La peste del 1582-83 ad Alghero: l'opera di Quinto Tiberio Angelerio rivisitata da Pasqual Scanu

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A.D. MDLXII

U N I VE RS I T À D IPARTIMENTO

DI

D E G LI S TU DI D I S AS S A RI S CIENZE U MANISTICHE E S OCIALI ___________________________

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOLOGIA MODERNA

LA PESTE DEL 1582-83 AD ALGHERO: L’OPERA DI QUINTO TIBERIO ANGELERIO RIVISITATA DA PASQUAL SCANU

Relatrice: PROF.SSA MARINA SECHI NUVOLE

Correlatrice: PROF.SSA DONATELLA CARBONI

Tesi di Laurea di: CHIARA SCANU

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



INDICE Introduzione

1

Capitolo I. La peste nella storia, storia di un’epidemia

4

1.1

Dalle origini alla prima pandemia

6

1.2

La seconda pandemia

1.3

Cronologia e diffusione della peste

10

nel Quattrocento e Cinquecento italiano

23

1.4

Un caso particolare: la Sardegna

29

Capitolo II. Breve storia di Alghero

36

2.1

La Preistoria

37

2.2

La Storia

41

Capitolo III. La peste del 1582-1583 nell’opera di Quinto Tiberio Angelerio

64

3.1

L’evento storico

65

3.2

L’Ectypa e la rivisitazione dell’opera

di Pasqual Scanu

77

3.3

98

La peste del 1582-83 e i recenti scavi archeologici

Conclusioni

103

Bibliografia

109



INTRODUZIONE Le ragioni di questo lavoro si fondano su un atto di omaggio e affetto nei confronti di una città, di un poeta, di un nonno mai conosciuto. Sebbene in riferimento al previo lavoro di tesi, io abbia preferito indagare e volare per altri lidi, per epoche remote e intorno a studi storico-letterari, ed è lungi dall’intenzione di questo operato proporre digressioni pro patria, arriva un giorno in cui guardare indietro, riscoprire le proprie radici cittadine e familiari, diventa doveroso. È così che si è deciso di rispolverare remote carte che han portato alla rivisitazione dei percorsi storici e geografici del morbo protagonista di questa relazione. Infatti il lavoro è introdotto da una panoramica che segue proprio i cammini della peste, cercando di indagare le sue origini, le sue manifestazioni durante l’epoca arcaica e classica, passando per le due grandi pandemie, specialmente quella del 1348. Da questa prospettiva globale e universale, si è così man mano ristretto il campo verificando le circostanze e i sentieri del flagello cinquecentino circoscritte ad un’area italicomediterranea.

Confinando

così,

ancora

maggiormente

il

viaggio

dell’epidemia, si è voluta proporre una panoramica locale sullo stato di salute della Sardegna, verificando il come, il quando e il perché, anch’essa sia stata investita in varie e numerose ondate dalla piaga, tanto da essere identificata per secoli come l’isola “pestilente” per eccellenza. È in seguito a questa rassegna sui viaggi della peste, che si restringe l’obiettivo verso uno studio sulla città che ha ospitato il contagio nella seconda metà del XVI secolo; seconda protagonista del nostro lavoro, Alghero. Dalle magre notizie sui primi abitatori, alla Storia che l’ha caratterizzata, dalle leggende ai documenti sicuri e fidati; da grandi eroi epici che pare avessero “messo piede” sull’isola, ai Fenici, ai Romani, ai Cartaginesi e agli Arabi; all’importante famiglia genovese dei Doria che 1


funge da momento fondante per la piccola città di pescatori (1102), fino al periodo di grande predilezione della corona catalano-aragonese (1353) e alla dura conquista castigliana (1478-1708). In seguito a questo excursus storico, si è voluto predisporre un quadro geografico utilizzando degli antichi progetti e dei cimeli cartografici di Alghero e del territorio circostante. Sfortunatamente neanche la “bella villa” fu quindi immune dal contagio; molte e assai violente ondate epidemiche soffocarono la città: soprattutto quella del 1582-83. Sarà grazie all’illustre medico Quinto Tiberio Angelerio e alle sue preziose “ricette” ad ampio raggio che si riuscì ad evitare la propagazione dell’infezione extra muros. Di questo evento funesto il doctor lasciò una relazione che ci permette di esaminare cosa realmente sia accaduto e quali furono gli strumenti usati dall’Angelerio per mettere in salvo Alghero: l’Ectypa. Il suddetto cammino, nei labirinti della storia di Alghero e del suo fatale biennio, è stato possibile, quindi, solo seguendo il limpido “filo di Arianna” lasciato dai sommi lavori che il letterato di cui porto avanti il lavoro, il cognome e l’ispirazione, per una vita intera le ha dedicato. La relazione madre del mio percorso ha come titolo La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio e fu ragione di una delle tante affermazioni in campo internazionale che ebbe Pasqual Scanu1: il 13 ottobre 1976, vinse 1 Pasquale Scanu (Alghero 1908-Sassari 1979) Poeta e studioso della cultura catalana. Nel 1935, dopo essersi laureato in Lettere e Filosofia discutendo la tesi dal titolo La poesia popolare di Alghero (ben recensita dall’Osservatore Romano), si è dedicato all’insegnamento ed è stato per molti anni preside di scuola media a Sassari dove viveva. Per un paio di tornate era stato anche consigliere comunale della città di Sassari, ricoprendo cariche sempre inerenti al settore educativo. Studioso infaticabile di storia della letteratura e filologia, si dedicò a quella della sua città natale: celandosi sotto il pseudonimo di “Valvert” aveva vinto, nel ’59, alla Sorbone, nei Giochi Floreali parigini il premio “Pompeu Fabra” con un lavoro intitolato Harmonies Catalanes d’Alguer. Nel 1960, ai Giochi Floreali di Buenos Aires, vinse due premi letterari per il saggio di letteratura dal titolo Antiquam exquirite matrem, ed una novella intitolata Al carrer de la palla. A cura dell’Editrice Sarda Fossataro di Cagliari, nel ’61 vede la luce il volume Alghero e la Catalogna: la prima storia organica della letteratura popolare algherese; tale fu il successo dell’opera che tre anni dopo ne venne curata una seconda edizione, riveduta e ampliata. Ai Giochi Floreali di Santiago del Cile del ’62 vinse il premio “President de la Generalitat de Catalunya” con un saggio intitolato Un poeta de la segona renaiscença catalana algueresa, J. Degiorgio i Vitelli. Nello stesso anno ottiene il diploma di onore per la lirica “Concert d’estrellas” al Concorso Regionale di poesie dialettali di Ozieri. Nell’estate del 1963, ai Giochi Floreali di Valencia, vinse un premio con un lavoro d’indagine storica sul tema Relacions entre l’Alguer i Valencia, ciutate germanes, e un altro premio, fuori concorso, alla celebre festa di Cantonigròs, con un racconto intitolato Un Papa, un Pare, un Sant, dedicato all’allora pontefice Giovanni XXIII. Tra gli studi scientifici non

2


il primo premio di 500 dollari “Augustì Carles Pi Sunyer”, nei Giochi Floreali celebrati a Losanna, ai quali avevano partecipato ben 34 illustri scrittori catalani. Inoltre, proprio in virtù di questa sua ricerca, era stato nominato socio di merito dell’Accademia di Scienze mediche catalane e baleari di Barcellona2. Questo fu solo uno dei tanti traguardi storico-filologici a cui fu in grado di giungere, infatti, senza elencare tutti i suoi dolci meriti, lo si può semplicemente definire come il poeta che tanto amò la sua città e che fu il protagonista della sua rinascita culturale. Spero, con questo piccolo contributo, di avergli reso onore.

Pasqual Scanu al lavoro. dimentichiamo la trascrizione e curatela della Grammatica del dialetto moderno di Alghero, del Pais. Nel ’70 pubblicò Sardegna nostra e due anni più tardi vinse la borsa di studio “Manuel de Motoliu” a Tarragona, presentando un’antologia di testi algheresi sui giochi infantili, canti della culla, con uno studio comparativo con altri testi popolari catalani. Sempre a Tarragona vengono pubblicate le 34 liriche di “Poesia de l’Alguer” e nel 1972 viene eretta nel parco cittadino una grande lapide di marmo colorato sulla quale era riportata la poesia “Missatge d’Alguer a Tarragona”. Manca quasi improvvisamente all’età di 71 anni; il quotidiano “Avui” di Barcellona, per l’anniversario della sua scomparsa, annunziava che nell’Ateneo Barcellonesesis avrebbe tenuta una solenne commemorazione in onore della memoria dell’insigne scrittore, dai catalani definito ”fratello fra fratelli”. SECHI COPELLO B., Conchiglie sotto un ramo di corallo. Galleria di ritratti algheresi, Alghero 1987, pp. 220-223; La Grande Enciclopedia della Sardegna a cura di Floris F., Sassari 2007, Vol. 8, pp. 447-448. 2 SECHI COPELLO B., Conchiglie sotto un ramo di corallo. Galleria di ritratti algheresi, cit., pp. 220-223; La Grande Enciclopedia della Sardegna a cura di Floris F., cit., Vol. 8, pp. 447-448. 3


CAPITOLO I

4


LA PESTE NELLA STORIA, STORIA DI UN’EPIDEMIA L’equilibrio della natura si regge sull’interdipendenza di fondo degli organismi viventi, di cui è espressione paradossale (e tuttavia universale) il parassitismo, inteso in senso biologico come sfruttamento del materiale organico di un essere vivente da parte di un altro 1. L’uomo non è sfuggito a questa esigenza. Ma, stretto fra il macroparassitismo dei grandi predatori (dei quali egli stesso è forse il più temibile) e il microparassitismo di batteri, protozoi, miceti, è riuscito a costruirsi difese e apprestamenti offensivi che l’hanno efficacemente aiutato a raggiungere il gradino più alto della scala evolutiva2. Al rapporto conflittuale fra l’organismo vivente “ospite” e l’intruso “parassita”, egli ha dato il nome di malattia: astrazione concettuale che racchiude i suoi sforzi di classificare segni e sintomi e di cercarne concatenazioni causali, il suo bisogno di raccogliere esperienze individuali e rappresentazioni collettive e di interpretarne i significati3. Di questo rapporto le malattie infettive sono il paradigma: riconosciuto, in verità, soltanto nel tardo Ottocento col trionfo della microbiologia, ma già rappresentato infinite volte nel corso dei secoli nelle esplosioni catastrofiche delle epidemie o nelle manifestazioni più strutturate e striscianti delle endemie4. 1

GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, Matera 1998, p. 5. MCNEILL W. H., La peste nella storia, Torino 1991, pp. 17-32. 3 COSMACINI G., Storia della medicina e della sanità in Italia Roma, 1994, pp. 13-14. 4 Ad occuparsi di questi filoni di studio è, anche, la geografia medica. Necessaria la prima grande suddivisione sulle varie tipologie di malattie: ereditarie o genetiche (direttamente riconducibili a fattori genetici, rintracciabili nei genitori o dovuti a mutazioni genetiche, es. sindrome down), croniche o degenerative (malattie della longevità, non uccidono immediatamente ma causano il lento deterioramento dell’organismo, es. tumori), acquisite (dovute ad agenti esterni che intervengono prima o dopo il concepimento e si suddividono in non infettive e infettive, queste ultime a loro volta ripartite in vettorate e non vettorate). In secondo luogo è importante individuare i caratteri delle diverse malattie: sporadiche (si presentano in aree dove erano assenti da molto tempo, tendono a restare isolate e si presentano in un momento o contesto particolare, con tempi contenuti), epidemiche (si presentano in modo rapido ed eclatante, colpendo gran parte della popolazione e provocando un numero consistente di morti), pandemiche (diventa tale un’epidemia che tende ad uscire fuori dai confini regionali, per allargarsi dal focolaio d’origine a tutto il mondo), endemiche (si presentano come infezioni latenti, circoscritte, che coinvolgono una popolazione locale più o meno numerosa e si manifestano con cicli di maggiore o minore frequenza). DE BLIJ H. J., MURPHY A. B., Geografia umana. Cultura società spazio, Bologna 2002, pp. 391-392. 5 2


Anzi, da quando lo storico e il sociologo (con la scoperta del mondo a loro prima ignoto delle malattie) vanno riscrivendone la storia da parte dell’uomo, non più soltanto da quella dell’agente patogeno, le grandi malattie infettive che hanno incrociato il millenario cammino dell’umanità sono assurte ad osservatorio privilegiato, non soltanto sull’evoluzione delle conoscenze scientifiche, quanto sui mutamenti demografici, economici, strutturali, dei saperi stessi e delle mentalità delle società umane. Volendo restringere l’obiettivo sull’Italia e sull’area europeo-mediterranea, due grandi malattie infettive (la peste e la malaria) risaltano fra tante altre per le tracce indelebili che hanno lasciato nell’immaginario e nel vissuto dei popoli, malgrado la loro profonda diversità epidemiologica e clinica5. In questa sede verrà analizzata esclusivamente la prima: la peste.

1.1 Dalle origini alla prima pandemia Loimòs in greco, pestis in latino, il significato di questo lemma esprimerà, dagli albori della storia scritta per tutta l’antichità classica, un’idea molto generica di malattia comunemente molto grave. La confusione che vige attorno al termine complessivo di “peste”6, ritrae l’immagine dei quattro contrassegni funesti di tutte le epidemie: la brutalità della comparsa, la massa sterminata dei colpiti, l’impotenza nelle difese, la quasi ineluttabilità dell’esito mortale7. Era quindi un nome concesso a tutte le malattie che riunivano tali caratteri e la sovrapposizione con altre affezioni era tutt’altro che rara: «peste non è una sola determinata malattia, ma qualunque malattia può essere peste»8. Febris pestilentialis, infirmitas pestifera, morbus pestiferus, morbus pestilentialis, mortalitas pestis, o, più semplicemente, pestilentia, a ragion del Cosmacini la peste, il cui termine deriverebbe dal latino peius, 5

GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., pp. 5-6; RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, Roma 1984, pp. 15-22. 6 Pestis ha indicato anche in francese “tutte le malattie contagiose”, tanto è vero che il termine poteva anche essere usato al plurale les pestes. RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 85. 7 GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., pp. 6-7. 8 COSMACINI G., Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 6. 6


significherebbe “la peggior malattia” compendiando nel termine tanti altri morbi, riassumendoli e massimizzandoli9. Il termine complessivo di peste, la sua nozione, era già diffusa tra gli Egizi del II millennio a.C., tra gli Ittiti, da Sumer, fino alla più antica Cina. Sembra che venissero utilizzate false notizie sulla presenza del morbo per gettare discredito su una determinata città e il suo popolo10. Per la descrizione più vivida e grandiosa di tutta l’antichità dobbiamo però attendere lo scritto di Tucidide e le sue celebri pagine de La guerra del Peloponneso11 dedicate alla peste di Atene del 429 a.C.. Che se poi quasi certamente peste non fu secondo i nostri criteri nosologici, nulla viene tolto a quella prima compiuta rappresentazione della potenza dirompente di una epidemia sulle vite, sulle leggi, sugli ordinamenti sociali e religiosi di un popolo al punto da condizionarne il destino12. La malattia infuriò ad Atene in fasi successive per più di due anni; colpì anche numerose fasce costiere greche, aprì brecce nell’esercito e nella flotta ateniese e lanciò il suo dardo fatale su Pericle: Sparta e i suoi alleati dovettero alla peste gran parte della vittoria. La prima segnalazione abbastanza verosimile dell’epidemia risale a Rufo d’Efeso (200 a.C.) e riguarda l’Egitto e la Libia del III secolo a.C., da allora pare sia scomparsa fino all’epoca di Giustiniano13. Non è facile stabilire l’origine del morbo, anche se sembra verosimile che esso sia partito dall’Asia centrale, dove persistono focolai cronici. Superato il Nilo, infestata Alessandria, raggiunta Antiochia, nel 542 sbarca a Costantinopoli 9

COSMACINI G., Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 6; MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, Roma 2004, pp. 21-31. 10 RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 80. 11 THUCYDIDES, La guerra del Peloponneso, II, 47-49. Non possiamo non menzionare un altro grande scritto sulla peste: la tragedia dell’Edipo re sofoclea del V secolo a.C. dove il contagio che tormenta la città di Tebe è conseguenza di un delitto che ha contaminato il territorio e i suoi abitanti; l’unico modo per mettere fine al flagello sarebbe stato la rimozione della colpa. SOFOCLE, Edipo re, VIII ss. 12 La narrazione ci appare ancora più affascinante considerando il fatto che l’autore avesse assistito direttamente agli avvenimenti descritti: l’improvviso insorgere della malattia, la ricerca dei pretesi colpevoli, il dissolvimento dei costumi, la dedizione dei medici e dei congiunti dei malati che si opponevano all’abbandono dei moribondi e dei morti, le invocazioni agli dei e la loro inefficacia, le conseguenze politiche ed economiche funeste per la città. Fatti e reazioni destinati a ripetersi nel tempo e nella storia. RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., pp. 84-85. 13 MCNEILL W. H., La peste nella storia, cit., p. 110. 7


infuriando nell’intero bacino Mediterraneo fino al 750 d.C.. Con la “peste giustinianea”14 è riscontrabile la prima grande pandemia: solo nella capitale fece 10000 morti in un giorno, circa 300000 in due anni15. Nel 590 giunse a Roma16. Lo storico Procopio “disegna” le rotte del morbo che, partendo dall’India o dall’Africa si diffuse nel Mediterraneo via mare, tramite nave17. Le ondate della malattia e i suoi periodi di calma ci sono noti esclusivamente attraverso i testi dei cronisti; non siamo in grado di esprimerci invece su paesi e città di cui nessuno ha parlato ma che possono essere stati colpiti ugualmente dal morbo. Seppur confuse, le fonti storiche sono abbastanza attendibili, a differenza delle numerosissime segnalazioni antiche e disparate che possiamo ricondurre a due modelli precisi: la Bibbia e l’Iliade. Il credo e il mito. L’Antico Testamento contiene numerose allusioni alla peste; ne prendiamo in considerazione solo alcune. Il morbo compare tra le “piaghe”18 che il Dio di Mosè inflisse all’Egitto incombendo sul suo popolo ma risparmiando gli Ebrei19. Inoltre la peste decimò il popolo ebraico migrante verso la “terra promessa”20, e nell’atto di impadronirsi dell’Arca dell’Alleanza21. 14

Appellativo attribuito all’epidemia di peste che giunse nell’Alto Medioevo a Costantinopoli, dove regnava l’imperatore Giustiniano (482-565), anch’esso vittima del male a cui concesse il suo nome. In egual modo nel 165-180 d.C. il morbo verrà titolato con il nome di un altro importante imperator: la peste antonina. 15 RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 87. 16 Secondo le testimonianze dello storico Plutarco, l’Urbe ne fu colpita addirittura agli esordi della sua nascita: ai tempi di Romolo, dopo la morte di Tito Tazio e sedici anni dopo la fondazione di Roma. PLUTARCO, Vite, 23-24. Altri grandi scrittori latini che trattarono il tema furono: Lucrezio nel VI libro del De rerum natura, Virgilio nelle Georgiche (III, 478-530), Ovidio con la descrizione della peste di Egina nelle Metamorfosi (VII, 523-613), Seneca con la peste di Tebe nell’Edipo re, Lucano con la descrizione della peste nel campo di Pompeo a Durazzo nella Farsalia (VI, 80-117), Silio con la peste di Siracusa durante la seconda guerra punica (XIV, 480-640) e, anche se più tardo, Paolo Diacono nella Historia longobardorum. 17 MCNEILL W. H., La peste nella storia, cit., p. 110. 18 La peste è la quinta piaga; colpisce con alto grado di mortalità, presentandosi con una moria a eziologia naturale imprecisata, ma sovrannaturale ben certa. Databile alla vigilia dell’Esodo, un evento accaduto sotto Ramsete II (1290-1224 a.C.). COSMACINI G., La peste, passato e presente, Milano 2008, p. 17 19 Il Signore colpì il faraone e i suoi sudditi: piaghe pubbliche e spettacolari (la trasformazione dell’acqua in sangue, le rane, le zanzare, i mosconi, la peste, le pustole, la grandine, le cavallette, le tenebre, lo sterminio dei primogeniti), esse potrebbero essere racconti di catastrofi naturali non rari in Egitto e Palestina. Ibidem. 20 L’Esodo riporta l’immagine di ulcere che si trasformano in pustole e che colpiscono uomini e animali. L’interpretazione del castigo di Dio per l’inobbedienza del popolo eletto è da subordinare a quella 8


La peste di Ashdod che ha ispirato il celebre quadro di Nicola Poissins22.

Da parte sua, Omero narra che, davanti alle mura di Troia, i Greci furono puniti con la peste, sotto forma di una pioggia di dardi, in seguito ad un sacrilegio commesso verso “Apollo uccisore dei ratti”23. Tranne qualche vago accenno al legame tra la proliferazione di ratti e l’epidemia, durante l’età classica davanti alla peste «mussabat tacito medicina timore»24: l’arte medica, in silenzioso timore esitava e ancora a lungo rimarrà legata alle teorie ippocratiche, all’indiscussa autorità di Galeno e alle dottrine umoralpatologiche25. La filosofia che sorreggeva queste interpretazioni risale ad una semplice e molto antica idea supportata da Ippocrate: essendo la caratteristica fondamentale della malattia epidemica la sua universalità (il fatto che colpisse contemporaneamente un elevato numero di persone), nulla di più probabile che la causa fosse da ricercare nell’elemento comune a tutti, naturalistica che vede l’assommarsi di agenti patogeni quali la siccità e la fame, la malnutrizione e l’igiene precaria tra gli Ebrei. Ivi, p. 18. 21 L’ipotesi che si sia trattato di peste bubbonica è avvalorata non solo dalla menzione dei bubboni e dell’impatto del morbo sulla psicologia collettiva ma anche perché si riporterà una curiosa corrispondenza tra bubboni votivi e bubboni nocivi associandola alla premonizione inconscia del ruolo pestifero dei topi. 22 La peste che ha ispirato il celebre quadro di Poussin. RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 80. 23 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 13. 24 LUCREZIO, De rerum natura, VI, 1179. 25 La medicina medievale era essenzialmente basata sulle teorie greche dei temperamenti e degli umori: la materia è composta dei quattro soliti elementi (fuoco, acqua, terra, aria), dal miscuglio di questi si originano quattro umori dotati di speciali proprietà (il sangue, la bile, l’atrabile e la pituita che formano il corpo umano). Dal giusto equilibrio di questi umori si ha la salute, dalla predominanza d’uno di essi sugli altri sorge la malattia. BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti, Milano 1951, pp. 121-122. 9


l’aria26. In certe condizioni atmosferiche, soprattutto con forti umidità, l’aria poteva corrompersi avvelenando coloro che la respiravano. Galeno, partendo da questa idea, elaborò il suggerimento secondo cui, anche pozze d’acqua stagnante, cadaveri lasciati insepolti in tempo di guerra e simile materia fetida e putrida, potessero contaminare l’aria. In loro aiuto, dall’oriente, giunse l’ipotesi avicenniana su un terzo fattore: influssi astrologici potevano provocare terremoti che a loro volta liberavano aria putrida dall’interno della Terra, corrompendo l’atmosfera27.

I quattro temperamenti28.

Le teorie dettate dalle summae auctoritates si confrontavano con la congerie dei “consigli” medici o “regimi contro la peste”, che sono opere od opuscoli di derivazione empirica facenti tesoro dell’esperienza diretta e del buon senso. È con questo bagaglio culturale che l’Europa si troverà ad affrontare la vera peste: quella improvvisamente esplosa nel XIV secolo.

1.2 La seconda pandemia L’origine dell’evento funesto che decimerà l’Europa deve essere ricondotto ad un’area ben precisa e localizzabile: il Mar Nero. Nell’estate del 1347 il Khan tartaro Gani Bek, volendo togliere l’assedio allo scalo commerciale genovese di Caffa in Crimea, per sfregio, farà catapultare oltre le mura della città i cadaveri dei suoi uomini morti di peste29.

26

MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 10-12. 27 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 32. 28 BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti, cit., p. 124. 29 RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 89. 10


È da quel porto che salperanno dodici galee genovesi che raggiungeranno Messina con il loro carico di morte30. Alle galee maledette venne impedito l’approdo a Genova e vennero così accolte a Marsiglia; è da qui che il morbo si diffuse per tutta l’Europa: Italia, Francia del nord, Paesi Bassi, Londra, Cornovaglia, Norvegia, Svezia, Scozia, Islanda, Groenlandia erano preda del braccio della morte31. Nel 1350 l’Europa sarà soffocata fino alla Scandinavia32.

Il viaggio mortale della peste33. 30

GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., p. 10. NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, Bologna 2006, pp. 27-28; MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 7-8. 32 NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 28. 33 La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, n. 47, Gennaio 2013, p. 69. 11 31


Faticose ricostruzioni stimano la velocità media di propagazione del morbo in una settantina di chilometri al giorno e valutano la mortalità complessiva in un terzo o addirittura nella metà della popolazione europea: circa 26 milioni di morti in quattro anni34. La furia entra e devasta tutto ciò che incontra senza risparmiare nessun popolo né alcuna delle grandi città: Firenze nel 1348, Milano nel 1630, Londra nel 166535. È con un paradossale senso di egoistico piacere che vengono riportati questi (e non altri) luoghi infestati dal morbo: per ora si è stati molto rigorosi, distaccati e scientificamente pronti a descrivere la storia della peste, come fosse un semplice nomen, un’astrazione che coinvolse aree geograficamente molto ampie. Ma la peste non è solo un nomen, è res, qualcosa di vivo, tangibile, disperatamente concreto36. Non è la prima volta quindi che dal fango, dal marcio mortifero nascono fiori: da qui un superlativo piacere nel ricordare i cronisti che han “allietato” anche solo con il loro soffio di poesia questa tragica esperienza durata millenni. Il Decameron, i Promessi sposi, il Diario dell’anno della peste37 in qualche modo devono i colori dei loro affreschi anche ad una tragica esigenza della natura quale fu la peste.

34 Le cifre dell’orrore: considerando il bilancio delle vittime, la peste del XIV secolo ebbe un indice di mortalità altissimo; si è infatti calcolato che, in media, dalla fine del 1347 al 1350 circa, la peste abbia ucciso quasi un terzo della popolazione europea. Questo valore indicativo tiene conto, naturalmente, di zone dove la mortalità raggiunse il 50% e anche di più, così come di quelle poche aree che scamparono al contagio (per esempio, la città di Praga fu una delle poche che sfuggì alla peste). In termini assoluti, su un totale che doveva aggirarsi sugli 80 milioni , si calcola che in Europa perirono circa 25 milioni di individui. Oltre alle vittime dirette del contagio, i dati considerano anche quelle indirete, provocate sia dall’inflazione che raggiunse valori altissimi, sia dalla mancanza di misure per fronteggiare l’emergenza. La maggior parte delle vittime indirette, infatti, morì di fame e stenti, destino che accomunò più i poveri ai bambini e agli anziani rimasti senza nessuno che li accudisse. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 75; RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 91; MCNEILL W. H., La peste nella storia, cit., p. 151. 35 Tante altre importanti città furono colpite e devastate totalmente dal morbo pestifero; altri importanti esempi oltre la Milano del 1630 e la Londra di trent’anni dopo, possono essere Barcellona dal 1348 al 1654 e Marsiglia nel 1720. RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., pp. 104-114. 36 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 14. 37 Scene d’orrore sono riportate da Defoe nel suo Diario: moribondi spogliati ancor vivi di vestiti e gioielli, le case saccheggiate sotto gli occhi impotenti dei malati, i sorveglianti delle case e gli infermieri che rubano o assassinano, i cadaveri in decomposizione scoperti nelle abitazioni dopo parecchi giorni, etc. RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., pp. 109-110 12


«Eros e Thanatos sono sempre andati d’accordo, e così bene d’accordo che dobbiamo alla peste il rinascere della letteratura erotica europea che non sarebbe più scomparsa»38.

Una delle ultime “vampate” avvenne a Marsiglia nel 1720, senza dimenticare la tarda sequela egiziana del 1799, nella quale svanirono tragicamente i sogni africani di Napoleone39. «Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ippocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenarono con li lor passati»40.

Notevole come Boccaccio faccia qui emergere l’inadeguatezza della scienza medica rispetto a questa terribile realtà; nessuno è consapevole, nessuno è all’altezza del male apocalittico; neppure le grandi autorità del passato. La malattia oggi nota con il nome di peste fu identificata scientificamente solo nel 1894 grazie al medico svizzero Alexandre Yersin che, durante l’epidemia di Hong Kong, isolò il bacillo responsabile della morte di secoli di storia umana. Lo nominò Pasteurella pestis in onore di Louis Pasteur, l’uomo che, con le proprie teorie sui microrganismi, aveva dato inizio alla medicina infettiva in senso moderno. Lo stesso anno anche il medico giapponese Shibasaburo Kitasato ottenne indipendentemente gli stessi risultati del collega svizzero. Ma la storia ricorda solo Yersin, infatti, in suo onore, il bacillo della peste verrà definito anziché Pasteurella, Yersinia pestis41. Il morbo si presenta in tre forme distinte che prendono il nome dalla loro caratteristica più evidente: quella bubbonica (dove sono presenti bubboni e gonfiori)42, quella setticemica (quando il bacillo si concentra nel sangue)43 e 38

Ivi, p. 91. GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., p. 11-12. 40 BOCCACCIO G., Decameron, p. 18 ss. In linea generale però il Boccaccio descrive la terribile che, nel 1348 desolò Firenze, in modo apparentemente distaccato, ma intimamente commosso; ciò che lo colpisce è l’osservare come il morbo infranga tutti i vincoli del vivere civile ed ogni affetto più caro. Posta su questo sfondo disumano, la fuga delle fanciulle e dei giovani dalla città ha un significato profondo: è la riscoperta dei valori e degli ideali di una splendida civiltà, intaccata ma non distrutta dalla peste. 41 NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., pp. 42-46. 42 Dopo la puntura della pulce portatrice, il bacillo rimane in incubazione dai due agli otto giorni, poi il paziente è colpito da febbre elevata, convulsioni, vomito, vertigini, fotosensibilità e dolore acuto alle estremità. Se si è forti (e fortunati) nell’arco di due-tre giorni si iniziano a gonfiare le ghiandole linfatiche 13 39


quella polmonare (laddove il bacillo si accumula nei polmoni e viene espulso attraverso la saliva)44. È lo stesso bacillo quindi a causare tutte e tre le varianti e ancora non è noto perché la malattia si presenti in una forma o nell’altra. Ad ogni modo la Yersinia pestis non è un bacillo umano: normalmente si trova nei topi45 o altri roditori e viene trasmesso da un animale all’altro attraverso le pulci. Quando la concentrazione del bacillo è tale da produrre una elevata mortalità murina, le pulci cercano di trasferirsi sul primo corpo caldo raggiungibile46.

Sporgenze bubboniche47.

più prossime alla puntura finché questi dolorosissimi rigonfiamenti (bubboni) emettono un essudato e scoppiano. Nel 25-30% dei casi la guarigione avviene in otto-dieci giorni, nei restanti la morte sopravviene per spossatezza, insufficienza cardiaca o emorragie interne. Ivi, pp. 43-44. 43 È la tipologia più rara, ma sempre fatale sebbene non molto contagiosa. L’effetto è un immediato arrossamento provocato dalla rottura di migliaia di capillari e la morte sopraggiunge nell’arco di un giorno. Ivi, p. 44. 44 Una volta incubato il bacillo, il paziente anziché febbre alta, denuncia una rapida diminuzione della temperatura e i polmoni si riempiono di fluido; la malattia si diffonde attraverso la saliva sanguinolenta espulsa tossendo, starnutendo e persino parlando. Nel giro di pochi giorni il paziente evidenzia gravi disordini neurologici e cade in coma. Ibidem. 45 Il ratto dal mantello nero (rattus rattus), a lungo incolpato dell’epidemia, è probabilmente meno coinvolto di quello col mantello marrone (rattus norvegicus) che prospera più a stretto contatto con l’uomo. Ivi, p. 43. 46 RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 17. 47 BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti, cit., p. 294. 14


Benché la maggior parte degli studiosi ritengano che, durante l’epidemia del 1347 la forma di gran lunga più comune fosse quella bubbonica48 (sono probabilmente le cromie nerastre delle croste che caratterizzano la pelle del malato a battezzare l’epidemia “morte nera”49), è possibile che fosse presente anche la variante polmonare, la sola che può essere trasmessa da uomo a uomo senza l’intervento della pulce vettore50, la più letale51.

La diffusione dell’epidemia52.

Come già evidenziato, le capacità di debellare, contrastare o anche solo organizzare il contagio del XIV secolo si riferiscono ad autorità e modalità antiquate. Le misure adottate in quel frangente possono essere raggruppate in tre ampie categorie53.

48

Non tutti gli storici e gli epidemiologi concordano sulla natura della piaga che colpì l’Europa nel XIV secolo; la versione della peste bubbonica è stata oggetto di critiche da parte di studiosi che hanno fornito spiegazioni alternative. I rimproveri più accesi si basano sulle condizioni climatiche richieste dallo sviluppo del bacillo, cioè temperature alte e umidità elevata, non presenti nelle regioni settentrionali d’Europa, che furono colpite dal morbo. Un altro argomento a sfavore della peste bubbonica è il suo confronto con la forma moderna della malattia. Per esempio, le cronache dell’epoca descrivono la comparsa di vari bubboni sullo stesso malato, mentre oggi la malattia si manifesta con un unico bubbone. Negli ultimi tre decenni, sull’origine della “morte nera” sono state avanzate varie ipotesi alternative alla peste bubbonica. Per esempio, lo zoologo inglese Twigg ha sostenuto la tesi di un’epidemia di antrace polmonare particolarmente letale. Secondo lo storico medievalista canadese Cantor, si trattò invece di una combinazione di antrace e ingestione di carne di manzo infetta. Lo zoologo Duncan e la demografa Scott, entrambi inglesi, hanno infine avanzato l’ipotesi di un’epidemia di virus simile all’ebola. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 70. 49 RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., p. 90. 50 Ibidem. 51 Il 95% dei colpiti non sopravvive. NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 44; COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 28. 52 La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., pp. 68-69. 53 NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 48. 15


La prima concerne il tentativo dei governi di controllare la diffusione del morbo attraverso la limitazione dei movimenti di persone e beni («mercator ergo pestiferus»54) e comprende metodiche quali le quarantene, i certificati sanitari e il miglioramento delle condizioni igieniche urbane. C’era poi una risposta di tipo religioso che sottolineava la devozione personale e collettiva, le preghiere, i pellegrinaggi e le processioni55.

Miniatura della fine del XIV secolo che rappresenta la risposta religiosa, la benedizione di un sacerdote per alcuni monaci malati di peste56.

Infine il corpo sociale si avvaleva di metodi per affrontare il morbo che potevano comprendere un atteggiamento disinvolto nei confronti della vita e una furiosa individuazione e persecuzione di capri espiatori. La reazione normale alla peste era solitamente una combinazione, un azzardo di tutte le soluzioni possibili. Gran parte delle aree urbane decretavano la rimozione dalla città di tutto ciò che emanasse cattivo odore e se ciò non bastava venivano allontanate tutte le persone considerate moralmente inquinanti (prostitute57, vagabondi e altre categorie di “peccatori”)58. 54 La trasmissione avviene infatti in primo luogo attraverso le reti commerciali terrestri, fluviali e marittime, lungo cui viaggiavano, insieme agli uomini e alle merci, anche i fatidici agenti patogeni. Per via marittima la diffusione del contagio poteva raggiungere i 40 km giornalieri, mentre per via terrestre oscillava tra 0,5 e 2 km, con tendenza a rallentare la marcia quando raggiungeva luoghi particolarmente freddi o territori con bassi indici di umidità. Questo spiega perché la peste si propagò in poco tempo in quasi tutto il territorio europeo. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., pp. 71-74; COSMACINI G., Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 9. 55 Sebbene questi momenti di risposta religiosa venissero attuati per dare speranza; insieme alle vie commerciali, altre direttrici importanti del contagio furono proprio le rotte dei pellegrinaggi che portavano a stretto contatto numerosi individui di varia provenienza. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 71. 56 British Library, Londra. Ivi, p. 68. 57 Anche se all’inizio non pare sia stato operato alcun collegamento tra la prostituzione legale (nei bordelli) e la peste. Il periodo 1350-1450 anzi fu quello che vide la costruzione e l’istituzionalizzazione dei bordelli 16


Costumi più rilassati59.

Istituiti, comitati o uffici sanitari provvisori60 composti da eminenti cittadini e magistrati che, appena il rischio si palesava elevato, non evitavano fughe ignominiose verso le aree rurali.

Il ripopolamento delle campagne61.

pubblici: i governi municipali erano evidentemente più interessati alla pulizia delle meretrici che al loro allontanamento. In tempo di peste venivano bersagliate di accuse, tuttavia ancora dopo il 1480 la maggioranza dei celibi frequentava regolarmente i bordelli la domenica. Le accuse di vergogna e peccato da parte dei predicatori sembra non funzionassero adeguatamente. NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., pp. 56-60 58 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 42; MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 9-10. 59 I sopravvissuti al morbo si trovarono spesso proprietari di terre e beni, ricevuti in eredità dai congiunti uccisi dalla peste, e si abbandonarono a una vita disordinata fatta di piaceri materiali, senza preoccuparsi del domani, mai incerto come allora. Inoltre la scomparsa di coniugi e compagni di vita, aumentò le relazioni extraconiugali e la prostituzione, anche tra i clero. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 77. 60 I governi avvertivano in misura crescente la necessità di un apparato per sorvegliare la situazione e agire al primo accenno di allarme; ma sarà solo nel Quattrocento che si inizieranno a costruire (o riutilizzare) ospedali per la peste, lazzaretti, controlli accurati delle vie di commercio. COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., pp. 34-41; NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 61. 61 La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 77. 17


In queste circostanze bisognava dunque adoperarsi per impedire il caos e tenere sotto controllo la popolazione trasformando, quindi, le misure adottate contro la peste in strumenti di controllo sociale oltre che di gestione sanitaria62.

Visita medica in casa di un appestato63.

Si faceva affidamento ai medici che, però, non essendo ancora in grado di configurare la malattia, usavano prescrive semplici regimi di dieta, esercizio fisico e comportamento salutare64. Un senso angoscioso di impotenza penetrava in ogni angolo del quotidiano: la corrosione dei rapporti familiari, dei legami sociali, delle regole di 62

NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 49. GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., p. 15. 64 I medici del periodo tardo-medievale non avevano alcuna possibilità di influenzare positivamente il decorso della malattia, della quale non conoscevano né l’agente patogeno, né l’idea di contagio. Le cure erano infatti quasi sempre poco efficaci, spesso inutili e talvolta persino dannose. I rimedi che venivano prescritti consistevano in salassi, bagni, nell’incisione dei bubboni, e soprattutto in particolari diete. Le terapie medicamentose usavano sostanze di origine vegetale. DEL PANTA L., Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX),Torino 1980, p. 37. 18 63


convivenza e l’esplosione soprattutto della paura, la vera fedele compagna della peste attraverso i secoli. Da essa si tenta di scappare affannosamente cercando qualsiasi tipo di appiglio possa dare all’evento mostruoso un qualche tipo di comprensibilità65. Un’altra fonte possibile di consiglio durante l’epidemia era quindi il clero66. Nella tradizione ebraico-cristiana, la peste era vista come una punizione di Dio, una manifestazione della sua collera; di conseguenza, essendo la peste il risultato di un peccato, il modo per salvarsi passava chiaramente per una vita retta e ricca di fede: amuleti, preghiere, processioni e persino la compravendita di reliquie servivano per calmare l’ira del cielo67.

Affresco del XV secolo in cui l’angelo indica un peccatore come vittima della peste68.

Come abbiamo già evidenziato, era anche lo Stato a prendere direttamente parte alla repressione tramite pratiche castiganti per reati quali sodomia, empietà, eresia ed eccesso di lusso, strumentalizzando l’idea del castigo divino con una condotta assai più immorale dei “peccati” da loro espugnati69. Sarà lo stesso Manzoni nella sua Storia della colonna infame a denunciare le mostruosità di cui erano capaci gli uomini in nome di una pretesa giustizia, facendo il processo alla tortura come metodo di indagine. Fu inoltre necessario inventare dei colpevoli e dei capri espiatori su cui convogliare

tutte

le

responsabilità:

zingari,

stregoni

ed

Ebrei;

65

GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., p. 15. NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., pp. 50-51. 67 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., pp. 41-42. 68 La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 77. 69 COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 42. 66

19


l’antisemitismo trovò dunque un nuovo pretesto per esacerbarsi.70 Succinto e brusco lo stesso Shakespeare che nel Mercante di Venezia definisce l’ebreo «a kind of devil»71.

Gli Ebrei, colpevoli72.

E quando ogni rimedio fallisce e tutte le soluzioni appaiono inutili, l’unica via possibile resta l’invocazione al potere intercessore e guaritore della Vergine e dei Santi. Numerose le raffigurazioni della Madonna che, grazie al suo mantello, devia i dardi pestiferi della punizione celeste proteggendo i suoi seguaci73.

70

RUFFIÈ J., SOURNIA J. C., Le epidemie nella storia, cit., pp. 96-97. SHAKESPEARE W., Mercante di Venezia, II, 2,27. 72 Alla ricerca quindi, di un capro espiatorio, in molti paesi europei gli Ebrei furono condannati al rogo con l’accusa di avvelenare l’acqua e il cibo. Le stragi avvennero soprattutto nei territori tedeschi e in Francia, ma neanche Spagna e Italia furono immuni; infatti da Avignone, papa Clemente VI emanò una bolla contro il movimento dei flagellanti, accusato di aizzare l’antisemitismo. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 76. 73 NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 38. 20 71


La peste come castigo divino del pittore tedesco L. Cranach il Vecchio, 151874.

Il massimo culto sarà dedicato a San Sebastiano75: venerato già durante le pestilenze dell’antichità troverà altresì la fama iconografica col pannello del Mantegna. Né meno popolare sarà San Rocco76, soprattutto nel meridione d’Italia dove non ci sarà paese o abitato che non dedicherà lui una chiesa o un lazzaretto, un altare o una preghiera77: «O glorioso San Rocco, che colpito da morbo pestilenziale nell'atto di servire ad altri infetti, e posto da Dio alla prova dei più spasmodici dolori, domandasti ed ottenesti di essere posto lungo la strada, e quindi, da questa scacciato, ti ricoverasti fuori della città in una povera capanna dove da un Angelo vennero risanate le tue piaghe, e la tua fame fu ristorata da un cane pietoso che ogni giorno portava un pane tolto alla mensa del suo 74 Szépmûvészeti Múzeum, Budapest. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 74. 75 Era il santo patrono più adatto a proteggere gli uomini dai dardi mortali; infatti la sua esecuzione con le frecce era stata ordinata per aver egli rifiutato, in quanto soldato romano, di adorare l’imperatore: da qui l’iconografia del santo legato ad un albero e trafitto nel corpo da numerose frecce. NAPHY W., SPICER A., La peste in Europa, cit., p. 38. 76 Santo che si dedicò alla cura dei malati e che aveva sulla coscia sinistra un rigonfiamento che poteva essere scambiato per un bubbone: i dipinti lo raffigurano mentre si tira su le vesti e indica il gonfiore. Ivi, p. 28. 77 GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., pp. 15-17; COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., p. 41. 21


padrone Gottardo: ottieni a noi tutti la grazia di soffrire con inalterabile rassegnazione le infermità, le tribolazioni, le disgrazie tutte di questa vita, nell’attesa costante e fiduciosa del soccorso necessario: poiché quel che veramente serve all’uomo, può provenire solo dal Cielo. Gloria al Padre…»78.

San Rocco e San Sebastiano, protettori della peste79.

78 La preghiera qui riportata, composta nel 1906, si trova nella maggior parte delle effigi devozionali e soprattutto nei testi relativi alla novena (nel punto nove di quest’ultima, relativa al VII giorno). MELCHISEDECCO A., Preghiera a San Rocco da recitarsi in tempo di epidemie, in Breve compendio della vita di San Rocco avvocato speciale contro la peste ad uso del popolo, Sant’Angelo 1881, pp. 1-32. 79 GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, cit., p. 16.

22


1.3 Cronologia e diffusione della peste nel Quattrocento e Cinquecento italiano Se la tragedia epidemica fosse rimasta isolata, le perdite, per quanto gravi, probabilmente avrebbero potuto essere recuperate nel giro di qualche generazione. Ma la peste, a partire da quegli anni si stabilì endemicamente in Europa, per esplodere di quando in quando in forma epidemica su scala più o meno vasta80.

Cronologia della propagazione della peste del 1348 in Italia81.

Dopo la prima tragica ondata del 1348 (ma il contagio refluì solo dopo il 1351), la peste si ripresentò drammaticamente in Italia a intervalli quasi regolari: gli anni 1360-63, 1371-74, 1381-84, 1388-90 e 1398-1400 furono contrassegnati da gravissime epidemie82. 80

MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 12-14. 81 DEL PANTA L., Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), cit., p. 112. 82 Ivi, p. 117. 23


Il trionfo della morte, affresco del campo santo di Pisa del pittore fiorentino B. Buffalmacco; 1340 circa83.

Nel 1400, le ondate epidemiche si ripetono con frequenza non inferiore fino al 1530 circa. Se la diffusione del morbo della seconda metà del Trecento si era originata nel nord ed era poi discesa verso il centro e il sud; non bisogna trascurare l’epidemia del 1422-25 che nacque nel meridione siculo e si estese poi a tutta l’Italia84. Importanti da ricordare gli anni compresi tra il 1522 e il 1530: l’Italia era divenuta campo di battaglia di un conflitto che coinvolse spagnoli, francesi e tedeschi; oltre che corpo infettato da diverse malattie (dalla peste al tifo) e debilitato da lunghi periodi di carestia. Altre due ondate epidemiche possono interessare la cronologia della nostra ricerca. La peste arriva ancora nel 1575-77, si stabilisce nell’area settentrionale e dilaga nella penisola; rispetto ad altri episodi però la diffusione del morbo non sembra essere stata generale come in precedenti occasioni (immuni la Lombardia, l’Emilia, il Vaticano e il Napoletano). Di maggiore incisione sarà invece la crisi degli anni 1591-92: innescata da una serie di cattivi raccolti che colpì la penisola intera e aggravata da epidemie di tifo petecchiale che accentuarono gli effetti della carestia, l’Italia fu abbracciata ancora una volta dal guanto pestifero85.

83

La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 72. DEL PANTA L., Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), cit., pp. 117-124. 85 Ivi, pp. 144-150. 84

24


La diffusione della peste in Italia: nel 1476-1479 e nel 1522-153086.

Al di là di alcuni episodi del tutto circoscritti, la peste cessò di funestare le regioni italiane in forma grave e generalizzata dopo le spaventose pandemie del 1630-31 e del 1656-57, e dunque con un discreto anticipo nei confronti di altri paesi europei. Le ipotesi circa la scomparsa della peste portano ad una querelle che si può sintetizzare schierando da una parte studiosi che davano notevole importanza all’adozione di misure di prevenzione e difesa, dalla parte opposta altri che, negando l’efficacia di tali misure, assegnavano rilevanza a cause del tutto indipendenti dalla volontà umana: la sostituzione di una varietà di ratto domestico con un’altra87, la comparsa di nuove malattie i cui germi riescono ad immunizzare la peste88. È a cavallo tra Tre e Quattrocento che la sanità pubblica esce dal provvisorio ed entra nel definitivo: a iniziative istintive e individuali (la fuga)89, se ne accompagnano altre che man mano sono andate 86

Ivi, pp. 126-127. La sostituzione di muri di mattone al posto di pareti di legno, di tetti di tegole al posto di quelli di paglia, insieme all’eliminazione dalle città dei magazzini cerealicoli domestici, devono aver contribuito a creare ambienti sempre meno congeniali al ratto domestico e alla pulce vettore. Ivi, p. 186. 88 Ivi, pp. 183-191. 89 Il primato della fuga è il primato della prevenzione, ma questa subito si articola nel corollario dell’igiene individuale, della buona dieta, della mens sana, della continenza, compendiato da Michele Savonarola nella 25 87


generalizzandosi e perfezionandosi, organizzate in modo da produrre una drastica riduzione delle occasioni di trasmissione della malattia mediante la forte limitazione di ogni forma di mobilità umana, di scambio e trasmissione di merci. Sembra che l’Italia sia addirittura all’avanguardia nella creazione di organizzazioni sanitarie specifiche per combattere la peste: dalle magistrature speciali del XIV secolo, ad una permanente del secolo successivo; concetti di “quarantena”, “cordone sanitario”90 erano inoltre pienamente sviluppati e i vari “Consigli” e “Uffizi di Sanità” avevano il compito di mettere in pratica tali concetti91. Per capire meglio, la pratica di bandire aree infette, di chiudere le frontiere degli Stati e le porte delle città, fu sempre seguita fin dall’inizio del Quattrocento92. Periodi di quarantena venivano imposti alle persone e alle merci93 provenienti da luoghi sospetti e, già dalla metà di quel secolo, si iniziarono a usare speciali “bollette di Sanità”94 che avevano la funzione di attestare la provenienza di persone o merci da luoghi non sospetti o non affetti da contagio. Un caso molto interessante è rappresentato dalle lettere: la posta è stata considerata per secoli un pericolosissimo veicolo di contagio. La carta era ritenuta di per sé suscettibile a ricevere il germe del contagio; non si può quindi biasimare la mano reticente che doveva toccare formula delle cinque effe: «cinque sono le cosse che per f cominzono che nel tempo della peste fuzir si debbono: fames, fatica, fructus, femina, flatus». Anche la terapia, per elevarla dal suo ruolo subalterno a pari dignità della profilassi, è formulata in cinque prescrizioni: «le quali pur per f incomenciano, inziè: flebotomia, focus, fricatio, fuga, fluxus, per fluxo intendendo debita evacuatione». COSMACINI G., La peste, passato e presente, cit., pp. 55-56. 90 Il termine “cordone” potrebbe far pensare ad una demarcazione materiale fra due territori; ma, essendo lunghi di anche centinaia di chilometri, era impossibile erigere palizzate o sbarramenti di alcun genere. La “linea di cordone” (che poteva essere terrestre o marittima) il più delle volte coincideva infatti con la riva di un fiume, un torrente, una strada, il confine geografico, attentamente sorvegliati da guardie e militari. D’AGOSTINO A. W., La peste, passato e presente, Milano 2008, pp. 147-156. 91 DEL PANTA L., Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), cit., pp. 187-191; MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 8-11. 92 La “messa al Bando” deve essere considerata il mezzo più precocemente, più frequentemente e universalmente usato per cercare di realizzare una tempestiva ed efficace prevenzione delle malattie epidemiche: era rivolta, come si vedrà, alle località che risultavano fonte di contagio, con le quali si interrompeva ogni rapporto commerciale, ogni comunicazione; si isolava così il paese bandito nella maniera più assoluta. D’AGOSTINO A. W., La peste, passato e presente, cit., pp. 87-94. 93 Un’altra misura di prevenzione consisteva nell’abolizione delle fiere e dei mercati. Ivi, pp. 95-100. 94 Le fedi di sanità (o bollette sanitarie) erano una delle misure di prevenzione più antiche e diffuse: erano un attestato di cui si doveva munire chi iniziava un viaggio e che faceva fede, cioè certificava lo stato di perfettissima salute di cui godeva il paese di partenza del latore, e, di conseguenza (presumibilmente), anche il latore stesso. Ivi, pp. 131-138. 26


quella carta tastata a sua volta da centinaia di altre mani. Per cui la disinfezione della posta (manoscritti, dispacci, giornali, oggetti cartacei in genere) è stata una delle più convinte, diffuse e accurate misure attuate nell’intento di prevenire il contagio95.

Certificato sulla disinfezione delle lettere ed altre carte96. 95

Le lettere potevano essere disinfettate solo esternamente o anche internamente prima della consegna (si ricordi che nei secoli passati non sempre si usavano le buste, spesso la lettera era costituita da un solo foglio ripiegato). Lungo i percorsi dei flussi postali si trovavano quindi delle stazioni di disinfezione con modalità diverse a seconda delle zone e delle epoche (legni odorosi, sostanze aromatiche, sterpaglie, venivano poste sotto l’azione purificatrice del fuoco; oppure, meno pericolosa e più pratica, era l’immersione nell’aceto) per rendere le lettere nette. Così risigillate, dotate dei bolli specifici, venivano fatte proseguire per il loro destino. Si capisce bene come si rispettasse ben poco il segreto epistolare, tanto che furono in molti a ricorrere all’uso della crittografia. Solo nel Settecento di diffuse l’utilizzo del gas muriatico ossigenato (cloro); a quel punto non fu più necessaria l’apertura delle epistole. Ivi, pp. 101-108. 96 DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, Cagliari 2001, p. 260. 27


I lazzaretti adibiti, vuoi alla cura e all’isolamento dei malati, vuoi all’isolamento delle persone o delle merci sospette, furono creati in questo periodo insieme alla tenuta delle registrazioni dei decessi allo scopo di segnalare casi di morte per “morbo contagioso”. La simmetria delle date è rilevante: ventitré anni prima del 1400 è nata la quarantena97, ventitré anni dopo nasce il lazzaretto98. Grande importanza va inoltre data al senso di collaborazione e interazione tra i vari “Uffizi di Sanità” delle diverse aree europee in modo da coordinare provvedimenti simultanei su vasta scala territoriale.

Incisione antica del Lazzaretto Vecchio di Venezia (1423), il primo in Italia99.

97

Quarantena o contumacia sono termini usati indifferentemente. Quaranta giorni di contumacia davano una concreta tranquillità perché la dottrina ippocratica dei giorni critici stabilisce che il quarantesimo giorno è l’ultimo nel quale può manifestarsi una malattia acuta, come appunto la peste: una malattia che insorga dopo questo termine non può essere che cronica e dunque non può essere peste. Il termine quarantena certamente fu usato dapprima per indicare che l’isolamento durava quaranta giorni, e tale fu conservato anche quando la contumacia era limitata a ventidue giorni, due settimane o anche meno (sette giorni). Il presupposto di tali misure di contumacia fu la necessità di evitare la totale paralisi che faceva seguito alla messa al bando: la quarantena infatti rendeva i traffici lenti ma non li aboliva. D’AGOSTINO A. W., La peste, passato e presente, cit., pp. 167-173. 98 La voce sintetizza una necessaria premessa: il lazzaretto ha assolto il compito di luogo di ricovero di malati molto gravi (lazzeri) oppure di luogo nel quale uomini, animali e merci restavano isolati per tutto il periodo della quarantena. Ne esistevano di due tipi e lo stesso edificio spesso era utilizzato per trattenere in quarantena i soggetti sani (lazzaretto di osservazione), altre volte era adattato per ricoverare, isolare, curare i malati (lazzaretto sporco). Le malattie epidemico-contagiose contribuirono in maniera decisiva alla costruzione dei lazzaretti, i quali a loro volta, se grandi e bene organizzati, potevano offrire un’assistenza sanitaria impeccabile. Ivi, pp. 161-165. 99 Isolario veneto: venti prospettive incise da Antonio Visentini, ed. anastatica, Mestre, 1985, (Ripr. Facs. Dell’ed.stampata: In Venezia 1777), tav. XI. 28


1.4 Un caso particolare: la Sardegna La Sardegna, benché protetta dall’isolamento geografico, è stata colpita più volte durante la sua storia dalle malattie epidemiche. Non si può escludere che proprio la falsa sicurezza dell’isolamento e lo sviluppo dei confini costieri abbiano contribuito, oltre alle condizioni ambientali e sociali, all’introduzione delle malattie e alla diffusione del contagio. Se, come abbiamo visto, le notizie sulle epidemie hanno origini generalmente bibliche, quelle riguardanti l’isola hanno caratteri mitologici. Secondo alcuni storici nell’area culturale sarda la peste veniva identificata con sa Musca macedda: la mosca infernale, di proporzioni enormi, capace di attentare alla vita dell’uomo100. Secondo il topos mitologico che assegna a queste creature demoniache immensi tesori, anche l’insetto nostrano sarebbe stato custode di uno di essi e avrebbe così portato morte e distruzione a coloro che avessero tentato di impossessarsene101. Tra i tanti luoghi comuni sulla storia della Sardegna, quello che definisce l’isola “pestilente” è sicuramente il più classico102. Classiche sono anche le fonti che ce lo tramandano: Cicerone fu il primo a fare uso di questo termine nel momento in cui, volendo denigrare il cantante Tigellio, lo definisce «hominem pestilentiorem patria sua»103. In effetti sembra che nel 181 a.C. una peste di grande virulenza abbia decimato l’esercito di Roma in guerra contro Cartagine: «pestilentiae tanta vis erat»104. Una seconda ondata del morbo sembra abbia infestato l’isola fra il 338 e il 350 d.C.105. Ma, la confusione terminologica riguardo alla voce “peste”, può aver aiutato una confusione circa la malattia che si aveva di fronte. Peste e 100

DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, Cagliari 1999, pp. 281-282. Probabilmente l’origine di questa credenza sarebbe da ricercare in una grande invasione di cavallette provenienti dall’Africa che distrusse le coltivazioni e provocò una gravissima carestia. L’impropria assimilazione delle epidemie alle invasioni di questi insetti sembra sia dovuta alla periodicità, all’entità e all’estensione dei danni provocati dai due diversi fenomeni; senza dimenticare il senso di impotenza collettiva che l’uomo assorbe di fronte a queste prove della natura. Ibidem. 102 CAU P., Sardegna “terra pestilente”, in I segni della vita. Fonti e testimonianze per una storia demografica della Sardegna, Sassari, senza anno, p. 40 103 CICERONE, Ad Familiares, VII, 24, I. 104 LIVIO, Ab urbe condita, XL, 19, 6. 105 MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, p. 11. 29 101


malaria sono, anche in Sardegna, un tutt’uno indistinto per la medicina del tempo; dunque l’aggettivo “pestilente” può essere stato usato riguardo l’isola con scopi assai più generici e meno accusatori. Per quanto riguarda l’alto Medioevo, fra il VI e l’VII secolo, la Sardegna sembra esclusa tra gli elenchi dei paesi mediterranei colpiti dal morbo: non crediamo si sia di fronte ad una miracolosa immunità, quanto ad una mancanza di fonti storiografiche106. Per trovare notizie certe sulla presenza della peste in Sardegna, bisogna risalire a epoche a noi più familiari, alla metà del Trecento. Dal 1323-24, epoca della conquista catalana, fino all’epidemia del 1424, gli assalti del morbo punsero l’isola ogni 25 anni circa; dal 1424 fino alla grande pestilenza del Seicento (l’ultima in Sardegna107), le saette pestifere vengono lanciati pressappoco ogni 50 anni108. Fenomeni analoghi si presentano nella penisola iberica, tanto che si nota una perfetta coincidenza temporale fra la cronologia delle pesti spagnole e quelle sarde109. Infatti, non essendo la Sardegna in condizioni migliori che altrove, anche qui la maggior parte delle pestilenze vengono portate da navi provenienti da zone infette (spesso iberiche), con il ratto nero, e trovano terreno fertile per il loro sviluppo. Per la fecondazione della peste sono di grande importanza l’ambiente naturale e quello sociale, la temperatura, l’umidità, lo stato e l’affollamento delle abitazioni: tutte queste condizioni erano presenti in misura predisponente nell’isola nel momento in cui la piaga fu concepita110. La prima grande epidemia è quindi quella della “peste nera” del 1347-48, entrata da Cagliari e diffusasi in tutta l’isola. La peste si ripresenta nel 1376 avvolgendo, nel suo abbraccio infernale, anche il giudice d’Arborea 106

Ivi, p. 12. Dopo tale periodo la peste perde il carattere pandemico e nel XIX secolo si estinguono le più importanti epidemie europee che si trasformano in focolai di importazione, i quali vengono rapidamente domati. DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., p. 287. 108 Ivi, p. 283. 109 La Sardegna funge infatti da ponte molto solido per i contatti con il Mediterraneo di cui la Spagna necessitava. Una facile strada di contaminazione. Ibidem. 110 Ivi, p. 287. 30 107


Mariano IV. Ricompare nel 1398 e nel 1403111. Nel 1424 Alghero viene colpita così duramente che è necessario ripopolarla con nuovi coloni per non tenere sguarnita una delle chiavi di sbocco al Regno. Nel 1442 è la volta di Oristano, nel 1476 di Iglesias e nel 1477 di Sassari e nuovamente di Alghero. Da qui ancora salpa l’epidemia del 1522 e si espande per tutta l’isola rimanendovi per otto lunghi anni. La conferma della ciclicità delle grandi epidemie sarde è data dalla catastrofe che colpisce Alghero nel 158283, quando la peste annienta pressoché del tutto i suoi abitanti112.

I morti illustri: la “punizione divina” si abbatte sui mendicanti come sui re113.

Sebbene la peste funga da livellatrice sociale colpendo tutti gli individui, indistintamente, le varie cure ufficiali oltre che inutili, e talvolta dannose, erano anche costose e, quindi riservate a pochi114. Per questo in Sardegna 111

Due grandi avvenimenti sotto questa data: la grande pestilenza e la morte di Eleonora d’Arborea, la quale fu lacrimata dai suoi sudditi come un’altra pubblica calamità. MANNO G., Storia di Sardegna, Bologna 1973, p. 235. 112 MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, cit., pp. 17-20. 113 Tra i morti illustri, oltre Mariano IV, Alfono XI di Castiglia, l’unico re a perire per il morbo. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., p. 76. 114 La malattia è da sempre destinata ai poveri, ai malnutriti e non ai ricchi e ben alimentati; con la peste la realtà era diversa: l’estrema virulenza del bacillo consentiva alla peste di non risparmiare neppure i più 31


molti ricorrevano alla medicina popolare, alla farmacopea dei poveri, alle terapie spontanee: non potendo comperare la costosa teriaca, ci si accontentava del limone, della menta, del rosmarino, dell’orliccio di pane imbevuto nell’aceto con un poco di ruta e cipolla, di salassi, clisteri, cauteri. La cura dei bubboni inoltre avveniva mediante applicazioni di aceto e orine, operate in privato e in segreto. Tra i farmaci: lo zafferano, il corno di cervo e alcune pietre preziose come lo zaffiro e lo smeraldo (per chi poteva permettersele erano purificatrici, moderatrici del calore interno e del sudore, depuratrici). Naturalmente furono inefficaci anche le medicine de medicos e quelle sardescas, nonché i grandi falò (per purificare l’aria) alimentati con fascine di ginepro e rosmarino.

Medico della peste115.

forti e benestanti. La sottoalimentazione può incidere su altre malattie come il tifo, ma non sulla peste. Il morbo era un grande livellatore sociale (anche se spesso, inevitabilmente, la livella non era uguale per tutti). DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., p. 287. 115 L'uso di rudimentali maschere protettive è attestato a partire dal XIV secolo, quando i medici, durante le epidemie, iniziarono a indossare particolari maschere a forma di becco, tenute ferme alla nuca da due lacci. L'idea di un indumento completo fu proposta nel 1619 da Charles de Lorme, medico di Luigi XIII, prendendo come spunto le armature dei soldati. Oltre alla maschera a forma di becco, già esistente, Lorme ideò una veste in tela cerata lunga fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello. 32


Blanda era anche la difesa delle coste con le ronde di guardia, lazzaretti e lebbrosari116; un’altra misura di profilassi interessante è la purgaciòn di una città: quando comincia a scemare l’epidemia, entrano in azione i perfumadores117; dentro le case si accendono fuochi con legni odorosi, in seguito si butta dentro calce ravvivata con acqua in modo che il vapore purifichi l’aria. Gli odori infatti, secondo i criteri dell’antica medicina, avevano

virtù

antipestilenziali

e

antimiasmatiche,

perché

si

contrapponevano ai miasmi che, in fondo, altro non erano che esalazioni graveolenti delle putrificazioni e della cattiva igiene118. Un seppur ottimo e seducente profumo, di certo non debellava i problemi diretti e indiretti che il morbo mal odorante aveva causato. Non reca sorpresa che, anche la Sardegna e, in particolare Cagliari, sperimentata l’inutilità dei rimedi umani, si rivolga all’alto, invocandone misericordia e perdono. «Parce Domine, parce populo tuo, ne in aeternum irascaris nobis». Canti che affiorano sulle labbra dei fedeli nei momenti di angoscia, nei lunghi anni in cui la peste infieriva e intere famiglie soccombevano, quando anche i capi temporali e religiosi venivano meno e il senso di abbandono destabilizzava una società già sgretolata.

La maschera era una sorta di respiratore: aveva due aperture per gli occhi chiuse da lenti di vetro, due buchi per il naso e un grande becco ricurvo, all'interno del quale erano contenute diverse sostanze profumate. Lo scopo della maschera era di tener lontani i cattivi odori, all'epoca ritenuti causa scatenante delle epidemie; infatti, benché fosse totalmente inutile, i medici erano convinti che le sostanze aromatiche contenute nel becco li avrebbero preservati dai contagi. Come accessorio, inoltre, esisteva una speciale canna, che i medici utilizzavano per esaminare i pazienti senza toccarli, per tenere lontane le persone e per togliere i vestiti agli appestati. 116 Si badi bene alla differenza fra lebbrosari e lazzaretti: il primo, più antico, era un ghetto, una comunità chiusa e permanente; il secondo era invece una forma particolare e temporanea di struttura ospedaliera. Ancora nel 1600 non esisteva in Sardegna una tipologia ben definita di lazzaretto, ma ci si regolava secondo l’urgenza e secondo le indicazioni dei sanitari; di volta in volta furono destinati all’isolamento conventi, ex conventi, caserme o singole abitazioni ma i lazzaretti veri e propri furono solo quelli di Alghero, dell’Asinara e di Cagliari creati in momenti diversi. DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., pp. 27-28, 115-116. 117 Ivi, pp. 43-45. 118 DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., pp. 288-297 33


Alla Vergine di Bonaria119 i cagliaritani rivolgevano le loro speranze; a lei e ai loro santi protettori Sebastiano e Rocco, e con essi il loro santo, Efisio. Ma non è solo l’antico caput provinciae a venerare Efisio come intercessore per debellare le pestilenze; anche Quartu Sant’Elena, Oristano, Nora, e altri centri che applaudono la processione cagliaritana che ogni anno ringrazia il santo portandone la statua su un carro trionfale120.

La madonna di Bonaria e Sant’Efisio, Cagliari121.

Almeno fino al Seicento122, anche qui, la cosa migliore da fare era sintetizzata nell’aforisma galenico «fugere cito, longe et tarde revert»123 (fuggi presto, vai lontano, torna più tardi che puoi)124. 119

Antagonista di quella mala aria a cui si attribuiva la responsabilità del contagio. DE MAGISTRIS P., Dalla peste alla festa. Storia di terrori e di speranze. La devozione per Sant’Efisio, Cagliari 1993, p. 99. 120 Ivi, pp. 95-101. 121 Ivi, p. 53. 122 Con la sciagura pestifera del 1652, infatti, le misure a carattere preventivo e curativo si specializzarono. Tra le istruzioni ricordiamo: provvedere alla pulizia delle strade, fare grandi provviste di viveri e raccolte di legna di ginepro e rosmarino, necessarie per purificare l’aria col fuoco; le case dei sani dovevano essere irrorate di aceto cotto con rosmarino, rose, radici di giglio e altre erbe aromatiche; i bubboni devono essere curati con vescicanti e cauterizzanti; le piaghe devono essere lavate con aceto e tuorlo d’uovo; sono vietate sepolture in luoghi comuni e si devono distruggere tutte le robe appartenenti agli infetti; appositi lazzaretti per malati e convalescenti. Anche l’alimentazione era molto importante: bisognava evitare cibi guasti e nelle bevande era opportuno mettere disinfettanti; sconsigliati cibi umidi come verdura, frutta, pesce e latte, preferibili invece la frutta secca, i legumi, il pane e la carne; si consigliavano condimenti di sughi agri e acidi capaci di contrastare la putrefazione, ritenuta causa della peste. DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., pp. 53-54. 123 DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., p. 288. 124 La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, cit., pp. 74-77. 34


Per tre secoli, quindi, una lunga serie di epidemie di peste senza rimedio «si sgranano come in un tragico rosario di sventure demografiche, tanto da far apparire quasi giustificato l’uso dell’aggettivo “pestilente” da parte degli autori classici nei riguardi della Sardegna»125.

125

MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, cit., p. 17. 35


CAPITOLO II

36


BREVE STORIA DI ALGHERO 2.1 La Preistoria I primi abitatori della parte nord occidentale della Sardegna risalgono al periodo Neolitico1. Lo sviluppo della navigazione, tra il 7000 e il 3000 a.C., spinse varie popolazioni che si affacciavano sul Mediterraneo orientale a seguire il corso del sole e approdare sulle sponde della nostra isola2. Una delle prime migrazioni dovette stabilirsi proprio nell’area costiera posta a nord-ovest della Sardegna laddove i “viaggiatori” trovavano riparo presso le zone della Dragunara e della Cala Bona; ciò è provato da ritrovamenti di vario genere: resti umani e di cibo, manufatti in pietra e in creta risalenti a quell’epoca3. La seconda migrazione fu quella dei nuragici4 che, a differenza dei primi insediatori, abbandonarono le aree costiere per raggiungere quelle collinose dell’interno. Le varie carte “nuragografiche” attribuiscono all’Algherese più di 90 nuraghi; tale densità testimonia la vivacità culturale dell’area5. La necropoli di Anghelu Ruju, a circa 6 km da Alghero, risale proprio a questo periodo ed è probabilmente una delle più importanti dell’isola6. L’altra testimonianza degna di interesse è quella riferita al complesso nuragico di Palmavera, distante 10 km dalla città: la sua posizione

1

LILLIU G., La civiltà dei sardi: dal neolitico all’età dei nuraghi, Torino 1983, p. 33 ss. Può essere fatta una peculiare distinzione di carattere sessuale per questi primi insediatori. Sembra infatti che le femmine neolitiche, quivi giunte, fossero indigene, mentre la componente maschile fosse caratterizzata da razziatori provenienti presumibilmente dalle Baleari, dall’Iberia, dalla Corsica e, per mezzo di questa, dalla Liguria. I Neolitici algheresi erano a testa mediamente allungata e alti circa 1,63 m; si cibavano di frutti di mare, bacche e frutta secca così da possedere un tipo di alimentazione ricca di vitamine e scarsa di zuccheri che permetteva loro di avere una lunghezza media di vita discreta e superiore ai 30-35 anni. BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal Neolitico al 1478, Sassari 1981, pp. 17-18. 3 Ivi, p. 17. 4 Chiamati così in quanto edificavano strutture circolari usando massi sbozzati e sovrapposti gli uni agli altri senza malta: i nuraghi. BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, Alghero 2010, p. 20. 5 BRANDIS P., I fattori geografici della distribuzione dei nuraghi nella Sardegna nord-occidentale, Sassari 1986; MORAVETTI A., Il complesso nuragico di Palmavera in Sardegna archeologica, Sassari 1992, p. 95. 6 DEMARTIS G. M., La necropoli di Anghelu Ruju in Sardegna archeologica, Sassari 1986, pp. 5-8. Si trattava di un complesso cultuale con scopi magico-spirituali oltre che sociali, che si rifacevano alle aree da cui queste popolazioni provenivano: le Cicladi, Creta e anche Israele. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, Alghero 1984, pp. 19-21. 37 2


dominante e nello stesso tempo riparata dal nuraghe, non meno che la grandiosità dei suoi resti, rendono l’edificio degno di grande attenzione7.

Vista aerea della necropoli di Anghelu Ruju e del complesso nuragico di Palmavera8.

Per il lungo periodo fenicio-punico9, che va dal 800/700 a.C. sino all’occupazione romana del 238 a.C., si possono solo avanzare delle ipotesi riguardo le popolazioni che dovevano occupare le aree del nord Sardegna10. Immagini fantasiose e racconti mitologici narrano l’arrivo del grande Ercole e persino dell’Enea fuggito da Troia; sembra più storicamente plausibile la possibilità di una terza migrazione di popoli marinari, i Fenici o i Shardana che, percorrendo le rotte già aperte molto tempo prima, giunsero a costruire dei centri abitati. I primi tra questi paiono essere avvenuti in penisolette e lingue di terra: il nucleo sul quale oggi sorge il centro storico di Alghero dovette essere stata scelta come approdo e sito ideale per l’edificazione di una futura città11. Uno dei ritrovamenti archeologici più importanti degli ultimi anni è un’estesa necropoli (350 tombe) di età romana in uso tra il I e il III d.C. nell’area di Monte Carru. Questa struttura confermerebbe la presenza, nelle vicinanze, di un abitato presumibilmente abbastanza ampio; si dovrebbe trattare di Carbia, nato come piccolo villaggio agro-pastorale su un antico insediamento prima nuragico e poi fenicio che, col tempo, doveva aver 7

MORAVETTI A., Il complesso nuragico di Palmavera in Sardegna archeologica, cit., pp. 41-42. DEMARTIS G. M., La necropoli di Anghelu Ruju in Sardegna archeologica, cit., p. 17; MORAVETTI A., Il complesso nuragico di Palmavera in Sardegna archeologica, cit., p.55. 9 Si noti bene che vi è sempre più la tendenza a concentrare l’impronta cartaginese quasi esclusivamente nell’area meridionale; fuori quindi dal nostro interesse. BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., p.4; BARRECA F., La Sardegna fenicia e punica, Sassari 1987, pp. 35-36. 10 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 31. 11 BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp.22-23. 38 8


guadagnato una certa estensione. Il toponimo ci riconduce alla raccolta del carbo, carbone, nelle aree circostanti. In età imperiale sembra che, grazie alle fruttuose attività delle aree circostanti (pastorizia, pesca, agricoltura, esercizi manifatturieri ed estrattivi), conobbe un certo sviluppo fino a diventare una cittadina ben nota per chi viaggiava lungo la strada costiera che collegava Turris Libisonis a importanti centri come Cornus, Tharros, e soprattutto Karales12. Ma Carbia non restò soltanto una semplice stazione dell’iter antoniniano13, vantava pertanto una posizione di tutto rispetto in quanto poteva contare su un’intensa attività produttiva grazie al territorio circostante (fertile e pianeggiante), sulla vicinanza di fonti idriche (il mare, il golfo naturale del Nymphaeus Portus, Porto Conte, l’area del Calich, fonte di saline e arenaria), a miniere quali quelle di Calabona e dell’Argentiera. I resti della villa, per un tratto anche parzialmente sommersi dal mare, suggeriscono che si trattasse di una residenza dedicata all’ozio e alla villeggiatura anche se, come in tutte le villae, ospitava strutture produttive di un certo rilievo14. Tutto ciò le garantiva una assoluta supremazia sui centri limitrofi come Til(l)ium, Nura/e, Barax (e), Nymphaeus Portus15, Corax, Calmedia16. Un breve accenno ad altre duestrutture importanti di età romana: la necropoli di Sant’Imbenia17 e il ponte “romano” di Fertilia18.

Lo scavo di Sant’Imbenia nel Golfo di Porto Conte19 e Ponte “romano” di Fertilia20. 12

MASTINO A., Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009, pp. 341-352; MELONI P., La Sardegna romana, Sassari 1990, pp. 373-378. 13 MELONI P., La Sardegna romana, cit., p. 336; PERRA M., Sardegna = Sardō = Sardinia, Oristano 1997, Vol. III. 14 FOIS M., SARI BOZZOLO R., Un’altra Alghero, Alghero 2008, pp. 17-18. 15 PERETTI G., Porto Ninfeo in Sardegna, Roma 1923. 16 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 37-46 17 MELONI P., La Sardegna romana, cit., p. 11; RENDELI M., DE ROSA B., Noves descobertes arqueològiques. Projecte Santa Imbènia, in L’Alguer, XXIII, 131, Alghero 2010, pp. 9-14. 18 Ponte sovrastante le acque che dal Calich sfociavano in mare; originariamente formato da 24 arcate, 13 delle quali sono tuttora in piedi. FOIS M., SARI BOZZOLO R., Un’altra Alghero, cit., pp. 21-22. 39


Verso la fine del periodo bizantino non si sente più parlare dei consistenti insediamenti romani; questo ci porta ad ipotizzare che quelle città, a causa di non favorevoli vicende del periodo vandalico e bizantino (fine VIII secolo), fossero scomparse, distrutte da eventi bellici o abbandonate dagli abitanti di fronte alla poderosa avanzata araba21. La tormentata e poco chiara costituzione del potere giudicale (VIII-XI secolo)22 ebbe il grande merito, almeno per un primo momento, di far coagulare attorno al Giudice tutte le forze economico-politico-militari per poter attuare una valida difesa contro le incursioni arabe che, altrimenti, avrebbero depauperato di beni e “materiale umano” tutta l’isola. Se i Cartaginesi prima e gli altri invasori dopo obbligarono parte della popolazione a rovesciarsi nelle aree interne dell’isola, le stesse insidie arabe ne sospinsero verso le località centrali un’altra buona parte, contribuendo a ridurre notevolmente il numero degli abitanti delle lingue costiere. Ne risulta così un impoverimento radicale del già modesto traffico marittimo e di economie importanti per l’isola; una tra tutte, la pesca. È proprio a cavallo del periodo giudicale che tutto il territorio algherese diventa parte del Giudicato del Logudoro e, in esso, per i motivi sopracitati la popolazione dell’agro algherese diminuisce notevolmente. Solo nel 1015, con la vittoria dei genovesi e dei pisani contro Museto23, si ebbe in Sardegna un relativo periodo di pace che deve aver contribuito alla

19

RENDELI M., DE ROSA B., Noves descobertes arqueològiques. Projecte Santa Imbènia, cit., p. 7. Detto tale, appunto “romano”, dagli abitanti locali in vista della sua antichità, sebbene caratteristiche morfologiche evidenti hanno ormai da tempo dimostrato la sua appartenenza ad una cronologia molto più avanzata e precisamente di età aragonese. SCANU P., Alghero e la Catalogna, Cagliari 1964, p. 339. 21 A questo riguardo, non si può parlare di vera e propria conquista o islamizzazione della Sardegna, data la continua impronta bizantina che rimane nell’isola. Però possiamo ipotizzare la presenza degli arabi in alcuni insediamenti dell’area nord-occidentale individuando nell’ampio golfo di Porto Conte uno scalo privilegiato. BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 26-28. 22 Secondo alcuni studiosi, la Sardegna iniziò quindi a ritagliarsi spazi di autonomia da Bisanzio, pur senza mai interrompere i rapporti con l’Impero romano d’Oriente. Sul finire del X secolo, un non meglio precisato “Signore di Sardegna” si recò al cospetto del califfo di Cordova, al seguito di mercanti amalfitani, per domandare un trattato di pace e amicizia. Nessun altro riferimento sulla presenza di altri signori, esclusi i princeps da considerare come maggiorenti ed esponenti della famiglia di un unico signore di Sardegna. Ivi, p. 28. 23 BOSCOLO A., La Sardegna bizantina e alto-giudicale, Sassari 1989, p. 144. Sarà dopo questa sconfitta che vi sarà la quadripartizione (Cagliari, Tharros, Civita e Torres) della signoria di Sardegna, sicuramente votata dai pisano-genovesi. Ibidem. 40 20


ripopolazione delle aree costiere. Nell’area ove oggi sorge Alghero, devono quindi essersi raccolti un certo numero di elementi venuti dall’interno, ed è proprio su questo modesto agglomerato che, verso la fine del secolo XI, si fissa l’attenzione della potente famiglia Doria: realizzare la costruzione di una base per il controllo della zona nord-occidentale dell’isola era di fondamentale importanza24.

2.2 La Storia Come si evince dal titolo del paragrafo, essendo a buon diritto iniziata la Storia della città, è interessante individuare l’origine del toponimo. Alghero potrebbe possedere un’impronta araba ed essere la risultante di Aljazair (isola o città dell’isola), così come Algeri in Africa e Algeciras in Spagna. Sebbene il fitonimo abbia in tutte le varietà del sardo (oltre che in algherese) un nome differente, un’altra ipotesi molto accreditata congiunge la città al grande quantitativo di alghe che infestano i litorali; si arriva così a S’alighera, cioè sito di alga; «latinizzossi in Algarium, e i catalani lo declinarono el Alguer»25. È possibile anche un’impronta fenicia: Alahg, sale, e dunque luogo di saline26. Ultima ma non meno importante la testimonianza genovese che definisce la felice preda dei Doria La Ligera27. Nello stabilire l’epoca della fondazione di Alghero molti studiosi sono concordi nel ritenere che la potente società commerciale della famiglia genovese dei Doria abbia iniziato i lavori di fortificazione della “collinetta” nel 110228. Tale area, era fino a quel momento un piccolo borgo di pescatori che vivevano una vita magra e malsicura a causa delle frequenti 24

I genovesi, cresciuti in potenza commerciale e marittima, contendevano il primato con i pisani; ma questi si accorsero solo nel 1283 dell’importanza strategica che la città di Alghero poteva assumere. Pisa viene quindi sconfitta due volte a Tavolara e alla Molara e nel 1288 è costretta alla pace, cede quindi a Genova tutti i suoi possessi sardi. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 57-58. 25 ANGIUS V. in CASALIS G., La Sardegna paese per paese, s. v. Alghero, Cagliari 2004, p. 90. 26 SPANO G., Vocabolario sardo geografico patronimico ed etimologico, Cagliari 1872, p. 95. 27 BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 38-39; BERTINO F., Alegerium, Sa Lighera, L’Alguer. Ipotesi sull’origine di Alghero e del suo nome, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., Sassari 1994, pp. 38-48. 28 BROWN R.., Alghero prima dei catalani, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 50-58. 41


incursioni saracene29. In realtà sembra inopportuno parlare di una data di fondazione, sarebbe meglio interpretare il fenomeno come “posa della prima pietra” per dare inizio alla costruzione della fortezza. Affinché ciò risultasse possibile, era necessario il lavoro di un numero più o meno grande di personale che, però, probabilmente venne trovato in loco e non quindi importato dalla penisola italica. L’opera muraria, comprendente 26 torri raccordate da mura lunghe circa 50-60 metri, venne terminata alla fine del XII secolo, e i Doria, pur con alterne vicende, riesciranno a mantenere il possesso dell’urbs per più di due secoli e mezzo30.

Carta geografia del Territorio de los Alguereses31.

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SCANU P., Sardegna, Firenze 1965, p. 51. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 63-70. Riguardo le mura di Alghero, è interessante ricordare un documento molto importante, sebbene cronologicamente più tardo (1416-1419), che descrive l’entità di un elevato stanziamento donato dalla Corona di Aragona. Il testo ci apre uno squarcio di luce sulle modalità di esecuzione delle opere murarie, sui costi dei materiali impiegati, della manodopera, dei trasporti etc. CASTELLACCIO A., Alghero e le sue mura nel libro dei conti di Bartolomeo Clotes [1417-19], Sassari 1981, pp. 22-33. 31 MATTONE A., SANNA P., Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo, cit., fig. 12. 42 30


Per la facoltosa famiglia genovese, il porto di Alghero aveva un’importanza economica di rilievo32: si esportavano orzo, pelli, formaggi, bestiame, lana, pesce, mentre venivano introdotte nel porto stoffe, legna, armi e prodotti finiti dalle manifatture del continente. Per quanto riguarda invece la pesca del corallo33, probabilmente veniva esercitato un regime di monopolio da parte dei marsigliesi; merce di scambio per loro essenziale da barattare con spezie orientali di vario genere. L’oro rosso algherese finiva così nelle botteghe artigiane della Persia, abilmente lavorato e destinato ad ornare i colli delle potenti donne locali34.

Antica stampa che illustra la pesca del corallo.

È quindi in questi secoli di dominazione ligure che si attua la grande espansione del borgo de la Ligera. Due gli episodi avversi da tenere a mente: l’interruzione dei rapporti con Marsiglia a causa dei contrasti con i genovesi (1270), l’assedio di Alghero da parte della flotta pisana e delle truppe arborensi di Mariano II (1283)35. 32

CORRIDORE F., Storia documentata della marina sarda, Bologna 1900, pp. 15-16. ANGIUS V. in CASALIS G., La Sardegna paese per paese, s. v. Alghero, cit., p. 112. 34 BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 39-40. 35 Causa della menzionata invasione, la sopracitata (vedi nota 17) lotta tra Genova e Pisa. Al seguito di questa gli algheresi si arresero, ma ciò non valse ad impedire il saccheggio e la parziale distruzione del borgo. Già nel 1284 all’indomani della sconfitta pisana, i Doria poterono rientrare ad Alghero e 43 33


Tutto quanto detto finora, si configura come preambolo alla vera fortuna della città che ha inizio nei primi anni del XIV secolo quando l’Infante Alfonso d’Aragona36 conquista l’isola togliendola alla sovranità pisanogenovese; il re vantava un diritto derivante dall’investitura papale37. La debolezza degli aragonesi nel nord indusse a valutare con maggiore attenzione l’importanza strategicamente decisiva delle due ville fortificate dei Doria: Alghero e Castelgenovese. Ma soprattutto la prima, geograficamente più utile per la collocazione vicina alle coste della Catalogna, al cospetto di Sassari e con un porto immediatamente raggiungibile. È così che la villa algherese si trova al centro di una contesa tra l’Aragona e l’Arborea da una parte, i Doria e Genova dall’altra: i primi che miravano ad impossessarsene e i secondi a non cedere quel decisivo punto strategico38. Il 7 marzo 1353 venne stipulato un atto di sottomissione della cittadina al pieno dominio genovese: sulle porte di Alghero veniva inalberato il vessillo italico e la villa sarda39 si legava così ai destini della Superba40. Nel mentre, morto Alfonso d’Aragona, gli successe il figlio Pietro IV41, detto il Cerimonioso, che subito si interessò alla “questione algherese”42: la flotta catalano-aragonese43 alzò le vele il 18 agosto 1353 e giunse nelle acque di Alghero il 25 dello stesso mese. Dopo una furiosa battaglia, la

ricostruire, ampliare e rafforzare il borgo. MANNO G., Storia di Sardegna, Bologna 1973, pp. 55-60; BOSCOLO A., La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 144. 36 MELONI G., La conquista della Sardegna nelle cronache catalane, Nuoro 1999, pp. 7-8. 37 SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., p.22. 38 BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 42-44. 39 Interessante l’individuazione degli atti contabili della cosiddetta villa, le sue spese, i suoi pagamenti nel primo quindicennio del Quattrocento. DERRIU A., Atti contabili della villa di Alghero, Sassari 2005, pp. 23-24, 26, 41, 43, 47, 53-74. 40 TODA I GUELL E., L’Alguer: un popolo catalano d’Italia, a cura di Caria R., Sassari 1981, p. 189. 41 MELONI G., La conquista della Sardegna nelle cronache catalane, cit., pp. 58-64. 42 Convocati gli Stati Generali a Villafranca del Panades, il re ha ora tutti i mezzi necessari per agire e muovere guerra. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 78. 43 La flotta era composta da 45 galere, 5 navi e 4 navigli sotto il comando di B. Chiabrera; ad essa si aggiungano altre 20 galere veneziane che la Repubblica, rivale di Genova, aveva mandato in aiuto. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 78; CORRIDORE F., Storia documentata della marina sarda, cit., pp. 15-16. 44


mano vendicatrice del nemico iberico si fece sentire sulla popolazione algherese vinta e indifesa44. «Gli algheresi, che da tra’merli delle torri del lido avean veduto la celerità, con cui la flotta genovese erasi vibrata contro i nemici, e felicemente augurato da quell’impeto, quando dopo alcune ore di dubbiezze e timori declinò e quindi rapidamente precipitò la sorte degli amici, sentiron languire e spegnersi le speranze; e non esitando sul partito cui piegarsi, apriron le porte al vincitore, e salvarono le persone e le robe».45

A questo atto di supremazia militare, Alghero reagisce con una importante ribellione anticatalana che, grazie all’appoggio dei Doria sconfitti e di Mariano IV, sospira la possibilità di scivolare fuori dal vestito iberico, sentito già troppo stretto. Ciò detto, segue la seconda spedizione del Cerimonioso per piegare i sardi riottosi alla sua autorità governativa. Gli algheresi, per difendere la propria città e se stessi, avevano affondato, nelle acque antistanti le mura, delle barche coralline e da pesca allo scopo di ostacolare l’avanzata iberica. La resistenza fu eroica e durò sei lunghi mesi, ma a nulla valse tale sforzo: al termine dei trattativi per la pace, il 22 dicembre del 1353 il re entra nella città e Alghero passa agli aragonesi46. Cominciò quindi l’evacuazione degli abitanti che si erano mostrati troppo fedeli alla corona dorica (famiglie genovesi e sarde) e nella città iniziarono ad arrivare elementi catalani: i primi abitanti catalani d’Alghero erano però esclusivamente militari, difensori della rocca; solo più tardi vennero inviati i primi “guidatici”47 per favorire il trasferimento della popolazione civile48.

44 La battaglia di Porto Conte: la seconda spedizione catalano-aragonese, comandata dal generale B. de Cabrera, affrontò e sconfisse la flotta genovese. SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., pp. 24-28.. 45 ANGIUS V., Storia di Logudoro, Sala Bolognese 1977, p. 575; MELONI G., Genova e Aragona all’epoca di Pietro il Cerimonioso, Padova 1976, Vol. II, pp. 1-18. 46 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 86. 47 Il “guidatico” (guidaticum elongamentum) era una carta con la quale l’autorità regia, o chi per essa, concedeva, sotto determinate condizioni, adeguati privilegi. Vi erano guidatici per le merci, per la pesca e anche per la popolazione. Per quanto riguarda questi ultimi, oltre a concedere a coloro che si fossero trasferiti nella città favorita, immunità da delitti o crimini precedentemente commessi (con l’esclusione di quelli molto gravi), e franchigie per debiti e somme dovute, promisero ai nuovi popolatori anche gli stessi diritti e privilegi dei veri cittadini. TODA I GUELL E., L’Alguer: un popolo catalano d’Italia, cit., p. 209. 48 CONDE Y DELGADO DE MOLINA R., Il ripopolamento catalano di Alghero, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 75-93. 45


Finisce così la lunga dominazione dorico-genovese e, con una pace molto poco onorevole, ha inizio il periodo catalano (1354-1478)49. Alghero catalana divenne ben presto il centro strategico più importante della carta politica aragonese e fu favorita nel suo sviluppo e nella sua rinascita da provvidenze straordinarie e da tutti i privilegi di cui largamente beneficiavano i cittadini della madrepatria50. Elenchiamo brevemente questi privilegi, raccolti per annate51. -1355: Il re Pietro IV decreta52 (febbraio) l’unione del locum del Alguerio alla Corona di Aragona con la promessa di non separarla né infeudarla; (dicembre) concede alla città di Alghero il privilegio di nominare i consiglieri ogni anno nel giorno di San Tommaso; estende ad Alghero i privilegi e le franchigie concesse a Sassari; solo catalani ed aragonesi possono esercitare mercatura, mentre gli stranieri possiedono solo il permesso di vendere, comprare ed esportare all’ingrosso; gli uffici pubblici sono riservati solo ai catalani, la guardia delle torri deve essere fatta da soldati; i frati non catalani o aragonesi non possono abitarvi; gli abitanti di Alghero sono esentati dal pagamento di qualsiasi imposizione per dogana e porto; rimette ai cittadini di Alghero tutte le eredità feudali e tutte le limitazioni relative alle concessioni e donazioni fatte a lui; le concessioni immobiliari fatte nel territorio algherese sono franche da ogni onere 49

SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 86. Si era creato così un centro sui generis ove convivevano popoli di diversa origine, lingua, carattere e statura morale; a questo si aggiungevano i contrasti tra i dominatori e i veri padroni della terra e del mare che, vinti, venivano continuamente piegati dalla violenza del vincitore, guardati a vista, umiliati. SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., p. 36. 50 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 107-109 51 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 107-109; SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., pp. 42-44; TODA I GUELL E., L’Alguer: un popolo catalano d’Italia, cit., pp. 203-205; DERRIU A., Alghero e i suoi privilegi in alcuni documenti inediti del XV secolo, Alghero 2007, 12-14; MANCONI F., Libre Vell. I libri dei privilegi della città di Alghero, Cagliari 1997, pp. 220-232; MATTONE A., I privilegi e le istituzioni municipali di Alghero (XIV-XVI secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 281-311; TAVERA B., PIRAS G., Libre de privilegis della Città di Alghero. Libre de cerimònies della Città di Alghero, Sassari 2007, pp. 321-324; TAVERA B., PIRAS G., Libre Gran. I libri dei privilegi della città di Alghero, Cagliari, 1999, pp. 548-557. 52 Durante il suo regno, Pietro IV concesse, dal 1355 al 1385, alla nuova colonia catalana ben 81 fra privilegia, gratias ed immunitates che definirono nei suoi tratti fondamentali quel particolare ordinamento urbano che caratterizzerà la vita civile di Alghero nei secoli successivi. I suoi successori approvarono e confermarono i privilegi e le franchigie di Alghero (Giovanni I nel 1388 e Martino il Vecchio nel 1397). MATTONE A., I privilegi e le istituzioni municipali di Alghero (XIV-XVI secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 284- 286. 46


dominicale, eccetto la decima, possono fare oggetto di testamento e, trascorsi cinque anni dalla concessione, purché a favore di catalani ed aragonesi e non mai di ecclesiastici.

Fronte e retro del sigillo in ceralacca rossa di Pietro IV il Cerimonioso (1355): l’iconografia del re e lo scudo della città di Alghero.

-1357: decreta (luglio) che vi sia un esonero dal pagamento di mezzo fiorino dovuto per ogni 100 lire di stima delle haereditates (esonero dalla tassa di eredità per 10 anni); esonera (novembre) gli algheresi dal pagamento di lire 290 d’Alfonsini minuti che avrebbero dovuto a complemento della somma destinata per gli stipendi degli ufficiali reali di Alghero e del Capo del Logudoro. -1358: concede (maggio) a chiunque in Alghero avesse posseduto balestra e 100 frecce ed ogni domenica avesse fatto sei lanci, di poter esportare 25 misure di grano liberamente. -1360: conferma (giugno) l’estensione ad Alghero dei privilegi di Sassari; ordina che in Alghero non siano introdotti vino e uve se non dai cittadini e dagli abitanti di questa villa; stabilisce che le ville di Manuçades e Olmedo fossero unite al distretto ed alla giurisdizione di Alghero. -1361: concede agli abitanti di Alghero il diritto di erba e pascolo esteso per tre miglia intorno alla città.

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-1362: dispone (dicembre) che nel Capo di Logudoro53, solo Sassari e Alghero si potesse tenere bottega per vendere sale e merci; che le chiavi della città siano due, custodite una dal vicario e una da un consigliere (obbligatoriamente coniugato con una catalana o una aragonese); che gli stranieri entrino in città solo 10 alla volta e nei giorni di mercato, senza armi e possibilità di pernottamento (chiuse le porte per la notte, il divieto di aprirle era rigorosissimo). -1363: ingiunge (novembre) a tutti i regi ufficiali di osservare anche a favore degli algheresi il privilegio concesso a Sassari, nel quale si esentavano i Sassaresi e le loro cose a qualsiasi tassa o imposizione. -1364: accorda alla città che la quarta parte dei proventi della sua dogana fossero investiti nella riparazione delle mura e delle fortificazioni54. -1372: allontana (settembre) dalla città tutti i sardi e gli stranieri, a questi viene concesso un breve periodo per vendere i propri beni con proibizione per gli algheresi di vendere le loro proprietà ai sardi stessi. -1377: accordata una proroga dell’esenzione della tassa di mezzo fiorino sulle abitazioni. -1384: dispone (luglio), previo accordi tra gli algheresi (catalani) e il console di Marsiglia in Alghero, che tutte le barche adibite alla pesca del corallo55, nei mari compresi fra Capo di Napoli sino all’Asinara, dovessero fare scalo ad Alghero; (settembre) che tutto il naviglio, tanto dei sudditi

53 Il re Pietro comandava che, in avvenire, non si ricordassero più i Giudicati di Cagliari, Gallura e Logudoro, e invece si dicesse Capo di Logudoro e Capo di Cagliari e Gallura. ANGIUS V., Storia di Logudoro, cit., p. 581. 54 Le fortificazioni che oggi ammiriamo non sono, naturalmente più quelle di una volta; le varie ricostruzioni ne hanno modificato la morfologia. Le 26 torri abbracciavano la città, tutta la cinta era completamente turrita e merlata, con cammini di ronda in parte in legno, in parte in pietra. Vi erano poi molte “piombatoie”, sporgenti all’esterno delle mura, da dove si lasciavano cadere sugli attaccanti sassi, olio bollente, pece fusa ed altro per rendere impossibile la scalata. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 105-106. 55 La pesca di questo prezioso polipo era antichissima e già da tempo nell’isola si lavorava e si confezionavano monili. Il mare di Alghero era ritenuto uno dei più ricchi di corallo, alcuni tipi del quale erano molto preziosi e ricercati, così la città, dalla sua pesca, ha sempre ricavato importanti utili. Per dare un’idea della sua preziosità: il prezzo variava da lire 3 e 5 soldi a lire 3 e 12 soldi la libra, mentre un “cantaro” (formaggio da 104 libbre) di cacio, allora alimento base della nutrizione, valeva 7 lire e 15 soldi, quindi 1/20 del prezzo del corallo. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 117-118; PIERGIOVANNI V., Aspetti giuridici della pesca del corallo in un trattato seicentesco, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 409-417. 48


come stranieri trasportantisi in Sardegna, non potesse fare scalo e carico in nessuno dei luoghi compresi fra Capo Marrargiu e Castelgenovese, se non in Alghero. -1386: esenta (settembre) gli abitanti di Alghero per altri 10 anni dal pagamento del mezzo fiorino per ogni 100 lire di stima delle haereditates e possessioni. -1427: il re Alfonso V56 richiama (ottobre) all’osservanza della disposizione che riservava gli Uffici pubblici in Alghero ai catalani e agli aragonesi: questa disposizione non è rispettata soprattutto nella nomina del veguer e perciò si dichiara decaduto il veguer G. M. perché castigliano57. -1444: si concede ai sardi la facoltà di naturalizzazione. -1451: si vieta (dicembre) ai non algheresi di pescare corallo nei mari di Barbagia e si dà da potere agli algheresi di armare un’imbarcazione contro i trasgressori. -1455: si stabilisce che solo i catalani, gli aragonesi, i valenciani, i maiorchini e i naturali di Cagliari possono assumere incarichi d’Ufficio reale in Sardegna (fra i catalani sono compresi gli algheresi). -1459: non si consente (maggio) l’uscita del grano dal Capo di Logudoro se prima non si sia approvvigionata Alghero. -1460: il reale procuratore, o luogotenente, o il reggente deve essere (luglio) aragonese, o valenciano, o maiorchino, o catalano, o nativo di Cagliari, o di Alghero.

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Nel corso del suo regno (1416-1458), Alghero ottenne una ulteriore e cospicua concessione di franchigie e privilegi (ben 86) necessari per inserire la colonia catalana nel nuovo contesto di una Sardegna ormai tutto sommato pacificata. MATTONE A., I privilegi e le istituzioni municipali di Alghero (XIV-XVI secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., p. 285. 57 Nel 1420 il nuovo re Alfonso V approda ad Alghero e riceve l’atto di sottomissione; quattro anni dopo vengono inviati nuovi coloni per riparare i danni provocato dalla pestilenza del 1410; nel 1459 il re Giovanni II allontana da Alghero i genovesi, i sardi e i corsi che ancora vi abitavano; lo stesso Ferdinando d’Aragona nel 1480 emana un provvedimento in cui si vietava il pernottamento di tutti gli stranieri, sardi compresi. La fiorente attività economica della città, alimentava però un movimento di immigrazione che attirava le popolazioni straniere, ad onta delle disposizioni regie. SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 102-103, 133. 49


-1478: divieto (luglio) per gli stranieri, anche se sardi o corsi, di abitare ad Alghero che è costituita solo di popolazione catalana, aragonese e valenciana. -1493: si stabiliscono (ottobre) norme restrittive per i sardi che vanno ad abitare in Alghero. -1499: si ordina (ottobre) tassativamente che la pesca del corallo nei mari di Alghero sia riservata agli abitanti di Alghero e quelli che ivi tengono un’agenzia commerciale. Il re di Aragona. Vi rendiamo noto che Noi, per istanza del messaggero che ci avete inviato, vi abbiamo stabilito l’emblema, che vogliamo definitivamente che sia del detto luogo: cioè insegna reale (le quattro barre rosse d’Aragona) dalla metà in su, e dalla metà in giù onde del mare con un ramo di corallo che si erge in mezzo alle onde verso su; la quale vi trasmettiamo dipinta sopra un pezzo di pergamena dentro la presente. Dato nel Castello di Cagliari, il 24 di giugno, nell’anno della Natività di nostro Signore 1355. Matteo, protonotario. Il Signor Re diede incarico a Matteo Adriano. Ai fedeli nostri giurati e probiviri del luogo di Alghero58.

Come possiamo direttamente apprezzare nell’immagine sopra riportata, il re Pietro IV volle inoltre regalare ai nuovi abitanti catalani di Alghero un’ulteriore concessione: personali disposizioni per modificare il disegno dell’emblema civico. È quindi nella misura di questo provvedimento reale che si realizzò e completò la filiazione della città turrita con la Corona. Infatti era espressamente indicato che nella parte superiore sarebbe dovuta essere rappresentata l’insegna regia aragonese con i quattro pilastri rossi in campo giallo, mentre dalla metà e per tutta la parte inferiore sarebbe stato effigiato l’emblema di una città invasa ma prospera, dipendente ma privilegiata: un ramo di corallo che si solleva fra le onde del mare (1355).

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SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., p. 40. 50


Si tratta di una concessione straordinaria che riunisce, nella sua espressione significativa e nell’emblema ufficiale, il ricordo della patria lontana e il motivo indicativo della terra conquistata59.

Scudo di Alghero del XIV secolo60, Stemma aragonese (1613)61, Stemma moderno (1763) con sigilli reali62

Tutto ciò non significa che mancarono momenti e ragioni di ribellione. Io non credo si sia trattato di bontà d’animo o pietas; notiamo che in molti di questi privilegi si evidenzia l’esclusività di tali prerogative a favore dei soli algheresi, ovvero catalani. È la Natura che, a braccetto con la coscienza, fa si che un padre, allontanata la prole e trasferitala in altri e lontani luoghi, tenda a munirla di tutti i cibi più squisiti e dei maggiori agi per evitare che essa senta la mancanza della salotto natio. Inoltre era politicamente necessario assicurare, tramite questi “figlioli”, una sicura fedeltà alla corona aragonese da parte della più importante base militare del nord Sardegna. Da qui le agevolazioni, i privilegi, le franchigie, gli onori e gli sgravi fiscali. Un piano politico ben studiato per garantire la coagulazione tra la piccola percentuale di veri algheresi rimasti e i coloni catalani, ottenendo come

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Ivi, p. 41. Scudo oggi non conservato, la cui riproduzione è stata possibile in virtù della dettagliata descrizione pervenutaci nella lettera del re di Aragona sopracitata e riportata. Ivi, p. 39. 61 A. S. C. A., Liber Magnus, 1613, c 11. 62 A. S. C. A., Concessione con diploma del Re Carlo Emanuele, Torino 15 gennaio 1767. 51 60


risultante una città etnicamente pura e perciò fedelissima. Ma a quale prezzo?

Gonfalone della città di Alghero conservato nella sala del Consiglio Comunale.

Non tutto andò sempre a favore di questa strategia: non era facile sopportare un’esistenza vissuta a continuo contatto con il nemico (e le sue armi), in locali sempre più insufficienti di spazio e igiene (politica dei “guidatici”); ciò fu vero per gli anni 1371, 1373, 1376, 1384-86, 1390, 139294, anni in cui la popolazione di Alghero si solleva63. Ciò detto, però, questa predilezione per Alghero (a prescindere dall’etnia dei propri abitanti, catalani o autoctoni che fossero), favorì comunque lo sviluppo e l’ascesa della città che divenne non solo roccaforte ma soprattutto un fiorente centro catalano sotto tutti gli aspetti. «Le forme e le tecniche esplicantisi ad Alghero, non a torto chiamata con felice metafora Barcellonetta, sono nient’altro che le forme e le tecniche di Catalogna o, se si vuole, della madrepatria. E non potrebbe essere diversamente, se consideriamo la sua storia, a iniziare dal provvedimento di sfratto di Pietro IV che trasformava la fortezza sardo-genovese in una preziosa “enlcave” catalana»64. 63

BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., p. 61. SARI A., Cultura figurativa gotico-catalana in Alghero, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., p. 234. 52 64


A contribuire allo sviluppo algherese fu anche il nucleo di Ebrei che arrivò nella città subito dopo l’occupazione della stessa (1354-56) e si unì alle famiglie già presenti nell’area65. «Le micidiali lunghe guerre, e frequenti pestilenze, avendo menomata e ridotta a pochi la popolazione di Alghero, il governo provvide di nuovi abitatori alle diserte case, e nel 1424 vi mandava altri coloni dedotti dalla penisola»66.

Fra questi «coloni dedotti dalla penisola»67, la maggior parte era di stirpe ebraica; infatti “i figli di Jahvè”, allontanati dalla penisola iberica, furono mandati nella cittadina sul mare. Ma questo non fu un fatto per niente disagevole. Già pochi anni dopo la comunità ebraica di Alghero era solidamente affermata e ricca di una larga rete di affari commerciali, di importanti cariche governative, di studio e passione per le arti liberali, scientifiche, mediche, chirurgiche. L’intransigenza religiosa, la gelosia per le grandi ricchezze da loro accumulate furono la causa della loro espulsione da tutti i regni di Spagna, di Sardegna e da Alghero. Fu questo un errore gravissimo dal momento che sarà proprio a partire da questo periodo, dall’ordinanza del 1492, che inizierà il regresso e la decadenza economica della Spagna, della Sardegna e di Alghero68. L’importanza degli Ebrei ad Alghero rimane ancora oggi visibile nella Torre di Porta Terra che essi stessi sistemarono a loro spese e che è appunto conosciuta proprio come torre degli Ebrei69.

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Il nucleo di Ebrei ad Alghero esisteva già da tempo; era stata infatti costruita una sinagoga sin dal 1381. BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., p. 65; TASCA C., Ebrei e società in Sardegna nel XV secolo, Firenze 2008, pp. 41-45; TASCA C., Gli Ebrei in Sardegna nel XIV secolo, Cagliari 1992, pp. 98-114, 129-134, 717-718; OLLA REPETTO G., La presenza ebraica in Alghero nel secolo XV attraverso una ricerca archivistica, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 152-158. 66 ANGIUS V., Storia di Logudoro, cit., p. 609. 67 Ibidem. 68 A un anno dalla cacciata degli Ebrei, Ferdinando il Cattolico emanava da Barcellona l’ennesimo guidatico peri nuovi pobladors di Alghero. Si tentava quindi, col solito sistema, di colmare il vuoto lasciato nella villa dalla componente giudaica. Era assai difficile in quegli anni trovare famiglie disposte a trasferirsi in Sardegna dai regni iberici; diventò perciò inevitabile aprire finalmente le porte ai sardi e tentare la rivitalizzazione di Alghero. Così il 27 agosto del 1495, dopo 141 anni, aveva termine il regime di apartheid che era stato imposto ai sardi dai catalani di Alghero e dai loro sovrani di Aragona. BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal 1478 al 1720, cit., pp. 22-23. 69 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., pp. 110-116; TODA I GUELL E., L’Alguer: un popolo catalano d’Italia, cit., pp. 153- 161. 53


Una vecchia foto degli inizi del XX secolo con la torre degli Ebrei70.

Così, il periodo aureo di predilezione protezionistica cessò quando ai re catalano-aragonesi subentrarono nel governo dell’isola i castigliani (14781708). Questi portarono con sé uno spirito diverso e il loro programma non era certo improntato sulla liberalità: il governo di Castiglia considerò la Sardegna terra di conquista da cui il governo centrale doveva trarre utilità sotto ogni riguardo71. Sembra che il clima assolutistico permeasse l’isola e la città, gli antichi privilegi fossero diventati ricordi tanto cari quanto lontani, le tasse e le forme di imposizione aumentassero esponenzialmente. È bene ricordare però che, nei primi anni del regno, Ferdinando e Isabella avviarono la ridefinizione dei compiti dell’istituto parlamentare secondo la formula pattistica del do ut des tra Parlamento e sovrano72: il primo si obbligava a pagare un donativo, il secondo a risolvere situazioni di disagio e concedere grazie ai vari ceti sociali cui gli stamenti erano espressione

70

MANUNTA F., Cançons i liriques religioses de l’Alguer catalana, Alghero 1991, Vol III, p. 146. La decadenza a livello commerciale era eclatante. CORRIDORE F., Storia documentata della marina sarda, cit., pp. 21-40; SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., pp. 24-28. 72 BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal 1478 al 1720, cit., pp. 18-20. 54 71


(nobili, clero, città reali)73. La presenza di Alghero nel Parlamento del 1481 fu significativa: il rappresentante cittadino chiese la conferma di tutti i privilegi concessi dai sovrani aragonesi, oltre che 10000 scudi per la riparazione delle mura; venne concessa quindi dal re una parte di quella somma a disposizione della municipalità e la riapertura di alcune rotte commerciali chiuse, tra cui quelle liguri74. In linea di massima però, l’economia della città dopo il XV secolo andò peggiorando e la miseria dilagava in ogni settore, pubblico e privato75. Le guerre e le spedizioni non si fecero attendere: nel 1527 la città viene minacciata da un’invasione francese e 50 anni dopo dall’assalto dei Turchi76. La storia che coinvolgeva le grandi monarchie nazionali e che contrapponeva Francesco I di Francia e Carlo V imperatore, sfiorò l’isola mediterranea. Dopo un fallito tentativo di occupare la rocca di Castellaragonese, i milites francesi (alleati con i genovesi) sembrava volessero deflorare l’altra roccaforte, Alghero. In realtà si trattava solo di una tattica per spostare le truppe nemiche sulla costa e poter conquistare Sassari il penultimo dell’anno. Carlo V cerca quindi di incoraggiare “Alghero la fedelissima” a resistere: la presenza dell’esercito francese nel sassarese portava a saccheggi e distruzioni anche nelle aree limitrofe; tali distruzioni lasciarono anche uno strascico epidemico che attaccò Alghero. Ma questo non era il solo pericolo che preoccupava l’imperatore: il mondo musulmano aveva da sempre simboleggiato una minaccia incombente; le razzie barbaresche erano più puntuali di un orologio svizzero. La notte tra il 5 e il 6 ottobre del 1541, tutta la città di Alghero si mobilitò per assicurare la più degna accoglienza all’imperatore. Carlo V, di fronte a 73 MATTONE A., I privilegi e le istituzioni municipali di Alghero (XIV-XVI secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 304-310. 74 ANGIUS V., Storia di Logudoro, cit., pp. 624-625. 75 Per essere più specifici, sarà con il regno di Carlo V che si andrà incontro al crepuscolo del diritto privilegiato. L’autorità della monarchia di Spagna di fronte ai sudditi era, soprattutto ai tempi di Filippo II o Filippo IV, così forte da rendere inutile il tipico ricorso medievale ai privilegi, alle franchigie, alle immunità come instrumentum regni. MATTONE A., I privilegi e le istituzioni municipali di Alghero (XIV-XVI secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., p. 285 76 SCANU P., Sardegna, cit., p. 52; BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal 1478 al 1720, cit., pp. 28-34. 55


tanta bellezza pronunciò la famosa frase «bonita, por mi fè, y bien assentada»77.

Parte finale della relazione di Carlo V, Alghero 8 ottobre 154178.

A questo stato di prostrazione morale si aggiunse anche quello fisico con i numerosi e terribili casi di peste, carestie, siccità, febbri epidemiche79 che spopolarono la fiorente cittadina80. Le date che rimasero più tristemente famose sono: 1362, 1375, 1398, 1410, 1424, 1440, 1477, 1504, 1514, 1529, 1583, 1632, 1681, 181781.

77

SCANU P., Sardegna, cit., p. 52; BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal 1478 al 1720, cit., pp. 28-34. cc.CCXXXXII-CCXXXXV, doc. n. 194, in TAVERA B., PIRAS G., Libre Gran. I libri dei privilegi della città di Alghero, cit., pp. 490-497. «Il documento n. 194 è la cronaca, redatta dal notaio e conseller quart della città Joan Galeaço, della visita ad Alghero dell’imperatore Carlo V nelle giornate del 7 e 8 ottobre 1541. L’importante documento è stato asportato dal cartulario in epoca recente. L’integrazione della trascrizione è stata possibile grazie aduna copia fotostatica dell’originale depositata qualche anno fa nell’Archivio Storico del Comune di Alghero. Il resoconto dell’avvenimento consta di sette carte molto fitte, ed è scritto con grafia regolare e chiara e con poche abbreviazioni… ». TAVERA B., PIRAS G., Libre Gran. I libri dei privilegi della città di Alghero, cit., pp. 14-15. 79 CORRIDORE F., Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Bologna 1990, p. 84. 80 Ivi, pp. 14-15. 81 SCANU P., Alghero e la Catalogna, cit., pp. 45-46. 56 78


Ma perché Alghero fu così tante volte “soffocata” e da tanto violenti epidemie di peste?

Miniatura medievale in cui viene raffigurata la morte che soffoca una vittima della peste82

La chiave chiarificatrice risulterebbe proprio nella storia autentica della città, essendo essa stessa punto strategico dei movimenti commerciali e militari di forze contrastanti per il dominio del Mediterraneo. L’annessione dell’antico rifugio di poveri pescatori alla maestosa Corona iberica fece sì che il legame tra queste due terre fosse talmente stretto e continuo da coagularle in un rapporto simbiotico senza precedenti. Il grande ponte che si venne a creare tra le due economie marittime portò i numerosi vascelli spagnoli a poter donare l’ancora al porto di Alghero senza rispettare le quarantene e l’obbligo di esibire la carta medica di ingresso83. Queste e molte altre facilitazioni favorivano da una parte il costante aumento dell’attività commerciale ed economica del porto e della città, dall’altra la esponevano facilmente a continui contatti con le malattie. Certe precauzioni erano necessarie per la conservazione della salute pubblica, infatti ogni 82 Codice Stiny, Biblioteca Universitaria, Praga. La morte nera colpisce l’Europa, a cura di VIRGILI A., in Storica National Geographic, n. 47, Gennaio 2013, p. 70. 83 DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, Cagliari 1999, pp. 128-135; DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, Cagliari 2001, pp. 127-129. 57


mancata premura provocava infezioni che degeneravano in epidemie, disgrazie e miserie: più di tutte ne soffriva la popolazione algherese, assai esposta per la particolare posizione geografica e per l’assenza di sorgenti entro le mura, facile preda dei flagelli. La Storia è in sé un titanica linea sinusoidale che, con moto perpetuo, costruisce disegni ingoiando e divorando avidamente i piccoli segni soprastanti e sottostanti l’asse delle ordinate. E avanza inesorabilmente. Tra le varie disavventure cinquecentine della storia della “bella Alghero”, abbiamo visto che, qualcosa di positivo, o perlomeno di patteggiabile ci fu. Un altro momento di gran lunga lontano dalle miserie sopracitate, sarà il conferimento dello statuto di ciutat d’Alghero. Il primo censimento del quale risulta un riferimento della popolazione algherese è del 148584: Alghero risultava avere 411 fuochi (ossia famiglie), e quindi circa 2000 abitanti85. Nel corso del Cinquecento poi, la città riesce a crescere tanto da raddoppiare la propria popolazione86. A questa crescita demografica corrisponde una riorganizzazione del ruolo militare e urbanistico dell’insediamento; l’adeguamento delle mura cittadine alle nuove tecniche di guerra e forse ad un più rilevante ruolo della piazzaforte.

Veduta dal mare della piazzaforte di Alghero, opera del pilota J. Petré87. 84

Il secondo censimento, a quanto ci risulta, fu indetto soltanto nel 1589 (768 fuochi, 3400-3800 abitanti); seguirono, con più intensa frequenza, quelli del 1627, 1655, 1678, 1688, 1698. SERRI G., La popolazione di Alghero nell’età spagnola (XV-XVII secolo), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., pp. 361-363; TILOCCA SEGRETI A., I contratti di encartament ad Alghero tra cinque e seicento, Alghero 1990, pp. 167-178. 85 BUDRUNI T., Breve storia di Alghero dal 1478 al 1720, cit., p. 27. 86 CORRIDORE F., Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), cit., p. 86. 87 MATTONE A., SANNA P., Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo, cit., fig. 17. 58


Questa grande importanza data al perimetro, fa si che nelle varie rappresentazioni del periodo, lo spazio urbano sia ridotto a semplice contorno puntando l’attenzione quindi sulla cortina difensiva, sugli accessi e sui collegamenti vari con il territorio esterno88. L’interno urbano appare invece muto e opaco. È quello che compare nelle immagini più note di Alghero: i disegni delle fortificazioni del Cappellino del 1577, la pianta delle fortificazioni di Giorgio Palearo nel 1578 ne sono l’esempio89. Queste due date posso però essere anticipate da altrettante descrizioni riguardanti l’isola e, per il nostro studio, molto pertinenti; si citano quindi di seguito le relazioni del Camos (1572) e di Piri Reis (1520). La prima Relaçion90 di rilevante e notevole interesse sotto il profilo geografico, in quanto compilata attraverso misurazioni derivanti da rilievi e osservazioni dirette calcolate in miglia, da levante verso ponente, venne stilata dal luogotenente e Capitano d’Iglesias, Marc Antoni Camòs. Così descrive, tra il gennaio e l’aprile del 1572, le varie parti del sistema difensivo litoraneo della città di Alghero: la vedetta della Poglina, il buon ormeggio di Capo Galera, l’osservatorio di Torre del Giglio, l’attracco sicuro di Porto Conte, Cala Genovese e Cala dei Morti che anticipano Capo Caccia, lo scoglio della Foradada, l’imponente Torre Maestra, l’alta montagna de I Lioni, il riparo di Porticciolo, la sorgente del Cantaro, l’oggi scomparsa Torre del Gainge, quella di Monte Girat, e infine la Torre Antica con l’Argentiera91.

88

OLIVA G., PABA G., La struttura urbana di Alghero nel XVI e XVII secolo, in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo a cura di Mattone A., Sanna P., cit., p. 347. 89 Ivi, pp. 347-349. 90 CAMÓS M. A., Relaçion de todas las costas maritimas del Reyno de Cerdeña, y de los lugares a donde se deven hazer las torres y atalayas necessarias para el descubrimiento y fortificación del, denotando los números que sean fuera el lugar de la descripción hecha por el pintor seguiendo en todo las instrucciones y orden del muy ill.stre señor Don Juan Coloma Lugartiniente y Capitán General por su magestad en el dicho Reyno per cuya comission y mandado lo tenga a cargo yo Don Marco Antonio Camós Capitán De Iglesias comencando Jueves último de enero ano de milquinientos setanta y dos. (Estado 32772,739). 91 SECHI NUVOLE M., Torres i costera del Territori de l’Alguer segons la “Relacion” de Marc Antoni Camòs, in L’Alguer, XI, 60, Alghero 1998, pp. 9-12. 59


Torri costiere dell’area di Alghero92.

Cinque anni più tardi, l’architetto cremonese Rocco Capellino vuole rinnovare la cartografia tradizionale tramite riempiendo le molte lacune allora presenti; così completerà queste mancanze con le carte della zona costiera e della fortezza de Lalger cità93.

Le carte della Sardegna di Rocco Capellino (1577). Particolare sulla fascia costiera algherese94.

92

MONTALDO G., Le torri costiere della Sardegna, Sassari 1996, tav. 49, fig. 242. ALBERTI O., Le carte della Sardegna di Rocco Capellino, in Rilievi geografici, pp. 3-4. 94 Biblioteca Apostolica Vaticana, Codice Barberini Latino 4414, 5v-6r. 93

60


Le carte della Sardegna di Rocco Capellino (1577)95, con particolare sul golfo di Alghero96.

Primo progetto e progetto definitivo delle fortificazioni di Alghero di Rocco Capellino (1570-72)97.

Ritornando quindi al primo ventennio del Cinquecento, così Piri Reis dipinge le coste di Alger: «A trenta miglia verso S dalla Punta del Falcone c’è una spiaggia (l’odierna Capo Caccia); lì ci sono due rocce a cui le barche si legano con le cime dalla parte del mare e ivi si ancorano. Da qui all’odierna Punta del Giglio verso E ci sono 5 miglia e da qui verso l’interno c’è un luogo con un porto (l’odierno Porto Conte); è un ottimo porto, riparato vero N e NE. Dal luogo suddetto al borgo di Alger, verso S una quarta E, ci sono 11 miglia. Alghero è un borgo situato entro un golfo alla cui bocca c’è una piccola isoletta (la Maddalena), S. Pietro, che prende il nome dalla chiesetta che vi è sopra costruita. L’ancoraggio è dalla parte N. Presso il detto borgo ci sono barche che pescano continuamente corallo»98.

95

Ivi, 9v-10r. Ivi, 13v-14r. 97 Biblioteca Apostolica Vaticana, Codice Barberini Latino 4414. 98 BAUSANI A., La Sardegna nel portolano d’un corsaro turco, in Geografia, III, 2, 1980, pp. 74-75. 96

61


Carta della Sardegna di Piri Reis (1520), con particolare sul golfo di Alghero99.

Concludendo questo excursus a ritroso, a livello geo-cartografico non può non essere citato il rappresentate del «primo tentativo di una distesa narrazione storico-geografica della Sardegna, e che fa dell’autore un precursore del Fara»100: Sigismondo Arquer. È intorno al 1550 che ci lascia questa breve descrizione di Alghero: «Algher civitas est nova, parva, populosa tamen et munitissima, domibus et aedificiis pulchris ornata, cuius incolae fere omnes Taraconenses sunt»101.

Sardinia Insula di Sigismondo Arquer (1550), con particolare sul golfo di Alghero102. 99

Bodleian Library, Oxford, ms D’Orville 543, folio 67 r. CONCAS E., Introduzione a S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, in La Regione 1992, p. 4. 101 «Alghero è una città moderna, piccola, tuttavia popolosa e fortificatissima, ricca di belle case ed edifici; i suoi abitanti sono quasi tutti Tarragonesi, etc». ARQUER S., Sardiniae brevis historia et descriptio, IV in La Regione 1992. 62 100


Nel corso del XVI secolo, questa nova et parva civitas,

doveva essere

cresciuta abbastanza da indurre Ferdinando e Isabella a conferire alla villa fortificata del Logudoro, il titolo di città103. Tale qualifica era forse dovuta al fatto che ormai Alghero era divenuta, tra alterne vicende, il più importante porto della Sardegna del nord, un fiorente centro commerciale ed era sede di una buona parte della nobiltà catalana, abbracciata dalla grande piazzaforte militare che proteggeva il settentrione dell’isola: «bonita y bien assentada», come la definì Carlo V104. Concludo questo breve capitolo senza aggiunte o commenti. Solo poesia. Visio d’Alguer Sés bella quan te veig a la marina finestrara com noia enamorara; del sol besara és sempre la tua cara honorara de més que una reína. D’Espanya el gran monarca t’ha lloat: «Bonita por mi fé: bien asentada». Catalana és la nostra llengua amada, català és l’esperit encara honrat. Forta i segura, bella, enguiriara de muralles i bastions i torres grans: del mar duenya sempre sés estara. Més bella sés però quan festa i cants ralegren la tua neta passejara, ditxós jardí de tots los amants105. L’Alguer, 1956. 102

Incisione in legno, Roma, Biblioteca Casanatenze, BB - IV – 24. anni dopo la Chiesa, in sintonia con il potere temporale, riconosceva ad Alghero una inedita curia vescovile e papa Giulio II istituiva la diocesi di “Alghero e Chiese Unite”. DERRIU A., Atti notarili del XV secolo dell’Archivio Capitolare di Alghero, Alghero 2009, pp. 9-12. 104 SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, cit., p. 134. 105 Visione di Alghero/ Sei bella quando ti guardo al mare/affacciata come una ragazza innamorata;/baciato dal sole è sempre il tuo viso/onorato più di una regina./ Il grande monarca ti ha lodato:/«Bonita por mi fé: bien asentada»./Catalana è la nostra lingua amata,/catalano è lo spirito ancora onorato./ Forte e sicura, bella, inghirlandata/di mura, bastioni e grandi torri:/del mare sei sempre stata la padrona./ Sei più bella, però, quando festa e canti/rallegrano la tua linda passeggiata,/delizioso giardino di tutti gli amanti. SCANU P., Poesia de L’Alguer, Tarragona 1970, p. 89. 63 103Due


CAPITOLO III

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LA PESTE DEL 1582-1583 AD ALGHERO NELL’OPERA DI QUINTO TIBERIO ANGELERIO

3.1 L’evento e il personaggio storico

L’Alguer al sècul XVI1.

Il 1582 sembrava dover seguire la stessa sorte di quelli che nel passato lo avevano preceduto, sotto il segno del benessere e di una crescente prosperità. La costruzione dell’imponente cattedrale mobilitava buona parte delle risorse umane e materiali, ma la città nutriva grandi aspirazioni2 e il

1 LO FRASSO A., Los diez libros de Fortuna d’amor, in ROCA MUSSONS M. A., Antonio Lo Frasso militar de l’Alguer, Cagliari 1992, p. 129 v. 2 «Quando la sede vescovile di Ottana fu trasferita ad Alghero, sorse subito il problema della cattedrale, dato che la città non disponeva di chiese né molto grandi né belle. Quando i vescovi cominciarono a risiedere ad Alghero questo problema si fece più vivo e andò man mano concretizzandosi l’idea di demolire la vecchia chiesa di Santa Maria adibita a cattedrale. Fu Mons. Perez del Frago che, d’accordo con le autorità civili, diede il via ai lavori di demolizione, mentre il capitolo di trasferiva nella chiesa di San Michele che diventava cattedrale pro tempore. Questi lavori intrapresi con molto entusiasmo, si fermarono ben presto dato che alla città, che aveva preso su di sé gran parte degli oneri finanziari, vennero a mancare i fondi… Ci si rese conto che la buona volontà non bastava e che Alghero non aveva i mezzi sufficienti per portare a termine il primitivo progetto troppo grandioso… Si ripiegò quindi su una costruzione più modesta, che prevedeva una grande aula, di forme tardorinascimentali, divisa in tre navate da pilastri e colonne doriche, e fiancheggiata da cappelle laterali» NUGHES A., La riforma tridentina nella diocesi di Alghero sotto l’episcopato di Don Andrea Baccallar 1578-1604, Alghero 1970, pp. 25-26; NUGHES A., Alghero. Chiesa e 65


suo tempio più importante non doveva essere meno imponente di quelli di Segovia e Salamanca ai quali il progetto si ispirava3; i traffici mercantili, dal loro canto, continuavano a mantenersi intensi e ad incrementare le casse dell’erario; la municipalità poteva permettersi il lusso di assumere, con un contratto biennale per 100 scudi l’anno, un celebre medico italiano, Quinto Tiberio Angelerio4. Molto discusse le sue origini. Il Surreda nel Diario citato dal Bologna lo vuole nativo di Alghero da padre siciliano che attendeva alla mercatura5. Il Tola non osò affermare che Alghero fosse la sua patria, anzi dubitò perfino che fosse sardo6. Siotto Pintor, nel primo volume della sua Storia letteraria di Sardegna, sostiene che, essendo il casato di questo illustre medico Anghelerio e non Angelerio, di Spagna non fu di certo perché quel vocabolo non ha origini spagnole; perciò può a buon diritto circoscrivere la sua nascita in Sardegna e la sua casata di natura sardesca7. Lo stesso autore, però, chiarì meglio la sua posizione nel terzo libro della medesima opera, affermando che le caratteristiche degli scritti dell’Angelerio possono dare l’impressione della nascita dell’autore in Napoli, o della lunga dimora o degli studi medici fatti nella suddetta città, però in definitiva non si tratta di prove certe8. Eduardo Toda Y Güell nella sua Bibliografia riporta due certificati inediti, rilasciati all’Angelerio dietro sua richiesta dai consiglieri della città di Alghero e di Sassari, certificati in cui è detto che questo medico fu «fisich y doctor en medeçina de la terra de bell fort del Regne de Napols»9. Ma

società nel XVI secolo, Alghero 1990, pp. 80-87; BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, Alghero 2010, p. 61. 3 MALTESE C., Arte in Sardegna dal V al XVIII, Roma 1962, p. 193. 4 BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., p. 61. 5 Paolo Bologna, storico sardo che nel 1748 scrisse un manoscritto dal titolo Breve sunto delle principali vicende storiche di Sardegna. ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, Roma 1955, p. 133 6 TOLA E., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, Torino 1837, Vol. I, p. 76. 7 SIOTTO PINTOR G., Storia letteraria di Sardegna, Cagliari 1843, Vol. I, p. 279. 8 Ivi, Vol. III, p. 358. 9 TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, Madrid 1890, pp. 167-168. 66


anche tale affermazione può sempre intendersi nel senso voluto dal Siotto Pintor. Come lo stesso doctor ci dice, prima di trasferirsi ad Alghero, l’Angelerio fu a Messina dove, dal 1576 al 1577, aveva affrontato la grande, virulenta e terribile epidemia di peste descritta da un altro egregio medico, Gian Filippo Ingrassia10. Non ci sono prove documentarie per stabilire un rapporto scientifico diretto tra Angelerio e il sopracitato medico siciliano; ma è plausibile che, durante l’epidemia, il napoletano abbia avuto di necessità contatti con Ingrassia, che fu protomedico di Sicilia a Palermo. Analoghe le valutazioni sull’eziologia della peste e analoghe le attenzioni scrupolose sui provvedimenti d’igiene e profilassi11. Come Ingrassia, Angelerio resta fedele al paradigma aerista di Galeno, anche se contemperato con le tesi di Fracastoro12 dei seminaria come agenti del contagio, conciliando, senza porsi troppo dubbi, il paradigma galenico e le nuove intuizioni fracastoriane13.

Girolamo Fracastoro14 e Gian Filippo Ingrassia15. 10

INGRASSIA G.F., Informatione del pestifero, et contagioso morbo: il quale affligge et have afflitto questa Citta di Palermo, & molte altre Città, e Terre di questo Regno di Sicilia, nell’anno 1575 et 1576, Palermo 1576, cap. XVI; SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, Barcellona 1978, p. 85. 11 VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, Udine 1988, p. 216. 12 Medico veronese esperto de contagione et contagiosis morbis, pubblica il suo libro, recante questo titolo, nel 1546; si tratta di un testo scientifico con cui l’autore costruisce un nuovo paradigma esplicativo dei modi di trasmissione e propagazione della peste. Non il vapore esalato dalla putredine, non l’aere corrotto, ma un veleno, un virus, è il presunto agente dei morbi pestilenziali; di questo rimane nel corpo una parte, un seme contagioso. Il contagio avviene quindi per “simpatia” tra questi seminaria (debito evidentemente lucreziano) e gli umori a essi più affini. Nel contagio l’uomo è anche mittente: dalla superficie del suo corpo si distaccano i seminaria come impalpabili detriti che si scrostano dai muri delle case battute dal vento e dalla pioggia o surriscaldate dal sole. Gli astri, che governano gli agenti atmosferici, governano anche i corpi umani. Astrologia, meteorologia, epidemiologia, patologia sono un tutt’uno. COSMACINI G., La peste, passato e presente, Milano 2008, pp. 65-67; BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti, Milano 1951, pp. 1401-1403; GUERRICCHIO G., Storie di epidemia, epidemie nella storia, Matera 1998, p. 17. 13 MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, Roma 2004, pp. 29-31. 14 BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti, cit., p. 1403. 67


Angelerio peraltro, come si vedrà in seguito, così come continua ad appoggiare le teorie ariste, non abbandona neppure la convinzione astrale della malattia, influenzato com’è da Ingrassia, che aveva definito la peste siciliana di «influsso et alteratione del cielo»16, e dai compendi di Galeno. Ma, per quanto galenista convinto, Angelerio (come anche Ingrassia) pone, a fondamento dei suoi provvedimenti a difesa della peste, il principio che il male, favorito dalla corruzione dell’aria, si diffonda attraverso le persone e le merci17. Fracastoro dunque, sebbene non del tutto compreso, è un punto di riferimento per i nostri medici e il momento d’avvio di una svolta abbastanza netta nell’intervento pubblico della peste18. Al servizio medico della città di Alghero, l’Angelerio «es estat conduhit al principi del any 1581 (hasta 1584) a seruit de mege eri esta çiutat ab salari de çent scuts cacscun any»19, la concessione di non sindacare le parcelle spedite per le cure private, indennità di cavalcatura ed altri privilegi. Per espresso ordine del Viceré D. Michele de Moncada20, Angelerio ebbe la direzione sanitaria della città di Alghero; probabilmente tenne al suo fianco un collega, sebbene di costui parli con forte disprezzo come di colui che, professando medicina, con la sua chiacchiera aveva allontanato ogni aiuto e aveva poi volto l’animo dei cittadini all’odio e alla perdita di sé stessi; lo definisce infatti “pseudocollega” senza nominarlo21. Nel 1582, il giorno di Santa Caterina, scoppiava ad Alghero la peste22. Gli storici non sono concordi sull’origine del morbo. Alcuni fra questi han sostenuto che, navi provenienti da Barcellona, ove si erano verificati casi 15

ORTOLANI G. E., Biografia degli uomini illustri di Sicilia, ornata dei loro rispettivi ritratti, Napoli 1819, Vol. II. INGRASSIA G.F., Informatione del pestifero, et contagioso morbo: il quale affligge et have afflitto questa Citta di Palermo, & molte altre Città, e Terre di questo Regno di Sicilia, nell’anno 1575 et 1576, cit., p. 30 17 MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, pp. 115-116. 18 VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, cit., p. 216; SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 87. 19 TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, cit., p. 167 20 «(1578-86) Ebbe quindi per due volte il comando generale del regno don Michele de Moncada, e gli toccò il dispiacere di veder serpeggiare nella città di Alghero una orribile pestilenza…». MANNO G., Storia di Sardegna, Bologna 1973, p. 327. 21 ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 141. 22 «…lo die de santa cathelina del any 1582…». TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, cit., p. 167 68 16


del terribile morbo, sostando nel porto di Alghero, sbarcarono un marinaio che, alla visita medica, presentava il marchio infetto23. Così sarebbe dunque stato importato il terribile morbo. Altre fonti, forse più dirette e genuine, sulla peste di Alghero del 1582, sono interamente mute a riguardo. La piaga avrebbe avuto un’origine indipendente scaturita da esalazioni di vapori sprigionatisi dalla putrefazione di lane sordide abbandonate da tempo in magazzini deserti; questi vapori maligni invasero, il 19 novembre, la casa attigua della vedova Cifra e la fecero ammalare mortalmente. Il contagio si diffuse quindi fra i familiari ed i vicini, e poi, rapidamente, in tutta la città24. Come delineato approfonditamente nel previo capitolo, alla città di Alghero i re d’Aragona accordarono, assieme ad altri privilegi materiali anche in materia di gabelle, gli stessi diritti degli abitanti di Barcellona. Si ritiene quindi che, in forza di tali benefici, nel porto di Alghero le imbarcazioni potessero ancorare liberamente senza pagare le tasse, senza subire controlli e senza esibire la patente di sanità dei porti di origine, con grave rischio per l’importazione di malattie endemiche. Detto questo, aggiungiamo che Angelerio annota come primo caso osservato in Alghero, un marinaio sbarcato da una nave durante la notte25, mentre come primo verificatosi tra la popolazione civile, quello della vedova Cifra26. 23

SECHI COPELLO B., Storia di Alghero e del suo territorio, Alghero 1984, p. 180. VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, cit., p. 217. 25 «Era un mariner…El pestifer era en deliri i tenia ja un bubó inguinari». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 88.; DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, Cagliari 2001, p. 128. 26 A tal proposito lo Scanu riporta una pagina dello studioso Giuseppe Pezzi, il quale, in uno scritto accurato sopra l’infezione di Alghero del 1583, ha dato una panoramica chiara delle cause oggettive che favorirono l’epidemia nella città con molte note storiche sopra il flagello che invase tutta l’Europa. Riportiamo parte del testo: «Nel porto di Alghero, le navi spagnole avevano libera pratica: potevano attraccare senza pagare tasse, senza subire ispezioni e, quella che più interessa il nostro argomento, senza obbligo di presentare la patente di sanità dei posti di origine. Ciò, naturalmente, rappresentò un grave pericolo nei riguardi della penetrazione delle epidemie sia attraverso le ciurme, sia attraverso il materiale importato (soprattutto i pestiferi topi). Fra tali malattie, la peste era indubbiamente la più temibile: tutti sanno quante vittime essa mietesse nel corso del Medioevo e anche agli albori dell’età moderna: basta ricordare che per il solo periodo del Rinascimento si ha notizia di circa 50 morie verificatesi in Europa. Nel 1503 la peste si affacciò nel territorio di Ragusa e, nello stesso tempo, a Barletta, Alessandria e Chioggia; nel 1513 si ebbe una moria nella città di Crema; dal 1522 al 1527 quasi tutta l’Italia fu infestata dal morbo, furono colpite in special modo Roma, Milano, Firenze e tutta la Toscana (per questa Macchiavelli ci ha lasciato una lucidissima descrizione). Dal 1527 al 1563 ci fu una sosta, ma nel 1565 una 69 24


Fu sommo merito dell’Angelerio non solo di aver diagnosticato il morbo nelle prime persone colpite ma di aver fermamente sostenuto che si trattava di vera peste contro coloro che la sconfessavano, di aver sfidato gli sdegni di un forte partito che andava eccitando contro di lui il popolo, ma anche di averla, con le sue efficienti misure profilattiche, i tempestivi provvedimenti, e l’ininterrotta assistenza dispensata a ricchi e poveri, circoscritta alla sola città di Alghero27. Diffusasi la voce del contagio l’Angelerio cercò, per mezzo di un sacerdote, di convincere il Vescovo e i magistrati a temere questo focolaio benché ancora piccolo28, perché segnali manifesti ammettevano gli effetti letali della malattia. Ma quei funzionari, presi dalla novità della cosa e dall’oscurità della sua causa, tergiversarono fino al giorno seguente allorché l’insigne vescovo Andrea Baccallar29 fece pressioni perché il Senato prendesse dei provvedimenti30. Questa attenzione che il religioso presta alla città durante l’emergenza, viene però immediatamente smentita da documentazione certa che prova il trasferimento di diversi nobili, tra cui lo stesso vescovo, fuori Alghero nei mesi dell’epidemia: «…questo Pastore abbandonò il suo gregge, quindi dal Sommo Pontefice soffrì la pena della multa» 31. violenta epidemia si diffuse dall’Ungheria all’Italia e imperversò specialmente nelle regioni settentrionali: si abbatté dapprima su Venezia (è di questa epoca, infatti la deliberazione del senato della città di far erigere, come offerta al signore, per impetrare la cessazione del flagello, la chiesa del redentore, opera del Palladio), indi dal 1576 al 1577 infuriò a Milano e in tutta la Lombardia, dove perirono decine di migliaia di persone: in tanto lutto rifulsero le virtù di santo e di uomo di Carlo Borromeo, e le doti di grande medico di Ludovico Settala. È noto come, durante queste epidemie, si verificassero due fenomeni: il suicidio collettivo delle donne e lo straordinario aumento dell’appetito sessuale in modo che, in breve, il numero dei nati sorpassò di molto quello dei morti». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 88-89, 92-93; DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., p. 128. 27 «La seva activitat no fou pas ni fácil ni liure d’oposicions». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 94; ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 136. 28 Come già detto, il 19 novembre venne colpita la vedova Cifra. In seguito sua madre Grazia, il figlio, quindi la figlioletta. ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 141. 29 NUGHES A., La riforma tridentina nella diocesi di Alghero sotto l’episcopato di Don Andrea Baccallar 1578-1604, cit., pp. 51-57. 30 ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 141. 31«Andrea I. Baccaliar, nato in Cagliari, dove fu decorato della Dignità decanale e di Giudice di Appellazioni e Gravami. Uomo dotto in ogni genere di letteratura sacra, e profana, e versatissimo nelle lingue Latina, Greca, Ebrea, Caldea, ed in altre culte orientali. Tradusse dal Greco in Latino le opere di S. Giovanni Damasceno. Ricevette la consagrazione in Oristano nel 1578 dalle mani di Monsignore Don 70


Sagrestia della cattedrale di Alghero. Ritratti dei vescovi: Andrea Baccallar (1578-1604)32. Archivio della Curia vescovile di Alghero. Stemma episcopale di A. Baccallar, dipinto sul primo foglio di un Registre di norme applicative dei concili e dei sinodi33.

Non potendo l’Angelerio allontanare i Magistrati dall’errore, non solo volle mettere sull’avviso le contrade vicine ad Alghero, ma decise anche di mettere al corrente il Viceré sull’andamento dell’incipiente epidemia e sui provvedimenti che gli sembravano opportuni34. «Come il V. R. conobbe la sventura di quei cittadini corse frettolosamente nel Logudoro, e si pose in Sassari per potere con buon effetto studiare e preservare da quel malore gli altri popoli, e spegnerlo nel luogo, donde fortunatamente non erasi diffuso. La città infetta fu con acceleratissimo lavoro circonvallata dalla parte di terra, e nel medesimo tempo bloccata dalla parte di mare, perché quelli che volendo evadere e salvarsi ne’ paesi circonvicini erano stati risospinti dentro le mura, non tentassero di emigrare su’burchi nelle prossime sponde. Concorrendo alle spese con altre città del Logudoro molte torme di cavalli furono disposte nel territorio della città, raddoppiate le guardie

Giovanni Manca Vescovo d’Ales. Governò lungo tempo questa Diocesi, ed arricchì la Cattedrale di molto preziosi doni. Celebrò il Sinodo del 1581… Nel tempo del suo governo, e per la sua opera furono /70/ ammessi i padri Gesuiti in questa Città nel 1588… Castigata questa popolazione dal flagello della peste del 1582-83, questo Pastore abbandonò il suo gregge, quindi dal Sommo Pontefice soffrì la pena della multa… Nel 1605 fu poi promosso all’arcivescovado di Sassari, dove l’anno seguente celebrò il Concilio Provinciale» . NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., p. 442-443; NUGHES A., La riforma tridentina nella diocesi di Alghero sotto l’episcopato di Don Andrea Baccallar 1578-1604, cit., pp. 63-64; BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, Alghero 2010, p. 63; SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 124-125. 32 NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., Tav. V. 33 Ivi, Tav. VI. 34 I Consiglieri di Sassari e quelli di Barcellona vengono avvisati del pericolo epidemico affinché le due città, una direttamente confinante con Alghero, l’altra interessata ai traffici commerciali con la sua ex colonia d’oltremare, potessero adottare le misure precauzionali dovute. BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 63. 71


in su’confini con gli altri paesi, e così formati tre cordoni sanitarii, ed erette tre barriere, che il contagio non poté trapassare.»35.

Mentre Moncada mandava sollecito l’editto di chiusura di ogni commercio con Alghero36, molti fra gli Stati italiani ebbero ad allarmarsi. A Firenze, per esempio, il Serenissimo Gran Duca di Toscana e gli Ufficiali «sopra la Sanità della Città di Fiorenza» pubblicarono, con data dell’8 gennaio, un decreto noto come «Bando di Larghè, et dell’Isola di Sardigna» in cui si affermava: «un pestifero male s’è scoperto in Larghè Città di Sardegna, e quivi fa notabil progresso e perciò bandiscono detta città insieme con tutta l’Isola di Sardegna, Prohibendo a qualunque persona di qualsivoglia Stato, grado o conditione si sia, non ardisca entrare nello Stato sotto pena della vita, e confiscatione de’ beni; nella qual pena e pene saranno compresi, e incorreranno Hosti, Albergatori, Navichieri, Barcaroli, e ogni altra persona in qualsivoglia modo ricevessi, alloggiassi, o conducessi persone, e robbe delli predetti luoghi: notificando espressamente che si procederà contro i trasgressori severamente senza accettare scusa di alcuna sorte, ecc»37.

Allorché nella penisola e nelle altre contrade oltremare si intimava l’embargo, nella città il popolo, sobillato da molti cui faceva comodo una sfrenata libertà o il vile interesse, insorgeva presso le dimore dell’Angelerio e lo voleva ucciso38. In questa delicatissima circostanza in cui di fatto la città venne abbandonata a se stessa e sacrificata per salvare l’intera isola, un serrato discorso tenuto ai capi della città sarà la soluzione del doctor. Non solo difese il suo operato, ma non mancò, fra il serio e il faceto, di bollare quei cittadini con la pungente frase: «Quod si illum obiurges, Algheria, qui auxilium tulit – Quid facies illi, qui dederit damnum aut malum tibi?»39.

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ANGIUS V., Storia di Logudoro, Sala Bolognese 1977 , p. 654. Grande quindi la sollecitudine dei governanti di quel tempo che chiusero la città, la quale, provvista del necessario e inibita per due anni interi a comunicare con altri centri, riuscì a far cessare il morbo e a preservare tutta l’isola. THERMES C., Il “mio” Giorgio Aleo e la sua Historia, Cagliari 2003; ANGIUS V., Storia di Logudoro, cit., p. 654. 37 Dodero G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., p. 127. 38 «Ad Alghero c’era probabilmente molta gente ostile alle iniziative che l’Angelerio andava assumendo; si costituì, persino, un vero e proprio partito di nemici del doctor, comprendente coloro che avevano da temere per la chiusura dei traffici commerciali che, inevitabilmente, la diffusione della notizia della peste avrebbe comportato». BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 63. 39 ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 142. 72 36


Con l’incedere dell’inverno, intanto, la diffusione della piaga, causata (ora lo si sa) dalla pulce del ratto e scientificamente chiamata Pasteurella Pestis, andava scemando di intensità, anche se i malati e i morti erano sempre più numerosi: i coniugi Melay, ad esempio, persero nel giro di un paio di settimane sette figli40! Le rigide disposizioni emanate dietro indicazione dell’Angelerio restavano in vigore e la città continuava ad avere un’aria spettrale: strade vuote, case disabitate, lunghi silenzi; «un cementiri abandonat»41. «Per tanta pernicie di uomini, per le case che si erano distrutte a seppellirvi sotto le rovine le robe infette, o che si erano bruciate per disinfettarle, apparve miserabilissimo l’aspetto della città a quelli che la rividero quando furono riaperte le comunicazioni. Non era però subito dopo cessata la mortalità che si togliea il cordone; sì bene molto più tardi per prudentissimo consiglio del V. R.. quando i semi del contagio per sentenza de’ medici parvero totalmente estinti»42.

Ma anche quell’inverno passò e venne la primavera; la vita pareva ricominciare a sorridere e il lento ritorno alla normalità sopravvenne43. Nell’estate del 1583 «toccò pure allo stesso viceré Moncada l’incarico di congregare l’assemblea ordinaria delle corti»44; venne quindi sfruttata la convocazione del Parlamento affinché venisse illustrata la penosa situazione in cui versava la città, senza dimenticarsi di enfatizzare e dilatare numeri e taglie del fenomeno per poter ottenere sgravi fiscali, riapertura delle

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BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 65. SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 102. 42 ANGIUS V., Storia di Logudoro, cit., p. 655. 43 «Alla prodigiosa e insperata ripresa della città distrutta, diedero un contributo molto valido e generoso il dott. Angelerio nel campo igienico-sanitario, lo spirito vivo del popolo e l’incoraggiamento spirituale e concreto del vescovo Baccallar, personaggio di grande rilievo, pastore amoroso, uomo di grande cultura classica, teologica e valido conoscitore di lingue orientali. Il contributo del vescovo Baccallar per la ripresa di tutte le attività della città fu determinante: la perdita degli affetti, ancora vivi, non scoraggiarono la volontà di rinascere. Nell’anno 1586 il vescovo inaugurò ad Alghero il seminario tridentino; nel 1588 costituì il collegio dei padri gesuiti, l’anno 1593, sempre Mons. Baccallar consacrò con grande solennità la maestosa cattedrale, superando difficoltà molto gravi e di ogni tipo. Nel 1604 fu elevato alla dignità di arcivescovo di Sassari. In più Baccallar merita una nota di rilievo perché nel 1581 celebrò il sinodo diocesano, scritto in lingua catalana; una tappa miliare nella storia della diocesi di Alghero. Il sinodo del vescovo Baccallar ha un importante significato in quanto unico documento in lingua catalana tra gli atti episcopali del vescovado di Sardegna: contravvenendo alle imposizioni rigorose dell’uso della lingua castigliana, venne meno all’obbedienza non solamente della sede vaticana ma anche dell’autorità reale di Madrid». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 123-125; NUGHES A., La riforma tridentina nella diocesi di Alghero sotto l’episcopato di Don Andrea Baccallar 1578-1604, cit., pp. 57-131. 44 MANNO G., Storia della Sardegna, cit., p. 327. 73 41


comunicazioni e riconferma dei privilegi un tempo cari45. Ecco riportata la dichiarazione fatta dai rappresentanti della città alla seduta parlamentare tenutasi a Cagliari, nel 1583: «Est any és estada visitada la ciutat de Alguer de pestilència, de la qual encara no està desospitada, y per aquella han mort circa sis mil persones y destruïdes y cremades moltas casas y robes, per lo que dita ciutat resta del tot quasi derruyda, tant de persones que no hi ha restat sinó número de cent sinquanta homes»46

Esagerazioni a parte, la situazione della città e dei suoi abitanti doveva essere indubbiamente ancora grave e le spese per la riparazione, molte. Ancora una volta Alghero si trovava ad affrontare l’antico problema del ripopolamento47: un vero assillo ricorrente nella sua plurisecolare storia48. Tuttavia l’esigenza di ripopolamento comunica una fase di rialzo e riassetto che, senza l’enorme organizzazione sanitaria e civile del dottor Angelerio probabilmente non sarebbe avvenuta.

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Parlamento convocato a Cagliari dal viceré Moncada. BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., pp. 68-69; NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., pp. 127-129.; BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 68-69. 46 TODA I GUELL E., L’Alguer: un popolo catalano d’Italia, Sassari, 1981, p. 104. Come vedremo in seguito, seppur non si possa non credere al contesto di povertà e desolazione seguito alla pestilenza, è obiettivamente difficile credere agli oltre 6000 morti (Alghero non poteva avere tutti quegli abitanti al tempo) e di soli 150 superstiti; si tratta appunto di un’iperbole volutamente dichiarata. NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., pp. 127-129; NUGHES A., La riforma tridentina nella diocesi di Alghero sotto l’episcopato di Don Andrea Baccallar 1578-1604, cit., pp. 62-63. 47 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 123. 48 «Il rappresentante della municipalità aveva posto con forza la questione durante i lavori del Parlamento. Aveva chiesto che il governatore del Capo di Logudoro si trasferisse per qualche tempo ad Alghero, con la sua corte di funzionari e ministri, per dare prestigio e lustro alla città e quindi favorire l’afflusso di nuovi abitanti. Per le stesse ragioni chiedeva che i nobili ed i cavalieri nativi di Alghero fossero obbligati a risiedervi per alcuni anni. La supplica, era immaginabile, “non sortì effetto” e così il ripopolamento e la rivitalizzazione della città… furono lasciati alla buona sorte, alla “Provvidenza” (c’era un conto aperto tra lei e Alghero) ed all’impegno della municipalità. Già a partire dal 1584, comunque, la nobiltà e l’alto clero, che avevano trovato rifugio lontano dalla città appestata, rientravano, mentre cominciavano a registrarsi i primi effetti positivi, in termini di incremento della popolazione, dei numerosi matrimoni celebrati nell’estate del 1583... Fin qui, ad ogni modo si può parlare di incremento endogeno… Il vero e proprio ripopolamento, la vera, grande migrazione si registrò nel 1585 e continuò fino a quasi fine secolo… Quasi i due terzi dei nuovi abitanti era costituito da uomini e donne immigrati da diverse località della Sardegna e di preferenza da paesi inseriti nella diocesi “algarense”. Alghero fu certamente in quegli anni un bacino di raccolta per le speranze di molti contadini e pastori, serve ed artigiani, gente in cerca di fortuna o di lavoro, di una sistemazione più degna di quella che lasciava…Il processo di ripopolamento, caratterizzato anche da un discreto flusso migratorio ligure… , si protrasse negli anni successivi ad un ritmo via via decrescente man mano che la situazione interna della città si andava, con gli anni, normalizzando. Grazie a quel fenomeno migratorio la società algherese andava assumendo una nuova fisionomia in conseguenza di un generale rimescolamento etnico, economico e culturale… la popolazione di origine sarda era cresciuta del 9% circa, quella di origine catalana aveva subito una contrazione del 14% circa e quella italiana del 5%». BUDRUNI A., Storia di Alghero dalle origini al Medioevo, cit., pp. 69-73. 74


Tanta la preparazione, vasto l’ingegno, forte la sua vis, bensì il vero merito del “nostro” dottore sarà quello di aver trasposto tutto questo affanno sulla carta, per iscritto, così da poter sigillare la sua gloria in eterno, rendendo leggibili i suoi inchiostri anche a distanza di mezzo secolo49. Quinto Tiberio Angelerio, infatti, nel 1588 sarà autore un’importante opera, l’Ectypa pestilentis status Algheriae Sardiniae. Lo scritto si divide in due parti: la prima di 92 pagine in latino classico e di livello dottrinale, spesso di difficile interpretazione, e la seconda parte di 15 pagine redatte in catalano ma con molti termini in castigliano, su regole pratiche relative a una organizzazione che introduce norme di terapia igienica e anticolerica per ridurre gli effetti e la diffusione del morbo («Un vol…de 110 págs. Este curioso libro está redactado en latìn hasta pág. 92. En la siguente empiezan en catalán las Instructions del mates auctor…divididas en 57 capìtulos»50)51. Dell’Ectypa, il dott. Angelerio pubblicò una seconda edizione a Madrid nel 1598 intitolata Epidemiologia; 112 pagine di norme terapeutiche per la cura della peste, questa volta edite in castigliano e non in catalano52 («De este libro hizo su autor una refundición en Madrid, en 1598, titulándola EPIDEMIOLOGIA. Fué impresa en la Tipografia Regia, por J. Flamenco, y forma un vol… de

49 Un aspetto molto interessante riguarda l’espansione dell’editoria riguardante i trattati della peste nel XVI secolo; ancora più curioso il fatto che il massimo picco venne raggiunto proprio tra il 1550 e il 1580 allorché vennero compilati almeno 96 trattati in volgare e 60 in latino. MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 13-14. 50 TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, cit., p. 169. 51 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 84-85. 52 La letteratura critica sui due volumi (l’Ectypa e l’Epidemiologia), non è voluminosa né molto conosciuta; le opere sono presenti in poche biblioteche pubbliche senza un’insegna particolare o di grande evidenza. Dobbiamo pensare che di questi due libri se ne siano stampate poche centinaia di copie che giustificano la rarità dell’opera. Sappiamo inoltre che il Manno non conobbe l’edizione a stampa dell’Ectypa ma un testo scritto a penna (MANNO G., Storia della Sardegna, cit., p. 268), il Tola afferma che lo scritto non vide mai la luce e, a giudicare dal mondo in cui scrive il suo Dizionario non conobbe neppure quella manoscritta (TOLA E., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, cit., p. 76.) Entrambe le edizioni sono posseduti dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari. Ad Alghero, invece, l’Ectypa, era conservata nella Biblioteca comunale ed è una copia regalata da Bolasco-Piccinelli alla fine del secolo XIX; manca interamente la copia dell’Epidemiologia pubblicata a Madrid. Il ms dell’Ectypa in possesso dell’Archivio Municipale, è un documento di grande interesse per la sua originalità e per le molte varianti a fronte del testo pubblicato. Come abbiamo già detto, la parte catalana è una prova linguistica importante perché riproduce molte forme della lingua del popolo. È evidente che Angelerio, nel testo pubblicato, fa un’accurata revisione formale del valore semantico e morfosintattico. Ivi, p. 90. 75


8-110 hojas. Las instrucciones para combatir la peste están aquì redactadas en castellano»53).

Frontespizio dell’Ectypa54 e dell’Epidemiologia55.

«Ad nedum effatu dignum, sed mirum censeo quod labes in tanto rerum lapsu confinia urbis tantum pervagata est et non est transgressa»56. «Se io avessi taciuto e la peste fosse andata lontana, secondo i desideri di alcuni e di un altro che, professando medicina, con la sua chiacchiera aveva allontanato prima ogni aiuto e aveva rivolto gli animi dei cittadini al disprezzo e alla perdita di sé stessi, la disgrazia non sarebbe stata di questa città soltanto, ma anche del mondo… Ma tutt’altro che d’esser degno di menzione, meraviglioso penso il fatto che l’infezione, in sì grave rovinio di cose, si sparse soltanto ai confini della città senza varcarli»57.

Dalla città di Alghero il dottor Quinto Tiberio Angelerio passò a Cagliari ove lo ritroviamo nel 1585. Nello stesso anno, infatti, il Consiglio Civico

53

TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, cit., p. 169. L’Epidemiologia fu quindi stampata dalla tipografia Regia da Giovanni Flamenco e forma un volume in 12° di 8 + 104 pagine. ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 157. 54 ANGELERIO Q. T., Ectypa, frontespizio dell’opera edita a Cagliari nel 1588 e conservata presso la Biblioteca episcopale del Seminario di Barcellona. 55 ANGELERIO Q. T., Epidemiologia, frontespizio dell’opera edita a Madrid nel 1598 e conservata presso l’Università Complutense di Madrid. 56 ANGELERIO Q. T., Epidemiologia, p. 41. 57 ANGELERIO Q. T., Ectypa, p. 30. 76


della città, per le calamità economiche che colpivano il bilancio municipale, ordinò una riduzione di assegni anche per i medici, per cui il salario dell’Angelerio fu portato a lire cento l’anno, con il vincolo di rispettare la quota delle visite private, oltre a quello di prestare servizio agli indigenti (ogni due mesi), senza nessun’altra ricompensa né retribuzione58. A Cagliari, probabilmente si fermò fino al 158859. Dieci anni più tardi si trovava a Madrid, medico della Imperatrice Maria d’Austria («La edición madrileña nos dice que el Doctor Quinto Tiberio fué médico de la Emperatriz María de Austria»60).61

3.2 L’Ectypa e la rivisitazione dell’opera di Pasqual Scanu Volendo illustrare la grandiosa, diuturna fatica svolta dall’Angelerio nello spazio di due anni, ci troveremmo nelle stesse condizioni del “nostro dottore”, il quale scrive: «Se volessi affidare alla penna e toccare leggermente con lo stilo oltre il previsto, sarebbe troppa lunga la trattazione dell’opera intrapresa e assai esauriente il discorso. Per cui, passando molte cose sotto silenzio, imiterò il pittore che artificialmente oscura con ombre ciò che non è dato ritrarre con il pennello. Perciò non sembri strano descrivere di passaggio e ordinatamente richiamare alla memoria ciò che, contro il contagio e l’ingiuria del tempo, da poco vi fu sperimentato affinché nessuno per caso lo possa credere cosa vana»62

È ripercorrendo le orme di un altro grande ricercatore che riusciamo ad avere una mappa, un percorso chiaro e proficuamente sintetico, che ci aiuti ad esporre un testo così tanto antico sulla peste del 1582-83 ad Alghero. Con La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio63, Pasqual Scanu, non solo ci permette di assaporare un’opera che facilmente sarebbe rimasta ignota e sconosciuta, ma percepiamo anche un gusto, un calore particolare che emerge ogni volta che si nomina la piccola città di 58

PINNA M., Il magistrato civico di Cagliari, in Archivio storico sardo, Cagliari 1914, Vol. IX, p. 189. DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, Cagliari 1999, p. 202. 60 TODA I GUELL E., Bibliografía española de Cerdeña, cit., pp. 168-169. 61 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 84. 62 ANGELERIO Q. T., Ectypa, p. 48. 63 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, Barcellona, 1978. 59

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Alghero. È quindi tramite il riesame dello Scanu, insieme alle sue osservazioni e valutazioni, che verrà riproposto lo studio dell’opera di Angelerio. Volendo pertanto analizzare la struttura dell’Ectypa, lo Scanu confessa: «Fare un esame critico del contenuto del testo latino dell’opera di dott. Angelerio, non è facile soprattutto perché mi manca una particolare conoscenza della scienza medica e studi di letteratura. La forma classica latina, a volte, nelle indicazioni diagnostiche della terapia antiinfettiva, è rigorosamente scientifica con molte forme di contrazione verbale, di espressioni grossolane, abbreviazioni di simboli e formule chimiche, senza dubbio diverse dalle norme della terapia e della farmacopea moderna»64.

Esaminando la prima parte del lavoro dell’Angelerio, rammentiamo che è la parte latina a costituire il corpus fondamentale che ha reso nota l’alta cultura medica dell’autore, la sua competenza e spesso l’originalità di molte nuove terapie antiinfettive. Il trattato introduce un esame sull’Aegrotorum status65, un’indagine diagnostica sopra la peste e la sintomatologia degli appestati. Segue una larga oratio ad senatores66 «patres quibus… demandata est, quando periculo civitas versatur, ad esse animis; meae tamen quae sit sententia mentis accipite… opera non parvam spero utilitatem, pro incolumitate erit perceptura»67. Ed ecco la descrizione dei segni evidenti del morbo con una spiegazione accurata delle cause e degli effetti68: «Luctifaciam cladem et pestes excipio anxias. Ac eodem labes, erpete, bubbone, antrace, glandula et exantematibus aestuando graffaretur; pestiti assidue, vestigando consulento, medendo; ratione, oratione manu»69. Un capitolo particolare ha come titolo Observationes in Ectypam70; qui vengono riportate 32 regole scientifiche sulla diagnosi della peste (Prima

64

Ivi, p. 103. ANGELERIO Q. T., Ectypa, pp. 7-17. 66 Ivi, pp. 17-28. 67 Ivi, p. 17. 68 Ivi, pp. 28-34. 69 Ivi, p. 28. 70 Ivi, pp. 35-45. 65

78


pars71) e 22 regole prognostiche (Secunda pars72). Così si conclude la sezione: «Epydemica contitutione iam invadente, quartanae licet longae, et affectus similes ex se terminabantur, et ulterius non procedebat.»73. Di particolare interesse ha, nell’Ectypa il capitolo Historia ex libro II belli peloponnesiaci Thucydidis74 nel quale il dottor Angelerio dimostra la sua grande passione per la cultura classica disegnando, in forma narrativa, la tragedia della peste di Atene del 420 a.C. Un altro capitolo interessante è il Compendium curationis, praecautionisque morbi passim, populariterque grassantis75 che comprende indicazioni parascientifiche di destinazione popolare sopra la febras pestilentis forma, sulle manifestazioni obiettive della sintomatologia, sulle febbri da peste e proferisce: «febbris pestilentis est calida, seviens morbosa qualitas ex aeris corruptela per inspirationem cotracta…externaru partium frigiditas, internaru ardor, et fervor maximus, sopor inexpugnabilis, sitis, vomit etiam, difficilis respiratio, varius in facie color, sudoris,…excrementorum odor gravissimus»76; conclude con questa felicitazione: «A quo discrimine D. O. M. servos suos reddat immunes»77. A tale punto, lo Scanu ribadisce il fatto che la trattazione dei molti argomenti simptomatibus sia molto estesa e ricca di tutti i profili diagnostici delle varie forme infettive78. Di seguito, lo studioso, continua con l’enumerazione dei capitoli e cita la sezione successiva al Compendium, ovvero le Additiones79: una lunga lista di medicamenti e prescrizioni terapeutiche, di ricette particolari con ricche indicazioni (tra cui la composizione chimica), di posologia dell’applicazione del medicamento; gran parte della lista vanta la firma dell’originale capacità medica del dott. Angelerio. Anche qui, infatti, l’autore rivela un’ampia cultura scientifica e 71

Ibidem, pp. 35-41. Ivi, pp. 41-45. 73 Ivi, p. 45. 74 Ivi, pp. 47-53. 75 Ivi, pp. 53-67. 76 Ivi, p. 53. 77 Ivi, p. 66. 78 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 105. 79 ANGELERIO Q. T., Ectypa, pp. 67-92. 72

79


una forte conoscenza della storia della farmacopea. Diamo di seguito il catalogo, riportato dallo Scanu, delle ricette; senza particolari spiegazioni che sarebbero superflue alla finalità del lavoro.

80

81

82

80 81

SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 106. Ivi, p. 107. 80


Finora si sono analizzate le tematiche principali, storico-sociali della prima parte dell’Ectypa, la parte, lo ricordiamo, «en llengua latina purissima e rigorosament cientifica»83. La sezione seguente, di sole 17 pagine, è invece in lingua catalana e, concordando con lo Scanu, ha un valore straordinario per l’oggetto trattato; si intitola Instructions del mates auctor84. Come si evince dall’intestazione, non si stanno più trattando tematiche eziologicoscientifiche, si sta parlando di res, delle “cose”, delle istruzioni quindi necessarie per circoscrivere e superare il contagio; perché non si dimentichi che la peste, come ogni altra malattia, è prima di tutto un fatto domestico85. Infatti, l’Angelerio ha destinato queste norme ai giurati, agli ammalati, ai consiglieri deputati, agli infermieri e ai dottori per la pratica applicazione delle regole organizzative sanitarie. Sono 57 istruzioni (ridotte a 30 nell’Epidemiologia86), eloquenti esempi di saggezza, di norme anti infettive e di pratica attuazione preventiva e curativa. Quale fu, quindi, il cammino del doctor allorché, l’undevigesima Novembris la vidua Cyfra87 venne corrotta dal contagio? Le misure di Angelerio, a questo riguardo, vanno ben oltre gli aspetti sanitari in senso stretto e riguardano i modi di approntare un vero e proprio governo straordinario della città88. Sono misure tanto appropriate che, a quanto pare, gli effetti infausti del contagio risultano abbondantemente

82

Ivi, p. 108. Ivi, p. 103. 84 ANGELERIO Q. T., Ectypa, pp. 93-109. 85 MOTOLESE M., Lo male rotundo: il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra quattro e cinquecento, cit., pp. 35-36. 86 Nell’Epidemiologia le Istruzioni per combattere la peste sono redatte in castigliano e sono leggermente diverse per contenuto e, come si è visto, per numero. ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 157. 87 ANGELERIO Q. T., Ectypa, p. 9. 88 Lo Scanu ci dà comunicazione sulla legislazione sanitaria di quel tempo in quanto erano state inserite norme rivoluzionarie nella eziologia infettiva, rivoluzionare in confronto col secolo precedente. Nell’anno 1575 il Pontefice Gregorio XIII aveva emanato una bolla con la quale si fissavano i doveri dell’Ufficio medico e del Collegio dei fisici e dei farmacisti di Roma per dare garanzie di salute pubblica, inserendo pene severissime per i medici negligenti; venivano inoltre date informative specifiche a tutti gli studenti delle scuole superiori sulle varie cause che, determinati comportamenti, potevano portare danno alla salute pubblica. SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 89-90. 81 83


contenuti89. La prassi ormai largamente consolidata degli Uffici di Sanità italiani e l’azione di Ingrassia in Sicilia, fondano un patrimonio di esperienze che il medico “napoletano” fa suo con molta convinzione. L’obiettivo del dottore deve essere non più solo la cura del singolo appestato a cui vengono prescritte cure, medicamenti, e interventi chirurgici per cauterizzare gli ascessi; ma soprattutto la conservazione della salute pubblica nell’intera città e nel territorio circostante. Alla scoperta, quindi, dei primi casi di peste, malgrado le energiche ostilità da parte della cittadinanza, si ordina un’istantanea dichiarazione dello stato eccezionale di salute pubblica90. In primo luogo, siffatto provvedimento tenta di contenere in una sola parte della città la diffusione della malattia: viene quindi ordinato che «il carrer de Sant’Antoni», quello in cui si erano riscontrati i primi episodi di contagio e in cui era ubicato l’ospedale, fosse chiuso con un muro affinché si impedisse agli abitanti di quel quartiere di spostarsi in altre zone della città o che altri potessero frequentare quella via, ormai condannata91. In secondo luogo, la notizia di condizione d’emergenza, porta alla divisione della città in dieci zone controllate da un Deputato di Sanità dotato di ampissimi poteri e coadiuvato da un Morber (o Guardiano del Morbo)92 con compiti esecutivi93. La vita e l’attività era frenetica, lasciava davvero poco 89

BUDRUNI T., Pestilenze e ripopolamento ad Alghero nell’età spagnola (1582-1652). Crisi e vitalità di una cultura urbana, in Quaderni sardi di storia, 1986, Vol. V., pp. 111-113. 90 Vale la pensa esaminare nel dettaglio il dispositivo sanitario adottato ad Alghero su modelli ormai collaudati in Italia, perché rappresenta il punto di avvio di una nuova concezione della difesa epidemiologica che si affermerà nel corso del Seicento nel Regno di Sardegna. MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, cit., pp. 116-117; SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 100. 91 BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., pp. 63-64. 92 Non possiamo non mettere nel dovuto rilievo i Morbers, questa istituzione prettamente catalana così spesso ricordata nell’Ectypa. Abbiamo all’inizio di questo percorso accennato che nella seconda metà del 1400 fu istituita la Guardia del Morbo, col compito specifico di vigilare sulle condizioni sanitarie di tutte le navi che facessero scalo nel porto. Nel 1835 re Carlo Alberto istituì delle Guardie (20 nel porto di Cagliari e 10 in quello di Alghero) con il compito di passare in rivista l’equipaggio ed i passeggeri delle navi, controllarne lo stato di salute, e darne rapporto al Consiglio Generale; loro compito era, naturalmente, anche quello di evitare qualsiasi possibile sbarco o imbarco clandestino. Queste guardie caroline non sono, in realtà una novità, bensì la semplice evoluzione della vecchia Guardia del Morbo, con lieve cambio di denominazione ma con lo stesso identico compito e persino lo stesso numero di reclute in caso di emergenza riscontrato nella peste di Alghero. ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., pp. 148-149. 93 DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., pp. 123-134. 82


tempo per ragionare sui rischi e sulle problematicità della situazione; c’era da lavorare, lavorare tanto per tentare di limitare le conseguenze del contagio. Le disposizioni si susseguivano e si accavallavano: divieto assoluto di riunione, controllo e repressione del vagabondaggio, denuncia immediata dei malati, isolamento dei sospetti, divieto di cambiare casa o visitare infermi, muratura nella parte più remota delle abitazioni delle robe non infette al fine di non moltiplicare il contagio, case sbarrate per i casi sospetti (contrassegnate da una croce rossa) e là dove si verificano decessi, divieto di vendere carni sospette e pesce di laguna come pure tessuti di lana, lino, seta e cotone senza licenza dei morbers, obbligo di disinfezione delle monete con aceto e delle lettere con fumigazioni, separazione dai cittadini sani di tutti coloro che stanno a contatto con gli appestati (medici, chirurghi, confessori, monatti) 94. Degno di nota e interesse, il grande spazio concesso alle norme su tutto ciò che riguarda la disinfezione, la purificazione e la sterilizzazione della città. A braccetto con queste severe regole d’igiene, ve ne sono poi delle altre che aspirando agli stessi scopi, avevano però degli interessi più delicati rispetto alla semplice prevenzione. Si tratta dei cosiddetti «soffegats»95, gli addetti alla fumigazione degli incensi e allo spargimento di profumi fra gli indumenti, negli oggetti, nelle pareti, nelle case e nelle strade della città. La delicatezza e l’eleganza della norma risiede nel fatto che, nonostante il senso di disperazione e angoscia, l’Angelerio abbia voluto tentare di non cancellare degli aspetti del vivere prettamente umani, concedendo la dignità di un buon odore anche tra cadaveri e desolazione. Almeno le narici sarebbero state appagate da qualcosa di bello, buono e odoroso.

94

VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, cit., pp. 217-218. 95 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 100. 83


Un’immagine del vecchio ospedale di S. Antonio sito nell’attuale via Cavour.

Queste, in estrema sintesi le prime misure precauzionali. Ad esse si accompagnano i provvedimenti volti alla realizzazione di un esteso apparato sanitario che contempla l’apertura, in aggiunta all’ospedale, di lazzaretti che accolgano, separatamente, appestati e malati sospetti. Furono quindi scelti, oltre all’ospedale di Sant’Antonio96, altre due sedi isolate dalla città: esisteva già, fuori le mura, un Lazzaretto97, ma si ritenne necessario aprire un altro luogo di isolamento, spesso menzionato col titolo di tancat98.

96 Dall’opera dell’Angelerio risulta che Alghero avesse diversi ospedali durante l’epidemia del 1582-83 ma, secondo Dodero, si trattava probabilmente (come accadde anche a Cagliari e altrove) di strutture improvvisate e temporanee per l’occasiona eccezionale. Secondo lo studioso, l’unico centro sanitario di cui si abbia notizia certa è l’Ospedale Civile, ma la sua costruzione risale al 1610. DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., p. 464. D’altra parte, invece, lo Scanu, riprendendo il Toda, ci dice che «nel sec XV si costruì ad Alghero un ampio e funzionale ospedale, deciso con grande sollecitudine dal consiglio municipale soprattutto per l’amore verso gli abitanti». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 84. 97 Alghero ebbe la prima concessione di un lazzaretto quale grande privilegio di Alfonso di Aragona, per intercessione del vescovo di Torralba, il 5 maggio 1441. Alla città catalana non si lesinavano larghezze, da quando era diventata una cellula di Spagna in terra sarda. Nel XV secolo, come abbiamo visto, Alghero rappresentava la chiave di volta del commercio aragonese dell’isola e il lazzaretto significava introiti spesso vistosi. L’inabilitazione del lazzaretto causò un grave danno alla città. DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., p. 127. 98 «La organitzacó sanitària disposada a l’Alguer d’en Anegelerio fou d’extraordinària eficàcia. (…) instituì tres centres d’isolament o Lazarets; un per als sospitosos, un altre per als infectats, i un altre per als convalescents, fizant controls sanitaris rigorosìssims». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 100; ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 147; 84


Pianta del lazzaretto di Alghero con particolare sull’elenco dei locali al suo interno99.

Furono stabilite guardie speciali per sorvegliare tutti questi luoghi e le case private appestate, oltre che numerosi becchini, infermieri e, sicuramente, frati e religiosi. Il corpo sanitario comprendeva, a parte i due medici anche i

99

DODERO G., I Lazzaretti. Epidemie e quarantene in Sardegna, cit., pp. 272-273. 85


cilurgians100, «un po’ barbieri e un po’ “segaossa”»101, esercenti la bassa chirurgia che in Alghero, come in tutta l’isola sovrabbondavano102. Molte le straordinarie intuizioni che permettono di conferire ad Angelerio una posizione rilevante fra gli igienisti del Cinquecento; ma la sua strategia di difesa della peste è importante nel suo complesso perché tende a concepire

in

grande,

a

“socializzare”

la

tutela

epidemiologica,

allontanandosi dalla dimensione ristretta della terapia eseguita ad personam103. «Avevo ordinato distribuzione di uomini contro le insidie della peste prescrivendo che l’uno si salvaguardasse dall’altro con moderazione di vita, con unguenti, e a seconda dell’indole di ciascuno non si stancassero di conservarsi con catartici, cauteri, aromi e antidoti. Come anche per diminuire con adatti medicamenti impetuose complicazioni suscitate dall’ardente febbre, spegnerne la malizia e ravvivare le forze degli ammalati con dieta opportuna poiché non era possibile sopportare senza danno veglia fame e sete. E addolcire la cura attirando gli ascessi all’esterno e moderare la febbre con topici, con la mano, col ferro. E avevo introdotto ciò che fino allora non era in uso, di disinfettare le spoglie contaminate e gli utensili intessuti con fuoco alto e calore concentrato di fornace; come altre volte, seguendo i precetti dei maggiori104, medicare le parti curate attraverso un colatoio con una lavanda calda di liquore travasato con un continuo soffio d’aria. E liberare dal contagio l’aria delle case infette con suffumigi, fuochi, assidua ventilazione, ma soprattutto con l’installazione di capre e caproni, coll’irrorazione, coll’imbiancamento, allontanando le sconvenienti qualità»105.

100

TILOCCA SEGRETI A., I contratti di encartament ad Alghero tra cinque e seicento, Alghero 1990, p. 3 BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 64. 102 ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 147. 103 VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, cit., p. 218. 104 Il peso dei “maggiori” è, come sopracitato, ancora alquanto penetrante; basti pensare che l’esordio dell’Ectypa viene affidato, come ricorda lo Scanu, ad un esame storico non solo dei più importanti episodi di peste nel mondo, delle conoscenze della farmacopea scientifica, delle prognosi più conosciute nelle diverse epoche in tutto il mondo; ma, uno per tutti, viene citato il grande Ippocrate e le sue antichissime norme sanitarie. Non ci si stupisca se, qualche “riga” più avanti il dottor Angelerio dimostrerà di essere un grande cultore dell’antichità classica. «Riporta, in forma narrativa (non mancano osservazioni di importante valore scientifico), della peste di Atene nell’anno 420 a.C. (episodio esposto da Lucrezio, Boccaccio, Macchiavelli e Manzoni). L’autore ci informa della causa della malattia e della sintomatologia; Tucidide, che fu colpito dal morbo, diretta vittima del campo militare tragicamente invaso dalla peste, ci dà con termini medici una descrizione realistica e completa di desolazione e di morte. Angelerio riprende gli elementi più vivi della narrazione dell’Historia greca e con proprietà scientifica ci descrive la disperazione degli ammalati che ai primi sintomi del contagio non avevano la forza per reagire e aspettavano come una fatalità la morte. Vivo e palpitante l’esame psicologico dei gruppi degli appestati: quelli che si erano salvati che, in tanta miseria di lutto, rispondevano con gioia frenetica agli episodi e manifestazioni pubbliche di edonismo insieme (per contrasto) ai templi maestosi pieni di cadaveri; infine i moribondi che giravano cercando acqua nelle pubbliche fontane». SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 88, 104-105. 105 ANGELERIO Q. T., Ectypa, pp. 32-34. 86 101


Se, naturalmente, le nozioni eziologiche e i dettami terapeutici non valicano le anguste barriere del tempo, non poche delle disposizioni igieniche e profilattiche dell’Angelerio appaiono ispirate a grande saggezza e felice intuito, sì da conservare il loro valore anche alla stregua delle correnti cognizioni. Siamo quindi giunti al punto favorevole affinché venga riconosciuta e trattata la grande invenzione del dottore che, come egli orgogliosamente rivendica, sarà il primo ad adoperare: il calore secco per disinfettare o, com’egli dice, purgare dalle cattive qualità gli indumenti infetti106. Era quindi un sistema di sterilizzazione vera e propria di utensili domestici e capi di vestiario, usufruendo delle alte temperature che un forno (del tipo di quelli usati nella produzione dei laterizi), poteva sprigionare107. Sebbene uomo di scienza, l’Angelerio era anche un individuo figlio del suo tempo, tempo in cui vi era ancora un concetto medievale sull’origine demoniaca delle malattie. Ed è a questo proposito che si raccomanda l’impiego delle campane, delle schioppettate e delle cannonate per purificare l’aria. Il popolo nella sua esaltazione superstiziosa, credulona e in fin dei conti ingenua, considerava il chiasso provocato dagli spari delle varie armi come un espediente dell’intervento divino e dei santi protettori in aiuto alle sofferenze e ai bisogni dei figli sofferenti. Al medesimo scopo è volta l’altra direttiva nella quale è indicato (ormai che il tragico morbo sembra sparire) di far accedere in città, per un certo tempo, un grande numero di caproni e capre da distribuire poi di notte nelle case. Questi animali, che si riteneva avessero per eccellenza relazione con demoni e streghe, potevano servire per richiamare a sé, per affinità, gli spiriti del

106

L’invenzione del procedimento di sterilizzazione col calore a secco, metodo che poi con molta disinvoltura viene fatto proprio dal medico imperiale spagnolo Nicolás Bocangelino, assegna ad Angelerio un posto di rilievo fra i medici della peste che operano fra Italia e Spagna. BOCANGELINO N., Libro de las enfermedades malignas y pestilentes, causas, pronósticos, curación y preservación… Dirigido a la Serenissima Infanta Doña Margarita de Austria, monja descalza, Madrid, 1600, cap. XXXV. 107 BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 64. 87


male ancora nell’aria e responsabili della peste, così da liberare gli uomini108. Ma la caratteristica istruzione di disinfezione dell’aria, che non ha riscontro in altri trattati sulla peste, può forse trovare una più semplice decifrazione nella teoria umorale (essendo le capre ritenute animali da temperamento caldo). Non dimentichiamoci però che, nello stesso tempo, la suddetta istruzione non è ritenuta sufficiente da sola, difatti è abbinata ad un’altra che contempla l’uso della calce, ritenuto più sicuro109. Il calore animale, perciò, adoperato con la calce per la disinfezione degli ambienti, come il calore della stufa per quella degli indumenti. Nonostante

le

influenze

evidentemente

fracastoriane,

l’Angelerio,

ricercando diligentemente le cause della peste110, sperimentò tamquam res sacra, e non deve meravigliare perciò se lo vediamo aduggiarsi non solo fra teorie umoral-astrologiche, ma sconfinare addirittura nella magia111: prodigi celesti, cattive esalazioni della terra e delle paludi, la viziata attitudine della materia e quindi estremo grado di putrefazione di sordide lane, la moria dei quadrupedi, l’appassire improvviso delle erbe, gli aborti, la presenza di larve, di infausti geni e di aeree podestà da Dio mandati come supplizio di giusto sdegno. Perfetto contagio demoniaco secondo la più schietta demonologia medievale112. Ma era inevitabile che si andasse a indagare il segno, o i segni, di un castigo divino, in un’epoca in cui la scienza era controllata dalla religione, la religione era imbevuta di superstizione e la gente, inclusi coloro che 108

L’idea di cui si sta parlando in questo paragrafo fa parte di una nozione molto importante all’interno degli studi di Storia delle religioni e implica l’immagine e il concetto del simile che richiama il simile. 109 ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., p. 146. 110 È chiaro quindi che il medico “napoletano” non smette di credere all’origine astrologica e soprannaturale dell’infermità voluta dalla divinità, e sente ancora forti le influenze delle teorie aeriste ed umorali. Tuttavia nelle sue opere egli dimostra d’aver recepito appieno la lezione di Fracastoro non tanto per il riferimento ai malefica semina causa del contagio, quanto perché da quella teoria scaturiscono l’ideazione dell’autoclave e la felice immunizzazione di coloro che erano già stati toccati dalla peste. VALENTI C., TORE G., Le innovazioni dell’igienista Angelerio ad Alghero, in Sanità e Società, Sicilia e Sardegna, secoli XVI-XX, cit., p. 219; MANCONI F., Castigo de Dios, La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, cit., p. 119. 111 La medicina magica. DODERO G., Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna, cit., p. 88. 112 Anche lo Scanu riporta l’idea di un tipo di scienza medica ancora assai influenzata e mescolata ad un tipo di terapia in cui non era assente un qualcosa di magico o paramitico. SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 94. 88


potevano abbellirsi della qualifica di dottore, viveva in un’agghiacciante ignoranza, con l’unica sicurezza del timor di Dio, del peccato, dell’inferno e del paradiso113. È interessante notare, quindi, quanto la religione, la magia e la superstizione influissero in istanti critici come la peste del 1582-1583. Per schivare, infatti, la perdita del sé, per avere un appiglio, una stampella d’appoggio ed evitare di cadere, l’individuo sente fortemente il bisogno, la necessità di riti e rituali che in qualche modo esorcizzino il momento critico e si dia quindi senso a ciò che senso, putroppo, non ha. Tra questi riti e rituali, riconosciamo gli ex voto come i più convenzionali fra tutti. Lo Scanu riporta, a questo proposito, un elenco di voti fatti in occasione della peste di Alghero114: « Vots novament fets en la peste l’any 1583. Al 19 de febrer se fa la festa de Sancta Ana y se va ab professó y s porta Nostra Senyora del Roser y sanct Sebastià. Lo Primer divendres de Mars se fa festa de Nostre Senyora de Misericòrdia y se fa professó per la terra. Item, a 2 de Juliol die de la Visitasiò de Sancta Elisabet de l’any 1583 se féu vot per los magíifichs consellers y la mayor part del poble en la iglesia de Sanct Francesch ab promesa cascun any de anar en professó en dita iglesia de Sanct Francesch y oyran la missa mayor ab devosió en la Capilla de la Visitasió de Sancta Elisabet. Apar per acte Rebut per mossèn Miquel Spert notari y secretari de la Cassa. A 2 de Agost Nostra Senyora dels Angells. Lo die de Sanct Lop al primer de setembre és vot de la terra y van los consellers a la Seu a missa Monsenyor Baccallar Reduhí tots los Vots antichs y los fets en la peste a tres Vots, a saber és: Lo die de Sanct Miquel que se va a la processó a la yglesia de Sanct Miquel y allí houen missa los consellers, a 29 de Settembre. Lo die de Sanct Sebastià a 20 de febrer van en processó los Consellers y houen missa en Sanct Agustí. Lo die de la Visitació de Nostra Senyora Sancta Isabel a 2 de Juliol van en processó los Consellers a Sanct Francesch y hohuen la missa. No hi a altres Vots. Antonius Jaume secretarius»115. 113

BUDRUNI A., Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento, cit., p. 62 SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., p. 112. 115 «Il 19 di febbraio si fa la festa di Sant’Anna, si va in processione e si porta (la statua) della Madonna del Rosario e di San Sebastiano. Il primo venerdì di marzo si fa festa per la Madonna della Misericordia e si fa una processione per le strade. Di seguito al 2 di luglio, giorno della visita di Santa Elisabetta dell’anno 1583, si fa una funzione per i magnifici Signori Consiglieri e la maggio parte del popolo sta nella chiesa di San Francesco e ogni anno 89 114


Uniamo al finale di questo lavoro il testo catalano tradotto, tutte le 57 Instructions, cercando di rimanere quanto più possibile fedeli all’autografo dell’Archivio Municipale e non perdere le molteplici sfumature del testo dell’Angelerio116. I.

Per prima cosa, affinché il Signore Dio plachi la sua ira per il giusto sdegno suscitato dalla città di Alghero, procurino gli abitanti della stessa di occuparsi nel fare digiuni, preghiere, voti e di esercitarsi in opere pie.

II.

Che si eleggano dieci persone di grande reputazione per il governo della Città che verrà divisa in dieci zone in modo che ciascuno curi la sua. A tali deputati si conferisca sufficiente potere e facoltà tale da poter liberamente punire i disobbedienti, senza alcuna consultazione preliminare con altri Magistrati, nel far bruciare gli oggetti sospetti, serrare le case, stabilire guardie e fare quanto confideranno necessario in ordine alla salute.

III.

Che si comunichi con pubblica grida di chiunque trattiene un malato in casa o sappia di malati che si trovano in altre case, l’obbligo della denuncia incombe, entro il termine di sei ore, nelle mani dei Guardiani del Morbo, o dei Magnifici Consiglieri, o dei Deputati della Sanità.

IV.

Che fintantoché dura il sospetto che uno sia stato colpito dalla peste, nessuno vada a fargli visita, e neppure debba mescolarsi con gli ammalati se prima non siano stati visitati dai medici e questi abbiano escluso il sospetto di peste e ciò per evitare maggior danno.

promette di andare in processione in detta chiesa ad ascoltare la messa maggiore con devozione nella cappella dedicata a Santa Elisabetta. Il 2 di agosto si festeggiava la Signora degli Angeli. Il I di settembre “lo dia de Sant lop” si facevano i voti per la terra e assistevano in cattedrale i Consiglieri. Monsignor Baccallar ridusse tutti i voti antichi e le feste per la peste a tre voti soltanto: Il giorno di San Michele che si va in processione nella chiesa di San Michele e lì partecipano i Consiglieri, il 29 di settembre. Il giorno di San Sebastiano, il 20 febbraio, si faceva la processione con i Consiglieri e presenziavano alla messa a Sant’Agostino. Il giorno di nostra signora a Santa Isabella, il 2 di luglio, i consiglieri a San Francesco partecipano alla messa. Non ci sono altre giornate di voti». A. S. C. A., Libre de les serimònies de Barcelona, Vol. 503, fol. 3-3v. 116 Traduzione effettuata tramite il supporto del testo dello Scanu (SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 119-121) e dell’Atzeni (ATZENI V., Quinto Tiberio Angelerio insigne igienista precursore della stufa a secco, in Humana studia, serie II, anno VII, cit., pp. 150-156). 90


V.

Che si debba chiudere l’ospedale stabilendovi guardie sufficienti si da impedire che i ricoverati possano andare fuori e mescolarsi con gli altri, perché è un luogo sospetto e di cattiva salute. Ai ricoverati si diano i viveri e le medicine necessarie.

VI.

Che i Guardiani del Morbo e i Deputati per la Salute si riuniscano due volte al giorno nella “Casa della Città” per consigliarsi tra di loro sull’andamento del male contagioso e darne notizia ai Magnifici Consiglieri assistiti dai Medici.

VII. Si dia fuoco ai materassi e alle suppellettili della casa che ne ha ricevuto l’ordine e che ciò si faccia con grande premura perché di lì vuole che si sia diffuso il male contagioso. VIII. Che se qualche povero venisse ad ammalarsi di malattie comuni e non volesse ricoverarsi nell’ospedale, il Governo della Città gli somministri a domicilio il necessario come se stesse nell’ospedale e ciò per evitare il rischio che il male aumenti. IX.

Non si abbiano, assolutamente, adunanze né giochi né balli.

X.

Per togliere ogni sospetto per il dubbio che si ha al presente che quando muore qualcuno che sia morto di peste, non si seppellisca alcun cadavere che prima non sia stato visitato dai medici o dai chirurghi, e quando gli stessi hanno comunicato parere positivo, i parenti del defunto lo debbano trasportare nel cortile o nella porta della casa per minor pericolo.

XI.

Si scelgano due luoghi isolati della città, uno per gli appestati e l’altro per i convalescenti e finché detti luoghi non siano stati aggiudicati, le persone sospette potranno stare nelle loro case, sorvegliate da guardie e divise dai familiari per quanto è possibile.

XII. Che si nominino dei becchini, i quali debbano abitare appartati e non possano uscire senza un Deputato per la Salute che li guidi. Sarebbe molto meglio, più sicuro e scevro di rischio, se si potessero scegliere fra persone che abbiano patito la peste in altro tempo ed in altro luogo. XIII. Si informi che, per non portare gravi danni agli abitanti, le cose ed i mobili che non si usano, si tengano in disparte perché non si possano contagiare e ciò finché la città non sia disinfettata. XIV. Che si debbano avvertire i Consiglieri ed i Giurati della Città di Barcellona con la quale Alghero tiene attivo traffico, della peste 91


scoppiata in questa città perché badino a che le lettere non vengano defraudate, onde sottrarsi a ulteriori sciagure. XV. Sia vietato il commercio di interiora di animali vecchi, di carne di animali morti per malattia, e tanto meno di pesci di stagno e di altre carni di bassa qualità. XVI. Che i Guardiani del Morbo debbano ogni giorno con i medici, visitare le case sospette e tener conto di quelli che vi abitano; trovando persona malata la portino via per isolarla e gli altri vi restino con una severa sorveglianza finché non si trovi un luogo isolato anche per essi. XVII. Si ordina che alcuna persona di una casa sospetta non possa uscire per andare nella città e ciò sotto gravi sanzioni, perché non ne nascano inconvenienti e danni. E che le guardie le debbano servire e dar loro recapito necessari. XVIII. Nel momento in cui si verifichi un caso di peste, i becchini debbano condurlo o all’ospedale o al luogo di isolamento (tancat) insieme al letto dove ha dormito. Ciò nonostante trattandosi di persona di riguardo, potrà restare in casa sua se si tratta di caso già sospetto. Negli altri casi non si conceda assolutamente il soggiorno nella propria casa, il malato deve essere dislocato nel luogo di isolamento fra gli altri contagiati. XIX. Sulla porta di una casa sospetta, o già contagiata, si dipinga una croce rossa sicché la popolazione possa evitarla. XX. Che i chirurghi stiano nel luogo di isolamento o all’ospedale sia per curare gli appestati, che per effettuare le cure prescritte dai Medici e si proibisca loro di uscirne se non per curare gli altri contagiati e ciò solo con l’assistenza dei Guardiani del Morbo e delle guardie. XXI. Che si designino alcune persone di fiducia che debbano stare nei luoghi di isolamento per dare residenza agli ammalati e per il loro governo ed assistenza. XXII. I farmacisti debbano dare ai poveri le medicine necessarie per proteggersi dal male, tenendo conto di ciò che si dà in modo che, se risultasse come posseggano qualcosa, paghino, altrimenti vi debba pensare il Governo della Città.

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XXIII. Ogni settimana la città sia ripulita dagli stracci e da ogni cosa morta, se si trova cuoio non conciato o lana grezza, marcia si collochi in luogo isolato; si sopprimano i tacchini e i gatti, poi si lancino in mare. XXIV. Si debbano lavare per bene i pozzi; e poiché ad Alghero si trova gran quantità di Boliarmeni se ne versi ogni mese un sacco in ogni pozzo ed una certa quantità nelle botti del vino per preservare gli umori dalla cattiva qualità e corruzione a causa della cattiva salute e contagio corrente. XXV. Che si faccia buon rifornimento di legna e ramaglia per accendere molti fuochi nella città, dentro le case sia di giorno che di notte, si profumino le persone per rimuovere o mitigare la cattiva qualità di qualche aria corrotta (disaura) che si potesse respirare e per maggior sicurezza dei singoli. XXVI. Che gli effetti d’uso infestati e di poco valore si debbano, senza indugio, bruciare e le suppellettili di valore si sterilizzino col bucato, si espongano al vento o si passino al calore del forno che sarà cosa più sicura. XXVII. Che si debbano fare frequenti accertamenti nelle farmacie perché si procurino da altri luoghi le medicine di cui scarseggiano ed anche per il gran bisogno che se ne potrà avere durante la peste. XXVIII. Si facciano bandi e si minaccino gravi pene perché nessuno si trasferisca da una casa all’altra o bruci le suppellettili senza averne preventiva licenza dai Guardiani del Morbo, perché non ne venga alcun danno. XXIX. Si facciano sparare alcuni tiri di artiglieria, di cannone e di archibugi nell’ambito della città e si facciano suonare le campane, tutto ciò per purificare l’aria. XXX. Nel momento in cui i medici riscontrano un nuovo caso di peste debbano avvisarne i Guardiani del Morbo perché possano provvedere alla sua custodia ed ai suoi bisogni. XXXI. Che quando si condurrà o passerà qualche malato al luogo di isolamento o al lazzaretto, o alcun morto per il seppellimento, si debbano chiudere le porte e le finestre delle case ove si passi, si spruzzino profumi, si suoni un sonaglio perché ognuno stia in guardia per non prendersi l’aria corrotta e con essa l’infezione. 93


XXXII. I morti di peste si debbano inumare nel termine di sei ore, in cimiteri appartati e mai dentro le chiese in quando luoghi molto frequentati e con aria corrotta; che le fosse siano molto profonde tali che non ci siano esalazioni e corruttele d’aria e siano cosparse di calce viva. Le persone che muoiono fuori della città siano sotterrate fuori della stessa in luoghi appartati. XXXIII. Che, fra le solennità delle messe, nel dare la pace si faccia in modo che non ne si verifichi maggior contagio. XXXIV. Tutti i vagabondi ed i disoccupati debbano stare di giorno fuori delle città per evitare gli scambi (lo contractar). XXXV. Tutte le altre persone stiano chiuse nelle loro case e non ne esca che uno solo per la spesa, ma che sia fornito di biglietto rilasciato dal Guardiano del Morbo del suo quartiere. XXXVI. Chiunque debba uscire di casa porti una canna di sei passi e ognuno se ne stia lontano dall’altro secondo la lunghezza della canna stessa. XXXVII. Come ordinato per i farmacisti, i medici visitino quanti ne hanno bisogno; i ricchi pagheranno a tempo debito, per i poveri penseranno i Consiglieri della città. XXXVIII. Nelle macellerie sia collocato un largo parapetto (parabanda) così che nessuno possa avvicinarsi molto al banco e la stessa cautela di usi nelle rivendite di pane, di vino e di altri generi alimentari; chi dà e chi riceve i soldi li disinfetti con aceto o acquavite. XXXIX. Che si debbano allestire dei forni come quelli in uso per cuocere pianelle (rejolas) e che dalla parte sottostante si accenda il fuoco in modo da riscaldare quella sovrastante fatta a modo di un ambiente ove si scalderanno intensamente, chiudendone lo sportello, le robbe infette della città passate prima nel bucato, in ordine e per cura dei Guardiani del Morbo. XL.

Per la confessione siano preparati dei confessionali portatili a tre aperture, due laterali ed una anteriore con vetri o cristalli per evitare il respiro dei malati. Per maggiore serenità del confessore, tale confessionale, all’occorrenza, sarà aromatizzato, collocato nella cappella, chiusa a chiave e poi trasportato dai becchini a mezzo di stanghe, presso il paziente per amministrargli i 94


sacramenti. Ciò fatto il confessionale sarà riposto in luogo sicuro fino a nuova occorrenza. XLI. Che il Guardiano maggiore del Morbo della settimana, debba provvedere di tutto il necessario, delle persone del luogo di isolamento e del Lazzaretto e altrettanto debbano fare le altre Guardie del Morbo per gli altri contagiati chiusi nelle loro case e sorvegliati da guardie. XLII. Che il suddetto Guardiano maggiore debba fare l’inventario delle suppellettili, dei letti e di tutte le cose che entrano nel Lazzaretto o nel luogo di isolamento, lasciando le migliori per uso dei ricoverati ed il resto incenerirlo perché non sia rubato e rechi maggior danno. XLIII.Che i malati che non possono curarsi e sostentarsi comodamente nelle loro case, si debbano trasportare al luogo di isolamento o al Lazzaretto accompagnati da guardie per far allontanare la gente lungo il transito. Che non si metta a letto alcun malato senza che prima si sia fatta la debita sterilizzazione, profumata la camera e fatti buoni fuochi. XLIV. Che le robe del Lazzaretto di mano in mano si debbano passare nel bucato e dopo attraverso il calore del forno. XLV. Nella stagione calda intorno e alle pendici dei monti, nei luoghi boscosi, si facciano fuochi che non rechino danno ai proprietari e ciò per mitigare e purificare l’aria. XLVI. Per allevare i lattanti contagiati e rimasti orfani o senza nutrice, si tengano nel Lazzaretto delle capre partorite con buon nutrimento. XLVII. Gli appestati con bubboni o antraci si debbano sottoporre all’incisione dei medesimi o lasciar trattare con cauteri di fuoco secondo il giudizio dei medici; i riottosi debbano essere legati affinché i chirurghi possano intervenire. XLVIII. Le persone sospette o convalescenti non debbano avvicinarsi ad alcuna persona senza aver fatto la quarantena, passato cioè il plenilunio e l’altro quarto di luna. XLIX.Per igienizzare le case della città adesso che la peste accenna, grazie a Dio, a diminuire, si debba introdurre nella città una gran quantità di caproni e di capre da distribuire nottetempo nelle case, 95


il che si praticherà per qualche tempo; tuttavia per maggior sicurezza, imbiancare le case per mezzo di imbianchini che abbiano superato il contagio. Per le case non molto sospette, basterà farle arieggiare lasciando le finestre aperte, spruzzarle con aceto e profumarle con molti fuochi. L.

Che le persone che stanno fuori o nelle vicinanze della città e che abbiano sofferto di cattiva salute, non possano entrare in città prima che sia bene verificato lo stato della loro salute, e che non possano prendere alloggio senza il consenso del Guardiano del Morbo della zona, affinché si assicuri che non prenda soggiorno in una casa che non sia stata disinfettata, ed ancora che non possano entrare nella città se prima le loro cose non siano state passate per bucato e per il calore del forno con l’assistenza di un Guardiano del Morbo. Una volta poi che costoro abbiano potuto prendere alloggio, stiano ritirati per alcun giorno senza praticare con alcuno.

LI.

I padroni di casa e gli inquilini sia di dentro che estranei alla città, facciano sterilizzare, imbiancare, ventilare, annaffiare le case; e se non vi provvedono, ci pensi la Magnifica Città di farlo fare a loro spese.

LII.

Che in nessun modo alcuno osi vendere stoffe di lino, lana, seta, cotone, senza il benestare del Guardiano del Morbo del suo quartiere, per evitare che sia contagiata.

LIII. Che i Guardiani del Morbo e i Deputati della Salute disinfettino la città, ognuno nella sua zona, casa per casa, imbiancando quelle che si presentano oscure e opprimenti (soffegades) facendovi pure molti fuochi e profumi, bagnando le altre con aceto; altrettanto faranno alle pareti ed ai cuoi dorati, alle stoffe di lino, lana, cotone, seta, passate al bucato e al calore del forno. LIV. Fatto ciò, i Magnifici Consiglieri, i Deputati, gli infermieri, il dottor Angelerio (dal momento che l’altro è morto), debbano procedere per una visita generale alla città, casa per casa, informandosi e facendo prestar giuramento che i Guardiani del Morbo abbiano offerto la dovuta diligenza nel decontaminare le case, e se sembrasse loro di aver riscontrato qualche mancanza, si dia il tempo di sei giorni per rimediarvi. LV.

Per maggior sicurezza debba ognuno esporre le masserizie della sua casa per dieci giorni in luogo alto ed esposto al vento in 96


modo che, i Magnifici Commissari che faranno ivi visita per concedere la delibera, trovino tutto a posto. LVI. Si faccia un bando perché chi sia a conoscenza di qualcheduno che non abbia eseguito gli ordini dati per la disinfezione, lo comunichi ai Magnifici Consiglieri ed ai Guardiani del Morbo, i quali non solo conserveranno il segreto della segnalazione fatta, ma concederanno anche una ricompensa di cinque lire. LVII. Si dovrà così disinfettare il luogo di isolamento ed il Lazzaretto che è fuori della città nel modo sopraddetto, e si brucino tutte le cose che vi si recuperano dentro. I ricoverati, fatta la quarantena, entrino in città vestiti a nuovo con indumenti disinfettati. Si sistemi e riorganizzi l’ospedale di Sant’Antonio così come era prima.

97


3.3 La peste del 1582-83 e i recenti scavi archeologici Varie sono state le ragioni per cui si è scelto di sviluppare uno studio attorno alla calamità che ha invaso Alghero più di quattro secoli orsono; tra queste, una delle più importanti risulta la paradossale attualità dell’argomento. Infatti, tra il giugno 2008 e il settembre 2009 è stata realizzata una campagna di scavi nei pressi del cimitero di San Michele ad Alghero, ad opera del Prof. Marco Milanese117; da questa indagine archeologica sono scaturite delle scoperte assai attinenti con il nostro studio. La posizione topografica dello spazio in questione, oggigiorno compreso tra via Carlo Alberto e Largo San Francesco, presenta un notevole interesse, poiché situato su una dolce altura nel settore a Sud-Est della città, prossimo (e interno) alle mura medievali, ad alcune torri e quindi alla chiesa di San Michele. Nel Medioevo, l’area era occupata dalla chiesa sopracitata e dall’adiacente ed esteso cimitero urbano; luogo che venne adoperato dagli ultimi anni del 1200 fino agli inizi del Seicento. A partire dal 1589, con lo stanziamento dei Gesuiti e del loro Collegio, si determinò il progressivo svuotarsi dell’area cimiteriale a favore del grande stabilimento religioso118; infatti nel 1625 i padri ottennero la dislocazione del fossar o simiterio in una superficie prossima alla chiesa di Santa Maria119. È così che venne

117

Marco Milanese è Professore ordinario di Archeologia Urbana presso l’Università di Sassari, dove insegna anche Archeologia Medievale. È docente di Archeologia Medievale nella Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Pisa e ha insegnato nelle Università di Genova, Siena e Cagliari. È stato ispettore archeologo nella Soprintendenza Archeologica della Toscana (Firenze) e conservatore del Museo Archeologico di Montelupo Fiorentino. Dal 1973 ha partecipato e diretto 200 campagne di scavo e di ricerca in Tunisia, Portogallo, Toscana, Liguria, Lombardia, Abruzzo e quindi anche Sardegna dove è stato direttore scientifico degli scavi archeologici nel centro storico di Alghero dal 1997 al 2009. MILANESE M., a cura di, Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII-inizi XVII secolo). Campagna di scavi giugno 2008-settembre 2009, Alghero 2010. 118 Le modalità di questa lunga contesa immobiliare furono oggetto di una trattativa tra i Consiglieri della Città e la Compagnia di Gesù; l’accordo a cui si arrivò fissò la donazione della chiesa di San Michele e del cimitero ai Gesuiti, che valutarono positivamente l’offerta: «la yglesia de S. Miguel…es muy capaz y linda…con su simiterio junto a ella que es lugar muy capaz para collegio, y esta en el punto mas sano de la ciudat, y assi a juhicio de todos es el lugar mas al proposito que ay par edificar collegio». MILANESE M., Les excavacions arquelògiques al Quarter. Interessants descobertes al campsant de Sant Miguel, in L’Alguer, XXII, 122, Alghero 2009, p. 17. 119 Successivamente del vecchio edificio medievale i Gesuiti si lamentarono a lungo, sostenendo che la chiesa era «…molt chica, en ruin lloch, vella y discomoda…». MILANESE M., L’arxiu biològic de l’Alguer entre 98


ridisegnata la planimetria di questo settore di Alghero. Come i Gesuiti lasciarono la città (1773), il complesso architettonico ebbe, nell’Ottocento, usi quasi esclusivamente militari, tanto da deciderne l’appellativo che ancora oggi definisce la zona, appunto Lo Quarter, “La Caserma”. Successivamente le sue funzioni si ingentilirono e furono riservate a ragioni scolastiche, di biblioteca e di abitazioni private; esito dei rilevanti danni cagionati dai colpi dei bersaglieri dell’ultimo conflitto mondiale120.

Alghero e Lo Quarter.

È quindi proprio qui che, solo qualche anno fa, è stato fatto «un ritrovamento finora unico non solo in Sardegna e nella Penisola italiana, ma anche in più ampia cornice mediterranea»121. Sono stati scoperti, infatti, quasi 600 scheletri in tombe di almeno 5 periodi cronologici differenti che dal 1280 circa arrivano fino al 1590-1620; la quarta, di queste fasi, è riferibile proprio alla grande epidemia del 1582-1583. Nel cortile interno dell’antico Collegio122, l’équipe di archeologi123 ha rinvenuto 15 sepolture collettive a “trincea”, vale a dire a fossa lunga (5-6 el XIII i XVII sècul. La descoberta del campsant medieval al “Quarter” de Sant Miguel, in L’Alguer, XII, 125, Alghero 2009, p. 10. 120 MILANESE M., a cura di, Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII-inizi XVII secolo). Campagna di scavi giugno 2008-settembre 2009, cit., pp. 15-17. 121 Ivi, p. 15. 122 L’operazione archeologica è stata convogliata (con la partecipazione stabile in cantiere di un’archeologa medievalista, la Dott.ssa Alessandra Deiana) verso due distinte superfici di scavo: un’area ubicata nei 99


metri) e stretta, contenenti i resti di 10-15 persone cadauna, deceduti simultaneamente o a breve distanza di tempo, tanto da permetterne l’inumazione pressoché contemporanea124. Oltre alle suddette trincee, alla stessa fase cronologica appartengono più di 10 sepolture multiple di struttura rettangolare, con un numero medio di 6 interrati125.

Esempi di sepoltura a trincea (Agosto 2009)126 e di sepoltura multipla (Luglio 2009)127

Secondo il Prof. Milanese, da queste informazioni, si evince il fatto che, poiché il seppellimento dei cadaveri è avvenuto simultaneamente, è possibile che ciascuna trincea riunisca individui deceduti in un unico giorno o in più giornate tra loro ravvicinate; inoltre un altro fattore rilevante per l’interpretazione delle sepolture collettive in trincea e multiple, è la possibile

pressi dell’accesso allo stabile ed il cortile interno. MILANESE M., Les excavacions arquelògiques al Quarter. Interessants descobertes al campsant de Sant Miguel, in L’Alguer, XXII, 122, cit., p. 18. 123 Il team tecnico-scientifico al lavoro ha compreso 15 tra gli archeologi e gli antropologi, diretti dal Prof. Marco Milanese, Ordinario di Archeologia nell’Università di Sassari. Forte quindi e sinergica la collaborazione tra la stessa Università e il Comune di Alghero. MILANESE M., L’arxiu biològic de l’Alguer entre el XIII i XVII sècul. La descoberta del campsant medieval al “Quarter” de Sant Miguel, in L’Alguer, XII, 125, cit., p. 8. 124 Nonostante contengano un numero così elevato di individui, le sepolture a trincea non sono definibili come fosse comuni (in cui viene a perdersi l’identità del morto), bensì come sepolture multiple o collettive. Ivi, p. 13. 125 Queste sepolture multiple a loro volta intersecano, tagliandola, una fase sepolcrale a fossa singola, probabilmente di una cronologia diversa e non interessata da eventi epidemici. Ivi, p. 12. 126 Fase di documentazione della trincea di pestilenza n. 13. MILANESE M., a cura di, Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII-inizi XVII secolo). Campagna di scavi giugno 2008-settembre 2009, cit., p. 21. 127 Scavo di una sepoltura collettiva che ha restituito i resti di 15 individui, fra questi una donna incinta con la mano che protegge il grembo. Ivi, p. 22. 100


familiarità dei soggetti sepolti128. Quindi, a braccetto con la documentazione storico-letteraria, anche la documentazione archeologica conferma l’immagine di un vero e proprio dramma collettivo, che ha trafitto violentemente la popolazione algherese, decimando interi nuclei familiari, falcidiati da una mortalità pressoché sincronica.

Fase di scavo della trincea di pestilenza n. 7 che ha restituito i resti scheletrici di 13 individui con importanti indicatori di familiarità: la presenza di una giovane madre che stringe i due figli, di 6 e 10 anni (Marzo 2009)129.

In realtà, sebbene sia lungi da questo studio mettere in dubbio le conseguenze catastrofiche dell’epidemia del 1582-1583, probabilmente «questo momento critico della città è stato consegnato alla storia… carico di tinte esagerate, fosche e con valenze assurdamente apocalittiche»130; infatti è possibile che l’intensificazione della portata del fenomeno (150 sopravvissuti e 6000 morti131) sia stata finalizzata dall’esigenza di ottenere

128 Infatti spesso la disposizione dei corpi nelle fosse rileva spesso e volentieri adulti (plausibilmente genitori) che avvolgono con le braccia bambini o ragazzini (quasi certamente i figli). Ibidem. 129 Ivi, p. 23. 130 NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., p. 127. 131 Tali dati vengono riportati dal Toda e ricordati da Nughes che, se allontana l’ipotesi dei soli 150 sopravvissuti, troppo inverosimile, crede che col numero dei morti non si sia troppo lontani dal vero. Ibidem. 101


delle diminuzioni sui tributi che ogni città saldava in base alla quantità dei fuochi o delle famiglie132. «Le dimensioni della peste hanno cominciato ad assumere contorni più realistici quando ho percorso statisticamente i dati forniti dai registri dei battesimi, conservati negli archivi della curia vescovile e che datano a partire dal 1547. L’esame ha interessato tutta la seconda metà del secolo XVI, e da esso emerge… una sostanziale stabilità di battesimi e quindi di nascite»133.

Lo scavo del cimitero ed in particolare dei cicli della pestilenza, restituisce le storie delle singole persone (cavalieri, artigiani, pellegrini, vedove, neonati), del loro vissuto, della loro alimentazione, delle loro possibili patologie; le storie dell’antica gente di Alghero.

Mostra didattica proposta dal Prof. Milanese che offre una passeggiata virtuale tra le virtuale tra centinaia di sepolture, testimonianza dell’epidemia di peste che colpì la città di Alghero a fine Cinquecento.

Pertanto dagli scavi e dai corpi rinvenuti, si deduce che i caratteri della popolazione cimiteriale in esame, paiono riconducibili ad un gruppo etnico alloctono, di possibile ambiente catalano, emblematico di quell’enclave stabilitasi ad Alghero a seguito della conquista, dopo il 1354. L’apparente assenza sulle ossa degli inumati di indicatori ergonomici di attività lavorative logoranti, suggeriscono che le persone sistemate nelle 132

SCANU P., La pesta de 1582-1583 a l’Alguer. L’obra de Quinto Tiberio Angelerio, cit., pp. 122-124. Per gli anni relativi alla peste i dati sono: 205 battezzati nel 1580, 217 nel 1581, 156 nel 1582, 63 nel 1583. Il quasi totale spopolamento non può quindi reggere già con i 63 battesimi amministrati nel 1583; in più l’anno seguente si ha un quasi ritorno alla normalità con 174 bambini battezzati. NUGHES A., Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, cit., pp. 128-129 102 133


sepolture a trincea facessero parte di un ceto sociale medio, forse artigiani benestanti o commercianti; esclusi contadini, muratori o pescatori134. Le osservazioni su campioni di scheletri hanno rilevato non solo la condizione sociale privilegiata degli individui a cui appartenevano, ma anche alcune patologie velocemente monitorabili: non c’è traccia di anemia mediterranea, alcuni recano segni dovuti a brutte cadute e fratture non ben ricomposte, quindi fragilità ossea e forse tubercolosi135. Reperti particolari rinvenuti a contatto con alcuni scheletri ci parlano di storie di individui, storie anonime (nessuno scheletro era associato a una lapide o da un appellativo scritto), storie di persone vissute sulla “nostra terra”. Si riporta, per esempio, il caso dell’ottuagenaria che nascondeva gelosamente un gruzzoletto di spiccioli arrotolato con cura in un ritaglio di stoffa e custodito nelle tasche della veste; probabilmente il riguardo per una anziana signora, oltre che la paura del contagio, ha frenato l’avarizia e dissuaso i seppellitori dal saccheggio. Può essere ricordata anche un’altra vicenda, sempre di una donna, una devota rientrata ad Alghero dopo un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, dove aveva acquistato un ciondolo di San Giacomo: souvenir che si porterà accanto fino alla tomba136. Nella medesima sepoltura è stato recuperato anche un singolare amuleto di corallo del XVI secolo: un ramo di corallo lungo una decina di centimetri, arcuato, con un cappello di argento finemente intagliato, con un motivo ornamentale di foglie incise, ed un anello affinché fosse possibile appendere il portafortuna “a mo’ di collana”137. 134

MILANESE M., a cura di, Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII-inizi XVII secolo). Campagna di scavi giugno 2008-settembre 2009, cit., p. 24. 135 Ibidem. 136 Altri di tali pii souvenir sono stati trovati e tutti provenienti, probabilmente dalla Galizia; tra questi un ciondolo in giaietto (una tipologia di pietra nera). Infatti, nel Museo del Azabache a Santiago di Compostela, sono conservati oggetti simili; testimonianza del fatto che con ogni probabilità vi esisteva un artigianato specializzato nella produzione di queste manifatture, che i pellegrini giunti da tutta Europa acquistavano nelle botteghe locali. MILANESE M., L’arxiu biològic de l’Alguer entre el XIII i XVII sècul. La descoberta del campsant medieval al “Quarter” de Sant Miguel, in L’Alguer, XII, 125, cit., p. 15. 137 MILANESE M., a cura di, Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII-inizi XVII secolo). Campagna di scavi giugno 2008-settembre 2009, cit., p. 25. 103


Ciondolo raffigurante San Giacomo138 e amuleto in corallo con particolare del cappelletto in argento (Agosto 2009)139.

Né l’amuleto in corallo, né il ciondolo votivo furono tuttavia in grado di proteggere la loro facoltosa proprietaria, che perì in compagnia di molti parenti o conoscenti, insieme ai quali venne sepolta da braccia pietose che le lasciarono, in segno di rispetto, quei preziosi oggetti140. Concludiamo con una riflessione del Prof. Milanese sopra il valore della scoperta, dell’oggetto della scoperta e, in particolar modo, del luogo. «I luoghi della memoria biologica di una città sono i cimiteri, dove sono raccolti i resti scheletrici delle persone che nella propria vita hanno diversamente contribuito a fare della città quel luogo ricco di identità e di coscienza storica quale lo viviamo noi oggi. Sono proprio le ossa, materia vivente e struttura portante della persona, a funzionare, durante la vita, come nastri magnetici in grado di registrare il tipo di regime alimentare e le sue eventuali carenze, alcune malattie, il profilo genetico, il sesso, l’età di morte, ma anche il tipo di attività lavorativa (nel caso di mestieri particolarmente usuranti). Un cimitero antico è oggi quindi sempre più considerato al pari di un archivio di documenti e pergamene ed una singola tomba è vista come una dettagliata carta di identità biologica dell’individuo sepolto, che riemerge dopo secoli dal sottosuolo.»141. 138

Rappresenta San Giacomo pellegrino, con barba e ampio mantello, bastone da viandante, un cappello con larga tesa su cui è cucita una conchiglia ed un libro nella mano sinsitra. Apparteneva ad una donna sepolta nella trincea n.10, indicatore di un pellegrinaggio devozionale a Santiago di Compostela. Ibidem. 139 Gioiello appartenente alla stessa donna sepolta nella trincea n.10., oggetto di grande importanza in quanto si tratta, probabilmente, di un manufatto fabbricato da quegli artigiani specializzati nella lavorazione del corallo, presenti in alto numero ad Alghero. Ibidem. 140 MILANESE M., L’arxiu biològic de l’Alguer entre el XIII i XVII sècul. La descoberta del campsant medieval al “Quarter” de Sant Miguel, in L’Alguer, XII, 125, cit., p. 15. 141 Ivi, pp. 7-8. 104


CONCLUSIONI

Un carattere simbolico è stato da sempre assegnato a quelle malattie che, nelle diverse epoche, hanno convogliato su di sé le paure e le inquietudini dell’umanità, influenzando tanto l’immaginario mitico e letterario quanto la riflessione filosofica e religiosa. Quelle patologie, che hanno costituito veri e propri flagelli e che hanno dato prova dell’impotenza e della fragilità umana, sono state trasferite dal piano meramente fisico degli eventi a quello morale e psicologico, offrendo ricchi spazi al discorso metaforico. La terribile piaga della peste, come si è visto, ha costituito un tema ricorrente sia nella letteratura antica sia in quella medievale e moderna. Dall’Edipo re sofocleo il viaggio è stato lungo e diversificato, lento e travagliato, ha valicato gli scogli settecenteschi, le barriere romantiche fino arrivare al grande secolo, il Novecento. Sembrava essere una questione superata, il bacillo scoperto e da mettere nel cassetto; e viceversa la peste coinvolge anche scrittori coevi e contemporanei. L’ultimo della lista appare lo scrittore Albert Camus (1913-1960)1 insieme al suo romanzo La Peste2. Qui è descritta l’epidemia che colpisce Orano, piccola città della costa algerina, isolata dal resto del mondo da un cordone sanitario degno di nota; all’origine una malattia che passa al vaglio ogni individuo con la sua miseria, il suo coraggio, il suo eroismo e la sua viltà. La città è ferita da un'epidemia inesorabile e tremenda; affamata, incapace di fermare la pestilenza, diventa il palcoscenico e il vetrino da esperimento per le passioni di un'umanità al limite tra disgregazione e solidarietà. La fede religiosa, l'edonismo di chi non crede alle astrazioni, ma neppure è capace di essere tranquillo da solo; il semplice sentimento del proprio dovere

1

Albert Camus (Mondovi, 7 novembre 1913– Villeblevin, 4 gennaio 1960), romanziere, filosofo esistenzialista e drammaturgo francese, Premio Nobel per la letteratura nel 1957. 2 CAMUS A., La peste, Parigi 1947. 105


fanno da protagonisti insieme all'indifferenza, al panico, allo spirito burocratico e all'egoismo delle istituzioni del morbo. In questo contesto opera il dottore del morbo; personaggio eroico nella sua lucida dedizione al mestiere: «Non so quello che mi aspetta né quello che accadrà dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi essi rifletteranno e anch’io. Ma il più urgente è guarirli; io li difendo come posso, ecco… Quello che è vero per i mali di questo mondo è vero anche della peste. Può servire a maturare qualcuno. Ciononostante, quando si vedono la miseria e il dolore che porta, bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste. Per questo l’epidemia non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla… Io so di scienza certa che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere spinti, in un minuto di distrazione, a respirare sulla faccia dell’altro e a trasmettergli il contagio. Il microbo, è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti; sì, essere appestati è molto faticoso; ma è ancor più faticoso non volerlo essere. Per questo tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si trovano un po’ appestati. Ma per questo alcuni che vogliono finire di esserlo, conoscono un culmine di stanchezza, di cui niente li libererà se non la morte»3.

La peste è stata, pertanto, anche un simbolo poderoso della "crisi" e della "malattia degenerativa" della città. La cultura classica infatti individua nel morbo la malattia endogena della polis per eccellenza, la spia del disordine sociale collettivo. La peste quindi come potente metafora, segnale del disordine pubblico, della catastrofe del nomos: alterazione della legge e distruzione del sacro ordinamento della città. Un dolore sociale intimo e collettivo, contro il quale concettualmente è più facile arrendersi che lottare: i pensieri bui e tutto ciò che di perfido dimora nell’animo umano, tutto ciò che sfugge al controllo. È il grande problema dell'assurdo, ossia dell'impossibilità di trovare senso e giustificazione all'esistenza umana e al dolore che essa contiene; l'antichissimo interrogativo sul significato del male (inconciliabile con la presenza di un Dio giusto e buono) viene riformulata in termini laici e si risolve nella 3

Ibidem. 106


constatazione lucida e senza speranza dell'ineluttabilità del male e della sua insensata gratuità. Un’evidente allegoria dell’indifferenza del mondo verso lo strazio di un popolo: il clima di terrore nel quale la gente è costretta a vivere, atterrita dalla minaccia del contagio, corrosa dallo spauracchio della morte. L'unica salvezza dalla disperazione può essere ricercata nella solidarietà fra gli uomini, l'unica rivolta possibile il rifiuto di portare altro male nel mondo. In questi momenti, privi di convinzioni e certezze il solo appiglio rimane dunque il credere fermamente nell’uomo e nella sua capacità di discernimento (se è vero che il male risiede nell’uomo, è altrettanto vero che in lui alberga anche la ragione.), nelle sue debolezze e nelle sue forze: immancabile l’egoismo di chi, lasciando prevalere in sé l’istinto di sopravvivenza, rifugge il pericolo, così come sempre presenti forme di collaborazione che il forte senso del dovere di alcuni stimola in altri. C’è chi, arrendendosi alla volontà di Dio, resta in attesa di sviluppi, e chi invece tramuta la propria impotenza in sfrenato attivismo; c’è chi fugge e chi se ne approfitta, chi aiuta e chi si nasconde, c’è chi dichiara il contagio e chi invece si adopera per tamponarne gli orrori. Che di peste figurata o reale si tratti, il messaggio d’esistenzialismo pessimista, trova quindi speranza e sollievo nell'azione, in tutti coloro che combattono questo male, tutti gli uomini, tutti i “dottori” che lottano con passione, fermezza e tenacia. «Quello che si impara in mezzo ai flagelli è che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare»4; vale a dire: il male non è vinto per sempre, abbiamo le armi per sconfiggerlo e dimostrare che anche in mezzo all’orrore ci possono essere mani e occhi che accarezzano anziché uccidere. Una piccola città costiera, una pestilenza, un dottore e uno scrittore che ne parla ancora oggi. Elementi che risuonano notevolmente familiari. 4

Ibidem. 107


Non sappiamo se l’Angelerio o Prof. Scanu abbiano inteso in qualche modo riconoscere anche solo alcuni di questi retroscena simbolici che troviamo in Camus e a proposito del significato dell’idea di peste; quasi sicuramente gli intenti di entrambi erano altri, tuttavia anche solo ipotizzare questa possibilità resta una teoria affascinante. Abbiamo quindi rilevato su quanti aspetti oggi possa essere indagato il fenomeno della peste: essa ha infatti un profilo storico-geografico evidente che ci ha permesso di esplorarne le origini e i percorsi di diffusione secondo le varie epoche; un’identità scientifico-patologica innegabile, un riscontro empirico rilasciato dai cimiteri custodenti le ossa degli antichi appestati, e infine, un coronamento filosofico-letterario che funge da spunto per riflessioni esistenziali.

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