oggi in Sardegna sono presenti tutte queste varietà, in particolare, l’inserimento dei Sardi in un quadro genetico europeo è testimoniato dall’alta frequenza dell’aplogruppo mitocondriale H, il più comune in tutta Europa. Dopo la ripopolazione dell’isola si sono poi verificati degli eventi che hanno portato alla predominanza di determinati aplogruppi rispetto ad altri. In Sardegna infatti esistono frequenze elevate, che si aggirano intorno al 3-4%, dell’aplogruppo mitocondriale U5b3 (Pala et al., 2009); nell’area analizzata, questi valori sono più alti e raggiungono anche l’8-9%, probabilmente perché si tratta proprio del punto di origine di questo aplogruppo. Infatti, la zona dell’Alto Campidano, si trova molto vicino al Monte Arci, dove, nel Mesolitico era presente uno dei maggiori giacimenti di ossidiana di tutto il Mediterraneo, quindi era un luogo frequentato, soprattutto nel periodo Nuragico, dai mercanti che seguivano le rotte del commercio di questo materiale. La popolazione sarda presenta peculiarità negli aplogruppi non solo nella linea a trasmissione materna (U5b3), ma si trova anche un riscontro nella controparte paterna con l’aplogruppo M26 del cromosoma Y. Questo fatto si ipotizza sia dovuto ad un fenomeno di effetto fondatore, infatti, potrebbe essere plausibile che l’M26 appartenesse ad un capo tribù nel periodo Neolitico, che quindi aveva più possibilità di tramandare il suo patrimonio genetico, fino al punto di dare origine ad una linea

54


numericamente superiore alle altre, le cui alte frequenze si sono trasmesse fino ad oggi. Questo lavoro mette in evidenza inoltre che in Sardegna ci troviamo davanti ad un elevato livello di variabilità interindividuale, ma con un’omogenea distribuzione della variabilità all’interno del territorio (Contu et al. 2008) In relazione alle aree analizzate, emerge la presenza di un possibile flusso genico costante ed efficace tra le diverse popolazioni, che perdura tutt’ora. All’inizio, il confronto tra i due metodi di campionamento (MBU e Random), mirava a trovare delle differenze diacroniche tra l’assetto della popolazione attuale e quello riferito al XIX secolo. Un risultato importante emerso dal lavoro è che in realtà non si sono riscontrate significative differenze tra le frequenze della popolazione attuale e quelle del passato. Infatti, l’utilizzo dei due metodi serve proprio a sottolineare questo concetto: il metodo Random raffigura lo stato attuale della popolazione, mentre quello basato sulle Breeding Units riproduce un assetto genetico del passato, anche se non fedele al 100% perché non può tenere conto delle linee che eventualmente si sono estinte. I contributi genetici che si sono avvicendati nel corso dei secoli non sono stati influenti al punto da alterare le frequenze geniche. Episodi che avrebbero potuto interferire si sono verificati in particolare intorno alla metà del XX secolo, quando a Cabras giunse una comunità di pescatori dalla laguna veneta, oppure, sempre a Cabras si spostò un gruppo di Carlofortini che abbandonò la poco proficua pesca del tonno alla ricerca di una migliore alternativa nelle acque salmastre dell’Oristanese. La mancanza di un’introgressione dei patrimoni genetici di queste popolazioni esterne, inserita in un contesto più ampio, conferma la tendenza del Sardo a non mescolarsi con i dominatori o i colonizzatori che si sono succeduti nel corso della storia, lasciando a questi solo il compito di dare un’influente impronta culturale. In conclusione, la struttura genetica della popolazione sarda, si è mantenuta costante nel tempo e tutt’oggi mantiene questo trend che vede

55


i contributi delle popolazioni alloctone partecipare alla cultura dell’isola ma non al patrimonio genetico della popolazione.

56


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

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