1968: storia di una rivoluzione

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA POLITICA E DELL’AMMINISTRAZIONE

1968 STORIA DI UNA RIVOLUZIONE

Relatrice: PROF.SSA ALBERTINA VITTORIA

Tesi di Laurea di: ALESSANDRO SCOTTO

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



Indice Introduzione……………………………………………………………………… .p.1 1. Le Origini: The Movement. 1.1 La New Left…………………………………………………………… p.4 1.2 La Guerra in Vietnam ………………………………………………… p. 5 1.3 La lotta per i diritti civili e il Free Speech Moviment………………… p. 7 1.4 “Voglio essere orfano”……………………………………………….p. 10 1.5 “Una donna è donna per tutta la vita”…………………………………p. 14 2. La Nascita del Movimento in Italia. 2.1 Il Miracolo italiano ed il fallimento del centro-sinistra………………p. 15 2.2 “Anche l’operaio vuole il figlio dottore…”…………………………..p. 18 2.3 L’assassinio di Paolo Rossi…………………………………………….p. 21 2.4 1967. La prima fase…………………………………………………….p. 23 3. Il Sessantotto. 3.1 Il Sessantotto in America……………………………………………...p. 25 3.2 “Il est interdit d’interdire”……………………………………………p. 30 3.3 Il Sessantotto tedesco. Un progetto politico…………………………..p.34 3.4 Il Sessantotto italiano…………………………………..………………p. 38 Bibliografia



INTRODUZIONE Movimento generazionale e mondiale. Questo, in estrema sintesi, il Sessantotto. Partendo da queste considerazioni, e cercando di isolare il movimento americano, francese, tedesco ed italiano dal resto degli avvenimenti che in quegli anni si susseguono numerosi, si è tentato di comprendere cosa sia stato il Sessantotto; perché il movimento degli studenti è stato per certi versi un unicum nella storia contemporanea. Si è cercato quindi di evidenziare il contesto storico, culturale ed economico nel quale il processo del Sessantotto è nato e si è sviluppato, sino poi a comprenderne le cause che hanno decretato la fine. È opportuno però fare qualche precisazione. Se è condiviso il fatto che la contestazione del Sessantotto sia stata una contestazione generazionale, più discusso è il carattere globale della contestazione. Il sociologo Raymond Aron si chiede durante il maggio francese: “dobbiamo confondere tutte le rivolte, quelle degli studenti spagnoli privi dei diritti di cui godono i loro colleghi francesi, quella degli studenti americani che denunciano la guerra in Vietnam, e quella degli studenti cechi e polacchi i quali aspirano a libertà che a Parigi e a Berlino sono contestate solo dai contestatori più ardenti?” 1 Insomma le cause del movimento sono internazionali o sono invece nazionali e cioè diverse da Paese a Paese? Sembra essere quest’ultima la tesi che abbraccia Peppino Ortoleva nel suo saggio Il movimento del ’68 in Europa e in America, in cui descrive il carattere policefalo della protesta. Ad avallare la tesi di Ortoleva anche Marica Tolomelli che scrive nel suo Il Sessantotto: “il caso francese è a questo riguardo il più emblematico: gli studenti che inizialmente protestavano contro la rigida divisione tra i sessi negli studentati erano ben lontani dall’obiettivo ultimo su cui si qualificherà il movimento di maggio, ossia l’abbattimento del gaullismo e l’edificazione di un nuovo ordine sociale…così come gli studenti dello SNCC [Student Nonviolent Coordinating Commitee] all’inizio degli anni Sessanta non ambivano a fare una rivoluzione e neanche immaginavano ciò che sarebbe accaduto nei ghetti e nelle università tra la primavera e l’estate del 1968, gli studenti italiani, inizialmente mobilitati contro la legge 2314, non erano intenzionati a dare vita a una contestazione globale che coinvolgesse sempre di più vasti settori sociali.”2 E infatti problemi più vicini agli studenti sembrano spingerli direttamente alla contestazione, problemi che si uniscono poi a questioni di carattere mondiale che sono rese tuttavia trasmissibili solo, nota Nicola Gallerano, “dall’allentamento del vincolo geopolitico internazionale che caratterizza gli anni Sessanta, con il disgelo che ne è la manifestazione più appariscente.” 3 Così mentre negli Stati Uniti è il timore degli studenti di non poter più discutere di temi extra-curriculari a spingerli, nel 1964, a creare il Free Speech Moviment, in Italia sarà la legge Gui, la così detta “ventitré-quattordici” volta a indebolire il titolo di laurea, ad innescare la protesta degli studenti; mentre in Francia le proteste convergono su principi fortemente anti-autoritari solo dopo il 22 marzo 1968 (data in cui i giovani di Nanterre decidono di occupare la sede dell’Università per protestare contro l’arresto di un loro collega), in Germania la protesta si innesca, non esaurendosi su di esse, sulle istanze della opposizione extraparlamentare contro le leggi di emergenza che minacciano i diritti civili 1

R. Aron citato in P. Ortoleva, Il movimento del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 36. M. Tolomelli, Il Sessantotto, Carocci, Roma, 2008, p. 112. 3 N. Gallerano, citato in Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia, t. 2, Torino, Einaudi, 1995, pp. 385-476, p. 385. 2

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sanciti nella Carta Costituzionale. Sullo sfondo due macro-ragioni, individuate con estrema sintesi ma con altrettanta chiarezza da M. Flores, che spingono i giovani, in primis quelli americani, alla contestazione: “Razza e Guerra”4. Guerra. La guerra in questione è quella del Vietnam, voluta dall’amministrazione repubblicana Eisenhower, avviata dal Presidente democratico Kennedy ed intensificata sotto la presidenza Johnson. I giovani riescono a intravedere nel conflitto indocinese una possibilità che sembrava fino ad allora negata. “Dalle risaie del Vietnam, ci dicevamo nelle riunioni, viene una lezione che nessun barone può darci – e che ha interesse a darci – da dietro una cattedra”, ricorda Mario Capanna.5 Iniziano così in America, dove il movimento ha mosso i suoi primi passi, i cortei contro la guerra in Vietnam in particolare, contro ogni tipo di guerra in generale. Ma sino a che la contestazione è monopolio degli studenti, questa non crea nessun tipo di apprensione alla classe dirigente americana. È quando la società civile, spinta dalle notizie provenienti dal piccolo Paese indocinese, si unisce ai giovani che allora cambia l’atteggiamento dell’establishment militare e politico. Inizia così una campagna di discredito nei confronti dei giovani che però non hanno nessuna intenzione di farsi manipolare e tentano in tutti i modi un confronto con i giovani come loro che rischiano la vita in un Paese straniero per una guerra che non è la loro. Razza. La questione razziale è un problema che il presidente Kennedy, all’esordio del decennio, è deciso a risolvere. Propone più volte il Civili Right Act, una legge che di fatto abolisce qualsiasi tipo di discriminazione, ma tutti i suoi sforzi sono vani contro il conservatorismo del Congresso. Ci vorrà l’impegno del presidente Kennedy a spiegare ai cittadini nel maggio del 1963, attraverso il mezzo televisivo, la bontà della legge, ci vorrà ancora un’immensa processione a favore della legge, sulle note di “We Shall Overcome”, al Lincoln Memorial e l’immaginazione del Reverendo Martin Luther King nell’agosto dello stesso anno, ma ci vorrà soprattutto un altro presidente affinché la legge possa finalmente essere votata dal Congresso. Ma guerra e razza non bastano per spiegare il movimento dei giovani: un mondo completamente diverso da quello lasciato loro dai padri, rei agli occhi degli studenti di trascinare l’umanità sempre sull’orlo del baratro; principi costituzionali che restano lettera morta; il processo di massificazione della scuola che da una parte rende l’istruzione possibile e praticabile a chiunque, ma che, di fatto, premia sempre e solo le classi più abbienti; una società che diviene sempre più società dell’eccesso e che rischia di appiattire l’uomo ad una sola dimensione; le ragioni delle donne che per la prima volta prendono coscienza di sé e, sull’esempio dei neri d’America, tentano un processo di sorellanza che le dovrebbe portare all’emancipazione dall’uomo; strutture scolastiche scadenti e corsi di studio non adatti a dare agli studenti delle chiavi interpretative adatte a comprendere la realtà che li circonda, sembrano essere, in via del tutto generale, le cause della contestazione occidentale. In via del tutto generale, perché, come si è detto, ogni Paese conosce il suo particolare Sessantotto e anzi in alcuni casi questo si differenzia anche all’interno del singolo Paese. Esempio emblematico, in questo senso, è l’Italia. Tra il febbraio del 1967 e la primavera del 1968 quasi tutte le più importanti Università italiane scendono in piazza, ognuna però con la propria identità. Troveremo così il movimento torinese e trentino in cui è marcato il 4 5

M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1998, p.34. M. Capanna, Formidabili quegli anni, Milano, Rizzoli, 1988, p. 50.

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sentimento antiautoritario, il movimento milanese di forte connotazione stalinista, il movimento pisano vicino invece a posizioni operaiste, e così via. Ciò che invece sembra unire tutti gli studenti è la cultura politica da cui attingono. “Lettori cosmopoliti”, come li ha definiti Marco Revelli nel suo contributo sui Movimenti sociali e spazio politico, nella Storia dell’Italia repubblicana, i giovani leggono soprattutto autori non convenzionali: si passa così dagli autori della Scuola di Francoforte, in primis Herbert Marcuse – autore in quegli anni de L’uomo ad una dimensione – sino agli scritti di Malcolm X, storico leader del movimento per i diritti civili in America, passando per Betty Friedan che nel 1963 pubblica il saggio The Feminine Mystique che ha il gran merito di aprire gli occhi a molte donne sino ad allora spettatrici della realtà che le circonda.6 Libri, ma non solo. Anche la musica fa la sua parte: gruppi come Beatles, Rolling Stones, The Who, Pink Floyd, per non dimenticare Jimi Hendrix, Janis Joplin, The Doors, diventano icone per i giovani degli anni Sessanta che trovano nei testi e nel suono delle loro canzoni il luogo di rifugio da una società opulenta e retrograda. Ma il Sessantotto è anche attualità. La domanda che più di tutte ci si pone sul movimento degli studenti è sugli effetti che questo ha portato all’interno della società. In questa sede né si vuole né si potrebbe soddisfare la domanda, ci si limita a far notare che se dopo quasi mezzo secolo ancora se ne parla, ebbene qualcosa forse il Sessantotto è riuscito ad ottenerlo. Non quello che voleva però se è vero, come scrive Marco Revelli, che il Sessantotto è stata una rivoluzione fallita. In cosa ha fallito il Sessantotto? In via del tutto approssimativa si può sostenere che il movimento non sia riuscito ad istituzionalizzarsi, ad evolversi. Negli States in particolare, il movimento ha provato ad intraprendere un percorso politico di questo tipo ma è stato tradito dagli eventi: la morte di M. L. King prima e di R. Kennedy poi hanno lasciato il movimento orfano di un valido alleato istituzionale; in Francia invece è stata la vittoria del Generale De Gaulle a spazzare via il maggio francese, tanto caotico quanto effimero; in Italia il Sessantotto ha subito una frattura tra tutti i gruppi che ne fanno parte sino alla sua evoluzione ed inclusione nella protesta del mondo operaio che diverrà protagonista dell’autunno nel 1969. Una sua componente, infine, sceglierà la strada della clandestinità e della lotta armata. In Germania, il progetto politico più lungimirante, propugnato dal leader della Sds tedesca R. Deutschke, non è riuscito nell’intento di creare un lungo viaggio attraverso le istituzioni che avrebbe portato l’uomo a liberarsi dall’autoritarismo. Anche qui forti contrasti interni, le vicende francesi che spingono per una protesta di piazza “dura e pura”, oltre che un Linksfaschismus, come l’ha chiamato J. Habermas, decretano la fine del movimento, anche se una parte minoritaria di esso proverà, durante il decennio successivo, un percorso di lotta armata contro lo Stato.7 Un fenomeno quindi complesso, osservabile da più angolazioni e che, in questo lavoro, si è cercato di studiare a partire proprio dall’anno in cui la contestazione raggiunge il suo apice: il 1968.

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M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 417 sgg. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 114.

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1. LE ORIGINI: “THE MOVEMENT” “Da qualunque punto di vista si scelga di osservare gli anni ’60 – sostiene Alberto De Bernardi – ben difficilmente possono essere costretti all’interno degli anni che segnano l’inizio e la fine del decennio.”1 Discorso analogo può essere fatto anche per l’anno domini 1968 che segna senza dubbio uno spartiacque profondo nella nostra società. A ben vedere il “Sessantotto” ha inizio molto prima e se volessimo trovare una data di nascita o almeno di concepimento di quel movimento dovremmo ricercarla una decina di anni prima: forse quando la signora Rosa Parks, di Montgomery, nel 1955 si rifiuta di cedere il posto a sedere su un autobus ad un uomo bianco; oppure quando nel 1960 il sociologo di fama internazionale Charles Wright Mills scrive una lettera aperta, forse un ultimo disperato appello, alla nuova sinistra. Oppure è da ricercare nell’affermazione della società del benessere che ha portato alla massificazione della scuola. Per capirlo dovremmo prima comprendere cosa è stato il “Sessantotto”. È chiaro comunque che, almeno negli USA, nasce tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta ed inizialmente si presenta con il temine “the movement” il movimento. Non è né un partito politico né un associazione: “ il movimento era autodescrittivo, semplicemente rivelavi a te stesso o sentivi di essere parte del movimento ... e questo implicava un sentimento di appartenenza e un proposito comune”2 - ricorderà un attivista qualche decennio più tardi.

1.1 LA “NEW LEFT” All’interno del movimento vi sono più anime, ciascuna delle quali si focalizza su singoli temi: nel 1962 nasce così, per mano dell’associazione SDS (Students for a Democratic Society) ed ispirata dalla lettera di Mills, la “New Left” il cui manifesto politico viene sancito nella Dichiarazione di Port Huron, in Michigan: “la nuova sinistra – si legge - deve essere diffusa in tutto il paese in ruoli sociali significativi, così come sono diffuse le università; la nuova sinistra deve essere fatta da gente più giovane, cresciuta nel dopoguerra, e intenzionata a reclutare altri giovani: le università rappresentano un ovvio punto di partenza; la nuova sinistra deve comprendere liberali e socialisti: l’università è più adatta di un partito politico per cominciare a discutere delle differenze che li separano e per cercare una sintesi politica; la nuova sinistra deve cominciare la discussione in tutto il paese, se si vogliono cambiare le politiche e l’apatia della Nazione: l’università ideale è fatta da una comunità che discute sui propri problemi e su quelli della comunità al di fuori; la nuova sinistra deve trasformare la generale complessità del mondo moderno in problemi capiti e sentiti vicini da ogni essere umano … in un periodo di supposto benessere, compiacenza morale e manipolazione politica, la nuova sinistra non può far affidamento solo su chi ha fame per essere la forza motrice delle riforme sociali.”3

Colpisce, della dichiarazione di Port Huron, non solo il continuo riferimento all’università, a cui gli studenti affidano il ruolo essenziale di essere il grembo dal quale dovrà poi necessariamente nascere la futura società, ma anche una critica aperta al marxismo

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M. Flores , A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, Mulino, 1998, p. 119. Ivi, pag. 34. 3 M. Tolomelli, Il Sessantotto, Roma, Carocci, 2008, p. 33. 2

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ortodosso, già peraltro avanzata da Mills: non è più solo il proletariato il soggetto rivoluzionario di una società ma anche - e forse soprattutto - i giovani. Benché un leader del Sessantotto italiano, Mario Capanna, abbia definito la New Left “radical-borghese”4, gli studenti della SDS rifiutano il ruolo tradizionale dell’intellettuale rivoluzionario, colui cioè che è sempre pronto a parlare a nome di altri strati sociali. Interessante, da questo punto di vista, è la costruzione dello schema che la Nuova Sinistra propone per modificare la realtà: “Queste … lotte nuove procedono induttivamente, a partire dalla condizione reale dello studente e non dall’idea di essa, dal suo disagio immediato contro l’autoritarismo accademico, fino a ricostruire … il disagio sociale generalizzato contro l’autoritarismo sociale, il sistema imperialistico.”5 L’intenzione principale dei redattori – tra cui il giovane Tom Hayden destinato a diventare leader del movimento americano - è quindi quella di mettere in luce le contraddizioni presenti nella società americana: nati in un contesto storico completamente diverso da quello dei padri, i giovani degli anni Sessanta vivevano nell’agiatezza economica e nel benessere assoluto, un benessere però che ha portato la società alla completa “apatia politica e morale”. Prova ne è la discrepanza tra i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e la realtà che ancora permette la segregazione razziale nel Paese considerato la culla della democrazia. E saranno “razza e guerra”6, i temi che più di altri attireranno i giovani, che, più di altri li spingeranno a far parte del “movimento”.

1.2 LA GUERRA IN VIETNAM Voluta dall’amministrazione Eisenhower e avviata con Kennedy, è però solo durante l’amministrazione Johnson che si assiste all’escalation della guerra in Vietnam. Le premesse sono ormai note: il Paese diviso in due, il Vietnam del sud governato da un governo filooccidentale apertamente contestato da una guerriglia interna di matrice indipendentistacomunista che, con fatica, sta riuscendo ad avere la meglio sul governo di Saigon. Nell’agosto del 1964, il “fantomatico” incidente del golfo del Tonchino usato dal presidente americano Johnson come base giuridica per potenziare la presenza statunitense nella piccola penisola asiatica. Gli studenti impiegano poco a smontare la menzogna presidenziale e a denunciare il carattere imperialista della guerra: non era mai accaduto che la nazione più ricca al mondo dichiarasse guerra ad un piccolo e arretrato paese contadino per impedire che questo aiutasse i guerriglieri che con successo stavano lottando contro la dittatura che governava l’altra metà del Paese e in più lo facesse con armi condannate dalle convenzioni internazionali e contro la popolazione civile. Per questi e per altri motivi, “we won’t go!” diventano le parole d’ordine. I giovani americani non vogliono partire e anzi trovano nella resistenza vietnamita un importante insegnamento: “l’organizzazione egualitaria della vita civile nelle zone liberate e un ampia democrazia nelle condizioni difficilissime dello stato di guerra; la supremazia dell’uomo sulla macchina; la disumanità e in definitiva la debolezza del mastodontico, sofisticatissimo, violento apparato tecnologico occidentale di fronte alla tensione umana collettiva, che

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M. Capanna, Formidabili quegli anni, Milano, Rizzoli, 1988, p. 48. P. Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 201. 6 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 34. 5

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affonda le radici nella cooperazione volontaria, nella mobilitazione e nell’intelligenza corale di tutto il popolo.”7 Insegnamenti che per un certo verso sono gli stessi che da anni impartisce Ernesto Guevara detto “el Che”, resosi protagonista nel 1959, assieme a Fidel Castro, della destituzione della dittatura di Batista, a capo di un governo filo-statunitense, nella piccola isola caraibica di Cuba. Una volta vinta la rivoluzione Guevara è scelto da Fidel come ministro dell’Agricoltura, un ruolo che ricopre solo per un breve periodo perché, scrive Guevara, “sento di aver compiuto la parte del mio dovere che mi legava alla rivoluzione cubana nel suo territorio, e mi congedo da te, dai compagni, dal tuo popolo, che ormai è il mio. Rinuncio formalmente ai miei incarichi nella direzione del partito, al mio posto di ministro, al mio grado di comandante, alla mia condizione di cubano…altre terre del mondo reclamano il contributo dei miei modesti sforzi…sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l'imperialismo ovunque esso sia.”8 Guevara parte quindi per il Congo per sostenere il movimento marxista dei Simba, favorevole a Patrice Lubumba, ma dopo un sostanziale fallimento in Africa, non se la sente di tornare nella piccola isola Caraibica. Decide quindi di organizzare la Rivoluzione in Bolivia convinto di poter sovvertire la dittatura nel giro di poco tempo. In Bolivia però Guevara trova non solo l’esercito boliviano ma anche numerosi comparti della CIA che riescono prima ad isolarlo e quindi a catturarlo nell’ottobre del 1967. “Ci prese come un pugno – canta Francesco Guccini nel 1995 - ci gelò di sconforto sapere a brutto grugno che Guevara era morto.”9 Questi i sentimenti che, probabilmente, i giovani di tutto il mondo hanno provato il 9 ottobre del 1967 quando apprendono la notizia della morte del comandante Guevara mentre si trovava in Bolivia. Da quel momento l’effige del “Che” è presente in ogni corteo, in ogni manifestazione: i giovani sembrano voler gridare al mondo “Il Che è morto ma la rivoluzione continua”; sembrano voler porre in essere ciò che Guevara ha scritto in una lettera destinata alle sue figlie, come se si sentissero tutti figli suoi: “siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario.”10 Intanto nel 1967 la guerra in Vietnam prosegue e con essa anche la protesta: il fronte interno è considerato una condizione essenziale per la vittoria militare nella penisola asiatica e sinché la protesta resta limitata a qualche migliaio di studenti non desta alcuna preoccupazione all’establishment militare americano. Ma nel 1967 si verifica ciò che le autorità americane maggiormente temevano: la protesta ora non è solo degli studenti ma cresce e si diffonde in tutto il Paese grazie anche alle pessime notizie che provengono dalla penisola asiatica. I reggimenti in Vietnam sono aumentati e con essi i giovani morti americani: nel 1965 sono 1500 i caduti in battaglia, appena due anni dopo saranno 9000.11 Nell’ ottobre dello stesso anno viene indetta la “settimana contro la leva” che culmina in una marcia di protesta davanti al Pentagono a cui partecipano non solo studenti ma una

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M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit. p. 50. Lettera di Ernesto Guevara a Fidel Castro, 31 marzo 1965, in www.veracuba.it. 9 Canzone di Francesco Guccini, “Stagioni” in “Radici”, 1995 10 Lettera di Ernesto Guevara alle figlie, 1965, in www.filosofico.net. 11 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 42. 8

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nutrita componente della società civile americana : “gruppi religiosi, politici, sindacali, associazioni culturali, comitati locali di cittadini affiancano gli studenti nella loro lotta.”12 Una delle frange del movimento che più si pone in evidenza in quel periodo sono gli “hippies”. Presenti in California già dal 1964, è solo nel 1967 che divengono un fenomeno di massa. Sono considerati dei “sacerdoti appariscenti della contro-cultura”13 e ciò che più li distingue è il loro aspetto esteriore: capelli lunghi, vestiti larghi e coloratissimi, barbe incolte e soprattutto l’uso e l’abuso di droghe, in particolare marijuana e LSD. Professano la non-violenza (celebre il loro slogan “make love not war”) e si battono in particolare contro la guerra in Vietnam: organizzano happening e falò collettivi di cartoline di precetto cercando, come detto, la più ampia partecipazione possibile. L’establishment americano li etichetta subito come comunisti, drogati e lavativi cercando di metterli in contrapposizione proprio con i giovani marines impegnati in Indocina. Dal canto loro però gli hippies non si lasciano strumentalizzare: cercano nel loro piccolo di cambiare la società non solo rifiutando i comportamenti e i valori dominanti ma anche cercando un dialogo in primis con chi, giovane come loro, rischiava la vita in una guerra non sua. In una lettera indirizzata ai giovani marines e pubblicata sul Berkeley Barb, organo di stampa del campus, un giovane hippy scrive: “È difficile raggiungervi, ragazzi. Una volta oltrepassata la soglia di reclutamento è quasi impossibile arrivare a voi … I patrioti che sono così entusiasti della guerra dicono che il movimento per la pace è contro di voi … noi non siamo contro di voi … noi non siamo felici se uno di voi ci resta. Noi non applaudiamo quando uno dei nostri aerei viene abbattuto. Voi non siete il nemico. Il Vietcong non è il nemico. Neppure il vecchio LBJ è in realtà il nemico. È l’uccidere e il ferire il nemico … Noi siamo in vostro favore e contro la guerra. Noi vi sosteniamo cercando di portarvi fuori dall’inferno del Vietnam, fuori dall’esercito e di ricondurvi al vostro lavoro, o alla vostra scuola o alle vostre sale da biliardo, e alle vostre ragazze. Noi non siamo contro di voi.”14

1.3 LA LOTTA PER I DIRITTI CIVILI E IL FREE SPEECH MOVIMENT. Il 1º febbraio del 1960 a Greensboro, nel North Carolina, quattro ragazzi di colore si siedono al tavolo di un locale pubblico. La cameriera si rifiuta di servirli proprio perché neri e i giovani decidono di sedere lì sino alla chiusura del locale. Migliaia di giovani di colore seguono l’esempio dei ragazzi di Greensboro: si siedono in un locale pubblico chiedendo di essere serviti occupando qualsiasi posto disponibile. Nasce così una delle forme di protesta più diffuse in quel periodo: il sit-in. In quell’anno nasce inoltre lo SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee), la prima organizzazione degli studenti di colore che avrà un ruolo centrale nella lotta per i diritti civili in America. Nel novembre dello stesso anno si svolgono le elezioni presidenziali che vedono trionfare il democratico John Fitzgerald Kennedy. Il programma del Presidente Kennedy è volto a porre rimedio al problema della segregazione razziale benché “nello stesso periodo nominava giudici ostili alla lotta antisegregazionista.”15 Lo stesso presidente Kennedy tenta più volte di convincere il Congresso a votare il Civil Right Act, una legge che dovrà rende illegale qualsiasi tipo di discriminazione nei luoghi

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Ibidem. M. Flores , A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 50. 14 J. Hopkins, La voce degli hippies, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 53. 15 M. Flores , A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 35. 13

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pubblici e nel posto di lavoro, l’ultima volta nel giugno del 1963 quando utilizza il mezzo televisivo per ribadire il principio di uguaglianza di tutti gli uomini. La svolta per i diritti civili in America arriva però solo qualche mese dopo: è il 28 agosto quando a Washington ha luogo la grande marcia organizzata e capeggiata dal reverendo Martin Luther King Jr. leader del movimento della lotta per i diritti civili. Al Lincoln Memorial quel giorno si sentono le note di “We shall overcome” di Joan Baez e da quel pulpito il reverendo King afferma di aver un sogno: “Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza.” 16

Solo qualche mese più tardi, nel novembre del 1963, il tentativo di modernizzazione civile e culturale degli Stati Uniti sembra crollare per sempre: a Dallas, dove è impegnato per la campagna elettorale per la sua rielezione, viene assassinato il presidente americano Kennedy. Sembra morire con lui anche la causa della popolazione di colore negli USA. Il 1964 è un anno fondamentale non solo per i diritti civili in America ma per tutto il movimento mondiale del “Sessantotto”. Nell’estate di quell’anno molti studenti si radunano nel Mississipi per lottare per i diritti civili, tra questi molti provengono dalla rinomata Università di Berkeley in California. In parte è forse anche merito loro se il movimento per i diritti civili riesce a raggiungere un risultato insperato dopo la morte di Kennedy: nel luglio di quell’anno il Congresso, sotto l’amministrazione Johnson – già vicepresidente con Kennedy – approva il Civil Right Act ponendo così fine ad una, seppur ancora formale, discriminazione razziale, linguistica ed etnica centenaria. Alla fine dell’estate, dopo l’importante risultato ottenuto, gli studenti fanno ritorno nel campus per il nuovo anno accademico e qui vengono a conoscenza della nuova politica universitaria: non sarà più possibile all’interno del campus discutere questioni che non siano attinenti all’Università, compresi quindi i diritti civili. Gli studenti non ci stanno: vedono nel nuovo regolamento un tentativo, neppure tanto velato, di limitare il diritto di parola e di pensiero sancito dalla Carta Costituzionale e, proprio per rivendicare il diritto degli studenti di poter discutere di qualsiasi argomento interessasse loro all’interno del campus, nasce il Free Speech Movement (FSM). Nell’autunno dello stesso anno gli studenti decidono di occupare il campus per protesta nei confronti del rettore: organizzano discussioni e dibattiti quasi a voler sfidare le autorità accademiche:

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M. Luther King, discorso pronunciato il 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial, in www.pennati.net.

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“Arriva un momento – afferma Mario Savio, leader del movimento - in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, rende così disgustati, che non si può continuare a tenerla in moto, non si può neppure lasciarla funzionare senza reagire. E allora bisogna buttarsi contro la macchina con il proprio corpo, buttarsi sul motore e sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato e fermarla. Bisogna segnare a dito coloro che la fanno funzionare e dire chiaramente che se non ci lasciano liberi, la macchina sarà fermata del tutto e per sempre.”17

Nonostante gli arresti di massa del 2 dicembre 1964 – 770 studenti degli 8000 che occupano il campus vengono arrestati per ordine del governatore democratico Brown – il FSM riesce a piegare le resistenze accademiche e a dare vita, nei primi giorni del nuovo anno, al suo primo raduno legale. È la vittoria di un’intera generazione che ha sfidato l’autorità ed ha vinto. La rivolta di Berkeley, sia per la grande visibilità mediatica a cui è stata sottoposta, sia per la grandissima propaganda che la SDS è riuscita a fare in tutta la Nazione, è subito presa ad esempio da molte altre università e dalla California: la contestazione giovanile si espanderà in tutti gli States, riuscendo perfino ad attraversare l’oceano. Nel marzo del 1965 il movimento per i diritti civili in America consegue un altro importantissimo risultato: ancora una volta sotto l’amministrazione Johnson – rieletto alle presidenziali del 1964 – il Congresso approva il Voting Right Act che dà la possibilità anche alla popolazione di colore di poter esercitare il proprio diritto al voto. Con tale provvedimento Johnson è convinto di aver risolto in via definitiva il problema della segregazione razziale in USA, ma l’illusione è destinata ben presto a svanire: pochi giorni dopo l’approvazione del provvedimento, il ghetto nero di Los Angeles, Watts, esplode “nella rivolta urbana più violenta del dopoguerra”18. L’ordine all’interno del ghetto viene ristabilito, grazie all’ausilio della Guardia Nazionale, solo dopo sei giorni, 34 morti, mille feriti e quattromila arresti. Il ghetto di Watts non è l’unico a esplodere in rivolte contro il potere bianco considerato, almeno dalla parte più “radicals” del movimento, opprimente. Le cause della violenza sono sempre le stesse: carenza di case, emarginazione, violenza quotidiana, mancanza di lavoro, povertà. Ci si rende conto all’improvviso dell’esistenza di persone che prima di allora non avevano nessuna identità, tanto da far dire ad un ministro della chiesa di Watts “stanotte quell’uomo – prima di allora non considerato come tale – è qualcuno”19. Nell’esplosione della violenza nel ghetto di Watts si legge anche la frustrazione per la perdita, avvenuta il 21 febbraio del 1965 di uno dei leader più carismatici del movimento per i diritti civili: Malcolm X. Di orientamento per certi versi contrario a quello di Martin Luther King, Malcom X (in realtà il suo nome era Malcolm Little, ma non aveva mai accettato il suo cognome da schiavo, preferendo a questo una X) è convinto che il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione afro-americana non possa dipendere da nessun presidente bianco, e tanto meno dai leader del movimento per i diritti civili, ma debba essere nient’altro che una conquista della popolazione di colore, auspicando quasi una “rivolta negra”: “L'attuale amministrazione è stata eletta proprio col voto dei neri. E' stato il vostro voto, il vostro voto stupido e ignorante, il vostro voto sciupato a farli andare a Washington, a eleggere un'amministrazione che si è prima preoccupata di chissà quali leggi e poi, per ultimi, di voi, 17

M. Savio, citato in M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., p. 47. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 41. 19 Ivi, p. 42. 18

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arrivando, come se non bastasse il resto, a servirsi sistematicamente dell'ostruzionismo parlamentare. I vostri e i miei leader hanno il coraggio di fregarsi le mani e dirci che stiamo facendo grandi progressi. E che buon presidente abbiamo! Se non andava bene nel Texas, siate certi che non va bene neanche a Washington. Il Texas è uno stato in cui vige ancora la legge del linciaggio. E come il Mississippi, non c'è nessuna differenza: solo che nel Texas ti linciano con la pronuncia texana e nel Mississippi con quella locale. Questi leader negri hanno il coraggio di andare a prendere il caffè alla Casa Bianca con un texano, un imbroglione sudista - perché tale è Johnson - e poi venirci a dire che sarà meglio per noi visto che è del Sud e sa come trattare i sudisti.”20

Il pensiero di Malcolm X subisce col tempo una maturazione sino ad arrivare a concepire l’Islam, religione che professa da sempre, come l’unica in grado di abbattere qualsiasi tipo di barriera razziale. Ma la sua deriva moderata porta estremisti della stessa organizzazione della quale egli ha fatto parte, a compiere il tragico gesto e, durante un comizio a New York, è colpito da 16 pallottole, tre delle quali mortali. L’eredità che lascia Malcolm X è pesante e significativa per tutto il movimento del Sessantotto in America. Nascono infatti diverse organizzazione che si rifanno al pensiero del primo Malcom X, tra cui la “Black Panther”, la quale, solo qualche anno più tardi, si renderà protagonista attraverso due suoi membri, di un gesto tanto eclatante quanto significativo.

1.4 “VOGLIO ESSERE ORFANO”21. Nati dopo la seconda guerra mondiale, i giovani che raggiungono la maturazione negli anni Sessanta portano con sé i segni “del passaggio da una cultura della scarsità ad una cultura del consumo e dell’abbondanza.”22 In questi anni, infatti, si assiste ad un crollo degli impiegati nel settore agricolo, e viceversa ad un’impennata di occupati nel settore dei servizi e del commercio. Ma per comprendere meglio la dimensione del cambiamento è forse necessario elencare qualche dato: “tra il 1960 e il 1973 – anno che segna la fine del miracolo economico – la quantità di ore lavorate in Occidente diminuisce complessivamente di un nono ; il reddito pro-capite aumenta di oltre l’8% annuo in Giappone, il 5% in Spagna, Germania e Italia, il 4% in Francia, il 3,5% in Unione Sovietica e il 2,5% negli Stati Uniti.”23 Il miracolo economico che colpisce l’Occidente, in particolare le tre nazioni uscite sconfitte dal secondo conflitto mondiale, ha inizio al termine degli anni Cinquanta, ma si sviluppa in tutta la sua potenzialità solo negli anni Sessanta, basandosi proprio sul consumo: “ciò che caratterizza questi anni è la disponibilità sempre più vasta e diversificata di merci, non più solamente beni primari e indispensabili ma prodotti in larga misura voluttuari e indotti da una spirale di consumo che coinvolge a partire dall’alto tutta la piramide sociale.”24 I prodotti che più di altri segnano il cambiamento sono i frigoriferi, le lavatrici, le televisioni, gli elettrodomestici, le macchine da scrivere, ma più di ogni altro è l’automobile il simbolo indiscusso della società del consumo: “nel 1948 circolavano in Europa circa cinque milioni di vetture, che venti anni dopo hanno raggiunto i 45 milioni di unità; negli Stati Uniti si passa dai 27 milioni di automobili registrate nel 1940 agli 80 del 1960, mentre

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Discorso di Malcolm X, “La scheda o il fucile”, agosto 1964, in www.malcolmx.it. Scritta comparsa in un muro di Roma in quegli anni. 22 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p.59. 23 M. Flores, Il Secolo mondo, Bologna, il Mulino, 2002, p. 371. 24 Ibidem. 21

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nel 1970 il numero delle macchine private supera quello delle famiglie e a Los Angeles quello degli abitanti.”25 Il consumismo, benché da molti considerato come barriera più solida e resistente contro il comunismo, ha creato quell’apatia e politica e morale già denunciata dagli studenti della “New Left”: i comportamenti personali sono volti all’egoismo individualistico piuttosto che ad una solidarietà collettiva; ma ciò che ancor più spaventa è la creazione dell’ “uomo ad una dimensione” – per citare il titolo di un fortunato saggio pubblicato nel 1964 dal filosofo e sociologo Herbert Marcuse – cioè la creazione di un uomo che subisce un’ omogeneizzazione che non fa altro che appiattire le differenze e le diversità. In questo contesto “i consumi divennero importanti vettori di costruzione di identità e di distinzione sociale soprattutto per quelle componenti sociali dalle appartenenze ancora piuttosto deboli o in via di formazione, gli adolescenti e i giovani in particolare.”26 I giovani crescono durante gli anni della ricostruzione post-bellica e della rinascita democratica, e la presenza di conflitti regionali non impediscono lo sviluppo di quella che è stata definita la “affluent society.” Le cose cambiano quando la guerra non viene più percepita come improbabile e distante ma come un possibile scenario futuro: tutti gli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta sono segnati dalla guerra fredda, l’apice si raggiunge nel 1962 con la crisi missilistica di Cuba. Per il continuo portare il mondo sull’orlo del baratro, ma anche per la grande responsabilità che la generazione precedente ha avuto nell’instaurazione dei fascismi prima e dei totalitarismi comunisti poi, matura nei giovani un sentimento di ribellione morale: “ mentre nelle generazioni adulte – ha scritto Peppino Ortoleva - il distacco e la diffidenza nei confronti del potere avevano la forma passiva dell’apatia, la ribellione dei giovani al potere esprimeva la contestazione all’autorità in forma attiva, volta al cambiamento, ed esaltava anzi le potenzialità dell’agire politico di contro alla rassegnazione. La sua critica morale si rivolgeva allo stesso tempo, e spesso con la stessa durezza sia alle istituzioni dominanti, sia ad una cittadinanza, quella delle generazioni precedenti, che aveva accettato senza reagire la propria espropriazione da ogni forma reale di partecipazione politica.”27 La ribellione morale, già per altro prospettata da Mills, avrebbe dovuto stracciare il velo che nascondeva la reale natura del potere così da mostrarsi per quello che in realtà è, anche a chi ormai assuefatto da decenni di ideologia. Ben presto la ribellione morale, che nei piani del sociologo americano avrebbe dovuto segnare la fine dell’apatia, si traduce in reale sentimento di anti-autoritarismo: “non è la prima volta che un movimento si scontra con l’autorità, intesa principalmente come manifestazione del potere e come sua articolazione esteriore. Adesso tuttavia è il principio di autorità in quanto tale che viene messo in discussione, in quanto si pretende dalle istituzioni una continua riconquista e affermazione della propria legittimità.”28 La contestazione, intesa come “affermazione in positivo attraverso un’opera di testimonianza che contiene gli elementi aderenti alla realtà e li collega al contesto dove tutto è intrecciato insieme”29, si incardina proprio nel non voler riconoscere l’autorità in ogni ambito della società, poco importa se si tratta di autorità familiare, accademica, partitica o addirittura ecclesiastica. 25

Ivi p. 372. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 28. 27 P. Ortoleva, I movimenti del’68 in Europa e in America, cit., p. 63. 28 M. Flores , A. De Bernardi, Il sessantotto, cit., p. 100. 29 M. Capanna, Il sessantotto al futuro, Milano, Garzanti, 2008, p. 48. 26

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La perdita di qualsiasi tipo di deferenza e la spiccata irriverenza dei giovani nei confronti del potere sono le forme in cui il forte sentimento antiautoritario si manifesta: l’uso generalizzato della beffa, il rifiuto di rispettare qualsiasi regola per la presa di parola, l’attacco ad ogni simbolo del potere e dell’ordine, hanno come unica risposta possibile da parte dell’autorità la repressione, che ha il gran merito di costruire il terreno della diffusione e della radicalizzazione della protesta. Ciò che rende il Sessantotto per certi versi un unicum nella storia contemporanea, non è solo il fatto di essere stata una rivoluzione generazionale ma anche mondiale: “Ci sono state due rivoluzione mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo.”30 Sul perché di questa rivoluzione mondiale in parte si è già detto: hanno sicuramente influito i consumi e la creazione di un unico mercato globale, la rivolta morale legata al passato delle generazioni precedenti, la nuova industria dei media capace di interconnettere il mondo intero (il caso del Vietnam e le immagini che provengono dal paese asiatico attraverso la televisione ne sono un nitido esempio). Colpisce invece la teoria di Hanna Arendt secondo cui “questa è la prima generazione che cresce all’ombra della bomba atomica. Ci troviamo di fronte a una generazione che non è affatto sicura di avere un futuro”, il futuro “è come una bomba ad orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente. Alla domanda che abbiamo sentito tanto spesso: chi sono coloro che fanno parte di questa generazione? Si è tentati di rispondere: quelli che sentono il ticchettio. E all’altra domanda: chi sono quelli che lo ignorano in modo assoluto? La risposta potrebbe benissimo essere: quelli che non sanno, o che rifiutano di affrontare le cose come realmente sono.”31

Benché andassero cercando condizioni di vita differenti – “le rivolte dei Paesi dell’Est chiedono esattamente quelle libertà di parola e di pensiero che i giovani ribelli dell’Ovest dicono di ritenere del tutto irrilevanti”32- i giovani di tutto il mondo sono d’accordo a non volersi più impegnare in una contrapposizione che ha diviso il mondo per decenni e nutrono anzi sentimenti di stima e solidarietà reciproca. Ricorderà qualche anno più tardi il giovane Michnik, leader del movimento polacco: “È vero – che si trattava di una rivolta generazionale- non è un caso che mi sia completamente identificato con il maggio francese. Mio padre no. Mio padre diceva: ‘Questo Cohn-Bendit e la sua orda sono una marmaglia fascista.’ E io dicevo: ‘No, sono come me’”.33 Un ruolo fondamentale nel creare un sentimento di ribellione comune tanto nei giovani occidentali quanto nei giovani aldilà della cortina di ferro, lo ha svolto la cultura giovanile. Con questo termine si deve qui intendere non solo i comportamenti di un determinato gruppo sociale, in questo caso i giovani, ma anche l’insieme di tutte le arti che hanno rivoluzionato quel periodo, in primis la musica. Gruppi come i Beatles e i Rolling Stones, senza dimenticare Bob Dylan e gli Who, diventano vere e proprie icone di quel periodo, le loro canzoni inni di libertà e antiautoritarismo. I Beatles in particolare – che nel 1968 pubblicano il singolo “Revolution”- riescono a creare un nuovo modo di fare musica. I giovani li amano perché 30

M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia, t. 2, Torino, Einaudi, 1995, pp. 385-476.p. 385 31 H. Arendt, citato in M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia Repubblicana, cit., p. 390. 32 H. Arendt, citato in P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 39. 33 Dialogo tra Cohn-Bendit e A. Michnik, citato in P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 70.

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gli adulti li odiano: “Mio padre li odia, mia madre li odia, il mio professore li odia – osserva uno studente di quegli anni - puoi pensare a tre ragioni migliori perché io li ami?”34 Quando, nel 1964, sbarcano in America per un tour, i quattro ragazzi di Liverpool segnano la svolta: “più che canzoni o musica offrivano al mondo se stessi, non come un opera di arte totale doveva servire da specchio profetico, ma come una rappresentazione spontanea, inizialmente quasi inconsapevole, di un nuovo tipo di cultura, una controlcutura come sarebbe stata chiamata più tardi: una cultura di prescrittiva giovanilità, affidata non alla ragione o alla bellezza o ad un assennato buon gusto, ma piuttosto alla fantasia, alla libertà e al piacere, meglio se più folle.”35 Nello stesso anno in cui i Beatles sbarcano negli States, avviene la pubblicazione del libro The Psychedelic Experience scritto da Timothy Lear: un invito, neppure tanto velato, all’uso dell’ LSD, una droga capace di alterare la coscienza e modificare la percezione della realtà. Con l’introduzione nella cultura giovanile della marijuana prima e dell’ LSD poi, cambia tutto: cambia in primis il rock’n’roll, che da musica di baldoria diviene una musica d’introspettiva, adatta a comunicare stati d’animo personali dell’artista o insoddisfazioni politiche invitando il pubblico non a ballare ma ad ascoltare. La nuova cultura giovanile porta con sé l’aspirazione del pubblico a superare i confini del semplice consumo, a partecipare direttamente alla produzione culturale attraverso una diffusa “presa di parola”. In questo si può notare un aspetto ambiguo del “Sessantotto”: “se da un lato, osserva Tolomelli, il movimento contestava la società dei consumi , la rifiutava e ne denunciava il carattere intimamente repressivo, dall’altro esso contribuiva però a promuoverla, come evidenziato dagli studi che hanno indagato le sue attitudini in particolare rispetto ai media e all’industria culturale, orientando secondo i propri bisogni gli strumenti e le possibilità che l’accesso a consumi sempre più diversificati offriva.”36 Un altro carattere distintivo del “Sessantotto” è certamente quello che riguarda la rivoluzione sessuale che si è consumata in quel periodo: ancora negli anni Cinquanta la verginità femminile costituisce un valore sociale da preservare sino al matrimonio; lo stesso parlare e ragionare di sesso è motivo di censura nel cinema e nelle altri arti figurative, per non parlare in famiglia. Il puritanesimo bigotto degli anni Cinquanta viene abbattuto completamente nel decennio successivo: alla base considerazioni sociali e scientifiche. A fare da apripista la diffusione della minigonna che, a partire dal 1964, conquista non solo le adolescenti e le più giovani, ma anche le donne della generazione precedente, come dimostra l’eleganza con cui l’indossa Jackie Kennedy; nel 1967 gli Who, storico gruppo inglese, infrangono completamente il tabù dell’autoerotismo componendo “pictures of Lily”, vero e proprio inno alla masturbazione; quindi le fondamentali scoperte scientifiche: da una parte la pillola anticoncezionale, inventata nel 1960, che rende meno timorose le coppie e più libere le donne da gravidanze indesiderate, dall’altra la scomparsa della sifilide grazie agli antibiotici. Per merito di queste scoperte “i giovani del ’68 … avrebbe(ro) goduto lo straordinario privilegio di vivere la stagione più intensa della sessualità”37 riuscendo così a rivendicare una volta per tutte la propria libertà sessuale: i giovani vogliono provare il piacere fine a se stesso senza doversi sentire colpevoli di chissà quale oltraggio al pudore, vogliono sfidare, 34

M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 39. M. Flores, Il secolo mondo, cit., p. 416. 36 M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 116. 37 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 98. 35

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anche su questo piano, la società cercando di stracciare il velo di ipocrisia con cui si avvolge da tempo. Marco de Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano nel 1966 sono semplici studenti del liceo Parini di Milano con la passione per la scrittura. Scrivono nel giornale della scuola, “la Zanzara”, e su quelle colonne conducono, nel febbraio di quell’anno, un’ indagine intitolata “cosa pensano le ragazze d’oggi”, in cui le ragazze rispondono ad alcune domande sul loro rapporto con il sesso e con la società. Ben presto i tre ragazzi, il preside, reo di non aver censurato l’inchiesta, e il titolare della tipografia vengono rinviati a giudizio dalla magistratura. Atto volto a “offendere il sentimento morale dei fanciulli e degli adolescenti”38 l’accusa che il Pubblico Ministero Oscar Lanzi muove nei confronti dei ragazzi. Intanto la società si divide, come sempre accade in questi casi, tra innocentisti e colpevolisti: tra questi ultimi, gran parte del mondo cattolico. Il caso si conclude due mesi più tardi, il 2 aprile, con la piena assoluzione per i tre ragazzi, il dirigente scolastico e il titolare della tipografia. Il caso della “Zanzara” è solo un caso di costume, ma mostra chiaramente non solo in quale profondo torpore ristagna la società italiana, ma anche quanta distanza esiste tra la società e i giovani. È solo un caso di costume, è vero, ma con un’importante valenza politica.39

1.5 “LA DONNA È DONNA PER TUTTA LA VITA”40 Non è la prima volta che la questione femminile irrompe sulla scena della politica internazionale: già tra la fine dell’800 e gli inizi de ‘900, donne erudite hanno tentato di affermare le istanze rivendicazioniste del genere femminile, dando così origine a quello che verrà poi chiamato femminismo classico. Le donne diventano però reali protagoniste della scena politica con il secondo conflitto mondiale, quando conquistano finalmente il diritto al voto anche grazie al grande contributo che hanno dato per la liberazione dell’Europa dal nazi-fascismo. Proprio su questo retroterra culturale e storico si instaura, a partire dagli anni Sessanta, il neo-femminismo che ha in comune con l’emancipazionismo di inizio secolo la forte connotazione utopistica: la speranza cioè che soggetti sino a quel momento lontani dall’epicentro della politica, riescano a cambiare radicalmente la società. Nel 1963 Betty Friedan, psicologa americana, pubblica The Feminine Mystique con cui denuncia la condizione femminile delle americane: “c’è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso, nella mente delle donne americane. È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione che la donna americana ha cominciato a provare intorno alla metà del ventesimo secolo.”41 Lo strano senso di inquietudine e di insoddisfazione che la Friedan avverte è causato, questa la sua tesi, dal modello di donna che l’uomo ha costruito attraverso la stampa, il cinema e la televisione. Non è un problema sessuale quello che il neo-femminismo individua, ma piuttosto di identità: “la curiosa discrepanza fra la realtà della vita della donna e l’immagine falsa che le si è sovrapposta sarà il punto di partenza per cercare un nuovo destino e raggiungere il senso della propria identità.”42 In questo contesto nasce il concetto di 38

Dagli atti del processo, in allegato de «L’Espresso», Il processo contro la zanzara, 10 aprile 1966, p.1. Il materiale su “La Zanzara” è stato tratto dal sito del liceo Parini di Milano, www.liceoparini.it. 40 F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il femminismo degli anni settanta, in Storia dell’Italia Repubblicana, vol. III L’Italia nella crisi mondiale: l’ultimo ventennio, t.1, Torino, Einaudi, 1997, pp. 473-565, p.491. 41 B. Friedan, citato in F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il femminismo degli anni settanta, cit., p. 484. 42 F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il femminismo degli anni settanta, cit., p. 484. 39

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“sisterhood” (sorellanza) attorno al quale sorgono i primi gruppi di autoriflessione con cui inizia a farsi strada una nuova idea dell’agire politico. Dopo il grande, e per certi versi inaspettato, successo editoriale, la Friedan fonda la National Organisation for Women (NOW) “che reclama la parità dei diritti, senza mettere in causa la società attuale ma operando al suo interno. “Now” mira ad ottenere così dei mutamenti solo dove necessario e solo attraverso mezzi legali.”43 Forse per il carattere troppo gerarchico che ha assunto la “Now”, alcune giovani donne più radicali, legate al movimento degli studenti, danno vita nel 1967 al WLM (Women’s Liberation Movement). Se l’organizzazione capeggiata dalla Friedan conta al suo interno per lo più casalinghe, la WLM è formata soprattutto da giovani e universitarie “che vogliono operare una rivoluzione culturale e apportare nuovi valori femminili.”44 Benché ormai spaccato in più gruppi già dal 1967, il movimento femminista americano segue principalmente tre direttrici: “la prima, e più diffusa, è caratterizzata dalla lotta per obiettivi immediati e precisi, come l’aborto e la condivisione tra coniugi delle faccende domestiche, ha come basi teoriche soprattutto gli studi compiuti da donne, Simone De Beauvoir, Margaret Mead e Betty Friedan. La seconda tendenza riprende l’analisi di autori della sinistra freudiana come Reich e Marcuse e pone attenzione alla repressione sessuale della donna. La terza infine si rifà al marxismo e al pensiero di Engels in particolare e, nel rivendicare i diritti delle donne, è più vicina alla lotta politica.”45 In Europa si deve aspettare il 1968 per vedere i primi gruppi femministi: sorgono soprattutto sulla delusione che il movimento studentesco genera nelle studentesse a cui vengono riservate solo mansioni secondarie. Un caso a parte è quello di “Demau” (Demistificazione e autoritarismo) in Italia: sorto a Milano per iniziativa di Daniela Pellegrini, e formato da donne di qualsiasi estrazione sociale di età compresa tra i 25 e i 30 anni, Demau insegue posizioni utopistiche sin dalla sua origine nel 1966: “la donna dovrebbe in primo luogo astrarsi dal suo sesso, che deve essere ed è secondario accidente del suo essere ed esistere in sé, per rinnegare tutto ciò che, teorizzato ed affermato e voluto dalle strutture di una società maschilista, ad esso la lega e riconferma.”46 Per questo il gruppo di Demau è contrario a qualsiasi legge di tutela e difesa della donna: avere questo tipo di leggi è discriminatorio e segno di debolezza. Solo resettando storia e cultura in quanto costruiti dall’uomo è quindi possibile creare un nuovo modo di esistere e di fare politica. Il movimento femminista, diversamente da quello degli studenti, avrà vita più lunga e si protrarrà sino alla fine degli anni Settanta. La causa di questa longevità va ricercata nella “connotazione metastorica” della condizione femminile. Scrive Fiamma Lussana: “come per i neri d’America, il carattere della soggezione viene a coincidere nel movimento femminista con un dato immodificabile, transgenerazionale, specifico, che dilata potenzialmente la protesta in un tempo indefinito, metastorico.”47

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R. Scramaglia, Femminismo, Milano, editrice bibliografica, 1997, p. 58. Ibidem. 45 Ibidem. 46 Demau, cit. in F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il femminismo degli anni settanta, cit. p. 488. 47 F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il femminismo degli anni settanta, cit., p. 491. 44

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2. LA NASCITA DEL MOVIMENTO IN ITALIA. 2.1 IL MIRACOLO ITALIANO E IL FALLIMENTO DEL CENTRO-SINISTRA. Parlare degli anni Sessanta in Italia significa parlare anzitutto del boom economico che l’ha vista protagonista, in particolare tra il 1958 e il 1963. Si passa in quegli anni da un Paese ancora fortemente arretrato e uscito a pezzi da cinque anni di guerra e venti di fascismo, ad un Paese industrializzato che in Europa è secondo solo alla locomotiva tedesca. Le ragioni del boom economico sono molteplici: l’Italia è uno dei Paesi europei che nel 1957 ha dato vita alla Comunità economica europea decidendo di abbandonare definitivamente il protezionismo. La creazione di un Mercato Unico “di oltre 300 milioni di consumatori”48, favorisce l’esportazione italiana: si passa “dal 23% del 1953 al 29,8% del 1960, ad oltre il 40,2% nel 1965.”49 Si esportano beni diversi e “i prodotti tessili e alimentari cedettero il passo a beni di consumo che erano maggiormente richiesti nei vari paesi industriali avanzati e che rispecchiavano un reddito pro capite più elevato di quello italiano.”50 L’industria elettrodomestica italiana cresce in quegli anni a ritmi vertiginosi: “nel 1947 la Candy produceva una lavatrice al giorno, la Ignis aveva poche dozzine di operai, e la Zanussi solamente 250 dipendenti. Nel 1951 l’Italia produceva appena 18500 frigoriferi. Nel 1957 il numero era cresciuto sino a 370000 e con il 1967 esso aveva raggiunto 32000000 unità …nello stesso anno l’Italia era anche diventata il maggior produttore europeo di lavatrici e lavastoviglie; la Candy produceva, ormai, una lavatrice ogni quindici secondi.”51 Eni e Iri in particolare svolgono, in questo contesto, un ruolo centrale: la scoperta di idrocarburi e del metano nella Pianura Padana e l’importazione di combustibili liquidi a basso prezzo, sono un valida alternativa al carbone per i tanti imprenditori che riescono così a ridurre i costi; discorso analogo può essere fatto per la Finsider che, sotto l’egida dell’Iri, riesce a fornire alle aziende italiane acciaio a prezzi più competitivi. Anche lo stato italiano fa la sua parte e, se è pur vero che non ha pianificato una così grande espansione economica – “Il piano Vanoni del 1954 aveva formulato dei progetti per uno sviluppo economico controllato e finalizzato al superamento dei maggiori squilibri sociali e geografici. Nulla di ciò accadde.”52 – è anche vero però che vi contribuisce notevolmente attraverso la creazione di infrastrutture, come le autostrade, vitali per il settore privato. Il miracolo economico italiano, sorto sulle spalle di lavoratori sottopagati e con bassa copertura sindacale, porta con sé numerosi squilibri che incidono profondamente nel già eterogeneo tessuto sociale del Paese. Per via del fatto di non essere mai stato governato e di aver seguito solo le regole proprie del mercato, il boom economico italiano è riuscito a portare solo una parte del bel paese ad un livello di sviluppo pienamente capitalistico, lasciando tutto il meridione e la sua questione, ancora irrisolta, nell’arretratezza economica e sociale. Il sud Italia resta a prevalenza agricola e le poche industrie che provano a donargli un futuro industriale sono destinate ad essere “cattedrali nel deserto.” In questo contesto si assiste ad una forte migrazione interna: migliaia di persone, soprattutto giovani contadini, abbandonano la campagna meridionale per cercare fortuna nel 48

F. Barbagallo, L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1945-2008), Roma, Carocci, 2009 p. 63. 49 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica (1943-1988), Torino, Einaudi, 1989, p. 289. 50 Ibidem. 51 Ibidem. 52 Ibidem.

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settentrione industrializzato, cambiando una volta per tutte la geografia delle città e immettendo nuove esigenze nel sistema politico italiano. Le condizioni di vita dei nuovi migranti sono completamente diverse da quella che hanno immaginato: al posto di case pulite e ricche di elettrodomestici, i nuovi cittadini devono fare i conti con “una integrazione difficile tra etnie diverse … l’assenza di strutture di accoglienza [nelle città di arrivo], il potere vessatorio dei caporali, la penuria di alloggi decenti, la lunga via crucis nei meandri del lavoro nero”53. Nel luglio del 1960, a Torino, a Piazza Statuto, giovani lavoratori, a cui si uniscono molti studenti, “manifestavano in forme inconsuete la loro critica dell’esistente, erano operai comuni, forza lavoro senza mestiere, né qualifica, recentemente immigrati, prevalentemente meridionali, che vivevano ai margini della società industriale, il cui accesso ai consumi e al benessere era ancora precario, in bilico tra vecchi bisogni materiali insoddisfatti e le nuove povertà, sociali e culturali, della società dei consumi.”54 È la punta di un iceberg che si sarebbe manifestato solo qualche anno più tardi e che solo una piccola parte delle forze politiche si è impegnata a comprendere. Per rispondere “al problema immane di piena immissione delle masse nella vita dello Stato”55, come lo definisce Aldo Moro, e per governare il boom economico che interessa il Paese, prende piede, già a partire dal 1958, l’idea di una nuova formula di governo che prevede la partecipazione del Partito Socialista, allontanatosi dal Pci dopo i fatti del 1956, al governo. All’interno della DC sono forti le pressioni affinché un tale accordo non si raggiungesse, e nella difficile fase di stallo, il Presidente della Repubblica Gronchi affida, nell’estate del 1960, a Fernando Tambroni il compito di formare un nuovo governo. L’esecutivo che nasce è un monocolore DC che trova in parlamento solo il sostegno della destra neo-fascista del MSI e che quindi costringe alle dimissioni tre ministri della sinistra DC. La decisione governativa, poi, di consentire lo svolgimento del Congresso Nazionale del MSI a Genova, medaglia d’oro per la Resistenza, provoca in tutta Italia scioperi e manifestazioni antifasciste a cui partecipano anche molti giovani, che non hanno conosciuto né il fascismo, né la guerra, ma che sentono come propri i valori dell’antifascismo sui quali era rinata l’Italia dopo la Liberazione. Il Governo Tambroni è costretto alle dimissioni e riprende vigore il disegno di Moro e Fanfani di un allargamento a sinistra delle forze governative. “Solo quando [venne] meno l’opposizione della Chiesa, non prima”56si assiste alla nascita del centro sinistra. Già nel 1961, in occasione del centenario dell’unità di Italia, il nuovo Papa Giovanni XXIII parla di “Tevere più largo” per sancire l’autonomia reciproca che deve esistere tra Stato e Chiesa; nel gennaio del 1962 si svolge il Congresso di DC in cui Moro, grazie ad un “capolavoro di ambiguità”57, riesce ad avere il sostegno di gran parte del partito e ad aprire la strada al primo governo di centro-sinistra: due mesi più tardi infatti, Amintore Fanfani forma un governo composto da DC, repubblicani, social-democratici e con l’appoggio esterno dei socialisti, il centro-sinistra “programmatico”. Pietro Nenni, segretario del PSI, subordina questa fase politica – l’appoggio esterno da parte del suo partito - alla 53

M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 151. Ivi, p. 152. 55 A. Moro, citato in F. Barbagallo, L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1943-2008) cit., p. 68. 56 P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino, 1990, p. 344. 57 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica (1943-1988), cit., p. 356. 54

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realizzazione di alcune importanti riforme quali la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la scuola media unificata con l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni, la creazione delle Regioni. Riforme che vedono solo in parte la luce – tranne l’istituzione delle Regioni – tanto da segnare comunque l’evoluzione del centro-sinistra che diviene organico dopo le elezioni del 1963. Presieduto da Aldo Moro e con Nenni vice-Presidente del Consiglio, il centro sinistra nasce con qualche defezione tra il PSI: Lellio Basso infatti non vota la fiducia alla Camera e dà vita ad un nuovo partito con il vecchio nome di il Partito Socialista italiano di unità proletaria. Nei piani di Moro, il centro-sinistra ha il preciso compito di dare un governo allo sviluppo, di dare “una direzione all’economia attraverso forme di programmazione decise a livello politico, con l’obiettivo della massima occupazione e del superamento degli squilibri, in un processo di socializzazione di tipo comunitario … che si misuravano con i processi di modernizzazione di una società sempre più complessa.”58 Moro nel suo discorso programmatico in Parlamento promette di tutto, tanto da spingere il Presidente del Senato Merzagora a definire il programma del governo “Brevi cenni sull’universo”; il presidente del Consiglio pone infatti tra le priorità l’istituzione delle Regioni, la riforma scolastica, la riforma edilizia, la riforma del fisco, quella dell’agricoltura, la legge urbanistica e quella antimonopolio. La brusca frenata dell’economia italiana a partire dal 1963, i progetti golpisti del Gen. De Lorenzo dell’estate 1964, tesi a sovvertire l’ordinamento democratico, forti pressioni antisocialiste all’interno della stessa compagine governativa e una forte opposizione a sinistra insabbiano completamente il percorso riformatore tracciato dal governo, tanto che “tra il 1962 e il 1968 i governi di centro-sinistra erano falliti nel rispondere alle molteplici esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. Essi avevano fatto insieme troppo e troppo poco, nel senso che avevano parlato ininterrottamente di riforme ma lasciando poi deluse quasi tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti, l’inerzia dei vertici fu sostituita dall’attività della base.”59

2.2 “ANCHE L’OPERAIO VUOLE IL FIGLIO DOTTORE…”60 Tra le riforme promesse dal centro-sinistra, quella che in questa sede più interessa è quella scolastica. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, si assiste alla massificazione scolastica, un processo che è stato descritto da Peppino Ortoleva nei termini di una doppia emancipazione: “quella dell’individuo che avrebbe dovuto trovare nell’istruzione la chiave per la mobilità sociale verso l’alto, e quella più generale dell’intera società”61 che avrebbe così dovuto contribuire all’avanzamento economico e sociale del Paese. Per poter soddisfare queste pretese, oltre al gran numero di studenti che si affacciano in questi anni nella vita scolastica ed universitaria, la scuola e l’Università avrebbero dovuto subire un pesante processo di riforma. Ciò che invece riescono a partorire i diversi governi di centro-sinistra che si sono susseguiti tra il 1960 e il 1968 è la scuola media unificata con l’obbligo fino ai 14 anni e l’accesso nelle facoltà scientifiche anche ai diplomati negli istituti tecnici. 58

F. Barbagallo, L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1943-2008) cit., p. 70. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica (1943-1988), cit., p. 404. 60 Celebre canzone di P. Pietrangeli, 1966. 61 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in America e in Europa, cit., p. 82. 59

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E dire che nel 1962 si costituisce la Commissione d’Indagine per l’elaborazione di riforme scolastiche, con il compito di “1) individuare le linee di sviluppo della pubblica istruzione sia in rapporto alla popolazione in età scolare sia in rapporto ai fabbisogni della società italiana […] connessi allo sviluppo economico e al progresso sociale, con riguardo anche all’intensificarsi ed estendersi delle relazioni internazionali e alla partecipazione dell’Italia agli organismi comunitari europei; 2) Individuare il fabbisogno finanziario e le modifiche di ordinamento necessari per lo sviluppo della scuola italiana.”62 Le iscrizioni alle scuole superiori passano dai 741.502 dell’anno scolastico 1960-61 a 1.401.185 del 1967-68, per passare nel 1970-71 a 1.732.178; “la percentuale di giovani maschi che frequentavano la scuola superiore passò così dal 15 al 36% e quella delle giovani femmine dal 19 al 31%.”63 Un balzo del tutto simile si verifica anche nelle Università dove “tra il 1960-61 e il 1969-70 gli studenti passarono da 268mila a 642mila, crescendo del 70,5% nel quinquennio 1970-75.”64 All’aumento degli studenti però non segue un aumento dei docenti che raggiunge la sproporzione di 1 a 40 nell’anno accademico 1965-66. 65 Ma sono pochi gli studenti che riescono a raggiungere la laurea: nell’anno accademico 1960-61 tra i 268000 iscritti nelle Università italiane, solo 22000 riescono a conseguire il titolo accademico, dieci anni più tardi sui 682000 iscritti solo 63000 studenti conseguono la laurea. Una condizione intollerabile quella dello studente: lo Stato non dà nessun tipo di sussidio e, se vogliono continuare gli studi, i giovani sono costretti a trovarsi un lavoro: c’è chi fa il baby-sitter, chi lavora nei bar e nei ristoranti, chi il commesso in qualche supermercato. Seguire le lezioni a queste condizioni è quasi impossibile e così sono costretti a studiare sui libri di testo in vista di un esame interpretato, per usare le parole di Guido Viale, come l’occasione in cui “un poliziotto denominato per l’occasione docente, liquida in 5-10 minuti l’imputato con una serie di domande.”66 La media dei bocciati è altissima e con essa, per via di un meccanismo di demoralizzazione, la media di chi decide di ritirarsi. L’Università opera di fatto una selezione di tipo classista: l’istruzione è sì aperta a tutti, ma le possibilità reali che gli studenti, soprattutto i più poveri, riescano a conseguire il titolo di studi sono esigue. Da qui le forti pressioni in senso egualitario manifestate in Lettera a una professoressa scritto nel 1967 dagli studenti della scuola di Barbiana, fondata da Don Lorenzo Milani: “Forse la storia di Pierino ci può dare una chiave. Il dottore e sua moglie sono gente in gamba. Leggono, viaggiano, ricevono gli amici, giocano con il bambino, hanno tempo per stargli dietro. La casa è piena di libri e di cultura. A cinque anni io maneggiavo la pala con maestria. Pierino il lapis… Pierino passa sempre e quasi senza studiare. Io lotto a denti stretti e boccio… A 18 anni ha meno equilibrio di quanto ne avevo io a 12. Ma passa sempre. Si laurerà a pieni voti. Farà l’assistente universitario gratis. Questo non è romantico disinteresse, è un sistema raffinato per escludere la razza inferiore senza dirglielo in faccia… Sommando migliaia di piccoli egoismi con il suo, si fa l’egoismo grande di una classe che vuole per sé la parte del leone. Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione… Il meccanismo preciso non lo sa nessuno. Ma

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G. Ricuperati, La politica scolastica, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, t. 2, Torino, Einaudi, 1995, pp. 707-778, p. 735. 63 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p.183. 64 Ibidem. 65 A. Vittoria, V. Roghi, Un «santuario della scienza»: tradizione e rotture nella facoltà di Lettere e Filosofia dalla Liberazione al 1966, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, Roma, Viella, 2000, pp. 567-628. 66 G. Viale, citato in P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, cit., p. 405.

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quando ogni legge sembra tagliata su misura perché giovi a Pierino e freghi noi, non si può credere nel caso.”67

Con semplicità e schiettezza la lettera degli studenti di Barbiana, che diviene una lettura quasi obbligatoria per i ragazzi di quegli anni, coglie nel segno: la scuola non è neutra, compie delle selezioni e, quasi sempre, queste sono a discapito dei figli della classe più umile. Scrivono gli studenti di Torino: “la scuola è anche un meccanismo di selezione sociale. Dalle elementari all’università la selezione scolastica è un massacro continuo per gli appartenenti alle classi lavoratrici. Cadono prima i figli dei contadini e di immigrati, poi i figli degli operai, poi gli studenti lavoratori. Arrivano al traguardo della laurea soltanto coloro che sapevano già in prima elementare di doversi laureare.”68 Intanto il governo Moro, con il suo ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Gui, già noto per la sua avversione alla scuola pubblica, come dimostra un suo saggio del 1956 in cui definisce legittimo il finanziamento alle scuole non-statali, avanza una proposta di riforma dell’università. La proposta di legge Gui, o meglio nota come la “ventitréquattordici”, prevede, oltre la formazione dei dipartimenti tramite l’accorpamento di insegnamenti, anche tre livelli di laurea: il diploma dopo il primo biennio, la laurea, il dottorato di ricerca dopo due anni dalla laurea. Gli studenti vedono nel disegno di legge Gui, un modo per istituzionalizzare le selezioni e per svalutare il titolo di studi. Per questi motivi, oltre al fatto che non prevede organismi di controllo degli studenti sui processi formativi in grado di rompere il ferreo controllo del potere accademico, la protesta contro la riforma Gui da parte degli studenti è tenacissima. Per quanto riguarda gli insegnamenti, già la commissione di indagine del 1962 denuncia il problema dell’insufficiente formazione degli insegnanti secondari in termini pedagocicodidattici e propone di risolvere la questione non solo con un miglioramento delle condizioni retributive, ma anche trasformando i Magisteri in scuole per la preparazione professionale degli insegnanti. Nella riforma che il Ministro della Pubblica Istruzione Gui sottopone al vaglio Parlamento, non vi è nulla di tutto ciò.69 Eppure il problema di un insegnamento arcaico, anacronistico, obsoleto e lontano dalla realtà è sentito anche, e forse soprattutto, dagli studenti. Essi capiscono che la scuola e l’università non sono in grado di dar loro quelle chiavi interpretative necessarie per comprendere la realtà che gli sta attorno. L’Università è vista allora solo come “ strumento, si legge in un documento del movimento di Torino, di manipolazione ideologica e politica teso ad installare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere ed a cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo.”70 Il sentimento di inadeguatezza che gli studenti sentono nei confronti degli insegnamenti impartiti loro nelle istituzioni del sapere si traduce ora in quello che è stato definito autodidattismo collettivo. “Scegliere i contenuti dei controcorsi, imparare a discutere (la scuola e l’università ci hanno fatto disimparare a discutere), studiare collettivamente e non in modo individuale, vedere l’incidenza politica e sociale di ciò che si studia, imparare a pensare e parlare autonomamente e non su comando, imparare a stabilire dei rapporti 67

Don L. Milani, citato in M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., p. 23. Ivi, p. 25. 69 G. Ricuperati, La politica scolastica, in Storia dell’Italia repubblicana, cit., pp. 741 sgg. 70 G. Viale citato in P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, cit., p. 408. 68

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egualitari e di parità tra chi è preparato e chi non lo è, non considerare più il sapere come un privilegio e una fonte di prestigio, imparare a controllare e a discutere con i docenti una volta che questi rientreranno nell’università, queste sono le direttive e i presupposti della nuova didattica.”71 “Quelle pratiche – nota Ortoleva – evidenziano come fosse radicata l’idea dell’inscindibilità della lotta dall’apprendimento: conoscenza e azione politica … erano vissute come parte di uno stesso processo, in quanto solo la partecipazione attiva al conflitto consentiva un autentico processo di formazione; ma anche perché … uno dei fini essenziali della lotta era creare spazi per un’attività intellettuale libera, non condizionata dai meccanismi oppressivi della 'fabbrica del sapere'.”72 Vi è inoltre l’idea che non esista un corpus teorico dato da apprendere, ma che l’apprendimento debba avere una prospettiva interminabile, come interminabile deve essere la lotta. Le pratiche di autodidattismo collettivo, oltre che a spingere gli stessi studenti ad avanzare richieste di aggiornamento della scuola e dell’università, in particolare si esige la riduzione del peso dei corsi dedicati al passato e una maggiore attenzione all’attualità, hanno il grande merito di aver contribuito a far nascere negli studenti un sentimento di classe fondamentale per il movimento. Non siamo quindi dinanzi alla nascita di una classe di intellettuali impegnati, “qui siamo di fronte – nota da subito Rossana Rossanda - all’esplosione di un gruppo sociale nuovo, che non è la somma di molti individui, ma effettivamente un collettivo, ha coscienza di sé come di uno status particolare, esprime bisogni specifici, non mutuati per solidarietà con altri diseredati, ma scoperti nella sua stessa miseria e alienazione.”73 Non a caso la trasformazione del movimento in più movimenti, avvenuta tra l’autunno del 1968 e i primi mesi del 1969, segnerà la fine de “l’anno degli studenti.”

2.3 L’ ASSASSINIO DI PAOLO ROSSI. Fondato solo quattro anni prima, nel 1962 per volere della sinistra DC, l’Istituto Universitario di scienze sociali si Trento è il primo, nel febbraio del 1966, a conoscere l’occupazione studentesca. I motivi della protesta sono prettamente didattici: gli studenti difendono l’autonomia della laurea in Sociologia contrariamente ad una proposta di accorpamento a una laurea in Scienze Politiche con indirizzo sociologico. La lotta si conclude con successo, nasce così la figura professionale del sociologo. Ma la sociologia è soprattutto americana e quindi a sostegno dell’intero sistema capitalistico, un difetto questo a cui gli studenti trentini pongono rimedio nella seconda occupazione, quella del novembre del 1967. A Roma intanto l’Università vive momenti difficili dovuti alle scorribande dei fascisti tollerate dalle autorità accademiche: “erano anni che i fascisti all’Università di Roma facevano il bello e il brutto tempo. Avevano costituito una banda armata, sempre pronta all’impiego di teppisti che, giusto per salvare la faccia, rimanevano iscritti all’Università. Infiniti erano stati gli atti di violenza e mai le autorità accademiche erano intervenute, neanche l’anno prima in occasione dell’aggressione a Parri. I fascisti erano gli unici, nonostante una delibera del Senato Accademico che proibiva qualunque propaganda politica all’interno dell’Università, ad avere il diritto di affiggere manifesti politici, anche con frasi di aperto dileggio dei professori democratici – e sempre con il timbro di autorizzazione del rettorato. 71

P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 101. Ivi, p. 100. 73 R. Rossanda, citato in P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 90. 72

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All’Università di Roma sentir cantare “Giovinezza” era una consuetudine ed altrettanto facile era vedere dipinte delle croci uncinate. Era la prima volta che la violenza fascista portava alla morte, ma per un caso: era un caso che dal clima di violenza l’incidente mortale non fosse nato prima, anni prima.”74

Scrive infatti sulle pagine di “Quaderni piacentini” il professore Giorgio Morpurgo, dopo la tragica morte dello studente socialista Paolo Rossi avvenuta, per mano di un gruppo di giovani fascisti, nella primavera del 1966. Il 27 aprile di quell’anno si eleggono i rappresentanti dell’ORUR, l’organismo rappresentativo universitario romano. Durante le votazioni un gruppo di giovani fascisti cerca di impossessarsi delle urne di alcune facoltà. Mentre la polizia tarda ad intervenire, sono i giovani di sinistra che tentano di respingere i fascisti. Tra loro anche lo studente Paolo Rossi, matricola in Architettura eletto nella lista Goliardi Autonomi. I fascisti lo raggiungono con calci e pugni, il giovane si allontana. “Mi hanno colpito e mi sento male”, confessa al suo collega Franco Zagari mentre tenta di risalire a fatica le scale della facoltà di Lettere. Alcuni professori intervengono chiedendo alle forze dell’ordine di adempiere al loro lavoro. Paolo Rossi è in cima alla scalinata, si affaccia. Cade. “È caduto come un corpo morto, senza reagire, come se non avesse coscienza.”75Viene portato al Policlinico, quindi all’ospedale San Giovanni. Muore nella notte. Nello stesso giorno viene occupata la Facoltà di Lettere, ma già la sera stessa è liberata dalla polizia. L’indomani però dopo una serie di comizi che denunciano la matrice fascista dell’omicidio, vengono occupate le Facoltà di Lettere, Legge, Scienze Politiche, Fisica, Ingegneria, Magistero e Architettura. Nelle Facoltà occupate si discute ora del modo con cui continuare la lotta. Due sono le tesi: l’abbandono delle Università con onore prima che lo facciano le forze dell’ordine; occupazione ad oltranza. La decisione viene rimessa all’assemblea che a larghissima maggioranza opta per la seconda. Ecco le richieste degli studenti e dei professori democratici: “L’assemblea degli studenti, assistenti, professori incaricati, professori di ruolo occupanti le Facoltà dell’Ateneo di Roma: 1) ribadisce la richiesta di immediate dimissioni del Rettore Papi, ricordando all’esecutivo che in base alle leggi vigenti, le quali secondo le richieste del mondo universitario devono essere radicalmente cambiate in modo da dare all’Università un effettivo autogoverno democratico, solo il Ministro della Pubblica Istruzione può destituire un Rettore che, pur sconfessato dalla parte più sana del mondo universitario, rifiuta di dimettersi; 2) chiede che la convocazione del Corpo accademico per eleggere il nuovo Rettore discuta le candidature prima di procedere alle votazioni e sia preceduta da riunioni di Consigli di Facoltà alle quali siano partecipati ad invitare … i professori incaricati e i rappresentanti dei liberi docenti; 3) chiede lo scioglimento delle organizzazioni parafasciste di studenti universitari, applicando alla lettere e lo spirito della legge e della Costituzione; 4) il conseguente ripristino della vita democratica dell’Università; 5) delibera di proseguire l’occupazione delle facoltà fino al conseguimento dei punti 1 e 3, invita le associazioni degli assistenti e dei professori incaricati a proclamare lo sciopero ad oltranza, ed i professori di ruolo democratici a sospendere ogni attività didattica fino al conseguimento degli stessi obiettivi,”76

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A. Vittoria, V. Roghi, Un «santuario della scienza»: tradizione e rotture nella facoltà di Lettere e Filosofia dalla Liberazione al 1966, cit., p. 619 . 75 Ivi, p. 618. 76 Ivi p. 620.

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Gli occupanti delle Facoltà dell’Ateneo romano conseguono un importante successo: il 2 maggio 1966, il rettore Papi, “un uomo – denuncia E. Scalfari sulle pagine dell’Espresso che per tredici anni ha governato l’università di Roma sorretto da interessi potenti annidati dietro alle cattedre più prestigiose, dove si amministra il vero potere universitario, si dispensano incarichi, si premiano gli amici e i clienti, si distribuiscono titoli e prebende”77, si è finalmente dimesso. Gli occupanti chiedono ora una gestione più democratica dell’Università: deve sparire qualsiasi tipo di apologia del fascismo, così come qualsiasi intimidazione squadrista, devono inoltre essere garantite le voci di studenti, assistenti, professori incaricati in tutti gli organi universitari forniti di poteri decisionali. Il 3 maggio l’assemblea plenaria vota, dopo che tutti gli obiettivi sono stati raggiunti, la mozione riguardante la fine dell’occupazione. “Qualcosa è nato dalla morte di Paolo Rossi. Usciamo come occupanti da queste aule, ci torneremo domani, a insegnare, a studiare, a lavorare. Domani, come stasera, come ieri, per proteggere e portare avanti questo, che in questi giorni è nato.”78 Mancano ancora due anni al 1968, ancora due anni ai fatti di Valle Giulia e del Maggio francese, ma con la morte del giovane Paolo Rossi, il Sessantotto italiano ha inizio.

2.4 1967. LA PRIMA FASE. Febbraio 1967. A Pisa, alla Scuola Normale, sono invitati per un incontro Nazionale tutti i Rettori delle Università italiane. A Pisa, nello stesso periodo rappresentanti di diverse associazioni studentesche occupano, in una sorta di controvertice, il Palazzo della Sapienza, sede dell’Università toscana. Frutto dell’occupazione da parte degli studenti è un documento: le Tesi della Sapienza, “che sono la più coerente enunciazione di un analisi di classe della figura dello studente come forza-lavoro in formazione in una società capitalistica che fa sempre più affidamento sulla produzione e sull’elaborazione della conoscenza come strumenti direttamente produttivi.”79 Proprio partendo dal presupposto che, all’interno dell’Università lo studente costituisce forza-lavoro in fase di formazione, le Tesi rivendicano il bisogno di dotarsi di istituzioni del tutto simili a quelle sindacali dei lavoratori. E ancora “se gli studenti erano una componente sociale assimilabile alla classe lavoratrice, ne derivava che la controparte – le autorità accademiche – era parte integrante della classe dominante.”80 Sulla base di questo passaggio logico si postulava di fatto un collegamento strutturale tra le lotte all’interno dell'Università e i conflitti di lavoro al suo esterno: “Il movimento tiene conto della lotta di classe contro il sistema capitalistico nella sua totalità e ricerca l'unità con tutte le forze che lo contestano in pratica. Il movimento potrà giungere in una fase più avanzata a precisare il tipo di società che si propone di collaborare a costruire. Questo compito sarà reso possibile: a) dall'analisi metodica dello sviluppo capitalistico in relazione alla università; b) dalla discussione di base intorno alle tesi sulla scuola; c) dal collegamento con le lotte operaie”.81

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E. Scalfari, Un crisantemo sul letamaio, in «L’Espresso», 8 maggio 1966. A. Vittoria, V. Roghi, Un «santuario della scienza»: tradizione e rotture nella facoltà di Lettere e Filosofia dalla Liberazione al 1966, cit., p. 622. 79 Tesi della Sapienza, citato in P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 93. 80 M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 56. 81 Ibidem. 78

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Lontano dalle derive operaiste di Pisa, influenzate da riviste come “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”, secondo le quali solo un collegamento tra operai e studenti avrebbe potuto trovare un importante sbocco politico, si pone invece la seconda occupazione dell’Università di Trento nel novembre dello stesso anno. Il primo novembre viene infatti proclamato uno sciopero attivo degli studenti che paralizza la facoltà di Sociologia. “È un pugno nello stomaco per la DC, che aveva voluto l’università nella bianca Trento proprio come vivaio di future teste d’uovo.”82 La questione è materiale e intellettuale al contempo: quale futuro, quale ruolo per il sociologo in una società che difficilmente lo avrebbe potuto collocare nel sistema produttivo? Gli studenti provano a dare una prima sommaria risposta: il sociologo doveva essere “scienziato sociale, operatore sociale, ricercatore sociale.”83 Una più ampia formulazione al quesito la si può trovare nel “Manifesto per un Università Negativa”, redatto sempre dagli studenti trentini, in cui sono visibili i chiari riferimenti alla sociologia critica americana e tedesca. “Oggi – si legge nel manifesto - l'università strutturalmente si pone come una organizzazione la cui funzione è quella di soddisfare gli svariati bisogni tecnici della società. L'università fornisce gli strumenti aggiornati per mettere sempre piú a punto l'organizzazione del dominio di una classe sulle altre classi.”84 In questo contesto, gli studenti trentini lanciano “l'idea di una UNIVERSITA NEGATIVA che riaffermi nelle università ufficiali ma in forma antagonistica ad esse la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico, che denunci ciò che gli imbonitori mercenari chiamano "ragione" e ponga quindi le premesse di un lavoro politico creativo, antagonista ed alternativo.”85

Si assiste quindi all’affermazione, almeno in via del tutto teorica, di un sociologo non integrato nel sistema capitalistico, finalizzato cioè solo alla riproduzione dell’ordine sociale già esistente, ma un professionista critico, che fosse in grado di interpretare la società che lo circonda in modo da intervenire per cambiare le storture del sistema in nome di principi di emancipazione umana. A metà novembre del 1967 scendono in campo gli studenti dell’unica Università professionale del Paese, la Cattolica di Milano. Stavolta, il motivo della protesta è però molto più materiale: un aumento improvviso delle tasse universitarie. Il 14 novembre è indetto lo stato di agitazione che va avanti per 3 giorni. Il 17 un’assemblea di oltre mille studenti decide per l’occupazione dell’ Università e avanza le sue richieste: “ritiro degli aumenti delle tasse, pubblicità dei bilanci dell’Università, ricorda un iscritto, Capanna, che verrà cacciato dall’ateneo, democrazia, riconoscimento dell’assemblea degli studenti come istanza decisionale.”86 Il Rettore Franceschini chiede l’intervento delle forze dell’ordine e, per la prima volta la polizia irrompe nell’Università Cattolica. L’esempio di Milano, Trento e Pisa viene seguito anche dagli studenti di Torino. Già nel mese di febbraio i giovani torinesi si sono mossi per occupare l’Università; ma durante quell’esperienza si sono stabiliti rapporti tra chi vive nell’Università, che si possono definire di tipo tradizionale: “l’occupazione infatti era considerata esplicitamente come mero 82

M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., p.17. A. Lepre, Storia della prima repubblica, l’Italia dal 1942 al 1992, Bologna, il Mulino, 1993, p. 226. 84 Manifesto per un’università negativa, in www.failacosagiusta.it 85 Ibidem. 86 M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., p. 19. 83

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strumento di pressione, a sostegno di rivendicazioni del tutto interne alla logica della rappresentanza studentesca, e si proponeva in primo luogo di spaccare il fronte accademico e di stabilire una qualche alleanza con quei docenti democratici più sensibili alle esigenze di democratizzazione dell’Università.”87 Nove mesi più tardi, nell’occupazione di Palazzo Campana che inizia il 27 novembre, non si trova nulla di tutto ciò. Il vero obiettivo della nuova occupazione consiste “nella contestazione dei metodi didattici dell’insegnamento accademico, che dietro la maschera della neutralità della scienza e della cultura instilla negli studenti la mentalità autoritaria propria delle autorità accademiche.”88 In un documento di Palazzo Campana si legge: “Il momento tipico in cui si può fare una radiografia completa della scuola italiana è l’interrogazione. Dietro al professore che interroga c’è il potere della società che ha dato al professore il suo posto e che lo paga perché insegni, quel potere che ha deciso una volta per tutte cosa è la cultura (pagando dei professori universitari perché la elaborino e scrivano dei libri) che cosa è la scienza (pagando dei ricercatori che facciano certe ricerche, missili, satelliti, bombe atomiche) e che cosa è la tecnica. L’indottrinamento e la manipolazione sono il fine della scuola. La scuola diventa così una struttura portante di tutto il sistema sociale che l’ha creata.”89

A mancare ora non solo un qualsiasi riferimento alla riforma universitaria, ma anche la distinzione tra docenti “democratici” e non: è l’intero corpo docente il vero avversario da battere. Un documento di Torino scrive: “I docenti in genere se ne infischiano dell’Università, e considerano le loro cattedre e i loro incarichi come un posto e uno stipendio sicuro che permette loro affari privati. C’è chi fa il sindaco, chi il deputato, chi fa il dirigente industriale, chi fa il principe del foro, chi fa il pianificatore e chi non fa assolutamente nulla; c’è infine chi riesce ad accumulare un tale numero di stipendi e di incarichi da essere continuamente impegnato.”90

Successivamente vengono occupate le università di Genova, Pavia, Napoli, Cagliari, Venezia e Sassari. È il preludio per quello che avverrà nella primavera del 1968. 3. IL SESSANTOTTO 3.1 IL SESSANTOTTO IN AMERICA. Il 1968 in America si apre con la guerra del Vietnam in primo piano: nell’establishment americano inizia ad esserci un certo ottimismo circa la vittoria del conflitto, d’altronde è lo stesso ministro della difesa Robert McNamara ad affermare che la pericolosità del nemico vietnamita andava attenuandosi. Ma le speranze stelle-strisce vengono spezzate nella notte tra il 30 e il 31 gennaio del 1968, in quella che passerà alla storia come l’offensiva del Tet. In quell’occasione l’esercito nord-vietnamita, aiutato dai vietcong, riesce ad infliggere un duro colpo all’esercito americano che perde trentasei capoluoghi di provincia su quarantaquattro, oltre a 300 giovani marines. Benché fallimentare da un punto di vista militare – l’esercito americano riesce in poco tempo a riconquistare quasi tutti gli avamposti perduti – l’offensiva del Tet è un trionfo 87

M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, cit., p. 410. Ivi p. 411. 89 Documento di Palazzo Campana, citato in M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., p. 25. 90 Documento del Movimento di Torino, citato in M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, cit., p. 411. 88

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politico, non solo perché segna l’isolamento della presidenza Johnson nella conduzione della guerra, ma anche perché riesce a dare linfa vitale al movimento degli studenti di tutto il mondo: “per una moltitudine di noi giovani il messaggio che in quel momento veniva dal Vietnam aveva un contenuto essenziale e semplice: un popolo di diseredati si batte per la propria autodeterminazione e tiene in scacco la più grande potenza della terra … Davide può battere Golia in pieno XX secolo.”91 Intanto anche il Partito Democratico inizia a prendere le distanze tanto dalla guerra in Vietnam quanto dal presidente Johnson: “Possiamo affrontare gli orrori che stiamo infliggendo al popolo di una nazione povera ed arretrata per non parlare del nostro stesso popolo? Possiamo affrontare il distacco dei nostri alleati e dimenticare i nostri gravi problemi interni insieme con la disillusione della nostra gioventù? Possiamo affrontare il sacrificio di vite americane per una cosa così dubbia? ”92 Così il senatore democratico William Fulbright. Intanto il 16 marzo di quell’anno l’esercito statunitense si rende protagonista di una delle pagine più tristi e brutali di tutta la guerra nel paese asiatico: il massacro di My Lai. Un intero villaggio viene sterminato perché accusato di parteggiare con i vietcong. I marines si accaniscono con brutalità su uomini, donne e bambini. Nessuno viene risparmiato. La vicenda colpisce nel profondo persino gli stessi soldati, alcuni dei quali scrivono al Congresso per denunciare l’accaduto, ma l’establishment militare dal canto suo, invia alla compagnia messaggi di felicitazioni. Il mondo scopre i fatti di My Lai solo venti mesi dopo, e per l’accaduto solo il sottotenente Calley è rinviato dinanzi alla corte marziale. Il 4 aprile del 1968 altro sangue: Martin Luther King viene assassinato in un motel di Memphis. King rappresenta l’anima moderata e pacifista del movimento nero, in un certo senso una diga alla deriva violenta di alcune frange dello stesso movimento. Non a caso infatti, con la sua morte si scatena una violenta ribellione nei ghetti delle città americane a cui proveranno a porvi rimedio il presidente Johnson prima e Robert Kennedy poi, e non è un caso che a prendere le redini del movimento sono le “Pantere Nere”, le “Black Panthers”, considerate dal direttore del Fbi la minaccia più pericolosa per la sicurezza interna. Come ssi è già avuto modo di ricordare, le Black Panthers, sorte a Oakland nel 1966, si rifanno al pensiero del primo Malcolm X rifiutando quindi qualsiasi tipo di collaborazione con la sinistra bianca. Ora però una parte del movimento non sembra più voler accettare il separatismo imposto dal primo ministro delle Black Panthers Stokely Carmicheal, lasciando cosi immaginare una prima scissione del movimento. Il 23 aprile, in occasione di una cerimonia in memoria di Martin Luther King alla Columbia University di New York, gli studenti interrompono il rettore accusandolo di ipocrisia e di non voler affatto rispettare i diritti dei neri, come dimostra il fatto di voler costruire un infrastruttura con due ingressi, una per i bianchi e una per gli afro-americani. In un’ azione coordinata da SDS e SNCC, gli studenti decidono quindi di occupare l’università e la proclamazione dello sciopero. Ben presto però compaiono i primi dissapori tra studenti bianchi e neri che avocano esclusivamente a sé la regia delle operazione. Da qui la decisione di darsi spazi diversi: ai bianchi viene affidata l’occupazione del rettorato e della facoltà di matematica.93 Le lezioni sono sospese e, anche grazie all’appoggio di numerosi docenti che si identificano nella protesta, nascono i primi “controcorsi” e numerosi dibattiti su come riformare 91

M. Capanna, Formidabili quegli anni, cit., pag. 51. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p.62. 93 M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., pp. 82 sgg. 92

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l’Università americana. “Uno, due, tanti Columbia” è lo slogan che Tom Hayden conia per la protesta, riprendendo quello guevariano che invoca “uno, due, tanti Vietnam.” Nonostante le rassicurazioni avute dal vice-rettore di non coinvolgere le forze dell’ordine, seguite dalla promessa di sospendere l’infrastruttura seme della discordia, migliaia di poliziotti entrano all’alba del 30 aprile all’interno del campus, chiamati dal rettore Grayson Kirk. “Il pestaggio è brutale, soprattutto nei confronti degli studenti di colore: i feriti sono più di cento e gli arrestati 700, in totale circa un decimo di tutti gli iscritti all’Università.”94 Gran parte degli studenti e dei professori chiedono le dimissioni del rettore Kirk, ma la stampa appoggia il rettore e chiede agli studenti di isolare i loro colleghi estremisti per evitare che l’università diventi un laboratorio per la rivoluzione. Non accade nulla di tutto ciò e le due, tre, tante Columbia dello slogan diventano realtà in gran parte dei campus in tutto il Paese. In quella stessa primavera decide di candidarsi per la Casa Bianca Robert Kennedy. Giovane (appena 42 anni), ed un cognome importante, Robert Kennedy sembra il candidato perfetto, sembra incarnare perfettamente i due temi (razza e guerra) tanto cari al movimento degli studenti. È infatti subito grande oppositore della guerra in Vietnam, oltre che fermo sostenitore delle ragioni dei neri d’America. Non c’è da meravigliarsi allora se una parte del SDS (Student for democratic society) tenta, seppur non pubblicamente, un dialogo con il candidato democratico. “Soprattutto per i sostenitori della strategia che vedeva nell’organizzazione di base la premessa della lotta politica, la possibilità che il movimento potesse trovare una cassa di risonanza nelle sedi istituzionali della politica era giudicata di grande importanza, poiché ciò aumentava le chances di successo di una delle istanze centrali su cui si era costituito: la fine della guerra in Vietnam, l’ammissione da parte del governo del fallimento della politica estera perseguita, la possibilità a sottoscrivere un dignitoso trattato di pace per il paese attaccato.”95 In questo contesto è chiaro che il movimento riconoscesse in Robert Kennedy la figura più adeguata. Tom Hayden, uno degli autori della dichiarazione di Port Huron, si impegna personalmente a sostenere la candidatura di Kennedy e ad organizzare, per il mese di agosto, una marcia su Chicago contro la guerra in Vietnam in cui avrebbe espresso più esplicitamente il sostegno al candidato che più di tutti ha in mente di porre fine alla guerra nel paese asiatico. La situazione è però destinata a mutare rapidamente. È la sera tra il 4 e il 5 giugno 1968. Robert Kennedy incontra i suoi sostenitori all’Ambassador Hotel di Los Angeles per festeggiare il successo ottenuto nelle primarie democratiche in California e South Dakota. Ha appena finito il suo discorso, viene fatto allontanare dall’hotel attraverso il passaggio delle cucine quando gli si presenta davanti Sirhan Sirhan, giordano di origine palestinese, che esplode alcuni colpi di pistola nei confronti del candidato presidente. Muore il 6 giugno. La sua morte priva di ogni riferimento politico il movimento degli studenti e dei neri d’America che premevano per un cambiamento: “con la scomparsa di Kennedy e di King risultava ormai irrealistica ogni prospettiva che con le elezioni potesse affermarsi un’America più egualitaria e solidaristica.”96 Gli studenti non vedono in Hubert Humphrey, già peraltro vice di Johnson, una valida alternativa alla politica democratica degli ultimi anni, decidono quindi di non appoggiare una sua candidatura. Durante la convention democratica tenutasi a Chicago, alcuni studenti 94

Ivi p. 70. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 82. 96 F. Romero, G. Valdevit, E. Vezzosi, Gli Stati Uniti dal 1945 a oggi, Roma – Bari, Laterza, 1996, p. 162. 95

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convocano una manifestazione per rimarcare la totale estraneità del movimento nei confronti della politica e decidono di proclamare il loro candidato: un maiale liberato tra la folla del centro di Chicago. Mentre all’interno della convention Humphrey celebra la nomina di candidato democratico, richiamando l’urgenza di ristabilire l’ordine nel Paese, fuori dalla convention gli studenti sono vittime dei metodi brutali delle forze dell’ordine (dodicimila poliziotti, seimila membri della Guardia Nazionale, altrettanti soldati dell’esercito e numerosi agenti dell’ FBI)97, intervenute per ordine del sindaco democratico. I fatti di Chicago sanciscono la sconfitta della componente politica del movimento, quella che avrebbe voluto interloquire con il Partito democratico per porre fine alla guerra in Vietnam e alla segregazione razziale in America. Ma dopo Chicago il movimento “si apprestava ad entrare in una cupa fase, caratterizzata da continue scissioni, separazioni, rotture, perdita di capacità di coordinare le lotte su vari fronti – il Vietnam, la discriminazione razziale, i ghetti, l’università, la vita.”98 Anche il Messico conosce in quei mesi il suo Sessantotto. In vista delle Olimpiadi di ottobre, il movimento studentesco messicano decide di intensificare la protestare occupando l’università della capitale. Se il governo non avesse ceduto alle richieste degli studenti, questi avrebbero boicottato le Olimpiadi. Il governo dal canto suo risponde alla provocazione studentesca, con la violenza dei Granaderos che causano la morte di dodici studenti. Nel mese di settembre, a poche settimane dalla cerimonia di apertura dei giochi, la polizia decide di sgomberare l’Università con una violenza tale da spingere alle dimissioni il rettore e molti docenti a schierarsi con gli studenti. Pochi giorni dopo gli studenti hanno anche l’appoggio della società civile che scaccia la polizia da alcuni quartieri. I giochi olimpici sono ormai alle porte e il governo non può permettere che vengano boicottati. Decide quindi di cedere alle pressioni degli studenti che, il 2 ottobre, scelgono di organizzare una marcia pacifica per ricordare al governo di rispettare gli accordi. L’appuntamento è in Piazza delle Tre Culture, e quella che sarebbe dovuta essere una manifestazione pacifica passa alla storia invece come una delle pagine più buie di tutto il Sessantotto. “Arrivano in diecimila, a tarda sera, senza accorgersi che l’esercito sbarra le vie d’accesso alla piazza con mitragliatrici e carri armati. Di fronte agli studenti le truppe con la baionetta innestata. Un bengala rosso e uno verde lanciano il segnale, in pochi minuti quattrocento giovani, ma anche donne e bambini, giacciono immobili sul selciato preispanico, uccisi a tradimento e con cinica ferocia.”99 Appena dieci giorni dopo hanno inizio i giochi Olimpici di Città del Messico, che vengono ricordati non per il sacrificio studentesco di piazza delle Tre Culture, ma per il gesto di due atleti statunitensi di colore, Tommy Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo nei duecento metri. Al momento della premiazione infatti i due atleti statunitensi salgono scalzi sul podio e mentre ascoltano l’inno statunitense con il capo chino, alzano il pugno con un guanto nero, simbolo del “potere nero”, per protestare contro la discriminazione razziale in America. Il gesto crea subito grande scalpore e i due atleti vengono immediatamente privati delle medaglie ed espulsi dalla squadra stelle e strisce. Intanto in America la competizione elettorale per la Casa Bianca è entrata nel vivo. A sfidarsi sono il democratico Hubert Humphrey, il repubblicano Richard Nixon e il populista indipendente George Wallace. 97

Marica Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 91. Ivi, p.92. 99 M. Flores, A. de Bernardi, Il Sessantotto, cit., p.84. 98

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Nixon si rivolge in particolare “agli americani dimenticati, quelli che non urlano e non manifestano … non infrangono la legge, pagano le tasse e lavorano, … vanno in chiesa ed amano il proprio Paese”100 e fa leva sul fallimento della guerra in Vietnam voluta dai democratici, impegnandosi a porre fine al conflitto. Il 5 novembre le urne danno ragione a Richard Nixon che ottiene il 43,4% dei voti (contro il 42,7% di Humphrey e il 13,5% di Wallace) e diviene così il trentasettesimo presidente degli Stati Uniti. All’indomani dell’elezione di Nixon alla Casa Bianca si intensificano le proteste, soprattutto della popolazione di colore. Questa volta è San Francisco a conoscere i disordini. Qui la tensione è già alta per via della condanna, a settembre, di Huey Newton, dirigente delle Black Panthers, cui fanno seguito occupazione di scuole e di edifici pubblici. La Black Students Union, il sindacato degli studenti neri, chiede ora non solo la creazione di “black studies”, dipartimenti di storia di cultura afro-americana tenuti da professori afro-americani, ma anche l’accesso per un maggior numero di studenti neri nell’università: su di una popolazione nera che raggiunge il 20% di quella complessiva, solo 700 studenti (il 4%) è iscritto all’Università. La frangia violenta del movimento ha però preso il sopravvento e numerose sono le azioni che il sindacato degli studenti neri organizza negli uffici dell’Università. Dopo 134 giorni di sciopero e settecento arresti da parte delle forze dell’ordine, che avevano il compito di mantenere aperto il campus anche con l’uso di baionette, si arriva ad un importante compromesso: l’amministrazione riconosce e istituisce il dipartimento di black studies oltre a borse e sussidi per gli studenti di colore, ma licenzia una ventina di insegnanti e lascia che sussistano le accuse contro gli studenti arrestati. C’è ancora spazio, nel maggio del 1969, perché il Sessantotto torni nel luogo dove tutto ha avuto inizio: a Berkeley. Qui, attivisti di vario orientamento danno vita al People’s Park, uno spazio pubblico, di proprietà del campus universitario, a disposizione della comunità per concerti, incontri o altre attività. “Nel giro di pochi giorni il People’s Park si trasformava in qualcosa di più di una utopia improvvisata, diveniva una visione in grado di ricreare un sentimento di appartenenza comune alle diverse anime del movimento, un’esperienza comunitaria di riconciliazione e ritrovata armonia…”101 Dopo circa 4 settimane le autorità universitarie, che sin a quel momento nulla hanno fatto per impedire la realizzazione del parco, pongono fine all’iniziativa facendo intervenire le forze dell’ordine per recintare l’area. La reazione dei fondatori del People’s Park è immediata: in centinaia accorrono per difendere l’area dai bulldozer, ma la polizia li blocca con i soliti metodi. In quell’occasione però fanno il loro ingresso in scena anche le armi da fuoco. Alla fine si contano una cinquantina di feriti da armi da fuoco ed un morto. “La comunità formatasi attorno alla visione utopica del People’s Park si dissolve cosi nello shock generale, in sentimenti oscillanti tra il terrore e una rabbia disperata.”102 È ormai chiaro a tutti però che il Sessantotto americano è agli sgoccioli. Non solo ha subito al suo interno profonde lacerazioni, dovute in particolare al cambiamento di modus operandi soprattutto della comunità di colore, ma ha perso anche il sostegno di gran parte della popolazione civile. Sembra infatti che le morti di Martin Luther King prima e Robert Kennedy poi abbiano spiazzato l’intero movimento, che non è più stato in grado né di 100

R. Nixon, citato in Romero, Valdevit, Vezzosi, Gli Stati Uniti dal 1945 a oggi, cit., p. 163. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 92. 102 Ivi, p. 93. 101

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trovare un altro valido canale nelle istituzioni alternativo a Bob Kennedy, né di istituzionalizzarsi esso stesso, preferendo alla “lunga marcia attraverso le istituzioni” un atteggiamento più marcatamente rivoluzionario e fallimentare. 3.2 “IL EST INTERDIT D’INTERDIRE”103 È solo con il maggio francese che il 1968 diviene il Sessantotto. E pensare che la Francia non ha vissuto quegli anni di incubazione del movimento presenti invece in altre realtà europee ed americane. Sino alla metà degli anni Sessanta il ministro della Gioventù francese promuove delle inchieste sociologiche, che evidenziano la prevalenza nei giovani di attitudini conformiste: matrimonio e riuscita professionale sembrano infatti essere le principali aspirazioni dei giovani francesi, che si interessano alle grandi questioni del Paese, ma senza una reale volontà ad impegnarsi per risolverle.104 A partire dal 1967 i grandi temi che interessano i giovani di tutto il mondo, antiautoritarismo e libertà sessuale in primis, sembrano trovare nei giovani francesi terreno fertile dove poter attecchire. Non a caso, a Nanterre, sede decentrata della prestigiosa Sorbona di Parigi, sorta solo nel 1964, gli studenti di Lettre e Sciences Humanines organizzano, nella primavera di quell’anno, una conferenza su Wilhelm Reich e la sessualità, un tema a loro caro attorno al quale iniziano a manifestarsi le prime proteste contro il regolamento del campus, considerato bigotto ed umiliante dagli studenti. Nel gennaio del 1968 François Missofe, ministro della Gioventù, si reca a Nanterre per inaugurare la nuova piscina del campus universitario e per illustrare i risultati dell’inchiesta sui giovani promossa dal governo. Chiede la parola Daniel Cohn-Bendit, un giovane studente di sociologia, che contesta al ministro il fatto che nelle oltre seicento pagine dell’inchiesta non vi fosse nessun accenno ai problemi sessuali dei giovani. Il ministro suggerisce allora al giovane di placare i suoi problemi sessuali con tre tuffi in piscina. Un ironia non apprezzata da Cohn-Bendit: “è esattamente il tipo di risposta che si ottiene in un regime fascista.” Benché sorgano già dal 1966 comitati di ispirazione comunista contro la guerra in Vietnam, non è attorno a questo punto che viene a crearsi quel sentimento di appartenenza degli studenti che contraddistingue il movimento in tutta Europa. L’epicentro tematico attorno a cui si forma il movimento degli studenti francesi è proprio il pericolo di vivere in una società nei fatti fascista e di un potere percepito come discrezionale a chi ne fa uso. Occorre ricordare infatti che il presidente francese Charles De Gualle compie in quegli anni una politica estera che si può definire autonomista con cui intende sottrarsi cioè alla logica dei blocchi. Lontana certo dall’Unione Sovietica, la Francia è però l’unico Paese europeo occidentale che, oltre ad essere uscita dalla Nato, ha apertamente criticato e condannato l’intervento statunitense in Vietnam, sottraendo di fatto un importante asse tematico, sui cui mobilitare l’opinione pubblica, alla nouvelle gauche. Il 20 marzo il Comité Vietnam National indice a Nanterre una manifestazione per protestare contro la guerra, si registrano in quell’occasione violenti scontri tra le forze dell’ordine e gli studenti. Uno di loro, membro della JCR (Jeunesse Communiste Révolutionnaire) viene arrestato. È l’inizio del Sessantotto francese.

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Celebre slogan del Maggio Francese. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., pp. 59 sgg.

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Qualche giorno più tardi infatti, il 22 marzo, gli studenti, capeggiati da Cohn-Bendit, si riuniscono in seduta plenaria per chiedere la liberazione dello studente arrestato e per discutere “di ciò che possiamo fare di fronte a una macchinazione repressiva così minacciosa.”105 Si decide quindi l’occupazione dell’anfiteatro e la creazione del Mouvement 22 mars. La risposta delle autorità accademiche non si fa attendere: il 28 marzo il rettore decide di sospendere i corsi e chiama la polizia per controllare i gruppi di discussione nati all’interno del campus. Alla fine del mese gli studenti boicottano gli esami per chiedere spazi permanenti a loro disposizione, ottenendo la solidarietà di gran parte dei docenti. Il 4 aprile il rettore decide per la chiusura del campus. La decisione di chiudere il campus non fa altro che spostare la protesta da Nanterre, alla Sorbona di Parigi: il 3 maggio, centinaia di studenti provenienti da Nanterre, occupano, senza alcuna violenza, il cortile della prestigiosa università per protestare contro la decisione di trasferire il giovane Daniel Cohn-Bendit in un'altra università. Il rettore chiama allora le forze dell’ordine per far evacuare il cortile e in pochi minuti gran parte degli studenti lì riuniti vengono identificati, i dirigenti più in vista addirittura fermati. Gli studenti non si danno per vinti ed organizzano seduta stante una grande manifestazione per chiedere la liberazione dei loro colleghi arrestati. Niente da fare. Il rettore Paul Roche decide di chiudere l’università, “una misura che nei settecento anni precedenti era stata presa soltanto nei giorni dell’occupazione nazista di Parigi.”106 La notte tra il 3 e il 4 maggio vengono decise da un comitato d’azione degli studenti e degli insegnanti le richieste da fare alle autorità accademiche: riapertura della Sorbona, ritiro della polizia, liberazione degli arrestati. Il 6 maggio, mentre Daniel Cohn-Bendit si reca alla Sorbona, convocato dalla commissione disciplinare, gli studenti decidono di muoversi in un corteo di solidarietà lungo il Quartiere latino. Durante il corteo vengono attaccati con inaudita violenza dalle forze dell’ordine, Boulevard Saint-Germain si riempie di gas lacrimogeni . Gli studenti però non scappano ed affrontano la polizia a testa alta e con armi non convenzionali, utilizzando le macchine in sosta come barricate. La battaglia ha fine solo a tarda sera. Si contano centinaia di feriti da entrambe le parti e cinquecento arresti tra gli studenti. Il giorno dopo sono in trentamila a sfilare sotto l’Arc de Trionphe dove bandiere rosse e nere (nel movimento francese è forte la presenza anarchica) sventolano al canto dell’ Internazionale. La brutalità con cui la polizia ha voluto da subito reprimere la contestazione giovanile spinge la pubblica opinione a solidarizzare con gli studenti che, intanto, scendono in lotta anche in altre località della Francia. Il Quartiere latino è il cuore nevralgico della protesta, una zona franca protetta da barricate che si formano e si riformano notte dopo notte: “le barricate del maggio 1968 ambivano piuttosto ad una funzione espressiva che non strumentale, in una sorta di citazione della storia, nel desiderio di richiamarsi a forme d’azione ad alta valenza simbolica.”107 La politica intanto stava a guardare: Charles de Gaulle opta per una linea intransigente del governo nei confronti degli studenti, il ministro degli Interni, a cui De Gaulle ha affidato i pieni poteri in assenza del primo ministro Pompidou impegnato all’estero, sceglie invece 105

M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 64. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 72. 107 M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 15. 106

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una strategia che non prevede l’utilizzo delle forze armate, almeno fino a quando le trattative, in corso dal pomeriggio del 10 maggio, non si fossero concluse. 11 maggio. Il rettore della Sorbona decide di ricevere una delegazione di studenti e docenti tra cui spicca la personalità, oltre che di Cohn-Bendit, anche del suo maestro Alain Touraine. Quando il rettore scopre di avere a che fare con lo stesso Cohn-Bendit, esponente del gruppo 22 mars, reo di aver guidato la protesta nella sede decentrata di Nanterre, pone immediatamente fine ai colloqui e dichiara, all’ 1.50, le trattative sospese. Alle 2.12, poco più di venti minuti più tardi, le forze dell’ordine ricevono il comando di intervenire con determinazione. Radio Europe I e Radio Luxemburg raccontano in diretta gli scontri tra la polizia e gli studenti: “le barricate bruciano, gli studenti sono inseguiti, picchiati, feriti, arrestati. La gente dall’alto getta acqua sui poliziotti, che sparano candelotti contro le finestre aperte; agli infermieri è impedito di soccorrere i giovani insanguinati o semiasfissiati dai gas.”108La notte si conclude con 367 feriti gravi, 460 arresti, 188 auto date alle fiamme e con la parziale ammissione di colpe del primo ministro Pompidou che, tornato dall’Afghanistan, si dice pronto ad accogliere tutte le richieste degli studenti. È troppo tardi però per cercare di alleviare la tensione, il joli mai è già iniziato. Lunedi 13 maggio. I sindacati hanno indetto per quel giorno uno sciopero di ventiquattro ore contro la violenza repressiva dello Stato. Per le strade di Parigi sfila quasi un milione di persone e per la prima volta anche i lavoratori scendono in piazza accanto agli studenti. Al termine del corteo gli studenti si dirigono alla Sorbona per occuparla e per ribattezzarla “università autonoma, popolare e aperta giorno e notte a tutti i lavoratori.”109 I ritratti di Marx, Lenin, Mao, Trotzkij, Che Guevara e Rosa Luxemburg sono appesi ovunque, ed ovunque sventolano bandiere vietnamite e cubane. L’occupazione della Sorbona è ben organizzata: ogni sala è destinata ad un comitato d’azione che lavora su temi riguardanti diversi ambiti. Lo scopo è quello di creare ed eventualmente consolidare il rapporto tra il mondo studentesco e gli altri settori della vita sociale. In quelle sale si discute di tutto: l’università e la sua organizzazione interna, la produzione e il ruolo del proletariato, il rapporto tra quartiere e fabbrica, la trasmissione del sapere. Il tema della cultura in generale è caro agli studenti dell’Ecole nationale de Beaux Arts che, in sciopero già dall’8 maggio, protestano contro “l’arte borghese e la sua mercificazione come strumento di selezione sociale, l’individualismo dell’atto creativo, l’asservimento dell’arte alle leggi del mercato.”110 Intanto anche il mondo del lavoro è in agitazione: già il 14 maggio un gruppo di giovani operai dello stabilimento di Sud-Aviation Bourguenais di Nantes decide di occupare la fabbrica e con essa di sequestrare il direttore dello stabilimento; il 15 e il 16 maggio si verificano scioperi e occupazioni negli stabilimenti della Renault e nelle regioni di Rouen, Nantes, attorno a Parigi, e Lyon; il 17 maggio si uniscono allo sciopero gli impiegati pubblici delle poste, delle ferrovie, dei trasporti urbani, degli ospedali e degli stabilimenti della Peugeot e della Citroën. Il 21 maggio è la volta delle banche e dei grandi magazzini, il 25 maggio tocca ai giornalisti. Il 24 maggio il generale De Gaulle si appella a la Nazione e, dagli schermi televisivi, propone un referendum sulla propria politica, bocciato poi dal Consiglio di Stato. Quella sera stessa un imponente manifestazione attraversa la capitale francese: dalla Borsa, cuore pulsante del capitalismo in cui i manifestanti si sono dati appuntamento, la 108

M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 73. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 66. 110 Ivi, p. 67. 109

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manifestazione si sposta nel Quartiere Latino, dove gli studenti si sentono più sicuri in attesa di un eventuale confronto con le forze dell’ordine. Confronto che non si lascia attendere e che rappresenta il nuovo apice della violenza a Parigi come nelle altre grandi città del Paese. Il 27 maggio il primo ministro Pompidou legge il testo dell’accordo che il governo è riuscito a raggiungere con le parti sociali durante il week-end. Le assemblee degli operai della maggiori fabbriche occupate però bocciano la proposta: non è sufficiente la concessione di aumenti salariali per riprendere il lavoro. Intanto Francois Mitterand, a capo del partito socialista, propone un governo di coalizione che comprenda anche i comunisti i quali però non sono interessati a far parte della compagine governativa e disertano il grande comizio allo stadio Charléty.111 La Francia per alcuni giorni sembra non avere un governo in grado di sedare l’ondata di proteste che scuote il Paese le quali intanto somigliano sempre più ad una rivoluzione in grado di rovesciare l’ordine costituito, tanto da spingere il generale De Gaulle ad allontanarsi dalla capitale suscitando preoccupazioni tra i suoi seguaci. Ecco però che il 30 maggio il generale si rivolge ancora una volta alla Nazione, la seconda in meno di una settimana, sciogliendo di fatto il governo e chiamando i francesi alle urne che si sarebbero svolte entro la fine di giugno. L’obiettivo di De Gaulle, che intanto mette in guardia i francesi dalla minaccia comunista, promette di riformare scuola ed università, e di far partecipare agli utili delle imprese gli operai, è chiaro: spostare la sfida dalle strade e dalle fabbriche all’arena istituzionale, mettendo di fatto alla prova il movimento francese, reo di non aver mai tentato di istituzionalizzarsi. Il giorno dopo, è il 31 maggio, il presidente de Gaulle nomina Raymond Marcellin nuovo ministro degli Interni, a cui affida il compito di garantire la sicurezza e la disciplina nel Paese. Il neo-ministro adempie alle disposizioni presidenziali con la messa al bando di tutti i gruppi di estrema sinistra, in modo da togliere qualsiasi riferimento politico agli studenti e agli operai. Intanto nel mese di giugno quel sogno rivoluzionario che ha accarezzato l’intera società francese sembra ormai uno sbiadito ricordo: il 5 giugno le ferrovie, le poste, le miniere, i ministeri tornano alla normalità; tra l’11 e il 17 giugno gli operai di tutte le fabbriche francesi riprendono il lavoro; anche scuole ed università tornano poco alla volta alla normalità, l’ultima a capitolare è la Scuola delle Belle Arti che resiste sino al 27 giugno. Il 30 giugno le elezioni politiche, volute solo un mese prima dal Presidente francese, decretano la fine del maggio parigino e la vittoria del potere istituzionale. De Gaulle ottiene infatti, con il 43% dei voti, il 60% dei seggi, mentre si assiste al crollo di socialisti e comunisti. Nel mese di settembre numerosi attivisti provenienti soprattutto dal movimento 22 marzo e dalla UJC (ML) cercano di ricompattare le fila del movimento proponendo nuove basi organizzative ed ideologiche. Sono ormai lontani i principi innovativi della Nuova Sinistra, più vicine sembrano invece le strategie d’azione che lasciano alla violenza contro lo Stato il ruolo da protagonista. È il caso ad esempio della Gauche Proletarienne, una forza politica sovversiva che considera legittimo il ricorso alla lotta armata e che, nel 1969, avvia una campagna di azioni volte alla mobilitazione operaia contro il potere istituzionale.

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M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 76.

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Ormai però è tutto finito e la strategia sovversiva non porta i frutti sperati, se non quelli di una politica repressiva nei confronti della sinistra radicale e di un ricompattamento della classe dominante, quella imprenditoriale, attorno alla figura del Gen. De Gaulle. Il Sessantotto francese non sfocia, come accadrà invece e in parte a quello italiano e tedesco, in azioni terroristiche volte a sovvertire l’ordine democratico-costituzionale. Tra i motivi, oltre al fatto che in Francia si è avviato un reale processo di riforme soprattutto con la presidenza Pompidou, anche il fatto che “in Francia, la mobilitazione politica di alcuni intellettuali, fra cui Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, riuscì a mantenere aperti dei canali di comunicazione tra la sinistra radicale e l’opinione pubblica e a evitarne, di conseguenza, la stigmatizzazione come principale nemico dello Stato.”112 3.3 IL SESSANTOTTO TEDESCO. UN PROGETTO POLITICO. In occasione del ventesimo anniversario della fine del secondo conflitto mondiale, l’8 maggio 1965, gli studenti della Freie Universitat di Berlino Ovest, organizzano un dibattito dal titolo Restaurazione o nuovo inizio? La Repubblica federale tedesca vent’anni dopo.” Al dibattito è invitato anche il pubblicista Erich Kuby a cui però il rettore vieta l’accesso all’Università, reo di averne macchiato il nome in precedenti occasioni.113 Gli studenti non ci stanno e, timorosi che un passato neppure tanto lontano potesse riaffacciarsi, denunciano il bavaglio che il rettore tenta di mettere alla stampa democratica. La pressione degli studenti sulle autorità accademiche fa sì che il dibattito si svolga come prestabilito il 7 maggio, compreso l’intervento di Kuby. Nel frattempo un assistente dell’Istituto di Scienze Politiche di Berlino viene accusato di aver rilasciato una falsa dichiarazione in merito ai precedenti casi di divieti a personalità non gradite alle autorità accademiche. Per questo motivo è soggetto ad un provvedimento disciplinare e, per questo motivo, gli studenti si schierano al suo fianco chiedendo a gran voce la revoca del provvedimento e proclamando il primo sciopero delle lezioni. Il tema della libertà di parola e più in generale dei diritti civili sembra essere, almeno in questa prima fase, l’epicentro tematico della contestazione studentesca. D’altra parte già dalla fine degli anni Cinquanta il governo ha prospettato la possibilità di varare una serie di leggi, che coincidono con la limitazione dei diritti civili e politici, in caso di dichiarazione di stato di emergenza. Contro questa serie di provvedimenti si scagliano associazioni studentesche di diverso orientamento, ma soprattutto la SDS che tenta di creare dei contatti con forze politiche e sociali presenti nella società. Contro le leggi di emergenza si crea cosi una sorta di opposizione extraparlamentare che, tra le primavera del 1965 e l’autunno del 1966, si fa promotrice di una serie di iniziative sul rapporto tra le stessi leggi d’emergenza e l’ancora fragile democrazia tedesca. Si è ancora lontani però dal creare “un processo di mobilitazione in grado di dare vita ad un compiuto movimento sociale, forte cioè di una chiara identità collettiva, un’articolata struttura organizzativa sulla base di obiettivi e strategie d’azione condivisi.”114 Un processo di mobilitazione progressiva si sarebbe creato solo dopo gli avvenimenti del giugno 1967.

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Ivi p. 87. Kuby in particolare è colpevole di aver denunciato il carattere non libero, nonostante il nome, dell’Ateneo berlinese. 114 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 53. 113

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In occasione della visita a Berlino ovest dello scià di Persia Palahvi, il 2 giugno 1967, i giovani studenti della SDS organizzano manifestazioni di protesta contro la pomposa accoglienza riservata ad un capo di un regime autoritario. Solo un piccolo gruppo di studenti iraniani tenta di modificare l’andamento sostanzialmente pacifico della manifestazione della SDS; ma, la sera, mentre i giovani sono concentrati davanti al teatro in cui lo scià assiste allo spettacolo de Il flauto magico di Mozart, il giovane studente Benno Ohnesorg è colpito a morte da un poliziotto. Come nel caso italiano, la morte di un giovane studente suscita reazioni di indignazione e collera in tutto il Paese. Gli studenti decidono di mobilitarsi: le forme di azione da perseguire e i fini da raggiungere sono il tema del dibattito, che si tiene ad Hannover, città natale di Ohnesorg, il 9 giugno dal titolo Università e Democrazia. Condizioni e organizzazione della resistenza. Dal dibattito emergono chiari due orientamenti tra loro in contrasto: uno più marcatamente di sinistra, rappresentato dalla componente della SDS che da tempo si batte contro le leggi di emergenza; l’altro che si può definire antiautoritario, incarnato dal giovane carismatico Rudi Dutschke. I fatti del 2 giugno vengono interpretati da quest’ultima componente come la riprova del tratto autoritario che ormai ha preso la società tedesca e a cui si deve dar risposta con l’azione diretta, ovvero un’azione che prevede la violazione consapevole delle regole, tesa ad un duplice scopo: “ da un canto – nota Marica Tolomelli – mettere in luce demistificandoli, i meccanismi della repressione; dall’altro … favorire il raggiungimento di un più profondo livello di consapevolezza nell’attore stesso, così da consentirgli di infrangere anche interiormente le fondamenta psichiche di quel carattere autoritario che ogni individuo cresciuto in un ordine sociale autoritario portava necessariamente con sé.”115 Mentre all’interno del mondo universitario si fa strada, a partire dal semestre invernale 1967-1968, la sperimentazione di una Kritische Universität che prevede lezioni e seminari su temi decisi dagli studenti con l’intervento di docenti ed esperti in materia, la mobilitazione all’interno della società tedesca continua a crescere attorno ad alcuni temi centrali, quali le leggi di emergenza, la lotta contro i “manipolatori della coscienza pubblica”, le campagne a favore delle lotte di liberazione anticoloniale e la guerra in Vietnam. Nel 1965 l’allora cancelliere tedesco Ludwig Erhard aveva dichiarato il pieno sostegno morale, da parte del suo governo, all’invasione americana in Vietnam; nel 1966 era stato organizzato dalla SDS di Francoforte un congresso dal titolo Vietnam. Analyse eines Exempels in cui Herbert Marcuse svole la relazione principale in cui cercava di contestualizzare il conflitto nella penisola asiatica all’interno di un’analisi più ampia dei rapporti di forza su scala mondiale. Il 17 e 18 febbraio del 1968, proprio quando l’offensiva del Tet è in pieno dispiegamento, la SDS si rende ancora una volta promotrice di un congresso internazionale tra tutti gli studenti in lotta che si tiene a Berlino Ovest. Dal congresso emergono diverse anime: i francesi sono affascinati dall’ antiautoritarismo propugnato dai leader tedeschi; i tedeschi sono ammaliati dalla rigidità dottrinaria dei leader francesi. Ciò che più importa però è che il congresso mette in evidenza una fitta rete di collegamenti tra giovani di tutto il mondo: studenti francesi, italiani, inglesi, americani si incontrano a Berlino Ovest per dare massima visibilità alla loro protesta contro la politica occidentale.

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Ivi, p. 54.

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Il congresso si chiude con una grande manifestazione a Kurfürstendamm. La “cittadella europea dell’anticomunismo” viene invasa da bandiere rosse e inni alla vittoria del FLN vietnamita, ben difficilmente tollerate dalla popolazione berlinese, che infatti si organizza in una contromanifestazione parallela per reclamare la legittimità dell’intervento e per contrastare il pericolo rappresentato dalla protesta studentesca. L’immagine di quel giorno è la fotografia perfetta del fallimento del movimento studentesco tedesco che non è riuscito, come nel caso francese e in parte americano, ad espandersi oltre il mondo universitario ed intellettuale, subendo così un isolamento che gli sarà fatale. Il 4 aprile del 1968, quando già tutta l’Europa studentesca è in fermento, viene incendiato un grande magazzino di Francoforte. L’azione avrebbe dovuto scuotere la società tedesca dall’indifferenza dei suoi consumi e del suo benessere e ricordargli che, nel frattempo, bombe americane massacrano la popolazione civile vietnamita. L’attentato non provoca fortunatamente vittime ma è comunque condannato dalla SDS e dalle altre organizzazioni del movimento che rifiutano categoricamente il ricorso alla violenza contro le persone come modo d’azione. Intanto il governo guidato dal cancelliere Kurt Kiesinger, di cui fanno parte tanto la CDU quanto la SPD si appresta a risolvere il problema delle leggi d’emergenza attorno alle quali si è formata una opposizione extraparlamentare. Per il 15 e il 29 maggio sono previste le ultime due letture che sancirebbero la definitiva approvazione delle leggi d’emergenza. Le due date sono una scadenza per il movimento che deve concentrare tutte le sue risorse entro quelle date se vuole evitare che le leggi d’emergenza vengano approvate. L’11 aprile l’imbianchino Josef Bachmann, fanatico di Hitler, ferisce con diversi colpi di pistola il leader del movimento studentesco tedesco Rudi Dutschke che morirà nel 1977 per i postumi dell’attentato. Subito gli studenti tedeschi, francesi ed italiani scendono in piazza per manifestare solidarietà a “Rudi il rosso” e per denunciare il carattere diffamatorio di una certa stampa di Springer. Contro il monopolio dell’informazione e contro i principali manipolatori delle coscienze si crea un a vasta opposizione sociale a cui però gran parte della SDS, in particolare quella più marcatamente antiautoritaria, si oppone in quanto non vuole avere nulla a che fare con forze sociali che, seppur critiche, fanno comunque parte dell’establishment. Ancora una volta il movimento tedesco non perde occasione per isolarsi da gran parte della società civile che pure gli ha teso la mano. L’isolamento continua e anzi si acutizza con gli eventi di aprile quando il movimento deve confrontarsi con il tema della violenza ora non solo subita ma anche agita, come dimostrano i numerosi casi di disordine all’indomani dell’attentato a Dutschke. In questo contesto i sindacati non vogliono farsi coinvolgere da un’opposizione extraparlamentare dipinta come violenta dai mass-media e decidono di ritirarsi dalle proteste in piazze per rientrare all’interno dell’arena politica istituzionale. Emblematico è quello che accade l’11 maggio 1968, solo 4 giorni prima della seconda lettura parlamentare delle leggi d’emergenza. Per quella data l’opposizione extraparlamentare ha indetto una manifestazione a Bonn per sostenere la campagna contro le leggi d’emergenza. Pur condividendone l’obiettivo i sindacati non sono però più disposti a voler scendere in piazza accanto a forze politiche radicali di cui si teme la loro degenerazione politica.

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Per non essere completamente assente dalla scena pubblica la Lega Sindacale Federale organizza allora una manifestazione a Düsseldorf parallela, ma separata, dalla marcia su Bonn.116 Paradossalmente tale rottura rafforza la componente più antiautoritaria del movimento convinta sempre più che un qualsiasi rapporto con qualsiasi parte dell’establishment fosse controproducente e che la strategia dovesse basarsi sull’azione e sulla mobilitazione delle avanguardie più illuminate. Quello che però accade in Francia nel mese di maggio costringe il movimento ad una profonda riflessione: lì infatti sembra che l’unità d’azione tra avanguardie intellettuali e proletariato moderno potesse effettivamente mettere sotto scacco lo Stato. Il movimento tedesco decide quindi di cambiare la propria strategia d’azione e di abbracciare l’idea di una mobilitazione di massa con il coinvolgimento della base nelle università, nelle scuole e nelle fabbriche. Tutte le energie del movimento sono impegnate ora a spingere i sindacati, facendo leva sulla base, ad un cambiamento di rotta rispetto al rapporto con il movimento stesso. Generalstreik (sciopero generale) è la parola d’ordine del movimento, da proclamare categoricamente tra il 15 e 29 maggio, durante cioè l’iter parlamentare delle leggi d’emergenza. “Il movimento – sostiene Tolomelli – cercava di acuire le tensioni interne ai sindacati affinché le correnti più avverse alla linea tenuta dai vertici riuscissero a imporre una revisione delle posizioni ufficiali in favore del ricorso allo sciopero generale come principale strumento sindacale per esercitare pressione.”117 Il sindacato rimane però fermo nella sua decisione di non proclamare lo sciopero generale durante la fase di approvazione delle leggi d’emergenza che con le sedute parlamentari del 29 e del 30 maggio vedono finalmente la luce. L’opposizione extraparlamentare e il movimento degli studenti subiscono una grave sconfitta. Benché non fosse sorto solo per evitare le leggi d’emergenza, il movimento tedesco muore con l’approvazione da parte del Parlamento di queste ultime. Afferma ancora una volta M. Tolomelli: “al di là del significato politico delle leggi, il fatto che il Parlamento avesse proseguito secondo il suo calendario di lavoro dimostrava la sostanziale invulnerabilità delle istituzioni rispetto ai tumulti di piazza, producendo nel movimento un inconsolabile sentimento di impotenza, di fallimento e di profonda frustrazione.”118 Fallisce miseramente così il progetto della “lunga marcia attraverso le istituzioni” propugnato dalla SDS in generale e dal suo leader più carismatico, R. Dutschke, in particolare. “La lunga marcia attraverso le istituzioni” è da configurare come una rivoluzione a lungo termine, “forse interminabile – ha scritto Ortoleva – e soprattutto decentrata e pluralistica.”119 Dutschke sa bene che per creare una nuova società non basta, e forse neppure serve, sostituire il vecchio apparato statale con uno nuovo e neppure può bastare intraprendere una lotta a viso aperto per la conquista del cuore dello Stato; la rivoluzione che ha in mente “Rudi il rosso” è assieme una rivoluzione sociale e culturale ancor prima che economica e statale. E questo processo, che porterebbe l’intera società a liberarsi dei vecchi retaggi culturali, deve necessariamente partire dall’università, e da qui allargarsi agli altri starti sociali che 116

M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 69 sgg. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 73. 118 Ivi, p. 87. 119 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, cit., p. 220. 117

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hanno l’obbligo di ricercare da sé, autonomamente, la strada che li avrebbe condotti alla definitiva liberazione dalla vecchia società. Una volta avvenuto il definitivo distacco dalla società, ogni fascia sociale avrebbe trovato da sé, automaticamente il suo posto nella nuova: “La presa del potere politico da parte di un gruppo, di una cricca oppure di una classe specifica – afferma R. Dutschke – non costituisce più una possibilità nell’attuale fase dello sviluppo sociale. Il processo rivoluzionario fondato sul rifiuto organizzato equivale al crollo tendenziale degli apparati costituiti, un crollo che gli uomini possono provocare e vedere. Allora finalmente le masse autonome riconosceranno le proprie forze come socialmente efficaci e nel corso della loro vita, che diverrà sempre più cosciente, usciranno dalla minorità e dall’apoliticità finora subite. Al crollo progressivo del sistema istituzionale costituito, dovrà affiancarsi, in un parallelismo dialettico, l’instaurarsi di nuove, più umane e autonome organizzazioni in ogni settore.”120

La lunga marcia è quindi anzitutto un percorso personale e conoscitivo che si evolve, o si sarebbe dovuto evolvere successivamente, in un percorso collettivo e politico. Il progetto dutschkiano, che prende piede dalla critica delle scienze sociali, rimane però una vaga intuizione che non trova il tempo di affermarsi neppure all’interno dello stesso movimento: il maggio francese infatti chiama anche gli studenti tedeschi ad accelerare i tempi della rivolta e ad abbandonare di fatto il progetto di una più lunga, ma forse più fortunata, rivoluzione. Con la ripresa delle lezioni del nuovo anno accademico 1968-69 riprende anche la contestazione studentesca, ma il contesto è ormai completamente mutato anzitutto in seno della SDS tedesca. Non più capace di trovare una sintesi valida tra le posizioni sempre più divergenti, l’associazione studentesca ha ormai perso il ruolo di guida del movimento e con esso numerosi suoi appartenenti decidono di confluire in piccoli partiti, i cosi detti “KGruppen” ossia gruppi di matrice comunista, con ambizioni rivoluzionarie. Nel novembre del 1968, in occasione del congresso della SDS, la rottura con la componente femminista segna il definitivo tramonto del movimento. In quella circostanza alcune delegate attaccano verbalmente e con lanci di pomodori una tribuna occupata esclusivamente da uomini sempre pronti a propugnare l’antiautoritarismo ma senza mai essersi messi in discussione. Ciò che segue è la fondazione dei Weiberräte, consigli femminili che perseguono la trasformazione sociale a partire da una ridefinizione radicale dei rapporti di genere e che si imporranno nel corso del decennio successivo. Il Sessantotto tedesco se da un lato ha portato istanze innovatrici per la fragile democrazia tedesca, dall’altro già il filosofo Jürgen Habermas aveva denunciato il carattere pericoloso di alcuni aspetti del movimento. In particolare Habermas teme che certe strategie d’azione del movimento, analogamente a quanto accaduto in Italia con il primo fascismo, potessero far sorgere in Germania un Linksfaschismus, ovvero un “fascismo di sinistra”.121 3.4 IL SESSANTOTTO ITALIANO. Il 1968 si apre in Italia così come si è concluso il 1967: occupazioni, assemblee, controcorsi scandiscono le giornate all’interno dell’Università. Nel mese di gennaio, mentre tra i principali leader del movimento vengono espulsi dall’Università, si assiste, a Torino, al primo incontro degli studenti dai più importanti atenei italiani in lotta. Pur riconoscendosi tutti nello slogan “Potere Studentesco” e nella strategia d’azione che questo comprende 120 121

Ivi, p. 219. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 114.

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(l’antiautoritarismo), dall’incontro torinese emergono chiaramente i diversi orientamenti che contraddistinguono ogni sede italiana: dall’operaismo pisano, passando per antiautoritarismo trentino, sino ad arrivare al marxismo-leninismo romano. È proprio l’occupazione dell’ateneo romano, il 2 febbraio, con i suoi 70000 studenti, che imprime una svolta decisiva al movimento: “l’agitazione, come ha scritto Marco Revelli, diviene più direttamente politica, caratterizzata da frequenti scontri con l’estrema destra e con la polizia”122. È uno scontro con la polizia negli ultimi giorni del mese di febbraio a rappresentare per le autorità accademiche un valido motivo per ordinare lo sgombero dell’occupazione a Lettere. La risposta degli studenti non si lascia attendere: il 1º marzo in centinaia si incontrano in Piazza di Spagna e decidono di dirigersi verso Valle Giulia, dove ha sede la facoltà di Architettura, per occuparla. La polizia ha però l’ordine di impedire l’occupazione. Ciò che ne scaturisce è uno duro scontro tra studenti e forze dell’ordine che si conclude con macchine e autobus date alla fiamme, 46 poliziotti finiti all’ospedale e un numero imprecisato di studenti feriti. I fatti di Valle Giulia rappresentano una novità per gli studenti italiani non più disponibili a rendersi succubi della repressione, ma in grado di rispondere e tenergli testa. Il giorno dopo le immagini dello scontro di Valle Giulia sono su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani e stranieri. Tra l’opinione pubblica c’è chi si schiera chi con le forze dell’ordine e chi con gli studenti. Pier Paolo Pasolini, da sempre vicino al PCI scrive sul settimanale “l’Espresso”: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancore si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari. Avete facce di figli di papà … Siete pavidi, incerti, disperati … Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli dei poveri, vengono da subtopaie, contadine o urbane che siano.”123

Il settimanale convoca una riunione per discutere la poesia. Pasolini riceve in quell’occasione numerose critiche, soprattutto da parte Vittoria Foa a cui tenta di spiegare che la sua poesia “aveva nello stesso tempo più di una chiave di lettura. Questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti sdoppiati, cioè ironici e autoironici.”124 Foa risponde all’ambiguità di Pasolini: “La poesia, una volta pubblicata, è una cosa che va per conto suo, e chi la legge non sa nulla dei canoni interpretativi del suo autore. La sua poesia, Pasolini, cade in mezzo ad una determinata società e in un determinato momento nel quale i giovani, nonostante le sue illusioni, sono in gravissime difficoltà. Parlo degli studenti e della gioventù operaia: a mio giudizio è in corso 122

M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, cit., p. 403. P. Paolo Pasolini citato in Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e Politica 1943-1988, cit., p. 417. 124 Ibidem. 123

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un’operazione congiunta per isolare il movimento giovanile … Ebbene, in tutto questo concorso di forze che cerca di isolare, mancava la voce di un poeta. E la voce del poeta è venuta, per accusarli di essere in malafede, d’essere dei piccolo-borghesi … [ma] oggi noi assistiamo a un processo rivoluzionario, o almeno ne cogliamo i sintomi, iniziali ma chiarissimi.”125

Con gli scontri di Valle Giulia il movimento degli studenti è costretto a confrontarsi sul tema della violenza. Benché nato come pacifista, il movimento è quasi costretto – almeno a detta dei protagonisti – ad abbondare il pacifismo per rispondere alle brutalità della polizia dentro l’università. Ma questo ragionamento sarebbe quanto meno fuorviante. “La violenza – ragiona Paul Ginsborg –fu invece accettata come inevitabile e giustificata, ed entrò quasi incontestata tra i valori e le azioni del movimento. La giusta violenza dei rivoluzionari – quella di Mao, del Che e dei vietnamiti – veniva contrapposta a quella dei capitalisti.”126 In questo contesto agli studenti vengono rivolte accuse di qualunquismo, avventurismo, velleitarismo ed immaturità da parte del mondo politico. Il Partito Comunista Italiano, che in un primo momento si mostra solidale con la lotta studentesca, si trova spiazzato dal nuovo modo di fare politica, un disagio che spinge Giorgio Amendola a parlare addirittura della Necessità della lotta su due fronti, contro il conservatorismo da una parte e contro l’estremismo di sinistra dall’altro. E dire che anche all’interno dello stesso PCI sono tante ed importanti le voci che vogliono una collaborazione con il movimento degli studenti. Da una parte Rossana Rossanda mette in evidenza i diversi modelli di azione degli studenti: “Le difficoltà di trovare una piattaforma, un terreno d’unificazione, un programma; il rapporto con i partiti e il rifiuto del rapporto con i partiti; la tentazione di negarsi in milizie diverse, non sono tanto il segno d’una immaturità che gli sarebbe particolare, ma piuttosto l’indice di un’acuta ricezione delle dimensioni del compito, della mobilità e ambiguità del presente, del rischio di una composizione in formule ordinate e sterili.”127

dall’altra il segretario del partito Luigi Longo si impegna ad incontrare, il 19 aprile, una delegazione del movimento studentesco romano a Botteghe Oscure. L’incontro getta le basi per un rapporto tra partito e movimento: “proprio perché marxisti, comunisti, rivoluzionari – scrive Longo su Rinascita – noi sappiamo che profondi rivolgimenti politici e sociali non possono che sconvolgere schemi precostituiti e vecchie credenze, in una parola bisogna mettere tutto in discussione”128. Ed in effetti il PCI avrà un atteggiamento più tollerante, almeno sino alle elezioni di maggio, nei confronti del movimento, volto ad attirare il voto giovanile. Si tratta però di episodi che scalfiscono soltanto il muro di ostilità del partito che sembra in realtà temere, come ha osservato Revelli, “la radicale messa in discussione di quel monopolio dei movimenti antagonisti della società civile che la sinistra, e in particolare il Partito Comunista, avevano detenuto ininterrottamente nell’Italia repubblicana, e che aveva costituito una significativa risorsa da spendere sul mercato politico.”129 Intanto dopo i fatti di Valle Giulia prende sempre più piede nel movimento, incontratosi a Milano per la seconda volta dall’inizio dell’anno, l’idea di una mobilitazione fuori dall’università che comprendesse l’intera società, nella convinzione che solo da una contestazione globale potesse nascere un ordine sociale differente. 125

V. Foa, Ibidem. Ivi, p. 415. 127 M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, cit., p. 427. 128 Ibidem. 129 Ivi, p. 425. 126

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In questo contesto gli studenti trovano nel mondo operaio il terreno fertile affinché la protesta potesse attecchire rapidamente: il 7 marzo gli studenti Torino organizzano un corteo di protesta contro l’arresto di alcuni loro compagni, quello stesso giorno per le vie del capoluogo piemontese manifestano i sindacati che hanno proclamato uno sciopero contro una proposta di riforma del sistema pensionistico. Studenti e operai si incontrano e si percepiscono subito come attori collettivi in mobilitazione. Intanto il 16 marzo, nella facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, a Roma, si assiste ad una missione punitiva nei confronti del movimento studentesco da parte del MSI, convinto che bisognasse arginare la contestazione giovanile in quanto di sinistra. A guidare i circa 200 militanti missini, il segretario Giorgio Almirante seguito dallo stato maggiore del partito. Gli studenti del movimento reagiscono alla provocazione fascista ricacciando indietro i missini che però riescono comunque ad entrare nella facoltà e, asserragliati nella aule gettano dalle finestre banchi e cattedre contro gli studenti di sinistra, uno di loro, Oreste Scalzone, viene gravemente ferito alla spina dorsale.130 L’11 aprile, a Torino, durante lo sciopero FIAT, in cui confluirono rappresentanze studentesche provenienti da tutta Italia, viene arrestato Guido Viale, storico leader del movimento torinese, latitante da settimane. “L’evento – nota Marica Tolomelli – fu immediatamente caricato di un forte valore simbolico, poiché mostrava a studenti e operai che la loro era una lotta comune contro un comune nemico: le esistenti strutture di dominio e repressione, identificate, con il sistema capitalistico.”131 Gli studenti invitano gli operai ad un assemblea, il cui ordine del giorno è il motivo delle proteste operaie, il ruolo dei sindacati, l’organizzazione interna della fabbrica, che si sarebbe tenuta a Palazzo Campana il pomeriggio. Circa 300 operai entrano negli spazi universitari e partecipano ad un assemblea sentendosi realmente coinvolti. Non solo a Torino però gli studenti tentano un collegamento con il mondo operaio: nella primavera del 1968 le imprese di Milano, Genova, Trento e della Toscana sono picchettate dagli studenti con l’obiettivo di generalizzare la protesta. Persino a Roma, gli studenti fanno loro le istanze dei lavoratori edili impegnati da tempo a denunciare le difficili condizioni di lavoro a cui sono sottoposti. A Valdagno, nelle colline venete, la famiglia Marzotto gestisce l’omonima azienda tessile con criteri paternalistici di matrice cattolica. Negli anni Sessanta l’azienda subisce una profonda ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro: i ritmi di lavoro crescono con l’introduzione dell’analisi tempi e metodi, i premi del cottimo divengono praticamente inaccessibili, i salari reali diminuiscono, l’azienda minaccia circa 400 licenziamenti. Alla Marzotto i sindacati non sono mai stati forti, ma gli operai ne colmano l’assenza con azioni spontanee di protesta. Il 19 aprile 1968 una manifestazione spontanea di 4000 dimostranti, tra cui molte donne, marcia per la città, l’obiettivo è la piazza centrale dove si trova la statua del conte Gaetano Marzotto, fondatore della dinastia tessile. I dimostranti riescono ad abbattere la statua e la polizia, di tutta risposta, arresta 42 persone, rilasciate solo qualche ora più tardi sotto la pressione del consiglio comunale a maggioranza democristiana. È solo un fatto isolato ma rappresenta la fotografia più vera di cosa stava diventando il Sessantotto italiano. Il gesto ha una forte carica antiautoritaria che racchiude la breve storia del movimento studentesco italiano e che, in questa nuova fase, si vuole aprire alle istanze del mondo del lavoro. 130 131

La Storia siamo Noi, Il Sessantotto. Una generazione alla prova della Storia. M. Tolomelli, Il Sessantotto, cit., p. 77.

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Già a maggio però il movimento non è più lo stesso: “il movimento – osserva Ginsborg – perse il suo carattere spontaneo e libertario. Si cercava, adesso, di porre le basi per un nuovo partito rivoluzionario che potesse strappare al PCI il consenso della classe operaia.”132 Il 19 maggio gli italiani sono chiamati alle urne. Le elezioni mostrano un’avanzata della DC e delle sinistre, PCI e il nuovo PSIUP, ed un sostanziale fallimento dell’unificazione del PSI con il PSDI nel partito socialista unificato PSU. Le elezioni italiane non hanno avuto quel ruolo decisivo nel porre fine al movimento studentesco che hanno invece avuto nella vicina Francia, ma la fine del movimento è ormai prossimo. Già nell’autunno dello stesso anno nasce la Nuova Sinistra italiana che in realtà non è nuova “ma vecchia almeno come la rivoluzione russa”133,denuncia Ginsborg ponendo così l’accento sul fatto che il leninismo diviene il modello di organizzazione dominante per quasi tutti i nuovi gruppi di sinistra. A sinistra del PCI nascono così una serie di gruppi, del tutto simili a K-Gruppen tedeschi, che ripropongono in scala ridotta le differenze che hanno caratterizzato cinquanta anni di comunismo internazionale. Ci sono i maoisti di Servire il Popolo che si caratterizzano, oltre che per la loro dedizione fanatica e la grande disciplina, per la loro attenzione verso i contadini; Avanguardia Operaia, organizzazione milanese antistalinista e filomaoista, caratterizzata da un leninismo ortodosso; il Movimento Studentesco, che ancora crede nel ruolo decisivo degli studenti, si distingue invece per una simpatia, neppure tanto velata, per lo stalinismo ed un atteggiamento meno ostile nei confronti del PCI; Lotta Continua caratterizzata dal un velo di matrice anarchica; Potere Operaio, forte a Torino, è convinto della propria superiorità e dell’esigenza di un avanguardia esterna di tipo leninista. Infine, con una storia molto diversa e che si potrebbe definire istituzionale, il Manifesto, un gruppo fondato da alcuni intellettuali, tra cui Rossana Rossanda e Luigi Pintor, espulsi dal Partito Comunista proprio in relazione all’atteggiamento che il Partito avrebbe dovuto tenere nei confronti del movimento, che fonderanno più tardi un quotidiano omonimo. Ma “i gruppi – sentenzia ancora Ginsborg – comunque erano fatalmente segnati fin dall’inizio. Essi, innanzitutto, erano molto spesso ferocemente settari, sul piano ideologico. I loro quotidiani e periodici erano pieni di analisi teoriche e per lo più illeggibili, che quasi sempre miravano solo a dimostrare la maggiore correttezza politica di un gruppo rispetto agli altri.”134 Ben presto i gruppi della sinistra extraparlamentare tendono a rispecchiare quelle gerarchie, quasi esclusivamente maschili, presenti nei più grandi partiti istituzionali, con in più la presenza di presuntuosi leaderini che nulla hanno a che vedere con la storia dei partiti della sinistra italiana: molti dei dirigenti politici nati nel Sessantotto ed entrati nelle fila del PCI negli anni Settanta hanno dovuto subire così una profonda rieducazione perché “ il PCI, ricorda Massimo D’Alema, aveva le sue regole, le sue discipline che non erano quelle delle assemblee … il PCI non consentì a capi e capetti di fare i capi e capetti.”135 La colpa che però maggiormente viene imputata ai gruppi della sinistra extraparlamentare è quella di non aver mai condannato atteggiamenti violenti, ma anzi di aver adottato i modelli delle lotte di liberazione dell’Asia e del Sudamerica senza riflettere sulla loro applicabilità allo scenario italiano. 132

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a ogg. Società e politica 1943-2008, cit., p. 423. Ibidem. 134 Ivi, p. 424. 135 M. D’Alema intervista a “La storia siamo noi”, Il PCI e il ’68 in Una generazione alla prova della storia. 133

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“Per i gruppi di nuova sinistra italiani, fa notare Ginsborg, la rivoluzione socialista era dietro l’angolo, e in questo modo essi abituarono molti dei loro giovani sostenitori, provenienti dalle file operaie che dal ceto medio, a vedere le cose in una prospettiva di breve periodo e di immediata urgenza. Questo comportò un eccesso di volontarismo, la tendenza a scambiare i propri sogni rivoluzionari per la realtà, la sopravvalutazione di quanto poteva essere raggiunto con il solo attivismo.”136

Ma questo appartiene ad una fase successiva.

136

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-2008, cit., p. 424.

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