Il pianto trasformato in canto. Alcuni esempi della letteratura francese e italiana

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A.D. MDLXII

U N I VE RS I T À D IPARTIMENTO

DI

D E G LI S TU DI D I S AS S A RI S CIENZE U MANISTICHE E S OCIALI ___________________________

CORSO DI LAUREA IN M EDIAZIONE LINGUISTICA E CULTURALE

IL PIANTO TRASFORMATO IN CANTO. ALCUNI ESEMPI DELLA LETTERATURA FRANCESE E ITALIANA DEL SECONDO NOVECENTO

Relatrice: PROF.SSA MONICA FARNETTI

Correlatore: DOTT. LORENZO DEVILLA

Tesi di Laurea di: DENISE ORRÙ

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



A mamma e papĂ , che mi hanno sempre sostenuta . E a te, che hai sopportato pazientemente le mie “lagneâ€?.

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Indice Introduzione.......................................................................................................................4 Capitolo I - Il pianto rituale...............................................................................................6 I.1 Il cordoglio e i suoi rischi...................................................................................7 I.2 Una ricerca etnografica.....................................................................................10 I.2.1 Caratteri generali del pianto rituale......................................................10 I.2.2 La trasformazione del planctus.............................................................12 I.3 Le cinque fasi del dolore...................................................................................15 Capitolo II - Il planctus e la creazione letteraria.............................................................20 II.1 La letteratura come strumento di catarsi..........................................................21 II.2 Requiem di Patrizia Valduga...........................................................................22 II.3 Altri esempi di planctus nella letteratura italiana del secondo Novecento......27 II.4 La presenza malata del mondo: Marguerite Duras..........................................31 II.4.1 Il dolore...............................................................................................33 II.4.2 Il cannibalismo amoroso.....................................................................39 Capitolo III - Il pianto cantato.........................................................................................43 III.1 Canto universale. Mia Martini.......................................................................44 III.1.1 Bambolina e Padre davvero...............................................................44 III.1.2 E ancora canto....................................................................................47 III.2 L'aigle noir. Barbara.......................................................................................52 III.2.1 Musique pour une absente.................................................................52 III.2.2 -Nantes, au coeur de la nuit...............................................................55 Bibliografia......................................................................................................................60 Discografia.......................................................................................................................61

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Introduzione Il presente lavoro propone un'indagine sui meccanismi psicologici che si susseguono dopo una perdita, concreta o ideologica, e che, attraverso varie fasi, portano alla risoluzione del dolore. Il primo capitolo è quasi interamente dedicato allo studio di Ernesto De Martino sul pianto rituale: attraverso un'indagine etnografica effettuata sul campo, lo studioso ha evidenziato i vari elementi che caratterizzano i riti funebri tradizionali dell'area euromediterranea e le relative funzioni che guidano la persona in lutto verso la corretta elaborazione della propria perdita, nonché i vari rischi che la psiche umana corre in caso di mancata elaborazione. In un'altra sezione del capitolo è descritto il modello a cinque fasi elaborato dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross, che indica cinque stadi che si attraversano durante l'elaborazione del dolore. Tra gli elementi portati alla luce da De Martino, compare l'importanza del vincolo letterario nel pianto rituale, ovvero dei testi che vanno seguiti dalle lamentatrici durante il rito. Da qui prende vita l'analisi di testi letterari che hanno come tema l'elaborazione del dolore, che sarà argomento del secondo capitolo. I testi analizzati sono, per la parte di letteratura italiana, dei componimenti poetici di Patrizia Valduga (la cui opera verrà analizzata più nel dettaglio), Cristina Campo e Alda Merini1. Per la sezione dedicata alla letteratura francese invece, sono stati analizzati alcuni romanzi di Marguerite Duras, che sottolineano un concetto del dolore diverso da quello trattato in precedenza, meno legato alla sfera privata, e più “universale”, legato al dolore del mondo in seguito alla seconda guerra mondiale. La ricerca di De Martino porta l'attenzione anche sulla forma originale del pianto rituale, che presentava un carattere prettamente popolare, ed era solitamente cantato: prevedeva quindi dei testi che dovevano seguire una linea melodica. Per questo motivo il capitolo III si concentra su un'analisi di testi tratti dal repertorio della musica pop italiana e francese, più particolarmente Mia Martini e Barbara. Tutti i testi analizzati nei capitoli II e III sono stati scelti in quanto presentano delle caratteristiche tipiche del pianto rituale tradizionale, sia per quanto riguarda il

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Queste tre autrici sono state raggruppate precedentemente in M. Farnetti, Cristina Campo, Ferrara, Luciana Tufani Editrice, 1991 (edizione 2001), nel capitolo III, dedicato appunto al planctus, pp. 35-53.

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testo, sia per la rappresentazione che fanno dei vari processi psichici che accompagnano l'elaborazione del dolore.

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Capitolo I - Il pianto rituale

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I.1 Il cordoglio e i suoi rischi Il dolore provocato dalla perdita di una persona cara (così come il dolore in generale) è un elemento che da sempre accomuna l'intera umanità, da qualsiasi luogo provenga e in qualsiasi epoca viva o abbia vissuto. A questo dolore segue un turbinio di affetti e sentimenti, detto lutto o cordoglio, che se non viene elaborato correttamente, può portare la persona colpita a una perdita ben più grave, quella di se stessa2. Lo studio etnografico di Ernesto De Martino3 analizza il pianto rituale tipico dell'area euro-mediterranea nel suo svolgimento pratico e nelle sue funzioni tecniche di elaborazione e guarigione dal cordoglio. Per poter spiegare meglio queste funzioni tecniche, introduce e definisce alcuni concetti. La persona colpita da lutto, che si perde in se stessa, privandosi della propria presenza, è indicata come presenza malata. Ciò che la crisi della presenza rischia di togliere all'individuo esposto è ciò che lo rende umano, l'essenza più profonda dell'essere, ciò che distingue la vita dalla sopravvivenza e che ci consente non solo di essere nel presente, ma di farne parte. In altre parole, la presenza malata è

una presenza che una volta, in qualche determinato momento critico dell'esistenza, ha rinunziato a farlo passare, risolvendolo nel valore, ed è invece passata con esso. […] una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa esse stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contraddizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità.4

Quando si passa attraverso un momento critico, quindi, la crisi in questione deve essere elaborata da chi la subisce in base a un sistema di valori culturali ed emotivi, si dovrebbe insomma far passare ciò che è già accaduto attraverso di noi, attraverso la nostra elaborazione culturale secondo i nostri valori, per evitare di perdere noi stessi al posto della nostra perdita5. La presenza in crisi finisce per caratterizzarsi per una presenza nel mondo solo “apparente”6, fisica, quasi larvale, spersonalizzata. In realtà, per la presenza malata, 2

Cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, Boringhieri, 1975, p. 5. Ivi. 4 Ivi, p. 24. 5 Cfr. Ivi, p. 27. 6 Cfr. Ivi, p. 25. 3

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il “presente” perde la sua autenticità esistenziale e la sua attualità storica, e tende a configurarsi a vario titolo come simbolo cifrato del passato non oltrepassato, operante dal di fuori, irriconoscibile e indomabile. […] è passata con ciò che passa, resta […] incapace di un autentico presente.7

In altri termini, rinunciando a far passare attraverso sé il proprio lutto, la presenza rinuncia alla propria presenza storica, e vive quindi in una realtà destorificata, che non le appartiene, o che non appartiene più al mondo: il presente non viene percepito come tale, ma come una sorta di proiezione del passato, che la presenza malata non è stata capace di lasciar passare, ma ha tenuto con sé, il passato al quale è rimasta aggrappata avendo rinunciato ad andare avanti nella propria presenza, nella propria vita. Il peso del rischio della presenza è stato percepito fin dalle civiltà primitive, così come il bisogno di contrastare tale rischio per potersi salvare. Questa necessità porta all'elaborazione di una tecnica che “non è impiegata nel dominio tecnico della natura […], ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo”8. Da questa necessità che nascono i rituali religiosi, che si caratterizzano da un rito, ovvero un ordine di comportamenti che si basa e serve a entrare in contatto con il mito, cioè una “destorificazione compresa in un ordine metastorico”9, che si oppone alla destorificazione irrelativa causata dalla crisi della presenza. La crisi del cordoglio si presenta come “il rischio di non poter trascendere il momento critico della situazione luttuosa10”, quindi di restare intrappolati nel passato, insieme al lutto stesso, e allo stesso tempo al posto del lutto. Si tratta perciò della malattia che sta alla base della crisi della presenza. La grande fatica a cui si è sottoposti quando si perde una persona cara è quella di diventare a nostra volta “procuratori di morte”11: il morto è già morto fisicamente secondo le leggi della natura, è il momento di farlo morire e lasciarlo andare in noi, secondo i nostri valori culturali. Un aiuto in questo processo ci viene dal “saper piangere”, da quella tecnica di pianto comune a tutta l'umanità (così come è comune all'umanità intera il dolore), che catturando il dolore riesce a oggettivarlo, assorbendone la forza e restituendoci i valori di quella vita presente e storica che rischiavamo di perdere.

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Ibidem. Ivi, p. 37. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 43. 11 Ibidem. 8

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Esiste tuttavia la possibilità che questa fatica fallisca, e che il cordoglio diventi una crisi irrisolta e “irrisolvente”12: irrisolta perché il pianto necessario alla sua risoluzione non è stato portato a termine, e irrisolvente in quanto il fallimento della tecnica del pianto ha compromesso la corretta e completa elaborazione del lutto. Nel mondo antico la crisi del cordoglio si manifestava in modi estremi, di cui esistono delle tracce. I due sintomi principali vengono individuati da Ernesto De Martino come due poli opposti della crisi. Il sintomo indicato come stuporosa consiste in

uno stato psichico, che in concreto può manifestarsi con varie sfumature individuali,ma che tipologicamente resta definito da una ebetudine stuporosa senza parola e senza gesto […]. Si tratta di una calma inautentica, funesta e minacciosa, e di un'instabile smemoratezza.13

La persona in stato di ebetudine stuporosa, per un lasso di tempo variabile smette di reagire al mondo esterno, come priva di stimoli sensoriali: non parla, non sente, non riconosce le persone che la circondano, non ricorda. Da un momento all'altro questo stato può rompersi bruscamente lasciando subentrare un altro stato, polarmente opposto: “un planctus irrelativo, […] comportamento orientato ad arrecare offese anche mortali alla propria integrità fisica”14; la persona colpita si “sveglia” bruscamente, e cade in preda a degli impulsi violenti, che possono essere di distruzione e violenza indiscriminata (verso il morto o verso gli altri) o più frequentemente di autodistruzione: si strappa i capelli, si graffia fino a sanguinare, sbatte la testa contro il muro. Ebetudine stuporosa e planctus irrelativo sono allo stesso tempo causa e conseguenza della crisi del cordoglio; conseguenza in quanto sono sintomi che denunciano una crisi già in atto, ma causa perché se gli si lascia prendere il sopravvento, possono portare a una crisi della presenza ben peggiore, o definitiva. Inoltre l'individuo in crisi è cosciente di essere in preda a questi due stati polarizzati, e di essere impotente a riguardo: questo sentimento di impotenza diventa quindi un ulteriore minaccia15. La crisi si può presentare anche con altri sintomi. Ad esempio c'è la possibilità che scaturisca la negazione dell'evento luttuoso. Cioè la presenza malata si comporta come se il defunto fosse ancora in vita, allontanando il proprio delirio dall'oggetto del lutto e scaricandolo

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Cfr. ivi, p. 43. Ivi, p. 45. 14 Ibidem. 15 Cfr. ivi, p. 46. 13

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su un oggetto surrogato.16 Tuttavia il “delirio di negazione”17 non è sempre un sintomo della crisi del cordoglio. In alcuni casi infatti, può essere una fase utile e necessaria per l'elaborazione del lutto, facendo guadagnare il tempo necessario per compiere il distacco e riadattarsi alla realtà storica che alla fine (e dopo il passaggio attraverso altre fasi18) verrà accettata. Al contrario, nei casi patologici la negazione non è più uno strumento, ma diventa il “centro di organizzazione di tutta la vita psichica, inerzia e pigrizia su cui ci si adagia, argomento di progressivo distacco dalla realtà”19.

I.2 Una ricerca etnografica I.2.1 Caratteri generali del pianto rituale Con il suo studio etnografico sul pianto rituale nella regione lucana20, Ernesto De Martino ha voluto dimostrare la presenza diffusa degli elementi basilari del pianto funebre in tutta l'area euro-mediterranea. La regione lucana è stata scelta in quanto relitto folklorico che presentava ancora dei tratti tipici del pianto antico. Le informazioni raccolte grazie a questa ricerca sul campo sono poi state confrontate con alcune ricerche precedenti svolte a grandi linee sullo stesso tema, ma in diverse zone dell'area euro-mediterranea, col fine di evidenziare dei tratti comuni, e soprattutto le funzioni relative a questi tratti. Lo studio di De Martino, redatto alcuni decenni fa, si tratta di un documento utile e prezioso per la descrizione delle varie fasi del pianto rituale come strumento (universale) di guarigione dalla crisi del cordoglio. Un primo elemento che risulta dalla ricerca è il fatto che la lamentazione è un affare quasi strettamente femminile, mentre la lamentazione maschile si riduce a pochi casi. All'epoca della ricerca l'usanza delle lamentatrici a prezzo si riduce ormai solo a un ricordo. Si trattava di donne reclutate in base alla loro particolare abilità nel piangere per partecipare ai funerali. L'usanza in voga è invece quella delle “lamentatrici per vocazione”21, ovvero donne che

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Cfr. Ivi, p. 48. Ibidem. 18 Il modello a cinque fasi elaborato da Elisabeth Kübler-Ross verrà affrontato in un'apposita sezione, infra, p. 16 19 E. De Martino, op. cit.,p. 49. 20 È lo studio su cui basa il volume di E. De Martino, op. cit. 21 Ivi, p. 80. 17

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colgono l'occasione di un lutto per rinnovare il lamento per qualche proprio morto: mostrano in ciò uno zelo particolare la madri che hanno perduto un figlio in giovine età e per morte violenta (per esempio in guerra), e soprattutto le vedove. […] Sono semplicemente donne che “sanno piangere bene” per sciagure patite e per abilità tecnica personale.22

Il ruolo di queste lamentatrici professionali presenta quindi due aspetti principali: da un lato si uniscono alle lamentazioni di un nuovo defunto, offendo la loro forza come aiuto per la riuscita del pianto, dall'altro rinnovano il pianto per un lutto passato che le riguarda personalmente, aggiungendo maggiore forza anche a questo. Un altro elemento che contraddistingue il cordoglio nell'area lucana è l'importanza dello stato di ebetudine stuporosa. Questo stato è talmente frequente nell'area interessata da avere un termine locale che lo indica: “attassamento”23. Le donne del posto descrivono lo stato di attassamento così: “la persona attassata […] non riconosce le persone: non ricorda neppure che c'è il morto. Se le si chiede qualcosa non risponde, oppure dà risposte senza senso. È come se sognasse”24. Questo blocco fisico e psichico ha una durata variabile e la sua fine è segnata da un brusco ritorno alla realtà storica: e ricordando l'accaduto, la persona attassata getta un grido e (ri)comincia il lamento: “Quando esce dall'attassamento, si guarda intorno per capire cosa è successo, poi getta un grido e riprende la lamentazione”25; “Appena si esce dall'attassamento si dà un grido perché si riconosce che cosa è accaduto.”26 In alcuni casi questo passaggio si mostra ancora più brusco, e sfocia direttamente nel planctus irrelativo, con la sua tipica ondata di violenza indiscriminata accompagnata da urla e ululati:

la donna colpita da lutto [...] si getta a terra, dà col capo nel muro, salta, si graffia fino a sangue le gote, è accesa dal furore tendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappa i capelli, si lacera le vesti, si abbandona ad un gridato che è piuttosto un ululato.27

Il lamento funebre lucano trova il suo nucleo nella risoluzione della crisi del cordoglio, dominandola gradualmente e risolvendola secondo un ordine culturalmente significativo, il rito della lamentazione. Questo rito consiste nella ripresa dei due poli della crisi, reintegrandoli in una nuova forma e privandoli del rischio che rappresentano per la presenza. 22

Ivi, pp. 79 e 80. Ivi, p. 83. 24 Ivi, p. 84. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 23

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Il lamento, data la sua necessità di essere pianto, sblocca lo stato di ebetudine stuporosa, mentre il planctus viene riplasmato e definito in una forma ben precisa con l'aiuto di vincoli di varia natura, trasformandosi così da irrelativo a ritualizzato. Le lamentazioni tipiche dei riti funebri possono dare a chi le osserva l'impressione di essere prive di sentimento, o frutto di ipocrisia, come se fossero un obbligo. Quest'impressione è data specialmente dal fatto che le lamentatrici durante il loro pianto sembrano essere facilmente distraibili. Per citare un episodio:

A Ferradina ci è stato riferito che una volta mentre la tal dei tali eseguiva la lamentazione per il padre morto, i bambini inconsapevoli della gravità del momento si misero a giocare con i pesi della bilancia. Allora la lamentatrice inserì nel pianto rituale l'ammonimento: “Attenti ai pesi, altrimenti perdiamo i pesi con la bilancia, babbo mio.”28

In realtà la distraibilità delle lamentatrici è data dal fatto che i modelli rituali tradizionali tendono ad attenuare lo stato di veglia (che però non scompare del tutto, resta come in stand-by e mantiene una funzione di guida che assicura il corretto svolgimento del rituale) a vantaggio di uno “stato oniroide”29, che attenua l'insostenibilità della situazione. Proprio per questa sua funzione di protezione dalla realtà, lo stato oniroide rende la percezione del mondo esterno ovattata, e questo può dare l'impressione di una mancanza di sentimento da parte della lamentatrice. La distraibilità invece, è data dalla presenza dello stato di veglia che, seppure attenuato, può rispondere agli stimoli esterni, quasi in modo indipendente dallo stato oniroide.

I.2.2 La trasformazione del planctus Abbiamo detto che la lamentazione rituale trasforma il planctus irrelativo in planctus ritualizzato, privandolo così della sua carica distruttiva. Questo processo di trasformazione

avviene

attraverso

la

conquista

del

“discorso

protetto”,

fondamentalmente grazie a tre tipi precisi di vincoli: vincolo letterario, vincolo mimico e vincolo melodico. Dal punto di vista letterario il lamento lucano si presenta come un insieme di “brevi versetti senza metro né rima, terminanti quasi sempre con un ritornello emotivo (più precisamente vocativo)”30 . 28

Ivi, p. 87. Ivi, p. 86. 30 Ibidem. 29

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Il contenuto dei versetti si occupa in una prima parte di evocare le opere buone compiute dal defunto, quasi in un'atmosfera epica. La funzione tecnica di questa parte del pianto è quella di riappropriarsi di ciò che il morto ha lasciato concretamente sulla terra, il suo operato. Ad esempio, un modulo frequente nelle lamentazioni delle vedove è “Eri così buono: mi andavi levando le pietre da mezzo la via”31. La seconda parte invece si basa su moduli tradizionali ben precisi: questi possono essere generali, una sorta di forma standard che si può applicare a ogni circostanza, oppure specifici, che variano cioè secondo l'identità del defunto e le circostanze della sua morte. Per esempio, una figlia che ha perso il padre utilizzerà i seguenti moduli: Tatta mie come voglia fa, tatta mie. Addo n'è benuta sta morte tua, tatta mie. Cumme n'aie abbandunate, tatta mie. O amore de le figlie, tatta mie. [...]32

Moduli diversi verranno utilizzati per la morte di una giovane non ancora sposata, o per la morte violenta di un figlio, le variazioni sono tanto quante le circostanze che portano alla morte. L'interruzione dei versetti attraverso l'inserimento dei ritornelli gioca una funzione fondamentale: se i versi si riferiscono al defunto, attraverso il racconto epico delle sue gesta e quello emotivo dei suoi legami, è perché questo discorso individuale serve all'elaborazione del lutto. Tuttavia la forza della carica emotiva portata da questi versi potrebbe essere tale da rompere gli argini del planctus ritualizzato, e sfociare nuovamente nel planctus irrelativo. Per questo l'interruzione periodica dei ritornelli diventa necessaria: interrompendo il discorso individuale, da una parte allenta la tensione emotiva, mentre dall'altra dà sfogo alla stessa tensione, essendo una forma trasformata delle grida di dolore. Il lamento lucano infatti “riplasma il gridato e l'ululato in ritornelli emotivi da reiterare periodicamente, in modo che fra ritornello e ritornello sia dato orizzonte al discorso individuale”33. Il secondo vincolo è legato alla mimica, ovvero ai gesti da compiere durante il rito. Anche in questo caso la lamentatrice deve seguire dei modelli prestabiliti dalla tradizione: il lamento deve essere eseguito con le chiome sciolte, e accompagnato da movimenti ritmici, che nei casi più frequenti coinvolgono solo oscillazioni del busto e 31

Ivi, p. 90. Ivi, p. 91 33 Ivi, p. 85. 32

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gesti delle mani, con un ritmo e un'intensità dettati dalla solennità e dal momento del rito. In alcuni casi invece, la tecnica gestuale risulta più complessa. Prendiamo un esempio: a Pisticci, quando il cadavere è eccezionalmente deposto per terra sulla strada – come nei casi di morte violenta – il gesto risulta […] più complicato: la lamentatrice agita il fazzoletto sul cadavere, si piega sulle ginocchia sempre agitando il fazzoletto e infine si rialza portando il fazzoletto al naso: il periodo mimico è scandito sul ritmo della linea melodica che a Pisticci è tradizionale per lamentare il morto, e d'altra parte periodo mimico e linea melodica formano organica unità con ciascun versetto della lamentazione.34

In altri termini, così come i testi delle lamentazioni servono a tenere sotto controllo le esternazioni vocali del planctus irrelativo, i vincoli mimici si occupano con un procedimento simile degli impulsi violenti, riplasmando anche i movimenti sotto una forma controllata. Il terzo e ultimo vincolo attraverso il quale si conquista il discorso protetto è quello della melodia: la lamentazione non viene eseguita liberamente, ma deve essere inserita in uno schema melodico ben preciso. La protezione del discorso attraverso vincoli prestabiliti è dunque necessaria e fondamentale per la risoluzione della crisi, in quanto da un lato la affronta, evitando il delirio di negazione, ma dall'altro fa da mediatrice tra la crisi stessa e la persona che ne è colpita. Infatti, tuffandosi direttamente nella realtà critica della situazione luttuosa, il rischio di crisi della presenza sarebbe troppo alto. D'altra parte, il discorso protetto non avrebbe alcun senso se non cercasse quantomeno di affrontare un ritorno graduale al presente. La lamentazione determina il passaggio dalla crisi del cordoglio alla sua risoluzione, passaggio mediato dal discorso protetto. La lamentatrice trova rifugio dalla situazione critica nei modelli fissi, ma attraverso il discorso individuale e personalizzato riguadagna

gradualmente

la

propria

presenza

e

il

ritorno

al

presente.

L'individualizzazione può avvenire a diversi livelli, dalla semplice reinterpretazione, a una minima variazione, al rinnovamento, ogni lamentatrice seguirà il suo cammino. Un'ulteriore funzione protettiva del pianto rituale si riferisce al “ritorno irrelativo del morto come rappresentazione ossessiva o immagine allucinatoria”35. Non sono rare le testimonianze di donne lucane che dicono di aver vissuto questa esperienza. Non a caso il lamento lucano prevede un modulo finale il cui contenuto invita il morto ad 34 35

Ivi, p. 96. Ivi, p. 104.

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allontanarsi: “Non ho più nulla da dirti, non ho più nulla da farti, statti bene e vienimi in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto”36. Un secondo modo di placare il morto e evitarne il ritorno, è quello della reiterazione del pianto in date precise: tre, nove, trenta giorni dopo la morte, quasi a voler scendere a compromessi con il defunto, in qualche modo “facendolo tornare”, ma solo a determinate condizioni, ben regolate, evitandone il ritorno sotto forma ossessiva e allucinatoria.37 Il lamento funebre fa quindi da guida alla reintegrazione culturale dei valori messi in pericolo dalla crisi. Lo strumento fondamentale è la dualità tra la presenza di veglia e quella oniroide tipica della lamentazione, dualità che permette lo sbloccarsi dell'ebetudine stuporosa, e la cattura del planctus irrelativo, che viene riplasmato in una nuova forma, protetta e protettiva. Appunto perché lo scopo è quello di dare una seconda morte culturale al defunto, la lamentazione segue tra gli altri, dei vincoli letterari, prendendo un tono tendenzialmente epico. Inoltre stabilisce un rapporto col morto, usando i vincoli rituali come mediazione del suo ritorno, ed evitandone quindi il ritorno sotto forma allucinatoria.

I.3 Le cinque fasi del dolore Negli anni sessanta la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross studia da vicino i comportamenti e i bisogni dei malati terminali in seguito alla notizia della loro morte imminente. Il risultato di tali studi è un modello a cinque fasi dell'elaborazione della morte38. Abbiamo detto che l'oggetto di studio sono i malati terminali, ovvero le persone che apprendono l'imminenza della propria morte, ma ciò non significa che questo modello non possa essere applicato a perdite di natura diversa. Se infatti un lutto affettivo o ideologico può scatenare la crisi della presenza per chi sopravviverà alla morte, il pericolo avvertito dalla persona colpita da lutto non è poi così diverso da quello che il malato terminale può vedere nell'avvicinarsi della morte. La prima delle cinque fasi individuate è quella del rifiuto. La notizia appena appresa viene recepita come qualcosa di impossibile, il primo pensiero è “ci deve essere un errore, non può essere vero”, l'individuo è impossibilitato ad accettare la situazione. 36

Ivi, p. 108. Cfr. Ivi, p. 109. 38 Il modello a cinque fasi è esposto nel volume On death and dying, (1969), trad. it. C. di Zoppola, La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976. 37

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In una seconda fase il rifiuto diventa in qualche modo intermittente. Questa fase sembra avere qualcosa a che vedere con la conquista del discorso protetto attraverso l'alternanza tra ritornelli e discorso individuale nella lamentazione. L'idea della morte viene lentamente presa in considerazione, ma poi deve essere accantonata, “per poter continuare a vivere”39. La primissima fase di rifiuto funge da protezione, da barriera tra la notizia e chi la riceve: come abbiamo detto in precedenza40, si tratta di una fase necessaria che permette il distacco momentaneo dalla situazione, in modo da guadagnare tempo e renderla più sopportabile. Nel caso dei malati terminali, gli intervalli di accettazione si traducono in un bisogno di parlare della loro morte imminente, e intraprendere un discorso di preparazione. Il discorso deve però essere interrotto quando, non riuscendo più ad affrontare i fatti, il malato si rifugia nuovamente nella negazione. Il parlare della morte assume quindi per il malato la stessa funzione del discorso individuale per le lamentatrici, consente cioè il progredire dell'elaborazione della perdita, mentre l'interruzione e il ritorno del rifiuto fungono da protezione, così come l'interruzione periodica dei ritornelli. Se la prima reazione davanti a una notizia catastrofica è l'incredulità, e quindi il rifiuto, la fase successiva comporta la presa in considerazione di ciò che è accaduto o sta accadendo. Le barriere protettive innalzata dalla negazione finiscono per crollare, e il sentimento successivo è quello della collera. L'individuo colpito non riesce a darsi una motivazione, una giustificazione per la sua perdita, e questa frustrazione porta a un susseguirsi di sentimenti di rabbia, invidia e risentimento. La persona in stato di collera ce l'ha con se stesso e con i vari simboli religiosi, ovvero con chiunque possa essere ritenuto responsabile dell'accaduto, e prova un sentimento di invidia per chi non si trova nelle sue condizioni. La collera così accumulata rischia di scoppiare trasformandosi nello stato che De Martino definisce come planctus irrelativo, e di portare quindi ad attacchi di violenza contro se stessi e gli altri. Gli impulsi collerici e violenti perdono gradualmente forza man mano che ci si rende conto della loro inutilità: malgrado la rabbia sfogata indistintamente, la situazione è ancora lì. A questo punto l'individuo colpito dalla perdita cerca un'altra strada, una sorta di accordo che possa rendere la situazione meno amara, si passa così alla fase, il venire a patti. Per spiegare i meccanismi di questa fase è utilissimo il paragone della Kübler-Ross con i tentativi dai bambini di ottenere qualcosa con le buone:

39 40

E. Kübler-Ross, op. cit., p. 57. Riguarda al delirio di negazione, supra, p. 10.

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Essi non possono accettare il nostro rifiuto quando vogliono passate una sera a casa di un amico. Possono arrabbiarsi e pestare i piedi. Possono chiudersi in camera ed esprimere temporaneamente la loro rabbia rifiutandoci. Poi ci ripenseranno. Possono prendere in considerazione anche un altro approccio. Probabilmente usciranno, si offriranno di fare qualche lavoro in casa, che di solito non riuscivamo mai a ottenere da loro e poi ci diranno: <<Se faccio il bravo tutta la settimana e lavo i piatti tutte le sere, mi lasci andare?>>.41

Con le stesse dinamiche psicologiche, la persona colpita da una perdita cerca di rendere la situazione più sostenibile. Per i malati terminali si tratterà quasi sempre di poter vivere più a lungo e in condizioni migliori, oppure di poter tornare anche solo una volta alla vita così com'era prima della malattia, fare qualcosa che ora non gli è più permesso. Per la persona colpita da lutto, invece, il desiderio irrealizzabile può essere quello di vedere un'ultima volta il defunto. In realtà la negoziazione non è altro che un tentativo di rinviare la perdita stessa o i suoi effetti, e implica, oltre alle promesse fatte per ottenere la realizzazione del proprio desiderio, anche la promessa di non chiedere più nulla se il desiderio verrà esaudito. Ciò che succede, è che non si è mai veramente pronti per un'ultima richiesta che sia veramente l'ultima: la natura umana tende alla speranza, e la promessa non viene mantenuta. Ancora una volta il paragone con i bambini può rendere un'immagine più chiara:

I nostri malati […] sono come dei bambini che dicono: <<Se mi lasci andare, non picchierò più mia sorella>>. Inutile aggiungere che il bambino picchierà ancora sua sorella […]42

In altre parole, il venire a patti è la ricerca disperata di un'ancora di salvezza, un qualcosa che permetta di non rassegnarsi, o perlomeno non ancora. E se viene trovata un'ancora momentanea a cui aggrapparsi, la tendenza sarà sempre quella di cercarne un'altra, e poi un'altra ancora. In questa fase insomma, non si è ancora pronti a lasciarsi andare e accettare la perdita, ma solo a osservarla a debita distanza. Il soggetto che subisce la perdita, dopo aver attraversato queste fasi, si trova a un certo punto a dover fare i conti con la conseguenze tangibili della perdita. Così come il malato terminale diventa sempre più debole o subisce interventi importanti, la persona colpita da lutto deve far fronte all'assenza della persona perduta, e alle conseguenze emotive della perdita, ma anche a quelle pratiche, ad esempio il cambiamento della situazione finanziaria. Inizia allora la fase della depressione, che si articola in due

41 42

E. Kübler-Ross, op. cit., p. 103. Ivi, p. 105.

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tipologie. Se la depressione reattiva43 scaturisce dallo scontro con la conseguenze, e quindi coincide con l'accettazione, se non della perdita stessa, almeno dell'idea di tale perdita, la depressione preparatoria44 è più vicina all'accettazione. Non nasce da uno scontro, è piuttosto un sentiero che fa da guida verso l'accettazione, permettendo la presa in considerazione delle perdite che verranno. Se la depressione reattiva coincide con uno sfogo, la depressione preparatoria implica una tristezza pacata e necessaria, che consentirà di esprimere il dolore relativo alla perdita senza cadere nuovamente nel rifiuto. Il dolore infatti è un elemento normale e inevitabile in questa fase, e respingerlo significherebbe allontanare l'accettazione della perdita. Se la quattro fasi descritte sono state superate ed elaborate correttamente, l'individuo colpito dalla perdita avrà avuto modo di metabolizzare il turbinio di sentimenti tipici del dolore, dall'incredulità, alla rabbia, all'invidia per chi non si trova nella sua stessa situazione, alla ricerca disperata della salvezza, alla tristezza provocata dalla consapevolezza della perdita subita. A questo punto la perdita assume un significato diverso. È ancora portatrice di tristezza, ma viene vista con meno distacco e più serenità, è il momento dell'accettazione. Si tratta quasi di un vuoto di sentimenti: per il malato terminale è il momento per “il riposo finale prima di un lungo viaggio”45, mentre per la persona in lutto i sentimenti negativi di reazione alla morte hanno già avuto modo di sfogarsi, mentre i tempi non sono ancora maturi per sentimenti più felici. La strada per arrivare all'accettazione è lunga e richiede un grande sforzo e tempi diversi per ognuno, ma è una fase necessaria per l'elaborazione della morte, specialmente da parte di chi resta in vita e, grazie questa elaborazione si salva dal rischio di perdere se stesso nella crisi del cordoglio.

43

Ivi, p. 108. Ibidem. 45 Ivi, p. 134. 44

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Capitolo II - Il planctus e la creazione letteraria

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II.1 La letteratura come strumento di catarsi Il planctus, nella sua forma primitiva, è una lamentazione necessaria per la sopravvivenza del proprio essere, una necessità che, per quanto sia naturale e spontanea, porta a una creazione culturale. Quando il dolore si scaglia contro l'individuo in lutto, lo fa con un'energia enorme. Per non esserne travolti, è necessario incanalare questa energia in qualcosa di diverso, dandogli una nuova vita. Viene così restituito sotto forma di canto della lamentazione, diventando in qualche modo creazione letteraria. Questa creazione ha molteplici aspetti: diventa la nuova forma del dolore, la cui forza viene convogliata e utilizzata contro il dolore stesso mentre, grazie all'espressione del cordoglio, ne permette l'elaborazione. Nel corso dei secoli l'interpretazione letteraria del planctus si è gradualmente evoluta, guadagnandosi un'esistenza indipendente dal rito che l'ha originata. Questa rappresentazione indipendente presenta delle lievi differenze rispetto al processo rituale originario, cioè “funziona” in modo diverso, come spiega Julia Kristeva: Questa rappresentazione letteraria non è un'elaborazione46 – non è cioè una “presa di coscienza” delle cause inter- e intra-psichiche del dolore morale; in ciò essa si distingue dalla via psicoanalitica, che mira alla dissoluzione di questo sintomo. Tuttavia, questa rappresentazione letteraria […] possiede un'efficacia reale e immaginaria, giacché dipende più dalla catarsi che dall'elaborazione;47

In altre parole, la trasformazione tecnica e letteraria del pianto in canto è un'operazione dell'inconscio, non è un'elaborazione cosciente della perdita subita. È come se la persona colpita dal lutto, mentre trasforma il planctus in forma letteraria venisse attraversata dal dolore della perdita senza quasi accorgersene, “filtrandolo” e restituendolo come canto. Per questo motivo si può definire come un'esperienza più catartica che di elaborazione. Ad ogni modo, così come il pianto rituale consente delle variazioni personali che rendono ogni lamentazione unica, anche le rappresentazioni

46

Corsivo nel testo. J. Kristeva, Sole nero. Depressione e malinconia (1987), trad. it. A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 29. 47

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letterarie presentano caratteristiche diverse tra di loro. In questo capitolo verranno analizzati alcuni esempi, tratti dalla letteratura italiana e francese.

II.2 Requiem di Patrizia Valduga Il volume Requiem di Patrizia Valduga è il racconto della morte del padre dell'autrice. Già dal titolo la tematica è chiara: infatti Requiem è la prima parola della preghiera dedicata ai defunti, ma anche la composizione musicale basata sul testo della messa di suffragio alle anime dei defunti. Dal punto di vista della forma, si presenta come un poemetto diviso in due parti: la prima comprende ventotto componimenti, come i giorni di degenza ospedaliera del padre48; la seconda parte invece è costituita da dieci componimenti, scritti per altrettanti anni nell'anniversario della morte del padre. Tutti i componimenti sono delle ottave. Ciò che rende quest'opera particolare rispetto alle altre che verranno analizzate è il suo essere una “cronistoria di un'agonia e di un'angoscia, del padre e della figlia: una morte riguardata dalle ultime trincee della vita”49. Vale a dire che la trasposizione letteraria del lutto da parte della Valduga non è solo un canto “reattivo”, di replica alla morte, ma anche (e soprattutto) “preparatorio”50 alla perdita: i sintomi e la sempre maggiore debolezza causati dalla malattia costringono padre e figlia a guardare la morte, che si avvicina implacabilmente senza che si possa fare niente per evitare il peggio. Siamo di fronte a un percorso relativo alla morte articolato in due movimenti: il primo di avvicinamento, compiuto da padre e figlia insieme, e il secondo, di allontanamento. Dopo la morte del padre, l'autrice stenta a trovare se stessa, sente di essere andata via insieme alla sua perdita. Per questo dovrà affrontare il cammino, non meno faticoso del primo e anzi aggravato dal fatto di doverlo compiere in solitudine che la riporterà alla vita, al proprio presente. La prima ottava del poemetto rappresenta lo scontro con la realtà, e la prima minaccia di crisi della presenza:

Anima perduta, anima cara, io non so come chiederti perdono, 48

Cfr. P. Valduga, Requiem, Torino, Einaudi, 2002, p. 32, nota a piè pagina. Commento di Luigi Baldacci riportato nelle note di copertina, P. Valduga, op. cit. 50 Il vocabolario, originariamente riferito al concetto di depressione, è tratto da E. Kübler-Ross, 49

op.cit.

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perché la mente è muta e tanto chiara e vede tanto chiaro cosa sono, che non sa più parole, anima cara, la mente che non merita perdono, e sto muta sull'orlo della vita per darla a te, per mantenerti in vita51

Il componimento mostra vari elementi tipici delle lamentazioni rituali. Ad esempio, la mente che “vede tanto chiaro” ma che “non sa più parole” ricorda la dualità tipica presso le lamentatrici tra lo “stato di veglia” e quello “oniroide”: lo shock provoca la perdita della parola, ma sappiamo che non si tratta di “ebetudine stuporosa” perché la mente è in grado di capire e interpretare il presente, pur non riuscendo ad agire. Lo stato mentale è quindi quello di una veglia fortemente attenuata, ma ancora presente, che percepisce, ma non può intervenire, “chiara” e “muta” allo stesso tempo. La Valduga, qui in veste di lamentatrice, per la paura di perdere suo padre si trova anche lei “sull'orlo della vita”. Tutto ciò che può fare è sfruttare quella fiammella di vitalità che le resta per darla al padre, attraverso il suo canto. Anche dal punto di vista formale l'ottava può essere paragonata a una lamentazione rituale. In primo luogo è intervallata regolarmente (rispettivamente alla fine del primo e del quinto verso, quindi il primo dopo la metà) dal vocativo “anima cara”, che qui prende la funzione dei ritornelli tipici del discorso protetto nel pianto funebre, interrompe cioè i versi che parlano della perdita per allentare la tensione emotiva ed evitare un sovraccarico rischioso per la presenza. Inoltre il discorso si presenta monotono e ripetitivo. Le parole chiave sono tutte ripetute un minimo di due volte: “anima” (vv. 1 e 5), “mente” (vv. 2 e 6), “perdono” (vv. 2 e 6), “chiara” (v.3) e “chiaro” (v.4), “vita” (vv. 7 e 8). Se la prima ottava mostra la dualità tra stato di veglia e stato oniroide, il componimento X mostra, seppur velatamente, un'altra alternanza, quella tra presa di coscienza della perdita e rifiuto della stessa:

Per quella tosse quanto abbiamo pianto! Ci toglieva anche l'ultima speranza, dava al pianto già pianto un nuovo pianto senza rumore, accanto alla tua stanza. Tossivi dentro di te di tanto in tanto e pensavi che fosse una mancanza: Scusa Patrizia... Non va tanto male. 51

P. Valduga, op. cit., p. 5.

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Chissà quando uscirò ... forse a Natale …52

La tosse si presenta come sintomo tangibile della morte imminente, e ogni volta che si ripresenta, dà “al pianto già pianto un nuovo pianto”. La tosse non è il primo segnale che arriva ad annunciare la perdita, né si tratta della prima volta che il sintomo si presenta, ma la realtà è ancora faticosa da accettare, e la morte ritenuta lontana. La speranza, almeno in apparenza, è predominante, il malato stesso, dando coraggio alla figlia (mentre dentro continua a “tossire”) arriva a ipotizzare una data entro la quale tornerà in salute. Ma i segni concreti della malattia ritornano senza scampo, gettando nuovamente la famiglia nello sconforto, e nella reiterazione del pianto già pianto in precedenza. Sembra che la dinamica presentata nell'ottava sia quella di accettazione graduale e forzata dall'evidenza della malattia, alternata al rifiuto della stessa, con l'ostentazione di un miglioramento fasullo. Un altro modulo tipico delle lamentazioni funebri è presentato nell'ottava XXV, che segna l'arrivo della morte, e nella quale la Valduga restituisce un'immagine eroica del padre:

Nell'azzurro e nell'oro, nella gloria d'oro e del mezzogiorno risplendente, come un eroe va verso la vittoria, sacro, immobile innominabilmente, varchi la notte e fermi la tua storia, e fermi il sole d'oro eternamente nel cuore forte che li terrà forte per tutta la durata della morte.53

Con la stessa funzione dei moduli di carattere epico presenti nelle lamentazioni funebri, la rappresentazione eroica del genitore aspira al rimpossessarsi di ciò che la morte non può rubare, l'operato e le gesta compiute dal defunto quando era in vita. Così il morto viene rappresentato nel momento del suo trapasso come se fosse un generale che conquista una nuova terra. Tutto è gloria e luce: “nell'azzurro e nell'oro”, “nella gloria d'oro”, “del mezzogiorno risplendente”; il defunto viene definito come “un eroe”, “sacro, immobile”, che “va verso la vittoria”. Questa vittoria è ottenuta nel momento in cui “varca la notte” fermando “il sole d'oro” per l'eternità, guadagnandosi una gloria eterna. Con questo gesto vittorioso ferma la propria storia, insieme al “sole d'oro”, 52 53

Ivi, p. 14, corsivo nel testo. Ivi, p. 29.

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simbolo della vita e della gloria, racchiudendoli nel “cuore che li terrà forte”. Il cuore in questione potrebbe essere il suo, o quello dell'amata figlia. O entrambi allo stesso tempo. La descrizione eroica del defunto sembra non lasciare dubbi sull'appartenenza di un cuore così forte da fermare la storia in eterno; ma allo stesso tempo l'azione eroica del trapasso è stata compiuta insieme da padre e figlia, e il luogo in cui l'eroe continua a vivere con il suo sole d'oro è proprio quello della sua erede. Due componimenti, il XV e il XXVI, affrontano il tema del canto in modo abbastanza paradossale, riferendosi al dolore e all'impossibilità di piangere una pena così grande:

XV Il cuore sanguina, si perde il cuore goccia a goccia, si piange interiormente, goccia a goccia, così, senza rumore, e lentamente, tanto lentamente, si perde goccia a goccia tutto il cuore e il pianto resta qui, dentro la mente, non si piange dagli occhi, il pianto vero è invisibile qui, dentro il pensiero. XXVI O cantico dei cantici, ti canto, corpo senza più corpo dell'amore, dolore senza più grido senza pianto senza corpo senza età del dolore, cantico della morte, io ti canto, cuore che continui nel mio cuore che tutti i giorni a mezzogiorno muore perché non può invecchiare il mio dolore!54

Ci troviamo di fronte a una lamentatrice incapace di eseguire il proprio lamento. Diversi elementi ci riportano alla descrizione dello stato di “ebetudine stuporosa”: il pianto è incredibilmente lento: “goccia a goccia”, “lentamente, tanto lentamente”; e solo interiore: “senza rumore”, “resta qui, dentro la mente”, “è invisibile qui, dentro il pensiero”, “senza più grido, senza pianto”. Ma si tratta realmente di ebetudine stuporosa? Una persona in preda all'ebetudine non è in grado di comunicare, e non riuscirebbe in realtà neanche a esprimere la sua incapacità di esprimersi. Nel componimento XXVI invece, nonostante si tratti di un dolore “senza grido”, “senza pianto” e “senza corpo” troviamo (rispettivamente a inizio e metà ottava) “o cantico dei 54

Ivi, pp. 19 e 30.

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cantici, ti canto”, “cantico della morte, io ti canto”. Quello che succede è che il pianto di cui si lamenta l'assenza è proprio di fronte a noi, trasformato in canto. Lo stesso vale per il componimento XV, dove a diventare canto è l'apparente della capacità di comunicare, di piangere. Tra le ottave composte in occasione degli anniversari della morte del padre, ne verranno analizzate due, per mostrare due fasi diverse dell'elaborazione del lutto. Nell'ottava relativa al secondo anniversario, 2 dicembre 1993, troviamo un cordoglio ancora non risolto, l'autrice si mostra in piena crisi:

Ah padre mio, non faccio che tremare, e stare dentro me col mio dolore, piangermi in te, piangermi in te e tremare, Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore, fammi uscire da me, fammi trovare favole di pietà, versi d'amore... Versi d'amore come ai miei vent'anni ! Padre, il mio cuore compie oggi due anni.55

L'immagine restituita è quella di una lotta contro la crisi della presenza: la Valduga si trova intrappolata in sé stessa, senza altra compagnia che quella del proprio dolore, e prega il padre affinché la aiuti a “uscire da me”, sia come persona che come scrittrice, chiede infatti di poter “trovare favole di pietà, versi d'amore”. Ma da dove deriva la crisi della presenza? La scrittrice rivela il suo fatale errore: “non faccio che […] piangermi in te, piangermi in te col mio dolore”. Secondo quanto abbiamo appreso sulle tecniche dei riti funebri, lo scopo principale è quello di “riuscire a far morire i propri morti in noi” attraverso il pianto rituale. Quindi, una lamentazione che riesca a risolvere la crisi del cordoglio, dovrebbe comportare un “piangerti in me”, ovvero l'esatto contrario del verso della Valduga. Il tono usato in 2 dicembre 2001, componimento che chiude l'opera, si presenta per certi versi simile:

Palpito d'ali al limite del volo, tu, palpito di piume tutto ali, per questo giorno, per un giorno solo, cavami via da questi criminali, portami un po' di giorno, un senso solo in questa notte postuma di mali, 55

Ivi, p. 39.

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ché neanche la speranza mi è concessa, ché vivo come ai piedi di me stessa.56

Anche qui abbiamo una descrizione della depressione causata dalla perdita: “neanche la speranza mi è concessa, / ché vivo come ai piedi di me stessa”, accompagnata nuovamente da una preghiera, la richiesta di un intervento che finalmente la guarisca: “cavami via da questi criminali, portami un po' di giorno, un senso solo”. La differenza è che stavolta il genitore defunto non viene nominato. O almeno non come “padre”, come nelle altre ottave. I primi due versi ci parlano infatti di un “palpito d'ali al limite del volo, […] palpito di piume tutto ali”, che non potrebbe essere nessun altro se non il padre, o meglio l'allegoria della sua morte. L'allegoria della morte, il lutto, è già “al limite del volo”, meglio ancora palpita, è pronto a spiccare il volo (non a caso è inserito nell'ultima ottava del poemetto), aspetta solo di essere lasciato andare, e poi finalmente lascerà la lamentatrice libera dal peso, e non per un giorno solo come da lei accennato, ma in modo definitivo. Con questo componimento la Valduga lascia finalmente andare ciò che tratteneva il lutto del genitore, e la intrappolava dentro sé stessa, lascia andare suo padre.

II.3 Altri esempi di planctus nella letteratura italiana del secondo Novecento Nonostante il planctus abbia origini che si perdono nella memoria, la necessità di trasformare il pianto e il dolore sotto una nuova forma è una fonte inesauribile di letteratura, in particolar modo di letteratura femminile, vista la predisposizione naturale delle donne alla lamentazione rituale. Tenendo a mente che ogni lamentatrice può personalizzare la propria lamentazione nel modo che le è più congeniale, vedremo alcuni degli infiniti modi di dare nuova vita al pianto, rimanendo nella scena della poesia italiana del secondo Novecento. Il primo esempio preso in considerazione è il testo di Cristina Campo intitolato La Tigre Assenza:

pro patre et matre 56

Ivi, p. 71.

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Ahi che la Tigre, la Tigre Assenza, o amati, ha tutto divorato di questo volto rivolto a voi! La bocca sola pura prega ancora voi: di pregare ancora perché la Tigre, la Tigre assenza, o amati, non divori la bocca e la preghiera...57

Dal punto di vista formale, proprio come i versi tipici della lamentazione funebre, il testo si compone di versi brevi e irregolari, senza metro e senza schema di rime. Un altro elemento che rimanda alla tecnica della lamentazione è la presenza periodica di un richiamo emotivo ai defunti, che troviamo regolarmente in apertura dei versi multipli di tre: “o amati” (v.3), “a voi” (v.6), “voi” (v.9) e nuovamente “o amati” (v.12) in uno schema a specchio. Per la loro regolarità e il carattere emotivo di richiamo ai morti, queste interruzioni prendono la funzione propria dei ritornelli nelle lamentazioni, ovvero quella di garantire una protezione alla lamentatrice, arginando il discorso individuale prima che scateni il planctus irrelativo. Contribuisce a questa funzione protettiva anche l'interiezione “Ahi” in apertura al testo. La funzione tecnica di queste particelle nella lamentazione tradizionale era di dare uno sfogo al proprio dolore, allo stesso tempo controllandolo e limitandolo attraverso i vincoli ritmici e del testo. Si tratta quindi della forma protetta e riplasmata delle grida di dolore. Dal punto di vista del significato, il dolore causato dal cordoglio è rappresentato in tutta la sua ferocia attraverso la metafora animale. Se in 2 dicembre 2001 della Valduga l'allegoria faunistica fa riferimento a un volatile indefinito, ma pronto a volare via restituendo la libertà, qui invece troviamo una tigre che, con tutta la ferocia possibile, si accinge a divorare tutto ciò che è sopravvissuto alla morte, compresa la bocca che cerca la salvezza nel canto e nella preghiera. La tigre, con la sua forza distruttiva ci rimanda alla potenza annientatrice del cordoglio, che mette in pericolo la presenza. Ci troviamo cioè di fronte all'immenso dolore provocato dal lutto che letteralmente “divora” la presenza o ciò che ancora ne rimane. E sembra che ne rimanga ormai ben poco, visto che la tigre 57

C. Campo, La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 44.

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“ha tutto divorato”, infatti rimane “la bocca sola”, lo strumento che fisicamente e spiritualmente può invertire il processo di progressione della malattia del cordoglio, attraverso la preghiera, il canto. La lotta in corso è a questo punto tra due bocche: quella famelica e implacabile della tigre, e quella della lamentatrice, unico strumento rimasto e fondamentale per la salvezza. La bocca che prega invoca allora i defunti, perché a loro volta si congiungano alla preghiera prima che la belva lasci il vuoto. I puntini di sospensione che chiudono il componimento sembrano indicare un eventuale reiterarsi del testo fino alla risoluzione della lotta, in uno schema circolare e ripetitivo. Reiterazione e ripetitività sono anch'essi caratteri tipici della lamentazione: qua li troviamo nel vocabolario: “volto rivolto”, dove, oltre a indicare la direzione verso cui si guarda (e prega), il prefisso “ri-” sembra indicare una ripetizione della parola che lo precede; “prega […] di pregare”, dove la preghiera è inserita in un circolo virtuoso che ne amplifica la potenza, e ancora: “prega ancora”, “di pregare ancora”, a voler sottolineare ulteriormente il circolo reiterativo del canto. Questa rappresentazione circolare e ripetitiva si applica anche alla tigre, non a caso, ogni volta che viene nominata è utilizzata la formula “la Tigre, la Tigre Assenza” (vv.1 e 11); inoltre l'animale è rappresentato mentre cerca di divorare un'altra bocca, che a sua volta però cerca di scacciarlo attraverso la preghiera, in una lotta che sembra non concludersi mai. Ma se i puntini di sospensione ci lasciano appunto in sospeso, senza ulteriori informazioni sulla conclusione della battaglia, è il testo stesso con la sua presenza che ci aiuta in questo senso. Ricordiamo che la forza del planctus sta nell'abilità a catturare il dolore e reincanalare la sua forza nella forma protetta del canto. Allo stesso modo la tigre, con tutta la sua ferocia è ormai intrappolata nella stessa preghiera contro la quale lotta: racchiusa in questa forma, le è dato di divorare solo se e quando il planctus ritualizzato lo permette. La vittoria della bocca che prega è di fronte ai nostri occhi. La potenza distruttrice di presenze è paragonata alla forza degli elementi naturali anche da Alda Merini nella Canzone in memoriam, dedicata alla madre:

Il vento penetrerà le querce (fino a quando durerà il mio messaggio?) ma se io non scrivo più? Il vento squassa le nostre ombre su e giù per i pendii, lungo i parabrezza delle nuvole dove risuona la catena dell'aldilà.

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Ebbene io verrò a cercarti, madre mia benedetta, su in cima alle colline, sulle cime tempestose del Sinai. Perché tu eri la mia legge, la mia dottrina, tu sapevi aprire ogni parola e trovavi dentro il seme. Ecco, ora parlo, parlo forse una lingua blasfema e intanto tu continui a morire sotto la terra sotto il cardo. Giorno per giorno muori perché io non vengo a cercarti, ma mi farò un bastone adatto il bastone di Aligi, verrò con te sulle montagne perché tu abiti alto e insieme cominceremo il coro il vero famigliare assoluto coro che ci disintegra la bocca58

In questo caso la tigre divoratrice di tutto si trasforma in un vento impetuoso che “penetra le querce” e “squassa le ombre”. La novità, rispetto ai testi già visti, è una consapevolezza della forza del canto al fine di risolvere la crisi luttuosa. Un primo riferimento al proprio canto appare in forma interrogatoria: “fino a quando durerà il mio messaggio?”, “ma se io non scrivo più?”; quasi come a chiedersi se il canto sia realmente necessario, o se invece sia meglio lasciarsi trasportare via dal vento. La decisione è presa pochi versi sotto, e poi ripetuta nel testo: “ebbene io verrò a cercarti”, “verrò con te sulle montagne”; la volontà è quella di affrontare il lutto, arrampicandosi sulle sue “cime tempestose” per poter intonare una preghiera, con l'aiuto della stessa madre defunta: “e insieme cominceremo il coro”. Dal punto di vista visivo, salta all'occhio una quartina, che, graficamente rientrata rispetto al corpo del testo, divide in due il componimento. Questa interruzione, oltre a esercitare il solito richiamo ai ritornelli protettivi, si distingue per il suo paragonarsi a una preghiera: le parole “perché tu” in apertura del verso, seguite da una sorta di inno alla madre, ci riportano alla memoria i versi del Gloria in excelsis Deo: “perché tu solo il santo...”; l'ipotesi della correlazione tra questi versi e una preghiera pagana è confermata dai versi successivi: “ecco ora parlo […]/ una lingua blasfema”. Infine, la risoluzione del lutto nel canto ci è presentata chiaramente: “parlo / forse una lingua 58

A. Merini, Vuoto d'amore, Torino, Einaudi, 1991, p. 110.

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blasfema / e intanto tu continui a morire”: attraverso la preghiera dunque, la lamentatrice Alda Merini riesce a far morire in se stessa la madre, dandole la secondo morte che risolverà la crisi del cordoglio.

II.4 La presenza malata del mondo: Marguerite Duras L'elaborazione del dolore per Marguerite Duras segue un cammino completamente diverso, fortemente influenzato dal periodo storico e dalle ripercussioni che questo ha avuto nella sua vita privata. Ci troviamo nel secondo dopoguerra, in un mondo che non è altro che l'insieme di rovine di qualcosa che esisteva un tempo. Lo shock causato dalla seconda guerra mondiale, e dagli orrori che essa ha comportato, non lascia nient'altro che una scia di morte e follia. Lo stesso sistema politico internazionale si ridimensiona: il disastro immane che ha spazzato via il mondo ha dato vita a un delirio mortifero generale di dimensioni tali che la sua stessa causa ha perso la sua importanza, c'è posto solo per la malattia , diventa inutile persino cercarne il colpevole. In altre parole il contraccolpo causato dal conflitto mondiale non si è limitato a colpire i singoli individui, è il mondo intero a essere rapito dalla crisi della presenza, tutto diventa un nulla, il senso di qualsiasi cosa è caduto in guerra. In quest'ottica, la reazione della letteratura è quella di ritirarsi in se stessa (anch'essa quasi colpita dalla malattia della presenza), tornando “verso la dimora che gli è propria, cioè il linguaggio, di cui dispiega le risorse anziché affrontare ingenuamente la rappresentazione di un oggetto esterno.”59 Chi scrive quindi, non si lancia in uno scontro diretto contro il nulla che lo circonda, piuttosto fa l'inventario degli strumenti che ha a propria disposizione per combattere il cordoglio dilagante del mondo, preparandosi a una lunga e lenta battaglia nella speranza di poter ritrovare il senso perduto. La melanconia nelle opere di Marguerite Duras è una rappresentazione della presenza malata del mondo che contagia i suoi abitanti, il riflesso del malessere ormai dilagante. In questo contesto storico è vero che è ancora possibile

59

J. Kristeva, op.cit. p. 189.

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immaginare un'arte che, pur riconoscendo il peso del dolore moderno, lo diluisca nel trionfo dei conquistatori, o nei sarcasmi e negli entusiasmi metafisici, oppure anche nella tenerezza del piacere erotico.60

Al contrario, Marguerite Duras “sceglie un'altra via o soccombe a essa: la contemplazione complice, voluttuosa, ammaliante della morte in noi, della permanenza della ferita”61. L'opera durassiana infatti si caratterizza per un'osservazione quasi clinica del dolore e della follia, andandoci contro senza nessun tentativo di catarsi. La malattia dei personaggi è messa a nudo in piena lucidità e nel modo più fedele possibile, viene “coltivata” e “domata” senza che venga mai esaurita62. Nessuna guarigione aspetta quindi i personaggi alla fine dei romanzi, assistiamo semplicemente allo svolgimento delle loro storie nel “nulla del senso e dei sentimenti”63. Il carattere non catartico delle opere della Duras sembrerebbe allontanarla dall'orizzonte del planctus, del quale la catarsi è in realtà la funzione fondamentale. Bisogna però tenere conto delle dimensioni gigantesche e spropositate della perdita in questione, una follia della morte, la crisi della presenza che colpisce il mondo intero, creando un vuoto collettivo, una voragine del senso collettiva, e per questo ben maggiore rispetto alla somma delle singole perdite di ognuno. Sarebbe dunque davvero possibile “diluire il peso” di tale perdita scaricandolo su altri temi più leggeri? Un'operazione del genere non rischierebbe forse di sfociare in una colossale negazione di ciò che è accaduto e che ha lasciato tracce evidenti? Va tenuto a mente che, nonostante le protezioni di varia natura che prevede, il pianto rituale tradizionale non avrebbe alcun senso e non riuscirebbe nel suo intento se non affrontasse la perdita a cui si riferisce. E in realtà l'operazione compiuta dalla Duras è proprio quella di affrontare la malattia delirante che affligge il mondo, lucidando le armi che ha a disposizione, quelle del linguaggio, e intraprendendo una lunga e lenta battaglia con il vuoto lasciato dalla guerra. La mancata purificazione non è quindi da intendersi come una sconfitta. Più semplicemente si tratta di una partita dalla proporzioni talmente ampie da non potersi risolvere nello spazio di una vita. Se nelle opere della Duras non troviamo una vittoria, non c'è neppure una sconfitta, il delirio della morte viene affiancato e domato, progressivamente e impercettibilmente consumato. 60

Ivi, p. 198. Ibidem. 62 Cfr. ivi, p. 193. 63 Ivi, p. 192. 61

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II.4.1 Il dolore Nel 1985, quarant'anni esatti dopo averlo scritto, Marguerite Duras pubblica Il dolore, un diario che testimonia gli orrori della guerra vissuti da parte di chi non è in trincea, ma aspetta, consumandosi nell'attesa. Il racconto, in questo caso autobiografico, è quella di una donna il cui marito è stato deportato al campo di concentramento di Dachau. Da allora, più nessuna notizia, solo un'interminabile attesa. Robert L., questo il nome del marito deportato, potrebbe essere morto ormai da mesi, ma in assenza di notizie certe non si può fare altro che aspettare. E la narratrice è logorata dall'attesa: fa fatica a svolgere le più basilari funzioni fisiologiche, mangia e dorme il minimo indispensabile, corre come un fantasma da un ufficio all'altro nella speranza di una notizia a cui aggrapparsi. In alcuni punti l'attesa si fa talmente insostenibile che la narratrice si convince dell'avvenuta morte di Robert L. e , esausta, non vorrebbe altro che poter morire con lui, dentro a una fossa. La pubblicazione del diario è accompagnata da un commento della scrittrice stessa. Lo stato semi-vegetativo che la caratterizzava nel momento in cui ha scritto i quaderni non potrebbe essere presentato meglio:

J'ai retrouvé ce Journal dans deux cahiers des armoires bleues de Neauphle-le-Château. Je n'ai aucun souvenir de l'avoir écrit. Je sais que je l'ai fait, que c'est moi qui l'ai écrit, je reconnais mon écriture et le détail de ce que je raconte, je revois l'endroit, la gare d'Orsay, les trajets, mais je ne me vois pas écrivant ce Journal. Quand l'aurais-je écrit, en quelle année, à quelles heures du jour, dans quelle maison? Je ne sais plus rien. Ce qui est sûr, évident, c'est que ce texte là, il ne me semble pas pensable de l'avoir écrit pendant l'attente de Robert L. Comment ai-je pu écrire cette chose que je ne sais pas encore nommer et qui m'épouvante quand je la relis? [...] La douleur est une des choses les plus importantes de ma vie. Le mot <<écrit>> ne conviendrait pas. Je me suis trouvée devant des pages régulièrement pleines d'une petite écriture extraordinairement régulière et calme. Je me suis trouvée devant un désordre phénomenal de la pensée et du sentiment auquel je n'ai pas osé de toucher et au regard de quoi la littérature m'a fait honte.64 64

“Ho ritrovato questo diario in due quaderni negli armadi blu di Neauphle-le-Château.

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Se l'autrice stessa riconosce il suo scritto, è solo perché ci sono delle prove evidenti a dimostrarlo: riconosce la calligrafia, i luoghi e le azioni descritte, e sono presenti dei dettagli che nessun altro, se non lei, avrebbe potuto scrivere. Tuttavia il ricordo di se stessa che scrive questi diari sembra essere svanito nel nulla (sempre se mai c'è stato). Oltre all'assenza totale del ricordo, “Je n'ai aucun souvenir de l'avoir écrit”, c'è l'incredulità di averlo potuto scrivere, in quel momento e in quelle circostanze: “il ne me semble pas pensable de l'avoir écrit […]. Comment ai-je pu écrire cette chose […] ?”; questo sgomento, insieme al contenuto dei diari, che provoca un salto indietro nel tempo riportando alla luce l'angoscia passata, spaventa terribilmente la stessa mano che ha scritto i quaderni: “cette chose que je ne sais pas encore nommer et qui m'épouvante quand je la relis”. Dalla descrizione fatta in questa breve introduzione, sembra che lo stato mentale che ha dato origine ai quaderni si trovi in un punto indefinito nella linea che passa dallo stato di ebetudine stuporosa a quello oniroide tipico delle lamentatrici. Lo stato di veglia e di guida deve essere stato in qualche modo presente, visto che troviamo un accenno al discorso protetto: il “désordre phénomenal de la pensée” è reso in una forma grafica perfettamente regolata, scritto con una “petite écriture extraordinairement régulière et calme.” Inoltre, visto lo stile di vita imposto dall'attesa, che comprendeva visite a vari uffici e incontri all'ordine del giorno, è impensabile che lo stato di veglia fosse del tutto annientato. Tuttavia, doveva essere schiacciato al minimo indispensabile, visto che il pensiero, col suo “disordine” sfuggiva a ogni guida, e la memoria della composizione dei diari si è persa nel nulla. Non ricordo di averlo scritto. So che è opera mia, sono stata io a scriverlo, riconosco la calligrafia e i particolari del racconto, rivedo il luogo, la stazione d'Orsay, gli spostamenti, ma non mi vedo nell'atto di scrivere questo Diario. Quando posso averlo scritto, in che anno, a che ora del giorno, in quale casa? Non lo so più. Una cosa è sicura, lampante: un tale testo, non mi sembra possibile che io l'abbia scritto mentre aspettavo Robert L. Come ho potuto scrivere questa cosa a cui ancora non so dare un nome, e che mi spaventa quando la rileggo? […] Il dolore è fra le cose più importanti della mia vita. La parola “scritto” qui stonerebbe. Mi sono ritrovata davanti a pagine uniformemente piene di una calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma. Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura.” M. Duras, La douleur, P.O.L., Paris, 1985 (edizione Gallimard 2011), .Trad. it. Il dolore, L. Guarino, G. Mariotti, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 13., corsivo nel testo.

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Si è detto che ciò che provoca il dolore, e quindi il rischio maggiore per la presenza in quest'opera, è l'attesa, che inesorabilmente consuma ciò che della presenza ancora resta e non è già stato consumato dalla partenza del deportato. La vita, o meglio, la sopravvivenza si riduce alla speranza di una telefonata, o di una visita: “face à la cheminée, le téléphone, il est à côté de moi. À droite, la porte d'entrée. Il pourrait revenir directement”65; “Toujours sur le divan près du téléphone.”66; oltre a questo, c'è la necessità, anzi l'obbligo di uscire per cercare nuove informazioni presso gli uffici; ma trascinarsi fuori di casa è una fatica immane: “Dans la rue je dors. Les mains dans les poches, bien calées, les jambes avancent.”"67. Persino soddisfare i bisogni fondamentali diventa impossibile: “On s'assied pour manger. Aussitôt l'envie de vomir revient. Le pain est celui qu'il n'a mangé, celui dont le manque l'a fait mourir.”68; se mangiare non è possibile a causa dei sensi di colpa, il sonno si identifica con la morte, l'unico riposo consentito a Robert L.: “Je m'endors près de lui tous les soirs, dans le fossé noir, près de lui mort.”69. Il mancato soddisfacimento dei bisogni naturali causato dai sensi di colpa non è l'unico momento in cui la narratrice “uccide” il proprio marito. Nel diario troviamo più volte la certezza, brusca e indiscutibile, che Robert sia morto: “Il est mort depuis trois semaines. C'est ça, c'est ça qui est arrivé. Je tiens une certitude.”70; “L'évidence fond sur moi,d'un seul coup, l'information: il est mort depuis quinze jours. Depuis quinze nuits, depuis quinze jours, à l'abandon dans un fossé.”71; “tout à coup la certitude en rafale: il est mort. Mort. Mort. Le vingt et un avril, mort le vingt et un avril.”72 Paradossalmente, la morte di Robert sarebbe una sorta di liberazione, si sollievo, in quanto significherebbe la fine dell'attesa logorante, magari il ritorno alla vita (per quanto le condizioni storiche lo possano permettere). Vita che sembra fuggire altrove, lasciando la narratrice in un limbo in bilico tra la vita e la morte, la presenza e l'assenza. Questo logoramento viene 65 “Il telefono, di fronte al camino, a portata di mano. A destra, la porta del salotto, il corridoio. In fondo al corridoio, la porta d'ingresso. Potrebbe venir qui, direttamente.” Ivi, p. 13. 66 “Sempre sul divano, a portata di telefono.” Ivi, p. 43. 67 “Cammino, dormo. Le mani affondate nelle tasche; le gambe che vanno avanti.” Ivi, p. 15. 68 “Ci sediamo per mangiare. Subito, la voglia di vomitare ritorna. Questo pane è quello che lui non ha mangiato. La mancanza di questo pane lo ha fatto morire.” Ivi, p. 18. 69 “Tutte le sere mi addormento vicino a lui nella fossa nera, vicino a lui morto.” Ibidem. 70 “Lui è morto da tre settimane. È andata così. Ho questa certezza, ora.” Ivi, p. 16. 71 “Di colpo tutto è chiaro, ho l'informazione: è morto da quindici giorni. Da quindici notti e quindici giorni sta abbandonato in una fossa.” Ivi, p. 18. 72 “Improvvisamente la certezza, a raffica: è morto. Morto. Morto. È stato il ventuno di aprile, morto il ventuno di aprile.” Ivi, p. 44.

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reso esplicitamente, per quanto riguarda la sfera privata: “On n'existe plus à côté de cette attente.”73; “ça ne s'appelle puls penser, ça, tout est suspendu.”74;e ancora: “Je n'exixte plus. Alors du moment que je n'existe plus, pourquoi attendre Robert L.?”75; un altro aspetto dell'attesa estenuante è quello che colpisce la collettività, l'attesa di una risoluzione che non arriva mai. Arriva la pace, ma è una pace vuota, specchio di un mondo ormai svuotato, la vita così com'era prima della guerra è da dimenticare:

Ceux qui attendent la paix n'attendent pas, rien. Il y a de moins en mois de raisons de ne pas avoir des nouvelles. La paix apparaît déjà. C'est comme une nuit profonde qui viendrait, c'est aussi le commencement de l'oubli. La preuve en est là déjà: Paris est éclairé la nuit. […] Je suis sortie, la paix m'est apparue imminente. Je suis rentrée chez moi rapidement, poursuivie par la paix. J'ai entrevu qu'un avenir possible allait venir, qu'une terre étrangère allait émerger de ce cahos et que là personne n'attendrait plus. Je n'ai de place nulle part ici, je ne suis pas ici, mais là-bas avec lui, dans cette zone inaccessible aux autres, inconnaissable aux autres, là où ça brûle et où on tue. […] La ville éclairée a perdu pour moi toute autre signification, que celle-ci: elle est signe de mort, signe de demain sans eux. Il n'y a plus rien d'actuel dans cette ville que pour nous qui attendons. Pour nous elle est celle qu'ils ne verront pas.76

La città, almeno in apparenza, è rivolta verso la pace, verso il futuro. Ma si tratta di un futuro che non appartiene ai suoi abitanti, parte di loro non vedrà mai la pace, mentre un'altra parte, quella che si strugge nell'attesa, non è pronta a rinunciare alla speranza di ritrovare i propri cari. La pace significa lasciare indietro chi non è ancora tornato, rassegnarsi. E la stragrande maggioranza della popolazione non è pronta, l'apparenza della città non ha “nulla più d'attuale”, rappresenta una pace vuota, un contenitore senza contenuto. Il consumarsi nell'attesa, e il desiderio di morire con e al posto di Robert (rispecchiando perfettamente le dinamiche della presenza in crisi), provocano un annientamento della soggettività della narratrice: lei non esiste più, ha un corpo che 73

“Questa attesa, viverla significa non esistere più.” Ivi, p. 41. “Non è più pensare, questo. Tutto è in sospeso.” Ivi, p. 42. 75 “Non esisto più. Se non esisto più, perché aspettare Robert L.?” Ivi, p. 44. 76 “Chi aspetta la pace non aspetta, aspetta niente. Sempre meno ragioni di aver notizie. La pace, già la possiamo vedere. È la notte buia che sta scendendo, l'inizio dell'oblio. Già ne abbiamo una prova: Parigi illuminata di notte. […] Sono uscita, ho visto la pace imminente. Son tornata a casa di corsa, braccata dalla pace. Ho intuito il futuro possibile che sta per arrivare, la terra straniera sul punto di emergere da questo caos, una terra dove nessuno aspetterà più. Nessun posto per me qui, io non sono qui, ma là con lui, in una zona inaccessibile agli altri, inconoscibile per gli altri, zona incendiata dove si uccide. […] La città illuminata non ha per me altro significato, è un segno di morte, segno di un domani senza di loro. Nulla più d'attuale in questa città se non per noi che aspettiamo. Per noi, è la città che non vedranno.” Ivi, pp. 54 e 55 74

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continua e esistere indipendentemente da lei, e svolge nei limiti le azioni necessarie alla sopravvivenza, ma lei non c'è più. Perlomeno, non per se stessa: “Je porte un café à D. Il me regarde, et il a un sourire très doux: <<Merci ma petite Marguerite.>> Je crie que non. Mon nom me fait horreur.”77 La sua presenza quindi si riduce a un fantasma, gli altri la vedono, e percepiscono il suo stato di abbandono, cercano anche di farla reagire, ma le loro parole risuonano priva di significato:

Mes camarades du Service des Recherche me considèrent comme une malade. D. me dit: <<En aucun cas on a le droit de s'abolir à ce point.>> Il me le dit souvent: <<Vous êtes une malade. Vous êtes une folle. Regardezvous, vous ne ressemblez plus à rien.>> je n'arrive pas à saisir ce qu'on veut me dire. [Même maintenant quand je retranscris ces choses de ma jeunesse, je ne saisis pas le sens de ces phrases.] 78

Più che il senso delle parole, è il senso del concetto stesso di presenza a sfuggire. Presenza che ormai è così lontana da diventare un significante vuoto, un qualcosa di astratto che, se mai c'è stato, non ha lasciato tracce nella memoria. L'orbita con cui la narratrice esce fuori da se stessa raggiunge l'apice quando bruscamente, nel cuore della notte, arriva la telefonata tanto aspettata. Robert L. è vivo, in condizioni più che precarie ma pur sempre vivo. Nel racconto di questa telefonata la narratrice passa di colpo dalla prima alla terza persona. Inizia con: “Le téléphone sonne. Je me rèveille dans le noir. J'allume. […]. J'essaye d'arracher l'écouteur”79; non appena D., mentre parla ancora al telefono, nomina Robert, il soggetto diventa “elle”: “Elle hurle. […] Elle essaye d'arracher.”80. Se finora l'attesa si è protratta in un'inerzia senza via d'uscita, la notizia che Robert è ancora vivo cambia tutto, l'attesa si deve trasformare in azione, in una corsa contro il tempo per prendere Robert prima che lo faccia la morte. Se l'attesa ha succhiato via la presenza vitale della narratrice, ora la troviamo in uno stato paragonabile all'”attassamento”: una prima fase è caratterizzata da un blocco psichico e fisico: “il ne la relève pas, il sait qu'elle est intouchable. Elle est occupée. 77

“Porto un caffè a D. Mi guarda, sorride, molto dolcemente: <<Grazie piccola Marguerite.>> Urlo. No. Il mio nome mi fa orrore.” Ivi, p. 38. 78 “I compagni del Servizio Ricerche mi considerano una pazza malata. D. mi dice: “In nessun caso si ha il diritto di lasciarsi andare a tal punto.” Mi dice spesso: “Lei è malata, lei è pazza. Si guardi, è irriconoscibile, guardi in che stato si è ridotta”. Non riesco a intendere cosa mi si voglia dire. [Anche ora, mentre copio queste cose della mia giovinezza, mi è impossibile afferrare il senso di quelle frasi.]” Ivi, p. 30. 79 “Uno squillo di telefono. Mi sveglio, è buio. Accendo. […] Lotto per conquistare il ricevitore.” Ivi, p. 45. 80 “Lei urla […]. Lei vorrebbe il ricevitore” Ibidem.

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Laissez-la tranquille. Ça sort en eau de partout.”81; blocco che viene bruscamente interrotto dalle grida: “Ça sort aussi en plaintes, en cris”82. Le stesse dinamiche si ripetono, finalmente giunge il momento di incontrare Robert L., o quello che ne resta: “Je ne sais plus quand je me suis retrouvée devant lui, lui, Robert L. 83”, e ancora: “Je ne sais plus exactement. Il a dû me regarder et me reconnaitre et sourire.” 84; anche qui lo stato di semi-incoscienza si interrompe, squarciato dalle urla: “J'ai hurlé que non, que je ne voulais pas voir. […] Je hurlais, de cela je me souviens. La guerre sortait dans mes hurlements. Six années sans crier.”85 Il ritorno di Robert L. dà inizio a una strenua lotta contro la morte, che alla fine viene sconfitta; man mano che Robert torna a vivere, tornando alla condizione umana che aveva perduto, anche la narratrice, che in passato era “morta” insieme a lui a più riprese, torna a impadronirsi di se stessa e della propria salute:

Les forces reviennent. Moi aussi, je recommence à manger, je recommence à dormir. Je reprends du poids. Nous allons vivre. Comme lui pendant dix-sept jours je ne peux pas manger. Comme lui pendant dix-sept jous je n'ai pas dormi, du moins je crois n'avoir pas dormi.86

Se l'attesa e la sofferenza per la morte imminente avevano riunito i due coniugi, intrappolandoli in una posizione in bilico tra la presenza e l'assenza, la vita e la morte e facendo in modo che fossero legati in un unico destino, dove la morte dell'uno comportava la non-esistenza dell'altra, il ritorno alla vita, con un processo inverso, li separa:

Les forces sont revenues encore davantage. Un autre jour je lui ai dit qu'il nous fallait divorcer […]. Il m'a demandé s'il était possible qu'un jour

81

“non tenta di sollevarla. La sa intoccabile. Lei è impegnata, ora. Lasciatela in pace. Si sta liquefacendo.” Ibidem. 82 “Qualcosa di lei esce fuori, in forma di pianti, di grida anche.” Ibidem. 83 “Non ricordo più il momento in cui mi sono trovata davanti a lui, a Robert L.” Ivi, p. 60. 84 “Ora non so più esattamente. Ha dovuto guardarmi, riconoscermi, sorridermi.” Ibidem. 85 “Ho urlato di no, non volevo vedere. Sono tornata indietro, ho risalito la scala. Urlavo, di questo mi ricordo. La guerra mi usciva fuori con queste urla. Sei anni senza gridare.” Ibidem. 86 “Le forze che tornano. Anch'io ricomincio a mangiare, ricomincio a dormire. Riprendo peso. Torniamo a vivere. Come lui, per diciassette giorni non ho potuto mangiare. Come lui, per diciassette giorni non ho dormito, almeno credo di non aver dormito.” Ivi, p. 67.

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on se retrouve. J'ai dit que non […]. Il ne m'a pas demandé les raisons que j'avais de partir, je ne les lui ai pas données.87

È come se amore e dolore fossero legati da un filo sottilissimo e indistruttibile, e quando la passione intesa come pena va scemando, è seguita a ruota dalla passione amorosa.

II.4.2 Il cannibalismo amoroso L'opera di Marguerite Duras è popolata, se non invasa, da personaggi che rinunciano alla propria identità, o annientano quella dell'altro. Danielle Bajomée parla di questo fenomeno in termini di “cannibalisme amoureux”, descritto come “aliénation et dépendances absolues, calquées sur le registre du maternel, et qui ne sont à entendre que comme avidité extrême à la recherche d'un objet qui viendrait à remplir le vide interieur:”88 Questo “cannibalismo amoroso ha quindi come tratti principali la perdita dell'alterità, un vuoto interiore che necessita di essere colmato e un'origine di stampo materno, quasi come un parto al contrario. Il “cannibalismo amoroso” nasce da una passione talmente forte da voler annullare il proprio io in nome di essa, o allora dal desiderio di annientare e inglobare l'altro affinché non sia più possibile separarsene. Quest'operazione di divoramento avviene, nell'opera durassiana, su due piani: l'immedesimazione, o annullamento dell'io per diventare parte dell'altro, e la fusione, una sorta di annullamento reciproco, dal quale i ruoli escono invertiti, o semplicemente la dualità si trasforma in un'individualità indefinita, che non rappresenta nessuno dei due personaggi iniziali. L'esempio forse più lampante della riduzione che porta dall'alterità all'individualità (o forse alla perdita dell'individualità che crea un soggetto indefinito) è rappresentato dalla coppia formata da Anne Desbaresdes e Chauvin in Moderato cantabile. I due si incontrano nello stesso bar di fronte al quale, il giorno prima, una giovane donna è stata uccisa dal suo amante. La nuova coppia nasce sotto il segno di questo crimine: l'omicidio diventa la causa che spinge i due a parlare e fare conoscenza, anzi, è praticamente l'unico argomento di cui discutono. La loro storia non esisterebbe 87

“Le forze, sono cresciute ancora. Un altro giorno gli ho detto che dovevamo divorziare […]. Mi ha chiesto se fosse possibile ritrovarci un giorno. Ho detto no […]. Non mi ha chiesto le ragioni che avevo di andarmene, e non gliele ho dette.” Ivi, p. 69. 88 D. Bajomée, Duras ou la douleur (1989), seconda ed., Paris-Bruxelles, De Boeck & Larcier, 1999, p. 16.

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senza quella che ha scatenato il crimine. Forse ciò che li affascina e che li spinge l'una verso l'altro è la ricerca disperata di una passione talmente forte da provocare un omicidio. Se Anne Desbaresdes e Chauvin sono tenuti insieme dal desiderio di una passione amorosa che scavalchi i limiti della ragione, la protagonista\narratrice de Il dolore arriva a immedesimarsi in Robert, il marito deportato a Dachau, attraverso la passione intesa come dolore e sofferenza, ai limiti tra la vita e la morte. Nonostante lei non sia stata deportata, l'attesa logorante anche solo di una notizia, il non sapere gli stia succedendo, se è vivo o morto la portano ad abbandonarsi a se stessa, a morire soprattutto dentro di sé, ma anche fuori, rendendola incapace a provvedere alle funzioni vitali basilari, come mangiare e dormire. Per quanto riguarda l'annientamento reciproco e l'inversione dei ruoli, un esempio ci è dato da i meccanismi identitari presenti nel romanzo Il rapimento di Lol V. Stein, in cui un trauma subito in gioventù dalla protagonista, Lol V. Stein, si ripercuote sulla sua vita e su quella dell'amica Tatiana Karl a distanza di anni. Da ragazza, Lol era stata abbandonata dal proprio fidanzato, Michael Richardson che, durante un ballo, non riesce a resistere al fascino di un'altra donna, finendo per seguirla. Tutto questo sotto gli occhi di Lol. Anni dopo, ritroviamo la protagonista sposata e sistemata in una vita dove tutto, nei minimi dettagli, è l'ostentazione della perfezione, come lei vuole che sia. Ma un pomeriggio, durante una delle sue solite passeggiate, Lol incontra una coppia, e riconosce nella donna la sua amica di gioventù Tatiana Karl. Lol diventa allora ossessionata dalla coppia, se ne innamora e si avvicina sempre di più ai due, fino al punto di sedurre l'amante di Tatiana. Con questa operazione, Lol diventa il doppio di Anne Marie Stretter, la donna che le ha portato via il fidanzato, ma con una differenza sostanziale. Se infatti la Stretter si è limitata a catturare Michael Richardson portandolo via dalla sua fidanzata, Lol ora vuole la coppia. Così, mentre seduce Jacques Hold, prende gradualmente il posto di Tatiana; quest'ultima, a sua volta inizia a soffrire e perde la leggerezza che la caratterizzava, diventando in qualche modo un doppio di Lol. La fusione tra le due si completa mentre Lol osserva Tatiana e il suo amante, in un atto di voyeurismo: il suo piacere non sta nel sostituire Tatiana, ma nel vederla tra le braccia del suo (loro) amante.

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Un processo pressoché identico si fa spazio ne L'amante, in una fantasia della narratrice che ha come oggetto la compagna di collegio Hélène Lagonelle: Je suis exténuée du desir d'Hélène Lagonelle. Je suis exténuée de désir. Je veux emmener avec moi Hélène Lagonelle, là où chaque soir, les yeux clos, je me fais donner la jouissance qui fait crier. Je voudrais donner Hélène Lagonelle à cet homme qui fait ça sur moi pour qu'il le fasse à son tour sur elle. Ceci en ma présence, qu'elle le fasse selon mon désir, qu'elle se donne là où moi je me donne. Ce serait par le détour du corps de Hélène Lagonelle, par la traversée de son corps que la jouissance m'arriverait de lui, alors, définitive. De quoi en mourir.89

Distruggere, ella disse è interamente basato su un gioco di specchi, di identificazioni e fusioni tra i quattro personaggi. Max Thor e Stein sono ebrei, entrambi scrittori che non scrivono: “Avec quelle force, dit Max Thor en riant, avec quelle force cela s’impose quelquefois, de ne pas l’écrire. Je n’écrirai jamais de livre”90. L'albergocasa di cura in cui alloggiano ospita anche Elisabeth Alione, che si rifugia nella solitudine in seguito alla morte della sua bambina durante il parto. Max Thor, e in seguito anche Stein attraverso lo sguardo del suo amico, è affascinato da Elisabeth. A un certo punto del racconto Alissa Thor, moglie di Max, fa visita all'albergo. Durante la visita ha modo di notare l'interesse di suo marito per Elisa, e se ne compiace, mentre subisce anche lei il fascino della ragazza, allo stesso modo in cui Lol V. Stein si innamora di Tatiana. Inoltre Alissa è attratta da Stein, il doppio di Max. Tutti sono il doppio di tutti, e il piacere che provano risiede esclusivamente nel vedere insieme gli altri ospiti, due per due. Così come Thor e Stein si compiacciono nel vedere la complicità nascente tra le due donne, Alissa approva l'attrazione del marito per Elisa e, a sua volta innesca un gioco di seduzione con Stein. Non ci sono gelosie in questo gioco di identità, tutti possono diventare chiunque altro a piacimento, in un continuo scambio 89

“Sono stremata dal desiderio di Hélène Lagonelle. Sono stremata di desiderio. Voglio portare con me Hélène Lagonelle, là dove ogni sera, ad occhi chiusi, aspetto il piacere che mi fa gridare. Vorrei dare Hélène Lagonelle a quell'uomo perché facesse anche su di lei quello che fa su di me. In mia presenza, secondo il mio desiderio, che si offrisse dove io mi offro. Passando dal corpo di Hélène, attraverso il suo corpo, il piacere mi arriverebbe, allora definitivo, da lui. Da morirne.” M. Duras, L'amant, Paris, Editions de Minuit, 1984, p. 92., trad. it. L. Prato Caruso, L'amante, Milano, Feltrinelli, 1985. 90 “<<Con quale forza,>> dice Max Thor ridendo <<con quale forza s'impone a volte, il non scrivere. Io non scriverò mai libri.>>” M. Duras, Detruire, dit-elle, Paris, Editions de Minuit, 1969; trad. it. A. Ceruti, Distruggere, lei disse, Milano, Marcos y Marcos, 1990.

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di identità, tutti sono legati da un filo, anche il lettore “è libero di comporre le diadi che preferisce”91 Abbiamo detto che questo “cannibalismo amoroso”, in cui tutti i personaggi diventano prede e cacciatori, è caratterizzato da un vuoto interiore, che si cerca di riempire divorando tutto l'amore possibile. All'origine di questo vuoto c'è, per tutti i personaggi, un abbandono subito in passato; più in particolare, nella maggioranza dei casi, l'abbandono riguarda il rapporto genitore-figlio. Così Lol Stein tenta di riempire con la coppia Tatiana-Jacques il vuoto lasciatole dal fidanzato, abbandonando a sua volta il marito, che nel romanzo ha un ruolo prettamente marginale, quasi decorativo; Elisabeth Alione, dopo aver perso la sua bambina, si rifugia all'albergo, abbandonando momentaneamente suo marito (così come Max Thor -forse abbandonato dalla capacità di scrivere- si allontana dalla moglie), allo stesso ne Il dolore la narratrice perde il figlio di Robert L. durante il parto, e in seguito abbandonerà il marito; la giovane prostituta de L'amante si ritrova praticamente orfana, il padre non viene menzionato (così come per il bambino di Anne Desbaresdes), mentre la madre, in preda alla follia, non risulta essere in grado di svolgere il suo ruolo di madre, e a un certo punto perde la sua identità, quasi scompare fisicamente: “dans une sorte d'effacement soudain, de chute, brutalement je ne l'ai plus reconnue du tout. Il y a eu tout à coup, là, près de moi, une personne assise à la place de ma mère, elle n'était pas ma mère, elle avait son aspect mais jamais elle avait été ma mère.”92. La diserzione della madre dal ruolo genitoriale provoca un'inversione dei ruoli, nella quale la narratrice diventa madre di se stessa e di sua madre. L'abbandono che ne conseguirà avviene ai danni dell'amante cinese, prima sul piano emotivo, negandogli il sentimento amoroso, e poi concretamente, con la partenza dalla colonia.

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J. Kristeva, op. cit., cit. p. 209. “in una specie di improvviso annebbiamento, di caduta, non l'ho riconosciuta più. A un tratto avevo vicino una persona seduta al posto di mia madre che non era mia madre, ne aveva l'aspetto ma non era mai stata mia madre.” M. Duras, L'amant, Paris, Editions de Minuit, 1984, p. 102. 92

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Capitolo III - Il pianto cantato

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III.1 Canto universale. Mia Martini Il tema del planctus nella letteratura ha avuto sviluppi che ne hanno mostrato tutte le numerose sfaccettature. Non bisogna però dimenticare che le origini del piano rituale prevedevano un vero e proprio canto, che con l'aiuto dei vincoli della melodia e del testo, provvedeva alla corretta elaborazione del lutto all'interno del discorso protetto. In questo senso, la tradizione ininterrotta del planctus è arrivata fino all'epoca contemporanea, più precisamente nella musica pop, italiana e internazionale, a conferma del carattere popolare di questo genere. Anche in questa nuova veste, il planctus incarna infinite rappresentazioni, quante sono le possibilità di interpretazione (ricordiamo che ogni lamentatrice introduce, rinnova e reinterpreta i moduli tradizionali per adattarli meglio alle sue esigenze).

III.1.1 Bambolina e Padre davvero Mia Martini, all'anagrafe Domenica Adriana Rita Bertè, è conosciuta dal grande pubblico nella veste di interprete. Si può dire infatti che tra i brani per cui viene ricordata (da Piccolo uomo a Gli uomini non cambiano, passando per Minuetto e l'immancabile Almeno tu nell'universo), praticamente nessuno sia stato scritto da lei, nonostante i richiami biografici presenti nei testi delle canzoni (notoriamente Padre davvero e Gli uomini non cambiano). Sono quindi pochi a conoscere la Mia Martini cantautrice; lei stessa ironizza su questo aspetto in un'intervista: “Che sia una cantautrice fanno finta di non saperlo in molti. Ogni tanto qualche giornalista serio, quale lei è ad esempio, se lo rammenta, strano”93. In realtà la giovane Domenica Bertè, già incline alla scrittura sin dall'infanzia,94, inizia la sua carriera di cantautrice in contemporanea con il suo esordio discografico con il nome di “Mimì Bertè”, nel 1963; questa esperienza creativa avrà

93 Da un'intervista a Maurizio Gregorini, di cui l'estratto è riportato su: P. Augliera, Mia Martini. La voce dentro, Civitella in Val di Chiana - Arezzo, ZONA, 2011, p. 13 94 Cfr. M. Caroli, G. Harari, Mia Martini. L'ultima occasione per vivere, Milano, TEA, 2009, p. 21

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però il suo culmine a cavallo tra il 1981 e il 1983, quando verranno pubblicati degli album interamente o parzialmente scritti da lei stessa. Tra i brani più ermetici di questo periodo troviamo Bambolina, bambolina:

La gente qui dentro è sempre gentile sorride, mi parla, lo sai? Tu sei arrivato da un'altra stella di una galassia vicina ti ho già visto ed ho scritto persino il tuo nome dove, non lo so, io non ricordo, non ricordo, no. Bambolina, bambolina, la bambina più bella che c'è bambolina, bambolina, volerà sul cavallo del re. Fai la nanna bambolina, Barbablù sta dormendo oramai E domani, domani lui dormirà ancora sì, perché domani nessuno lo sveglierà. Tu hai un bel sorriso, una bella voce così familiare e lontana. Come girava la musica in quella scatola strana. E mi hanno fatto parlare, parlare tanto di cosa, non lo so, ora non ricordo, non ricordo, no. Bambolina, bambolina, la bambina più bella che c'è bambolina, bambolina, volerà sul cavallo del re. Fai la nanna bambolina, Barbablù sta dormendo oramai e domani, domani lui dormirà ancora sì, Perché domani nessuno lo sveglierà. Fai la nanna bambolina, la bambina più bella che c'è. e domani, domani lei dormirà ancora sì, anche domani, domani lei dormirà finché il suo re con un bacio la sveglierà. Bambolina, bambolina, fai la nanna bambolina, fai la nanna bambolina, fai la nanna, bambolina. Bambolina95

La storia raccontata è quella di una malata, probabilmente una bambina, che si trova in un ospedale, per essere guarita da una malattia non meglio precisata. Alcuni elementi però, ci rimandano alla descrizione di una problema di natura psichiatrica, ad esempio l'amnesia: “ora non ricordo, non ricordo, no”; o il fatto che le persone “gentili” presenti nell'ospedale invitano la paziente a parlare, anche se poi la parola si rivela vuota: “e mi hanno fatto parlare, parlare tanto, di cosa non lo so”. Ma chi è la malata in questione? Un commento dell'autrice ci viene in aiuto in questo senso: 95

Mia Martini (musica di Shel Shapiro), dall'album Quante volte... Ho contato le stelle, DDD,

1982

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Io questo brano l'ho scritto per mia madre. […] Bambolina, bambolina è riferita a mia madre ed è una storia di follia molto triste. Io ho immaginato questa madre […] che non riesce ad accettare il fatto di invecchiare. Non ha accettato nemmeno il fatto di essere moglie nei confronti di mio padre. Però è mia madre, è la persona che mi ha dato la vita, quindi l'unica maniera per me è di superare questa cosa e di immaginarla come una malattia, una follia.96

La figura materna viene quindi riplasmata, e trasformata non solo in una bambina, ma in una bambina pazza. Il non aver accettato il proprio ruolo di madre, ha in qualche modo reso le sue figlie orfane. Ma questo non provoca rabbia o risentimento, tutto ciò che ne scaturisce è una volontà, più che di perdono (per poterla perdonare, bisognerebbe prima fargliene una colpa) di superamento un'infanzia che non si è potuta vivere appieno. L'assenza di una figura materna di riferimento (e in questo caso anche di una figura paterna, come vedremo in seguito), comporta il gravare di una pesante responsabilità sui figli “orfani”, che devono diventare genitori di se stessi. Ora, di norma le persone a cui si perdona tutto, o comunque che sono più facili da perdonare, sono proprio i bambini e i malati di mente, cioè quelli che agiscono senza malizia, in buona fede, e senza pensare alle conseguenze. Questo testo quindi rappresenta il “perdono”, o meglio la giustificazione, per l'assenza della madre. La figlia, ormai adulta, guarda la madre bambina nella sua malattia, e le canta la ninna nanna, quasi a voler dire “è tutto a posto, puoi dormire sonni tranquilli”. Un altro accenno ai rapporti familiari, e in particolar modo al rapporto con i genitori, è presentato in Madre:

Madre perdono, io sono andata via. Ah, da troppo tempo non eri più mia. Ah, quante volte io ti ho cercata, non ti ho trovata mai. Padre, sei stato tu a dirmi addio. Ah, da troppo tempo non eri più mio. Quante parole mi sapevi dire, ma non volevi ascoltare mai.97

96

Estratto da un'intervista radiofonica, riportato su: P. Augliera, op. cit., p. 22 J.Lennon, Mother, nell'album John Lennon\Plastic Ono band, Apple\Emi, 1970, Adattamento it. di Mia Martini, in Nel mondo, una cosa, Ricordi, 1972. 97

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Ancora una volta troviamo un riferimento all'assenza della figura materna (quante volte io ti ho cercata, non ti ho trovata mai). Ma stavolta le parole dedicate alla madre sono accompagnate da altri versi riferiti al padre; i due messaggi sono praticamente opposti. Se la madre è stata abbandonata dalla figlia: (perdono, io sono andata via), nel caso del padre, è stato lui a partire: “padre, sei stato tu a dirmi addio”. Questa dinamica di partenze porta all'annullamento del legame familiare:

né il padre, né la madre

appartengono più alla figlia: “Non eri più mia / Non eri più mio”. Se però la madre viene cercata a più riprese, senza mai essere trovata, il padre è rappresentato come una figura autoritaria che parla, ma senza riuscire a comunicare veramente (Quante parole mi sapevi dire / ma non volevi ascoltare mai). L'assenza della madre come figura di riferimento e l'abbandono del padre

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rendono

Mia Martini in un certo senso orfana. Questo testo sembra essere una presa di coscienza della perdita dei genitori, quasi come se ne volesse fare il lutto. A questo proposito è interessante la ripetizione dell'interiezione “Ah” per ben tre volte in 10 versi, che ci rimanda alla conquista del discorso protetto attraverso la trasformazione delle grida di dolore in ritornelli emotivi. Ancora per quanto riguarda il rapporto madre-figlia, il verso “non ti ho trovata mai” sembra essere un presagio, o meglio, la presa di coscienza di un incontro che non avverrà mai. Anni dopo, in un'intervista, l'artista dice: “Ho avuto diverse ricerche difficili nella mia vita. La prima è stata quella di mio padre, e la seconda, non ancora terminata, è quella di mia madre”99. Se il rapporto col padre verrà poi ritrovato, la madre non smetterà mai di essere la “bambolina” incapace di accettare il proprio ruolo, il vuoto non sarà mai colmato.

III.1.2 E ancora canto A cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, Mia Martini è costretta ad abbandonare la scena musicale per alcuni anni. Le voci che la ritraggono come una iettatrice si sono ormai tramutate in mobbing da parte del mondo dello spettacolo al completo, ai danni dell'artista: la stampa si rifiuta di parlare di lei, i 98 L'abbandono da parte del padre trova riscontro nella biografia dell'artista, il Prof. Bertè abbandona il tetto coniugale quando l'artista ha dieci anni, come riportato anche in M. Caroli, G. Harari, op. cit., p. 21 99 Estratto riportato da P. Augliera, op. cit., p. 22

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colleghi evitano di partecipare a eventi ai quali presenzia, i suoi dischi vengono sabotati. Oltre a tutto ciò, un polipo alle corde vocali100 la costringe a due operazioni e otto mesi di totale silenzio: “Per otto mesi, credo i più lunghi della mia vita, non ho potuto nemmeno parlare, comunicavo solo a gesti. Ero disperata, ma l'alternativa sarebbe stata un silenzio definitivo.”101 Un prezzo caro, ma che l'artista paga senza battere ciglio pur di non perdere il suo dono più prezioso: la voce. I mesi di silenzio forzato vengono sfruttati nel migliore dei modi: sarà un periodo di riflessione, studio e ricerca interiore, che porteranno l'artista a scrivere tutto quello che non può esprimere cantando. La fine di questa pausa forzata è segnata da un nuovo progetto discografico, che comprende, tra gli altri brani, ...E ancora canto e Sono tornata, che annunciano il ritorno di un'artista rinnovata, dal punto di vista musicale e personale, con una nuova forza data dalla scrittura e dalla rielaborazione dei suoi trascorsi in canto:

Sono tornata torno a volare io sono pronta a ricominciare. Sarò più forte, sarò più vera. Ero fuggita, mi ero perduta, fino a morire mi sono data, fino a sentirmi vuota. E adesso che io non piango più, adesso forse hai perso tu. Adesso chi può farmi male ora che io so camminare.102

La storia raccontata è quella di un'uscita da un tunnel, un buco nero che sembrava quasi un labirinto: “ero fuggita, / mi ero perduta”. L'uscita dal tunnel è segnata dalla fine del pianto: “e adesso / che io non piango più”, che, prendendo la forma del canto, diventa quasi una guida che permette all'artista di tornare a 100

M. M. Giordano, Il caso Mia Martini, Roma, Herald, 2006, p. 221. M, Caroli, G. Harari, op. cit., p. 180. 102 Sono tornata, musica e testo di Mia Martini, dall'album Mimì, DDD, 1981. 101

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“camminare”103, a “volare” fuori dal labirinto. Grazie al pianto, che la creazione letteraria e musicale asciuga e trasforma da zavorra in ali. Il messaggio di ...E ancora canto è simile:

Qui, di nuovo qui, io contro il tempo son qui. E ancora canto: per chi? Canto per chi? Chi mi ha tradita e poi ripresa, chi mi ha lasciata troppe volte, chi mi ha offesa. Ho il pianto nel cuore ma resto qui, testarda me. E canto per te malinconia, ti canto rabbia, pazzia, ancora mi invento per me, io canto per me. Potessi rifare il mio cammino fino a qui l'amore che ho dato riprenderei. A te che ora sei così lontano io lo darei, ragazzo mio, bambino mio, sì, per te canterei. E sarei là dove tu sei la tua chitarra, la tua voce sarei. Dolce il mio canto per te, solo per te.104

Per prima cosa, il testo ribadisce il ritorno dell'artista sulle ali del proprio canto: “di nuovo qui, io contro il tempo son qui, e ancora canto”. Questa volta però il canto non è solo uno strumento di trasformazione del proprio pianto, di una risoluzione personale, ma si allarga ad abbracciare gli altri, come uno strumento che possa purificare chiunque ne abbia bisogno: “Canto per chi? / Chi mi ha tradita / e poi ripresa, / chi mi ha lasciata troppe volte, / chi mi ha offesa”. La forza del dolore che è stato riplasmato si specchia nel canto, che arriva quasi come un'esplosione a cantare il 103 Il testo originale prevedeva il verbo “perdonare” in luogo di “camminare”, come riportato da M. Caroli, G. Harari, op. cit., con ogni probabilità riferito alle dicerie che circolavano sull'artista. L'intento sembra quello di allontanarsi, camminando via da tali voci e da chi le ha messe in circolo. 104 Ivi.

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pianto in tutti i suoi aspetti e le sue fasi: “ho il pianto nel cuore”, ma “canto per te malinconia, / ti canto rabbia, / pazzia”. Una volta trasformati e lasciati passare, il pianto e la rabbia cantati al mondo lasciano spazio a qualcosa di diverso, un canto che esprima solo dolcezza. Se finora rabbia e malinconia venivano cantate a e per una moltitudine di persone vicine, il nuovo canto, in totale opposizione, vuole regalare dolcezza a qualcuno che non c'è: “ragazzo mio, bambino mio, per te canterei. […] dolce il mio canto, per te, solo per te”. Questi versi, oltre a mostrare il desiderio di un amore unico e puro, come solo quello tra genitore e figlio può essere, e che l'artista non ha mai realmente conosciuto, anticipano in qualche modo le vicende biografiche della cantante, o forse rappresentano una sorta di “consapevolezza inconscia”: come se, in fondo, sapesse che quel bambino è destinato a rimanere lontano. Pochi anni dopo infatti, Mia Martini si accorge di aspettare un bambino. Ma la felicità data dall'avverarsi del sogno di una vita svanisce presto. Il suo compagno non ha alcuna intenzione di tirare su un bambino, e l'artista si ritrova sola. Il ricordo della sua infanzia, vissuta lontano dal padre, non tarda ad arrivare, e così anche la paura di crescere un bambino che avrà un solo genitore, e che magari si sarebbe portato dietro le sue stesse insicurezze per tutta la vita. Non resta allora altro da fare che rinunciare al sogno di sempre, e all'amore incondizionato di un figlio.105 L'elaborazione letteraria e musicale di questo nuovo lutto tarderà ad arrivare, e quando lo farà, sarà in un modo del tutto indiretto. Nella discografia finora conosciuta infatti, non c'è traccia di questo episodio (né l'artista ne parlerà mai pubblicamente), e l'unica reazione immediata dell'artista, sarà una chiusura, seppure momentanea in se stessa, ai limiti della perdita della presenza. Qualche anno dopo, sarà la cagnetta Movie ad abbandonare Mia Martini, colei che le era stata accanto per anni, e nei momenti più bui, arrivando quasi a sostituire quel figlio mai nato, colei che in qualche modo la teneva ancora legata al mondo nel periodo forse peggiore della sua vita: Non ero infelice, ero disperata. La disperazione è follia, costringe a vivere senza pelle. Se sopravvivi diventi quasi invulnerabile. Devi solo stare attenta a non deludere più te stessa. L'ho imparato da Movie, che nel frattempo era morta al posto mio. Quando le mie crisi erano insopportabili, era lei a 105

La vicenda è raccontata più dettagliatamente da M. M. Giordano, op. cit., nel capitolo Fumo di Londra, pp. 212-223.

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riportarmi alla ragione mordendomi. Ora che lei non c'è più, mi mordo da sola. Ringhio, abbaio, tutto da sola.106

La morte di Movie costringe in qualche modo l'artista a reagire. Se da una parte il “mordersi, ringhiare e abbaiare da sola” riporta allo sfogo di un planctus irrelativo, è anche vero che così è costretta a prendere il posto della cagnetta, e a prendersi cura di sé, elaborando questo nuovo lutto e cogliendo l'occasione per far passare anche il precedente. Da questa reazione nasce Spegni la testa, brano dedicato alla cagnetta107:

Ho un'infanzia da proscritto di un riassunto scivolato da un container di emigrati è sempre sveglia la sinistra con i monitors controlla la destra del cervello mentre brucia le mie notti e accende i forni per il pane del mattino Spegni la testa e vai, stacca i pensieri, portati via da lei, spegni la testa stacca i pensieri, vai via. Ed io con te mimetizzata tra fotografie li avevo visti analizzarci, vivisezionarci. Mi hai barattato poi per venderti a un grammo di paura Spegni la testa e vai, stacca i pensieri, portati via da lei, spegni la testa, stacca i pensieri, vai via. E non basta più la terra nei vivai per coltivare nuovi eroi e muse e santi sacri sponsor uso e getta disponibili per la storia tea shirts adesivi video clips biografie icone premi letterari. Spegni la testa e vai, stacca i pensieri, portati via da lei, spegni la testa stacca i pensieri, vai via. Parlano di WWF nucleare DDT look e prostata equo canone popoli sfrattati sindacati amnistie aids indice di gradimento e intanto il rogo della notte 106

Estratto di un'intervista di L. Agostini, La vittoria è Mia. In Tv Radiocorriere, 18\02\1990 pp.29-33. L'estratto è riportato da M. Caroli, G. Harari, op. cit., p. 209. 107 Come riportato da M. Caroli, G. Harari, op. cit., p. 214.

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è già pronto per coniare nuovi incubi e monete nelle fonderie di stato. Spegni la testa e vai, stacca i pensieri, portati via da lei, spegni la testa stacca i pensieri, vai via.108

Questo brano riporta i caratteri basilari della dualità tra stato di veglia e stato oniroide tipici della lamentazione: da una parte le strofe rappresentano un improvviso ritorno alla vita e al mondo, quasi in un'esplosione, in una sorta di flusso di coscienza quasi mai interrotto che parla contemporaneamente dell'attualità personale dell'artista e di quella del mondo, come in un risveglio dopo un sonno lungo anni. Queste strofe sono interrotte periodicamente dal ritornello, che rappresenta sia la protezione necessaria al discorso, che il ritorno allo stato oniroide, e non solamente con il suo ripetersi periodicamente, ma esplicitamente con le parole contenute, che non lasciano dubbi: “spegni la testa, stacca i pensieri”. Lo scopo e la funzione di questo testo sono quindi al contempo l'elaborare del lutto (o meglio, dei lutti), e il ritorno al mondo, come presenza storica; entrambe le operazioni avvengono però in maniera protetta, spegnendo (o mettendo in pausa) periodicamente la testa per evitare un sovraccarico emotivo.

III.2 L'aigle noir. Barbara III.2.1 Musique pour une absente Se per Mia Martini la scrittura e la musica sono un modo per accettare la perdita simbolica dei genitori, la cantautrice francese Barbara, al secolo Monique Andrée Serf, affronta nei suoi testi la morte fisica di entrambi i genitori, con processi differenti. La notizia della morte di sua madre arriva a Monique Serf come un fulmine a ciel sereno. La prima reazione musicale consiste in una marcia funebre intitolata Musique pour une absente (le 6 novembre), priva di testo, ma sulle note della quale Barbara sussurra delle parole:

C'est une chanson qui s'appellera Chanson pour une absente ou le 6 novembre. Enfin je sais pas encore. Je voulais faire une chose qui est absolument sans texte. Enfin y avait un texte, bon, j'arrive pas à écrire. 108

M. Martini, dall'album Martini Mia, Fonit Cetra, 1989.

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[…] c'est comme une file, une grappe, tu vois, lourde de gens, enfin pas de gens tu vois. Bon, ça s'écoule comme ça très lentement. Enfin c'est sombre tout ça tu vois. Je voyais une chose qui ferait comme ça, tu vois, comme une espèce de lente prière.109

La reazione immediata si traduce quindi in un'apparente impossibilità di scrivere. L'autrice, in uno stato in bilico tra l'ebetudine stuporosa e lo stato oniroide tipico della lamentazione rituale, è incapace di concepire un vero e proprio testo, e comunica questa sua incapacità alla madre defunta con una sorta di flusso di coscienza. Si tratta infatti di un tentativo di parlare con la madre, non a caso sono frequenti gli elementi che ci portano al discorso parlato: “enfin, je sais pas”, “enfin”, “bon”, “tu vois”. Tuttavia, questa incapacità di scrivere in realtà è solo apparente, e l'autrice riesce ad elaborare un messaggio. Nel momento stesso in cui dice: “J'arrive pas à écrire”, sta in realtà scrivendo. Dal punto di vista del contenuto, l'autrice parla di qualcosa che non nomina. Nomina invece il luogo:“bon, disons que c'est Paris”110, il tempo, dal punto di vista sia cronologico: “un matin de Novembre”111, che meteorologico: “Y a un petit soleil comme ça, une petite pluie”112; descrive la scena: “C'est une marche très lente” 113 , c'est noir, c'est comme une file, une grappe, tu vois, lourde de gens, enfin pas de gens tu vois. Bon, ça s'écoule comme ça très lentement. Enfin c'est sombre tout ça”; e infine comunica le sue intenzioni: “je voyais une chose qui ferait comme ça, tu vois, comme une espèce de lente prière”. Tutti gli elementi descritti ci rimandano all'immagine di un funerale, questo è quindi lo scopo della composizione, fare i funerali alla madre, elaborare il proprio lutto nella musica e nella scrittura. Se a prima vista sembra che l'autrice sia nella fase di negazione e rifiuto della propria perdita, sentendosi incapace di scrivere e cercando inutilmente di comunicare con la propria defunta, uno sguardo più attento ci rivela che l'autrice riesce effettivamente a elaborare il lutto, e a “far morire i propri morti in sé”114. Non a caso il 109

“È una canzone che si chiamerà Canzone per un'assente, o sei novembre. Non so ancora. Volevo fare una cosa assolutamente senza testo. Cioè, c'era un testo, ma non riesco a scrivere. […] è come una fila, un grappolo carico di persone, cioè non persone. Scorre così, molto lentamente. È tutto molto scuro, vedi? Immaginavo una cosa che fosse così, capito? Come una specie di lenta preghiera.” Barbara, dall'album La louve, LP Philips, 1973. 110 “Immaginiamo che sia a Parigi.” Ibidem. 111 “Un mattino di novembre”. Ibidem. 112 “C'è un sole pallido, una pioggerellina.” Ibidem. 113 “Una marcia molto lenta”. Ibidem. 114 Cfr. E. De Martino, op. cit., p. 14.

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titolo della composizione è Musique pour une absente: l'autrice sa che sua madre è ormai assente, e sa che il rituale funebre le è necessario per evitare la perdita maggiore, quella di se stessa. Poco dopo la Serf ritorna sul tema della perdita della madre, con toni diversi. In Rémusat l'autrice, tornando bambina, guarda al passato cercando di recuperare la felicità dei giorni passati insieme alla madre, nei luoghi in cui hanno vissuto insieme. La prima parte è caratterizzata dalla presenza della madre, che la figlia sente ancora vicina, quasi in un tentativo di autoconvincersi, ripetendo più volte “vous êtes à mes côtés”:

Vous ne m'avez pas quittée, Le jour où vous êtes partie, Vous êtes à mes côtés, Depuis que vous êtes partie, Et pas un jour ne se passe, Pas une heure, en verité, Au fil du temps qui passe, Où vous n'êtes à mes côtés115

Ma il tentativo si rivela inutile, ormai tutto è cambiato, e l'autrice si ritrova orfana: “C'était triste, Rémusat, / depuis que vous n'étiez plus là”116, “Sans bottines, sans pèlerine, mais avec un chagrin d'enfant, / je suis restée orpheline, / que c'est bête, à quarante ans”117. A questo punto arriva la reazione, si fa vivo il ricordo delle parole materne: “Vous disiez <<pas une larme, / le jour où je n'y serai plus>>, / et c'est pour vous que je chante”118. L'autrice piange comunque la madre, ma a modo suo, con la musica; trasforma le lacrime che la madre le ha chiesto di non piangere in canto, dà loro una forma diversa affinché non prendano il sopravvento, e ne fa una preghiera:

Que vos étés se fleurissent, Dans votre pays, là-bas, Aux senteurs odorantes, D'une fleur de mimosa, Que votre hiver se réchauffe, Au coin d'une cheminée, 115

“Non mi ha lasciata / il giorno in cui è partita / è al mio fianco / da quando è partita / E non passa giorno / in realtà non passa un'ora / di questo tempo che passa / in cui non sia al mio fianco.” Barbara, dall'album Amours incestueuses, LP Philips, 1972 116 “Era triste, Rémusat / da quanto non ci abitava più.” Ibidem. 117 “Senza stivaletti, senza mantellina, ma con la tristezza di una bambina / sono rimasta orfana, è stupido a quarant'anni.” Ibidem. 118 “Diceva: <<neanche una lacrima /quando non ci sarò più>> / ed è per lei che canto.” Ibidem.

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Que les saisons vous soient douces, Vous avez tant mérité.119

Questa preghiera si configura come l'augurio di un riposo sereno, in un luogo forse simile a quello in cui madre e figlia hanno vissuto insieme. Il verso finale, inoltre, sembra rimandare ai moduli tradizionali della lamentazione riguardanti le opere buone del defunto: “Vous avez tant mérité.”

III.2.2 -Nantes, au coeur de la nuit Accade a volte che il disincanto provocato da una perdita faccia tornare in superficie un trauma subito in passato, che però a suo tempo non era stato elaborato. Così il nuovo lutto continua a far perdere a chi lo subisce una parte di sé. Questa dinamica è illustrata chiaramente da Julia Kristeva:

il disincanto […] che subisco qui e ora mi sembra entrare in risonanza con traumi antichi di cui mi accorgo di non aver saputo fare il lutto. Posso così trovare dei precedenti al mio attuale crollo in una perdita, in una morte o in un lutto, di qualcuno o di qualcosa che un tempo ho amato. La scomparsa di questo essere indispensabile continua a privarmi della parte più valida di me stessa: la vivo come una ferita o una privazione, per scoprire, tuttavia, che la mia pena non è altro che il riattualizzarsi del mio odio, o del desiderio di potenza che nutro nei confronti di colui o colei che mi hanno tradito o abbandonato.120

Tuttavia, questo non significa che la perdita più recente non sia un'occasione per fare anche il lutto della cosa passata. É ciò che succede quando Barbara viene informata della morte di suo padre, e si ritrova a dovergli dare l'ultimo saluto senza potergli dire addio. Lentamente inizia a scrivere il testo di Nantes, che richiederà quattro anni prima di essere completato:

"Madame soyez au rendez-vous Vingt-cinq rue de la Grange-au-Loup Faites vite il y a peu d'espoir, Il a demandé à vous voir." 119 “Che le sue estati siano in fiore / nel suo paese, laggiù, / Dai profumi intensi / di un fiore di mimosa, / che il suo inverno si riscaldi / all'angolo di un camino, / che le stagioni siano per lei dolci / L'ha tanto meritato.” Ibidem. 120 J. Kristeva, op. cit., p. 12.

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[...] Il voulait avant de mourir se réchauffer à mon sourire Mais il mourut à la nuit-même Sans un adieu, sans un je t'aime.121

Si nota subito che ciò che colpisce l'autrice è proprio il fatto di non essere stata presente per suo padre un'ultima volta, di non avergli potuto dire addio. Ma, leggendo tra le righe, sembra che qualcos'altro sia rimasto in sospeso in questo rapporto tra padre e figlia:

A l'heure de sa dernière heure, Après bien des années d'errance, Il me revenait en plein coeur Son cri déchirait le silence.122

Il significato profondo di questi versi è rimasto nascosto per tanti anni, fino alla pubblicazione postuma dei diari autobiografici dell'artista, scritti nei suoi ultimi anni di vita. E nei quali viene rivelato l'orrore:

Un soir, à Tarbes, mon univers bascule dans l'horreur. J'ai dix ans et demi. Les enfants se taisent parce qu'on refuse de les croire. Parce qu'on les soupçonne d'affabuler. Parce qu'ils ont honte et qu'ils se sentent coupables. Parce qu'ils ont peur. 123

Ecco, quindi, che lo shock della morte del padre, e di conseguenza di un (mancato) confronto con lui dopo tanti anni, riporta a galla il trauma di un abuso incestuoso. In realtà è il riaffiorare di questo ricordo che ritorna come “un grido che squarcia il silenzio”. Ma, lungi dal lasciarsi travolgere da questa valanga di traumi, la Serf ne approfitta per elaborare sia la perdita del genitore che quella della propria infanzia, ancora una volta trasformandole in canto. Da questa operazione nascono, a breve distanza l'una dall'altra, Au coeur de la nuit e L'aigle noir. 121

“<<Signora, si presenti all'appuntamento / via Fienile dei Lupi venticinque / fate presto, le speranze sono poche / Ha chiesto di vederla.>> / Prima di morire si voleva scaldare col mio sorriso / Ma morì quella stessa notte / Senza un addio, senza un <<ti voglio bene>>.” Barbara, dall'album Dis quand reviendras-tu?, LP CBS, 1964. 122 “Nell'ora della sua ultima ora / dopo parecchi anni di latitanza / Ritornava dritto nel mio cuore / il suo grido consumava il silenzio.” Ibidem. 123 “Una notte, a Tarbes, il mio universo traballa verso l'orrore. Ho dieci anni e mezzo. I bambini stanno zitti perchè ci si rifiuta di credergli. Perché li si accusa di inventare le storie. Perché si vergognano e si sentono colpevoli. Perché hanno paura.” Barbara, Il était un piano noir... Mémoires interrompus, Paris, Fayard, 1998, p. 24.

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I due testi presentano delle differenze di base, ma anche delle somiglianze notevoli, tanto da poter sembrare due versioni alternative dello stesso brano. Au coeur de la nuit racconta di un ricordo d'infanzia, che sembra essere nitido nella mente dell'autrice:

J'ai le souvenir d'une nuit [...] Moi qui ne me souviens jamais Du passé qui m´importune C´est drôle, j´ai gardé le secret De cette longue nuit sans lune124

ma ci viene restituito in modo velato grazie all'utilizzo di parole indefinite. Non si sa infatti di chi si parla: “il y avait une présence”, “on parlait”, i suoni sembrano come ovattati: “comme un murmure, / comme un sanglot étouffé”, “l'étrange murmure”, “un bruit venant d'outre-tombe” e gli spazi risultano poco definiti: “c'était au dehors”, “une allée obscure”, “c'était une forêt profonde”. A un certo punto il racconto si interrompe:

Qui es-tu pour me revenir? Quel est donc le mal qui t´enchaîne? Qui es-tu pour me revenir Et veux-tu que, vers toi, je vienne?125

Queste tre domande arrivano come un brusco risveglio; i ricordi riaffiorati sembrano lottare con l'inconscio, che vorrebbe rinchiuderli nelle sue profondità per la seconda volta e non vuole andare verso di loro, li vorrebbe sopprimere. L'esito di questa lotta ci viene comunicato nei versi successivi:

S´il le faut, j´irai encore Tant et tant de nuits profondes Sans jamais revoir l´aurore Sans jamais revoir le monde Pour qu´enfin tu puisses dormir Pour qu´enfin ton cœur se repose Que tu finisses de mourir Sous tes paupières déjà closes.126 124

“Mi ricordo di una notte […]/ Io che non ricordo mai niente / del passato che mi importuna / è strano, ho mantenuto il segreto / di quella lunga notte senza luna.” Barbara, dall'album Ma plus belle histoire d'amour, LP Philips, 1967. 125 “Chi sei per ritornare da me? / Quale male ti scatena? / Chi sei per ritornare da me? / E volere che torni verso di te?” Ibidem. 126 “Se è necessario, andrò ancora / verso più e più notti profonde / senza più rivedere l'aurora / senza più rivedere il mondo / perché tu possa finalmente dormire / perché il tuo cuore finalmente si

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La trasformazione del dolore in canto l'ha in qualche modo imprigionato sotto una nuova forma. L'autrice, che era prigioniera del suo trauma infantile, ha iniziato a imprigionarlo a sua volta: questo la rimanda alla perdita più recente, quella del genitore. Ora sa che per poter elaborare il lutto del padre, deve prima elaborare la prima perdita. Solo una volta che sarà tornata più volte nelle sue notti profonde potrà far morire suo padre in sé. L'aigle noir sembra essere una fase successiva di questa operazione. L'atmosfera diventa ancora più onirica, tanto da sembrare una fiaba; dalla “nuit de mon enfance” si passa a “un beau jour, ou peut-être une nuit127”, lo spazio indefinito diventa “près d'un lac”128, e la figura ignota diventa “un aigle noir”129. Nonostante il cambio di atmosfera, i punti in comune con Au coeur de la nuit sono numerosi: in entrambi i testi è presente un'alternanza tra il sonno e la veglia: “je m'étais endormie, / quand soudain […] / surgit un aigle noir”130, “soudain je me suis réveillée / dans une démi-somnolence”131. Ma l'aspetto più interessante è il fatto che l'autrice usi le stesse parole per parlare del trauma e di chi l'ha causato. Infatti, se nel testo di Au coeur de la nuit troviamo:

Surgissant de l´allée obscure Il y eut un bruissement d´ailes Là, tout contre ma figure. […] Qui est-tu pour me revenir?132

In L'aigle noir abbiamo:

Près de moi, dans un bruissement d'ailes […] c'est alors que je l'ai reconnu Surgissant du passé Il m'était revenu.133 riposi / che tu finisca di morire / sotto le tue palpebre già chiuse.” Ibidem. 127 “Un bel giorno, o forse era una notte”. Barbara, dall'album L'aigle noir, LP Philips, 1970. 128 “Vicino a un lago”. Ibidem. 129 “Un'aquila nera”. Ibidem. 130 “Mi ero addormentata / quando improvvisamente […]/ sorse un'aquila nera.” Ibidem. 131 “Improvvisamente mi sono svegliata / in un dormiveglia.” Barbara, Au coeur de la nuit, dall'album Ma plus belle histoire d'amour, LP Philips, 1967. 132 “Sorgendo dal corridoio buio / Ci fu un fruscio d'ali / vicino al mio viso. […] / Chi sei per tornare da me?” Ibidem. 133 “Vicino a me, in un fruscio d'ali […] / allora lo riconobbi / sorgendo dal passato / era ritornato.” Barbara, L'aigle noir, dall'album L'aigle noir, LP Philips, 1970.

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È proprio questa sovrapposizione che lascia pensare ai due brani come fasi diverse, ma complementari della stessa operazione di elaborazione. E infatti, se nel primo testo ci troviamo di fronte a una brusca interruzione e poi a una lotta, l'approccio nel secondo brano è completamente diverso:

Dis l´oiseau, ô dis, emmène-moi, Retournons au pays d´autrefois, Comme avant, dans mes rêves d´enfant, Pour cueillir en tremblant, Des étoiles, des étoiles, Comme avant, dans mes rêves d´enfant, Comme avant, sur un nuage blanc, Comme avant, allumer le soleil, Etre faiseur de pluie, Et faire des merveilles.134

Alla lotta tra l'inconscio e i ricordi si sostituisce la richiesta di un vecchio amico d'infanzia che vuole tornare indietro nel tempo, richiesta che stavolta viene accettata di buon grado, e non si presenta più come un viaggio senza ritorno verso un buco nero, anzi, permette di “accendere il sole”. Per poi concludere con: “L´aigle noir dans un bruissement d´ailes, / prit son vol pour regagner le ciel”. Dopo aver fatto passare il passato della perdita, l'aquila, simboleggiante il padre dell'autrice, prende il volo. Non servono più lotte, la trasformazione del pianto in canto ha a sua volta trasformato il trauma e la sua causa in un'aquila, libera di volare via. E questa trasformazione non è stata soltanto opera dell'inconscio dell'artista, anzi, Barbara ne era perfettamente cosciente. Tanto che in seguito, riguardo alla morte del padre, scriverà: “J'oublie tout le mal qu'il m'a fait, et mon plus grand désespoir sera de ne pas avoir pu dire à ce père que j'ai tant détesté :« Je te pardonne, tu peux dormir tranquille. Je m'en suis sortie, puisque je chante !»”135, come a voler sottolineare la potenza magica della trasformazione del piano in canto come medicina per il dolore.

134

“Dissse l'uccello, oh, disse, vieni con me / torniamo nel paese di un tempo. / Come in passato, nei miei sogni di bambina, / per cogliere, tremando / delle stelle, delle stelle. / come in passato, nei miei sogni di bambina, / come in passato, su una nube bianca, / come in passato, accendere il sole / Far venire la pioggia / e creare delle meraviglie.” Ibidem. 135 “Dimentico tutto il male che mi ha fatto, e il mio dolore più grande sarà di non aver potuto dire a mio padre, che ho tanto detestato: <<Ti perdono, puoi dormire tranquillo. Ne sono venuta fuori perché canto!>>” Barbara, Il était un piano noir... Mémoires interrompus, Paris, Fayard, 1998, p. 106.

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Bibliografia

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Martini, M., Martini Mia, Fonit Cetra, 1989. Martini, M., Mimì, DDD, 1981. Martini, M., Nel mondo, una cosa, Ricordi, 1972. Martini, M., Quante volte... Ho contato le stelle, DDD, 1982.

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